Giurisprudenza - Pubblico impiego |
Corte
Cost., 27 marzo 2003, n. 82, sulla mancanza di cumulo tra rivalutazione
ed
interessi per i crediti di lavoro dei pubblici dipendenti S E
N T E N Z A nel
giudizio di
legittimità costituzionale dell'art. 22, comma 36, della legge
23 dicembre 1994,
n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promosso
con
ordinanza del 18 ottobre 2001 emessa dal Tribunale di Pisa nel
procedimento
civile vertente tra Alberto Agonici ed altro e il Ministero della
giustizia,
iscritta al n. 957 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
1, prima serie speciale, dell'anno 2002. Visto l'atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito
nella camera di consiglio del 12 febbraio 2003 il Giudice
relatore Franco Bile. Ritenuto
in fatto 1. – Con l'ordinanza
indicata in epigrafe
- resa nel corso di un giudizio promosso da dipendenti del Ministero
della
giustizia, per ottenere il pagamento dei benefici retributivi previsti
dal
d.P.R. n. 344 del 1983 (Norme risultanti dalla disciplina prevista
dall'accordo
del 29 aprile 1983 concernente il personale dei Ministeri ed altre
categorie)
con interessi e rivalutazione monetaria - il Tribunale di Pisa ha
proposto, in
riferimento agli artt. 2, 3, 24, 35 e 36 della Costituzione, la
questione di
legittimità costituzionale dell'art.
22,
comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di
razionalizzazione
della finanza pubblica). Il Giudice rimettente ritiene che
tale
norma - prevedendo l'applicazione agli emolumenti di natura retributiva
spettanti ai pubblici dipendenti dell'art. 16, comma 6, della legge 30
dicembre
1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica) -
«esprime il
divieto di liquidare anche la rivalutazione monetaria nei crediti del
pubblico
dipendente». Premesso che, a
seguito della riforma del
1993 (integrata dai successivi interventi, fino al decreto legislativo
30 marzo
2001, n. 165 “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle
dipendenze della
amministrazioni pubbliche”), il rapporto di lavoro del pubblico
dipendente
privatizzato deve ormai definirsi regolato dalle norme relative al
lavoro
subordinato nell'impresa (identica essendo la causa del contratto), il
rimettente afferma che la pubblica amministrazione-datore di lavoro,
una volta
costituito il rapporto con il suo dipendente, non possa più
esercitare, nella
gestione del contratto, alcun potere pubblico. Pertanto,
rappresentando la retribuzione
del pubblico dipendente un credito di lavoro, le conseguenze del
ritardato
pagamento dovrebbero essere regolate dall'art. 429 del codice di
procedura
civile, secondo cui il giudice, quando pronuncia condanna in favore del
lavoratore, provvede, anche d'ufficio, a liquidare sulla somma
rivalutata gli
interessi e la rivalutazione monetaria, così realizzando una
forma di tutela
differenziata in favore della parte sostanzialmente e processualmente
più
debole. Viceversa, il credito
di lavoro del
pubblico dipendente (sebbene di natura identica a quello del lavoratore
dipendente privato) non è assistito dalla regola del cumulo di
interessi e
rivalutazione, ma dal diverso criterio dell'assorbimento già
dettato per i
crediti previdenziali dall'art. 16, comma 6 della legge n. 412 del 1991. La norma impugnata, pertanto, si
pone in
contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., in
quanto il trattamento del credito retributivo del dipendente pubblico
risulta
diverso da quello del dipendente privato, rispetto al quale il
censurato
divieto di cumulo non opera a seguito della sentenza n. 459 del 2000 di
questa
Corte. Essa lede altresì l'art. 24
Cost., giacché
l'esclusione del cumulo agevola ingiustificatamente una delle parti
processuali, che trae vantaggio dal proprio inadempimento. Né, infine – a giudizio del
Tribunale – la
tutela dei principi di protezione del lavoro e di solidarietà
sociale può
essere subordinata ad esigenze del bilancio pubblico, non avendo tali
esigenze
carattere assoluto, e non potendo comprimere diritti costituzionalmente
garantiti, attinenti al sostentamento di soggetti meritevoli di
protezione
differenziata. Ne risulta quindi la lesione degli artt. 2, 4 e 35 della
Costituzione. 2. – E' intervenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura
generale dello Stato, che ha concluso nel senso della non fondatezza
della
sollevata questione, svolgendo una analitica ricostruzione del sistema
di
liquidazione degli accessori del credito retributivo dovuto al
lavoratore e
delle ragioni di contenimento della spesa pubblica sottese ai ripetuti
interventi legislativi e giurisdizionali in materia, per effetto dei
quali,
attualmente (a seguito della citata sentenza n. 459 del 2000), i soli
trattamenti retributivi dei lavoratori dipendenti privati sono
assoggettati al
regime del cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria di cui
all'interpretazione corrente dell'art. 429 cod. proc. civ., mentre i
trattamenti retributivi dei lavoratori pubblici ed i crediti
previdenziali sono
assoggettati al regime dell'assorbimento di cui all'art. 16, comma 6,
della
legge n. 412 del 1991. L'Avvocatura erariale osserva che
tale
diversità è giustificata dall'esigenza di risanamento
della finanza pubblica,
che impone un necessario contemperamento della tutela del pubblico
dipendente
con le disponibilità della finanza pubblica; comunque, tale
contemperamento si
estrinseca pur sempre – attraverso i caratteri di specialità del
regime de quo rinvenibili nello stesso terzo
comma dell'art. 429 cod. proc. civ. – in un regime privilegiato e
più
garantista rispetto a quello generale dei crediti pecuniari cui
all'art. 1224
cod. civ. Quanto, poi, alla ragionevolezza
del
diverso trattamento tra categorie di dipendenti, l'Avvocatura rileva
che il
rapporto di lavoro contrattualizzato con le pubbliche amministrazioni e
il
rapporto di lavoro subordinato privato rimangono diversi, onde non
è possibile
ricostruire le loro discipline in termini unitari. Pertanto, la
normativa in
tema di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni
costituisce un corpus dotato di autonomia, rispetto al
quale non è affatto scontato l'automatico ed integrale richiamo
ai principi ed
alle interpretazioni affermate nel settore del lavoro alle dipendenze
dei
privati. Considerato
in diritto 1. – Il Tribunale di Pisa dubita
della
legittimità costituzionale dell'art. 22, comma 36, della legge
23 dicembre
1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). A
giudizio
del rimettente la norma - nella parte in cui prevede che il divieto di
cumulo
di interessi e rivalutazione monetaria posto dall'art. 16, comma 6,
della legge
30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica),
si
applica anche all'ipotesi di ritardo nella corresponsione degli
emolumenti di
natura retributiva spettanti ai pubblici dipendenti – si pone in
contrasto: a) con l'art. 36 della Costituzione, in
quanto il credito di lavoro, avendo funzione alimentare, richiede
comunque una
tutela differenziata in favore della parte sostanzialmente e
processualmente debole
del rapporto, a prescindere dalla posizione soggettiva del datore di
lavoro; b) con l'art. 3 Cost., per disparità di
trattamento derivante dal fatto che il criterio del cumulo di interessi
e
rivalutazione monetaria si applica invece (a seguito della sentenza di
questa
Corte n. 459 del 2000) ai lavoratori dipendenti privati, nonostante
l'intervenuta integrale equiparazione del rapporto di lavoro pubblico
al
rapporto privato e l'identica situazione di debolezza in cui versa il
lavoratore; c) con l'art. 24 Cost.,
poiché l'esclusione del cumulo agevola ingiustificatamente una
delle parti
processuali, che trae indebito vantaggio dal proprio inadempimento; d) con gli artt. 2, 4 e 35 Cost., in
quanto la prioritaria tutela riservata all'individuo, in tutte le sue
manifestazioni, deve determinare, in caso di concorrenza, la recessione
di ogni
altro diverso valore, pur di rango costituzionale, comprese le esigenze
di
risanamento della finanza pubblica. 2. – La questione non
è fondata. Questa Corte, con la
sentenza n. 459 del
2000, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma
oggetto
dell'odierno scrutinio, nella parte in cui estendeva all'ipotesi
dell'inadempimento dei crediti retributivi dei lavoratori subordinati
privati
la regola della non cumulabilità degli interessi e della
rivalutazione
monetaria, già prevista per i crediti previdenziali dall'art.
16, comma 6,
della legge 30 dicembre 1991, n. 412, così sottraendoli al
regime di cui
all'art. 429, terzo comma, del codice di procedura civile. E
nell'occasione ha
rilevato, tra l'altro, che la materia concernente le conseguenze del
ritardato
adempimento dei crediti di lavoro non è estranea alla garanzia
costituzionale
della giusta retribuzione, giacché la puntualità della
corresponsione del
dovuto concorre, insieme alla congruità del suo ammontare, ad
assicurare al
lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa
attraverso il
soddisfacimento delle quotidiane esigenze di vita. Questo ovviamente – il punto deve
essere
ribadito anche in questa sede – non significa affatto che il meccanismo
del
cumulo di interessi e rivalutazione monetaria, di cui al terzo comma
dell'art.
429 cod. proc. civ., debba ritenersi principio costituzionalizzato.
Vuol dire
solamente che il legislatore è libero di sostituire quel
meccanismo con altro,
restando ferma la necessità di riconoscere ai crediti di lavoro
un'effettiva specialità di tutela
rispetto alla generalità degli altri crediti, cui si riferisce
l'art. 1224 cod.
civ., ponendo una remora all'inadempimento del datore di lavoro
mediante la
previsione di un meccanismo di riequilibrio del vantaggio patrimoniale
indebitamente da lui conseguito. La dichiarazione di
illegittimità
costituzionale del divieto di cumulo di interessi e rivalutazione -
relativamente
al rapporto di lavoro privato - risulta decisivamente fondata sulla
constatazione che la norma impugnata poteva incentivare l'inadempimento
del
datore di lavoro, consentendogli di lucrare (con investimenti
finanziari, pur
privi di rischio) l'eventuale differenziale tra il rendimento
dell'investimento
ed il tasso di svalutazione. Siffatta ratio
decidendi non può essere automaticamente estesa al datore
di
lavoro pubblico. La pubblica amministrazione infatti conserva pur
sempre –
anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato -
una
connotazione peculiare (sentenza n. 275 del 2001), sotto il profilo –
per
quanto qui rileva - della conformazione della condotta cui essa
è tenuta
durante lo svolgimento del rapporto al rispetto dei principi
costituzionali di
legalità, imparzialità e buon andamento, cui è
estranea ogni logica
speculativa. 3. – Non esistendo una
necessità di
predisporre per il datore di lavoro pubblico le stesse remore
all'inadempimento, deve escludersi quella omogeneità di
situazioni, cui il
rimettente ricollega l'asserita lesione del principio di uguaglianza
posto
dall'art. 3 della Costituzione. 4. - D'altro canto, la norma
impugnata
prevede per gli accessori dei crediti di lavoro pubblico una disciplina
comunque
diversificata rispetto a quella dei crediti comuni, e per taluni
aspetti più
favorevole per il lavoratore, giacché gli attribuisce
automaticamente il
beneficio della rivalutazione a titolo di maggior danno e lo esonera
dall'onere
della relativa prova. Pertanto, la tutela della giusta
retribuzione di cui all'art. 36 della Costituzione, nel senso chiarito
dalla
sentenza n. 459 del 2000, deve ritenersi assicurata anche per i
lavoratori
dipendenti dalle pubbliche amministrazioni. 5. - Quanto poi alla dedotta
lesione del
diritto di azione e di difesa del lavoratore, è sufficiente
richiamare la
costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il parametro
dell'art. 24
della Costituzione non è evocabile in riferimento a norme
sostanziali (quale
quella in questione).
6. – Le censure di violazione degli artt. 2, 4 e 35 della
Costituzione
si risolvono in una diversa prospettazione di quelle precedentemente
esaminate,
onde – al pari di esse – devono essere dichiarate non fondate. LA
CORTE COSTITUZIONALE dichiara
non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n.
724
(Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata, in
riferimento
agli artt. 2, 3, 4, 24, 35 e 36 della Costituzione, dal Tribunale di
Pisa, con
l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in
Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 marzo 2003.
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