Giurisprudenza - Pubblico impiego

Corte Costituzionale n. 189 del 11 giugno 2001, sulla professione di Avvocato dei dipendenti pubblici par-time

SENTENZA N.189

ANNO 2001

                              REPUBBLICA ITALIANA

                          IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

                           LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare RUPERTO Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO Giudice

- Massimo VARI "

- Riccardo CHIEPPA "

- Gustavo ZAGREBELSKY "

- Valerio ONIDA "

- Carlo MEZZANOTTE "

- Fernanda CONTRI "

- Guido NEPPI MODONA "

- Piero Alberto CAPOTOSTI "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

ha pronunciato la seguente

                                  SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 56 e 56-bis, della legge 23 dicembre 1996,
n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con undici ordinanze del
Consiglio nazionale forense, emesse il 23 settembre 1999 (n. 10 ordinanze) e il 28 ottobre 2000,
rispettivamente iscritte ai nn. da 348 a 357 e al n. 854 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 2000 e n. 1, prima serie
speciale, dell'anno 2001.

Visti gli atti di costituzione di Locane Vincenzo, di Romanazzi Maria, di Toscano Vincenzo, dei
Consigli degli ordini degli avvocati di Lucca e di Bari, nonché gli atti di intervento di Fratini Umberto,
della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 20 febbraio 2001 il Giudice relatore Massimo Vari;

uditi gli avvocati Martino Sportelli e Luigi de Marco per Romanazzi Maria, Guido Belmonte per
Toscano Vincenzo, Piero Biasotti per il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Lucca, Sergio Panunzio
per il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Bari, Fratini Umberto per sé medesimo, Massimo Luciani
per la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense e l'avvocato dello Stato Giancarlo Mandò
per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                                Ritenuto in fatto

1.- Con undici distinte ordinanze (r.o. nn. da 348 a 357 e n. 854 del 2000), tutte analogamente
motivate in punto di diritto - emesse in altrettanti procedimenti instaurati da taluni dipendenti
pubblici al fine di ottenere l'annullamento delle deliberazioni di vari Consigli dell'ordine degli
avvocati, in base alle quali sono state respinte o sospese le istanze di iscrizione all'albo, ovvero
respinte le domande di passaggio da un elenco speciale all'albo ordinario degli avvocati, ovvero,
ancora, si è provveduto alla cancellazione dell'iscritto dall'albo per asserita incompatibilità - il
Consiglio nazionale forense sottopone all'esame della Corte la questione di costituzionalità dei commi
56 e 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica), norme che vengono denunciate in quanto rimuovono l'incompatibilità tra l'attività di
dipendente pubblico part-time e l'esercizio di tutte le professioni intellettuali, e, più in particolare, in
quanto prevedono "l'abrogazione parziale delle disposizioni che sanciscono l'incompatibilità tra
esercizio della professione forense e la condizione di pubblico dipendente (art. 3 del regio
decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578)" in regime di part-time, con prestazione lavorativa non
superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno.

1.1.- La medesima questione, a suo tempo sollevata dallo stesso rimettente nei giudizi principali nei
quali sono state emesse le ordinanze distinte dai nn. 349, 352, 354, 355 e 357 del registro ordinanze
2000, anche in relazione ad ulteriori parametri e profili di censura ora non più riproposti (sebbene si
aggiunga la novità del parametro dell'art. 4 della Costituzione), è stata dichiarata manifestamente
inammissibile con ordinanza n. 183 del 1999, non risultando che si era provveduto ad una corretta
instaurazione del contraddittorio nei confronti dei Consigli dell’ordine, i cui atti erano stati
impugnati innanzi al Consiglio nazionale forense.

1.2.- Il rimettente, dopo aver dato atto, in tutte le ordinanze, di aver provveduto a comunicare, a
suo tempo, ai Consigli dell’ordine interessati, sia "l’avvenuta ricezione degli atti relativi al deposito
del ricorso" (art. 59 del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37), sia l’"avvenuta fissazione
dell’udienza" (art. 61 del citato regio decreto n. 37 del 1934), svolge diffuse argomentazioni sulla
legittimazione del Consiglio nazionale forense a sollevare questione di costituzionalità.

1.3.- Quanto al merito, le ordinanze, nell'invocare una "declaratoria di illegittimità costituzionale
delle norme" denunciate, ovvero "una pronunzia di incostituzionalità delle suddette norme nella parte
in cui non escludono la professione d'avvocato dal proprio campo di applicazione", ritengono,
anzitutto, violati, in sostanziale connessione tra loro, gli artt. 24, 97 e 98 della Costituzione.

A tal riguardo il rimettente osserva che l’attività del dipendente pubblico, seppure in regime di
part-time, è caratterizzata, nonostante la progressiva equiparazione del rapporto a quello
dell’impiego privato, da una serie di obblighi e facoltà "che identificano uno status particolare di
lavoratore subordinato", qualificato "da uno stringente obbligo di fedeltà alla pubblica
amministrazione presso la quale il soggetto è incardinato". Il rapporto di servizio si fonda, pertanto,
"sul dovere d’ufficio di perseguire e proteggere l’interesse pubblico primario affidato alla cura
dell’amministrazione stessa, in base al principio di legalità dell’azione amministrativa", sicché, in
tale contesto, gravano, sul pubblico dipendente, peculiari obblighi in virtù dei principi di imparzialità
e di buon andamento della pubblica amministrazione, come pure l’obbligo esclusivo di fedeltà alla
Nazione.

Invero, secondo le ordinanze, "tali doveri mal si conciliano con la fisiologica vicinanza agli interessi
giuridicamente rilevanti - od anche ai meri interessi materiali - della clientela, che la condizione di
libero professionista ontologicamente comporta". Vi sarebbe, pertanto, una inconciliabilità, di
carattere generale, tra dovere d’ufficio del pubblico dipendente e dovere del professionista, la quale
assume "particolare delicatezza con riferimento all’esercizio della professione d’avvocato, la cui
indipendenza ed autonomia sono presupposto dell’effettività del diritto costituzionale di difesa,
secondo il disposto dell’art. 24 della Costituzione, e laddove l’imparzialità e il buon andamento
colpiti sarebbero quelli dell’amministrazione della giustizia".

Ad avviso del rimettente sussisterebbe, quindi, un "conflitto tra le due appartenenze e le due
responsabilità", giacché l'avvocato dipendente pubblico part-time potrebbe, per un verso, non
dispiegare tutte le attività difensive consentite dalla legge, "con evidente pregiudizio della posizione
dell’assistito" e, per altro verso, potrebbe, invece, "giovarsi della sua posizione all'interno della
amministrazione della giustizia per procurare indebiti vantaggi, con evidente pregiudizio
dell'imparzialità e del buon andamento dell'amministrazione".

Le ordinanze ritengono, peraltro, che la violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione non risulta
scongiurata dalle preclusioni che le norme censurate pongono all’esercizio della professione (divieto
di assumere incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche e divieto di assumere il
patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione), giacché da esse non
deriva "alcun limite specifico", com’è, invece, previsto dall’art. 92, sesto e settimo comma, del
d.P.R. 31 maggio 1974, n. 417, sulla disciplina della compatibilità tra l’esercizio della libera
professione e l’attività di docenza nelle scuole.

Il rimettente adduce, altresì, l'esistenza di un contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

Anzitutto, per la violazione del principio di eguaglianza, "sia in senso formale, sotto il profilo della
disparità di trattamento, sia in senso sostanziale, sotto il profilo della lesione del principio delle pari
opportunità", posto che il professionista pubblico dipendente, a differenza degli altri esercitanti la
libera professione, "si avvale di un bagaglio di nozioni tecniche, scientifiche, o anche di carattere
solo organizzativo, che ha acquisito proprio grazie al suo inserimento all'interno
dell'amministrazione".

In secondo luogo, per la "assoluta mancanza di ragionevolezza e logicità" di una disciplina che, al fine
di soddisfare esigenze di contenimento della spesa pubblica, "pone seriamente in pericolo valori
costituzionali ben più rilevanti, quali l'integrità e l'effettività del diritto di difesa", nonché "i principi
di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione".

Viene, infine, ravvisato un vulnus all'art. 4 della Costituzione, norma che, sebbene non garantisca
l’effettivo accesso al lavoro delle persone prive di occupazione, non esclude, tuttavia, che il
legislatore sia chiamato "ad effettuare scelte di politica occupazionale tese ad ampliare le concrete
possibilità di impiego, e, conseguentemente, la generale offerta di lavoro del sistema pubblico e
privato".

Non sarebbe, pertanto, ragionevole, secondo il rimettente, consentire al medesimo soggetto "di
svolgere più attività lavorative", le quali verrebbero inevitabilmente a sottrarre "al mercato del
lavoro ambiti e spazi che potrebbero assorbire la domanda di occupazione di soggetti che ne sono
totalmente sprovvisti".

2.- Nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 349 del registro ordinanze 2000, si è costituito
Vincenzo Locane, ricorrente nel procedimento principale, chiedendo che la questione sia dichiarata
manifestamente infondata, ovvero, nel caso di accoglimento "totale o parziale", che siano dettati "i
criteri interpretativi per la salvaguardia dei principi dell'incolpevole affidamento nella legge e dei
diritti quesiti", affinché l'interessato "possa venire reintegrato senza ulteriori ritardi delle perdite
economiche e morali patite in riferimento agli artt. 3, 4, 30, 31, 35 e 41 della Costituzione".

La parte costituita, nel dubitare che, per una corretta instaurazione del contraddittorio nel giudizio a
quo, siano sufficienti le modalità di comunicazione degli atti, così come espletate dal Consiglio
nazionale forense, e nell'esprimere, altresì, dubbi sull'effettiva terzietà di quest'ultimo, come
giudice, osserva, nel merito, che i limiti entro i quali il legislatore ha circoscritto l'esercizio
dell'attività professionale valgono a garantire "il rispetto" degli artt. 97 e 98 della Costituzione.

Si esclude, inoltre, qualsiasi contrasto con l'art. 24 della Costituzione, sia in ragione del "diverso
ambito nel quale può operare il dipendente part-time rispetto all'eventuale esercizio della
professione", sia in virtù del "giuramento di fedeltà e rispetto delle leggi della Repubblica".

3.- Nell'anzidetto giudizio si è, altresì, costituito il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lucca, il
quale - nel caso in cui venga esclusa un’interpretazione che ritenga incompatibile l’iscrizione dei
dipendenti pubblici part-time all’albo professionale degli avvocati - ha invocato una pronuncia di
incostituzionalità delle norme denunciate, aderendo sostanzialmente alle argomentazioni svolte dal
rimettente.

La memoria adduce, peraltro, l'esistenza di un contrasto con l’art. 3 della Costituzione anche sotto
un ulteriore duplice profilo.

Da un lato, perché le disposizioni denunciate consentono l’iscrizione dei dipendenti pubblici part-time
a qualsiasi albo professionale, sì da determinare una irragionevole equiparazione tra la professione
di avvocato, peculiare "per la sua intrinseca natura e per le funzioni pubbliche assolte", e le altre
professioni.

Dall’altro, perché le stesse norme consentirebbero, irragionevolmente, l’iscrizione alla Cassa di
previdenza forense da parte di chi, svolgendo "un lavoro professionale a tempo limitato", non
potrebbe far valere il requisito della "continuità" nell’esercizio della professione.

4.- Nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 353 del registro ordinanze 2000, si è costituita Maria
Romanazzi, ricorrente nel procedimento principale, che ha invocato il rigetto della proposta
questione.

Nella memoria si sostiene, in particolare, che non sarebbe inciso né il principio di imparzialità, in
quanto la possibilità di esercizio professionale non impedisce di perseguire l’interesse pubblico
primario affidato alla cura dell’amministrazione, né quello di buon andamento, giacché non può
escludersi a priori la correttezza del dipendente nell’esercizio della libera professione.

Si nega, inoltre, che vi sia una lesione del diritto di difesa, non potendosi seriamente ipotizzare che
il dipendente rinunci "ad uno qualunque dei mezzi che dalla legge gli sono concessi a tutela del suo
assistito, solo ed esclusivamente per non utilizzare procedure che sappia essere invise al proprio
superiore".

5.- Nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 355 del registro ordinanze 2000, si è costituito
Vincenzo Toscano, ricorrente nel procedimento principale, il quale, svolte, preliminarmente, talune
considerazioni critiche sulla posizione del Consiglio nazionale forense quale "giudice speciale", ritiene
che le disposizioni denunciate non violino né il principio di buon andamento, né quello di
imparzialità, giacché, da un lato, sono rivolte al perseguimento dell’"ottimizzazione" e della
maggiore flessibilità organizzativa del rapporto di lavoro pubblico e, dall'altro, distinguono
nettamente l’attività professionale da quella svolta, oltretutto in modo temporalmente limitato,
nell’ambito di detto rapporto.

Nel sostenere, poi, che l’ipotizzata violazione dell’art. 98 della Costituzione non è sorretta da alcuna
motivazione, la memoria esclude che possa ravvisarsi una lesione dell’art. 24 della Costituzione, non
essendo l’autonomia e l’indipendenza della difesa "minimamente scalfite dalle norme in questione".
Si rammenta, inoltre, che "la scelta del part-time da parte del Governo risponde anche a precisi
accordi internazionali che lo vincolano in sede comunitaria" (direttiva n. 97/81/CE del Consiglio
dell’Unione europea del 15 dicembre 1997).

6.- Nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 854 del registro ordinanze 2000, si è costituito il
Consiglio dell’ordine degli avvocati di Bari, il quale - condividendo le argomentazioni addotte dal
rimettente sia in punto di ammissibilità della questione, sia in riferimento al merito della stessa -
sostiene che le disposizioni denunciate violano "palesemente" i principi di imparzialità e buon
andamento di cui all’art. 97 della Costituzione e ciò "per il conflitto di interessi" conseguente alla
rimossa incompatibilità, trovandosi il pubblico dipendente "a dovere scegliere fra due interessi
inconciliabili fra loro", quelli della pubblica amministrazione (che deve "perseguire fedelmente in
virtù del suo specifico status e dei doveri che esso comporta") e quelli del cliente (la cui
soddisfazione è "dovere essenziale del professionista").

Nel caso, poi, della professione forense, il vulnus - ad avviso della parte - si estende anche all’art. 24
della Costituzione, giacché la effettiva difesa del cliente richiede l’autonomia e l'indipendenza
dell’avvocato, che "non sono più garantite quando questi sia dipendente di una pubblica
amministrazione e sottoposto ai superiori gerarchici", non potendo, peraltro, escludersi detti
"condizionamenti" per il solo fatto che le norme censurate vietano di assumere il patrocinio in
controversie in cui sia parte la pubblica amministrazione.

La memoria sostiene, inoltre, che la disciplina denunciata è frutto soltanto di un contingente
problema di "contenimento della spesa pubblica" e che, nel dettarla, il legislatore non si è
preoccupato della ragionevole salvaguardia "dei principi e valori costituzionali su cui essa andava ad
incidere". Sicché, in tale disciplina non è dato rinvenire né "l’influenza positiva sull’esercizio
dell’attività svolta per l’Amministrazione", né "precisi limiti allo svolgimento dell’attività
professionale", ragioni che, a suo tempo, la Corte ritenne alla base della "non incostituzionalità"
dell’art. 92 del d.P.R. n. 417 del 1974, che consentiva ai docenti pubblici l’esercizio della libera
professione.

7.- E’ intervenuto, in tutti i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, per sentir dichiarare infondata la sollevata questione.

La difesa erariale, nel rilevare che le norme denunciate si collocano nell’ambito di misure di
razionalizzazione della finanza pubblica, osserva che le stesse, lungi dal collidere con il buon
andamento della pubblica amministrazione, perseguono, in modo ragionevole ed obiettivo,
l’"ottimizzazione" e la maggiore flessibilità organizzativa del rapporto di lavoro pubblico, "all’insegna
della economicità e dell’efficienza".

Né, secondo l'Avvocatura, può ritenersi vulnerato il principio di imparzialità da disposizioni che
mantengono una netta distinzione tra attività professionale e quella svolta nell'ambito del pubblico
impiego, dovendosi, al tempo stesso, rilevare l’assoluta inconsistenza della censura che fa leva
sull’art. 98 della Costituzione, oltretutto priva di "effettiva motivazione".

Quanto, poi, alla dedotta violazione dell’art. 24 della Costituzione, si nega che le norme denunciate
scalfiscano minimamente il diritto alla "difesa tecnica" e quello "a far valere le proprie ragioni in
giudizio".

Affermato, altresì, in riferimento al denunciato contrasto con l’art. 3 della Costituzione, che il
legislatore nella sua discrezionalità ha operato una armonica ponderazione degli interessi in giuoco,
prevedendo condizioni e limiti entro i quali il pubblico dipendente può esercitare l’attività
professionale, la difesa erariale assume l’infondatezza anche della censura relativa al preteso
ingiustificato privilegio di cui godrebbe il dipendente part-time che esercita la professione di
avvocato, come pure della censura relativa alla violazione dell’art. 4 della Costituzione, posto che la
circoscritta attività professionale consentita al dipendente part-time "non pregiudica né limita il
diritto all’esercizio dell’attività lavorativa del libero professionista puro".

8.- In tutti i giudizi ha depositato atto di intervento la Cassa nazionale di previdenza e assistenza
forense, la quale, a sostegno dell’ammissibilità dell'intervento stesso, adduce di essere "titolare di
un interesse giuridicamente qualificato e differenziato, che può essere compromesso (o soddisfatto)
dall’esito del presente giudizio incidentale".

9.- Nel giudizio di cui all’ordinanza iscritta al n. 354 del registro ordinanze 2000, ha depositato atto
di "intervento ad adiuvandum" Umberto Fratini, avvocato di un ente pubblico (nei ruoli
dell’Avvocatura della Provincia di Roma), il quale assume che un’eventuale declaratoria di
incostituzionalità delle norme denunciate "travolgerebbe, oltreché gli interessi del ricorrente
principale, anche quelli dell’esponente".

10.- In prossimità dell'udienza sono state depositate talune memorie illustrative.

10.1.- La parte privata Vincenzo Toscano, nel riportarsi integralmente alle precedenti difese, ha
chiesto, altresì, una declaratoria di inammissibilità dell'intervento della Cassa di previdenza forense.

10.2.- Il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Bari, nel ribadire, preliminarmente, l'ammissibilità
della proposta questione, insiste, nel merito, per il suo accoglimento.

La memoria premette che la sentenza n. 171 del 1999, con la quale si è ritenuta la conformità a
Costituzione delle disposizioni denunciate, "non offre argomenti a sostegno di una declaratoria di
infondatezza nel presente giudizio".

La parte costituita sostiene, infatti, che, nel caso all'esame della menzionata sentenza, la questione
verteva sul "rapporto tra disciplina statale del rapporto di impiego pubblico a tempo parziale e le
prerogative regionali in materia di organizzazione dei propri uffici", mentre, nel caso di specie, si
tratta, invece, di verificare se taluni aspetti del regime delle incompatibilità contrastino con i
principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, di indipendenza ed
autonomia della difesa, di garanzia del diritto al lavoro e di ragionevolezza e questo senza che si
debba contestare la ratio decidendi di detta pronuncia e cioè "la necessità di attuazione uniforme su
tutto il territorio nazionale" della disciplina suddetta.

In riferimento, poi, ai profili di censura dedotti dal rimettente, la memoria, nell'aderire alle
argomentazioni da questi sviluppate, osserva, ulteriormente, che la disciplina sulle incompatibilità
del pubblico dipendente dettata dall'art. 58 del decreto legislativo n. 29 del 1993, e successive
modificazioni, disegna, nel suo complesso, un sistema informato ai principi di imparzialità e buon
andamento.

Tuttavia, con le disposizioni denunciate, volendosi incentivare il regime del part-time, meno oneroso
per l'erario, il legislatore ha trascurato di considerare, in funzione di una esigenza, pur condivisibile,
di contenimento della spesa pubblica, "ben più rilevanti motivi di ordine costituzionale".

La memoria assume, inoltre, che, a fronte di "una semplicistica e generalizzata rimozione delle
incompatibilità" per i dipendenti pubblici part-time, si pongono i presupposti per "una condizione
ontologicamente destinata a creare ... casi di conflitto di interesse reale o potenziale" (presenti,
peraltro, anche nelle fattispecie esaminate dal rimettente), non scongiurabili in base ai divieti posti
proprio dal denunciato comma 56-bis, sì da scardinare la coerenza del sistema, sostanzialmente volto
ad evitare detti conflitti.

10.3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, nel ribadire le argomentazioni e le conclusioni in
precedenza esposte, rileva, altresì, che il legislatore non ha mancato di valutare anche il possibile
conflitto tra svolgimento di attività professionale ed "interessi del settore pubblico", prevedendo,
segnatamente, i divieti di cui al censurato comma 56-bis, onde non viene "in discussione la
legittimità costituzionale" delle disposizioni impugnate, ma, semmai, dove si profili in concreto
qualche caso di conflitto di interessi (come nei casi adombrati dal rimettente), un problema di
"incompatibilità e di illegittimità degli atti di conferimento degli incarichi", da risolversi in sede
disciplinare o giudiziaria.

Del resto, si osserva ulteriormente nella memoria, le possibili "difficoltà sul versante della
professione", e, quanto a quella di avvocato, le difficoltà attinenti alla "difesa adeguata della parte"
(art. 24 della Costituzione), investono piuttosto la legge professionale, sulla quale eventualmente
dovrebbe sollevarsi questione di costituzionalità, e non già "la normativa sulle attività compatibili
con il lavoro pubblico part-time".

10.4. - La Cassa Nazionale di previdenza e assistenza forense insiste, tra l'altro, nell'affermare
l'ammissibilità del proprio intervento.

11.- Con allegata ordinanza, letta in udienza, sono stati dichiarati inammissibili gli interventi della
Cassa di previdenza ed assistenza forense e di Umberto Fratini, difettando, entrambi gli
intervenienti, della qualità di parte nei giudizi a quibus e, al tempo stesso, essendo portatori di un
interesse soltanto riflesso ed eventuale rispetto al thema decidendum.

                              Considerato in diritto

1.- Con undici distinte ordinanze (r.o. nn. da 348 a 357 e n. 854 del 2000), tutte analogamente
motivate in punto di diritto, il Consiglio nazionale forense ha sollevato questione di costituzionalità
dell'art. 1, commi 56 e 56-bis, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica), denunciando dette disposizioni nella parte in cui rimuovono "l’incompatibilità tra
l’attività di dipendente pubblico part-time e l’esercizio di tutte le professioni intellettuali", e, più in
particolare, nella parte in cui prevedono "l’abrogazione parziale delle disposizioni che sanciscono
l’incompatibilità tra esercizio della professione forense e la condizione di pubblico dipendente (art. 3
del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578)" in regime di part-time, con prestazione
lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno.

2.- Nell'invocare una declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate, ovvero di
incostituzionalità delle stesse "nella parte in cui ... non escludono la professione d’avvocato dal
proprio campo di applicazione", le ordinanze ritengono, anzitutto, violati, in sostanziale connessione
tra loro, gli artt. 24, 97 e 98 della Costituzione.

A tal riguardo, nel ravvisare una inconciliabilità di principio tra doveri del pubblico dipendente e
doveri del professionista, si sostiene che tale inconciliabilità assumerebbe peculiare rilievo "con
riferimento all’esercizio della professione d’avvocato, la cui indipendenza ed autonomia sono
presupposto dell’effettività del diritto costituzionale di difesa, secondo il disposto dell'art. 24 della
Costituzione, e laddove l’imparzialità e il buon andamento colpiti sarebbero quelli
dell’amministrazione della giustizia".

Vi sarebbe, quindi, un "conflitto tra le due appartenenze e le due responsabilità", giacché, l’avvocato
dipendente pubblico part-time potrebbe, per un verso, non dispiegare tutte quelle attività difensive
che sono consentite dalla legge, "con evidente pregiudizio della posizione dell’assistito" e, per altro
verso, "giovarsi della sua posizione all’interno dell’amministrazione della giustizia per procurare
indebiti vantaggi, con evidente pregiudizio dell’imparzialità e del buon andamento
dell’amministrazione".

Secondo il giudice a quo sarebbe violato, altresì, il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della
Costituzione, "sia in senso formale, sotto il profilo della disparità di trattamento, sia in senso
sostanziale, sotto il profilo della lesione del principio delle pari opportunità", potendo il
professionista pubblico dipendente avvalersi, a differenza degli altri professionisti che non abbiano
analogo status, "di un bagaglio di nozioni tecniche, scientifiche, o anche di carattere solo
organizzativo, che ha acquisito proprio grazie al suo inserimento all’interno dell'amministrazione".

Il contrasto con l'anzidetto parametro deriverebbe anche dalla "assoluta mancanza di ragionevolezza
e logicità" di una disciplina che, al fine di soddisfare esigenze di contenimento della spesa pubblica,
"pone seriamente in pericolo valori costituzionali ben più rilevanti, quali l’integrità e l’effettività del
diritto di difesa", come pure "i principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione".

In relazione, infine, all'art. 4 della Costituzione, si sostiene che sia "poco ragionevole se non
direttamente in violazione" di detto precetto una disciplina che, consentendo al medesimo soggetto
di svolgere più attività lavorative contemporaneamente, sottrarrebbe inevitabilmente "al mercato
del lavoro ambiti e spazi che potrebbero assorbire la domanda di occupazione di soggetti che ne sono
totalmente sprovvisti".

3.- In via preliminare va disposta la riunione dei giudizi in epigrafe, i quali possono, infatti, essere
decisi con un'unica pronuncia, dal momento che tutte le ordinanze denunciano, con identiche
prospettazioni, le medesime disposizioni in riferimento agli stessi parametri.

4.- Sempre in via preliminare, va rilevato che la questione oggi all'esame era già stata sollevata nel
corso dei giudizi principali nei quali sono state emesse le ordinanze distinte dai nn. 349, 352, 354,
355 e 357 del registro ordinanze 2000, ed era stata dichiarata manifestamente inammissibile con
ordinanza n. 183 del 1999, non risultando che si era provveduto ad una corretta instaurazione del
contraddittorio nei confronti dei Consigli dell'ordine, i cui atti erano stati impugnati innanzi al
Consiglio nazionale forense.

Poiché il rimettente, come ricordato in narrativa, ha dato atto, in tutte le ordinanze, di aver
provveduto a comunicare, a suo tempo, ai Consigli dell'ordine interessati, sia l'avvenuta ricezione
degli atti relativi al deposito del ricorso, sia l'avvenuta fissazione dell'udienza, nulla osta all'ingresso
dell'incidente di costituzionalità. Con riguardo, poi, ai giudizi nell'ambito dei quali la questione era
già stata sollevata, è solo da aggiungere che l'art. 24, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, preclude allo stesso giudice di adire nuovamente la Corte soltanto nel caso di una pronunzia di
"natura decisoria" (sentenze n. 433 del 1995 e n. 451 del 1989) e non quando sia stata emessa una
pronunzia che dichiara manifestamente inammissibile la questione, per ragioni puramente
processuali.

Infine, circa la legittimazione del Consiglio nazionale forense a sollevare questioni di costituzionalità
nella materia in esame, è sufficiente ribadire quanto già affermato, in argomento, da questa Corte
(sentenza n. 284 del 1986).

5.- Nel merito la proposta questione non è fondata sotto alcuno dei dedotti profili di censura.

Onde valutarne compiutamente la portata, giova rammentare che, con la legge 29 dicembre 1988, n.
554, è stato introdotto, nel settore dell'impiego pubblico, l'istituto del rapporto di lavoro a tempo
parziale. Detta legge, nel delinearne in via generale i tratti, ha rimesso l'ulteriore disciplina ad un
provvedimento di normazione secondaria (art. 7). A seguito di ciò è stato emanato il decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri 17 marzo 1989, n. 117, il quale ha consentito al pubblico
dipendente (art. 6, comma 2) lo svolgimento di altre attività lavorative, previa autorizzazione
dell'amministrazione o ente di appartenenza ed a condizione che le attività stesse, oltre a non
arrecare pregiudizio alle esigenze di servizio, non siano incompatibili con le attività di istituto.

Successivamente il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, nell'avviare il processo di
privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, prefigurato dalla legge delega 21 ottobre 1992, n.
421, ha permesso alle amministrazioni pubbliche di avvalersi delle forme contrattuali flessibili di
assunzione e di impiego contemplate dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell'impresa, includendo fra di esse il regime lavorativo del tempo parziale e facendo rinvio, per le
relative regole, al citato d.P.C.m. n. 117 del 1989, secondo quanto previsto, almeno in un primo
momento, dall’art. 36 (poi modificato dall'art. 22 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80).

In tale contesto, sono stati riconfermati, quanto alle incompatibilità che, rispetto all'eventuale
svolgimento di altra attività lavorativa, gravano sul dipendente pubblico in regime di lavoro a tempo
parziale, i criteri di cui al già menzionato art. 6, comma 2, dello stesso d.P.C.m. n. 117 del 1989,
attraverso il richiamo ad esso fatto dall'art. 58, comma 1, del decreto legislativo n. 29 del 1993.

Il denunciato art. 1, comma 56, della legge n. 662 del 1996, ha escluso, tuttavia, che le disposizioni
del citato art. 58, comma 1, del decreto legislativo n. 29 del 1993 (con le successive modificazioni e
integrazioni), trovino applicazione nelle fattispecie all’esame del giudice a quo, e cioè nei confronti
dei dipendenti pubblici "con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non
superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno"; mentre il successivo, ed anch'esso denunciato,
comma 56-bis del citato art. 1 (introdotto dal decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con
modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140), nell’abrogare le norme che vietano, ai suddetti
dipendenti, l'iscrizione in albi professionali e l'esercizio delle relative attività, ha, tuttavia, stabilito
che ad essi non solo non possono essere conferiti incarichi da parte della pubblica amministrazione,
ma che non è neppure consentito loro di assumere il patrocinio in controversie in cui questa sia
parte.

Proprio ad evitare possibili situazioni di incompatibilità, ulteriori cautele risultano contemplate dal
comma 58 del medesimo art. 1 della legge n. 662 del 1996, il quale ha disposto che
l’amministrazione possa negare la trasformazione del rapporto a tempo pieno in part-time nel caso
in cui l'ulteriore attività di lavoro (subordinato o autonomo) del dipendente "comporti un conflitto di
interessi con la specifica attività di servizio svolta", ovvero differire la trasformazione stessa, per
un periodo non superiore a sei mesi, allorché possa derivarne grave pregiudizio alla funzionalità
dell'amministrazione medesima.

Infine, il successivo comma 58-bis (anch'esso introdotto dal citato decreto-legge n. 79 del 1997) ha
demandato alle singole amministrazioni - ferma la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto
di interesse - di indicare (con decreto ministeriale emanato di concerto con il Ministro per la funzione
pubblica) le attività da considerare "comunque non consentite", in "ragione della interferenza con i
compiti istituzionali".

Per un più compiuto quadro della disciplina vigente in materia, va rammentato, altresì, che, in
ottemperanza a tali previsioni, sono state emanate, oltre ad istruzioni generali da parte della
Presidenza del Consiglio dei ministri (in particolare, la circolare 18 luglio 1997), specifiche e
stringenti previsioni ad opera delle singole amministrazioni, tra cui il Ministero della giustizia (d.m.
6 luglio 1998), il Ministero delle finanze per i dipendenti dell'amministrazione dei monopoli di Stato
(d.m. 20 settembre 2000) e per i propri dipendenti (d.m. 15 gennaio 1999), il Ministero per i beni
culturali e ambientali (d.m. 5 giugno 1998 e circolare del 4 febbraio 1999), il Ministero dei trasporti e
della navigazione (d.m. 14 maggio 1998).

6.- Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, va considerato che, con la prima censura, il
rimettente segnala la situazione di inconciliabilità che, a suo avviso, si determinerebbe fra doveri
ugualmente gravanti sull'interessato a causa delle disposizioni denunciate, le quali impongono al
dipendente pubblico, in regime di part-time c.d. ridotto (e cioè con orario non superiore al 50 per
cento di quello a tempo pieno) che intenda svolgere la libera professione di avvocato, un doppio
obbligo di fedeltà, sia nei confronti della pubblica amministrazione di appartenenza, sia nei confronti
delle regole deontologiche che presiedono al corretto adempimento della professione stessa. Donde la
ravvisata lesione, per un verso, dei principi dell'imparzialità e del buon andamento nonché
dell’obbligo di fedeltà imposto dall’art. 98 della Costituzione, e, per l'altro, dei principi che
assicurano, attraverso l'esaustivo svolgimento delle attività dell'avvocato, il diritto di difesa del
soggetto patrocinato.

A fronte di siffatta doglianza, giova, però, ricordare come questa Corte, in più di una occasione,
abbia avuto modo di mettere in luce, a proposito dell'assetto posto in essere attraverso gli interventi
riformatori di cui si è fatto cenno, gli obiettivi di maggiore efficienza degli apparati pubblici
perseguiti dal legislatore, grazie a strumenti gestionali che consentano una più flessibile utilizzazione
del personale (sentenze n. 1 del 1999, n. 371 del 1998, n. 309 del 1997).

In tale ambito si colloca anche la disciplina del part-time, come compiutamente delineata, "anche
attraverso la riscrittura delle regole relative alle incompatibilità, già poste dal decreto legislativo n.
29 del 1993" (sentenza n. 171 del 1999), dalla più recente normativa. A tal riguardo vanno
segnatamente considerati proprio il comma 56 dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996, che ha
apportato "una decisiva modifica ad uno dei canoni fondamentali del rapporto di impiego pubblico, e
cioè quello dell’esclusività della prestazione", ed il comma 56-bis (successivamente aggiunto dall’art.
6 del decreto-legge n. 79 del 1997), che "ha completato il disegno legislativo disponendo
l’abrogazione (e non più l’inapplicabilità) di tutte le norme che vietano ai pubblici dipendenti a
part-time l’iscrizione ad albi professionali e l’esercizio di altre prestazioni di lavoro" (ancora la
sentenza n. 171 del 1999). Ne è derivato un sistema che non solo non reca "pregiudizio al corretto
funzionamento degli uffici", essendo, anzi, diretto "a privilegiare, in modo non irragionevole, il
valore dell'efficienza della pubblica amministrazione" (sempre la ricordata sentenza n. 171 del 1999),
ma non compromette nemmeno i principi evocati dal rimettente a sostegno della sollevata questione.
Nell'elidere il vincolo di esclusività della prestazione in favore del datore di lavoro pubblico, il
legislatore, proprio per evitare eventuali conflitti di interessi, ha provveduto, infatti, a porre
direttamente (ovvero ha consentito alle amministrazioni di porre) rigorosi limiti all'esercizio, da
parte del dipendente che richieda il regime di part-time ridotto, di ulteriori attività lavorative e, in
particolare, di quella professionale forense.

Limiti che le ordinanze omettono, invero, di ponderare adeguatamente, solo ove si consideri che
essi, contrariamente a quanto opina il rimettente, non vanno rinvenuti unicamente nel comma 56-bis
dell'art. 1 della legge n. 662 del 1996, che contempla l'impossibilità di un conferimento di incarichi da
parte delle amministrazioni pubbliche in favore del dipendente part-time e il contestuale divieto di
esercitare il patrocinio in controversie in cui sia parte la pubblica amministrazione, ma anche, come
già ricordato, nel comma 58 che consente la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di
interesse, e nel comma 58-bis del medesimo articolo, il quale riserva alle stesse amministrazioni
pubbliche la potestà di indicare le attività "comunque non consentite" in "ragione della interferenza
con i compiti istituzionali".

Da ultimo non va ignorato il rilievo che, ai fini qui considerati, riveste anche il divieto posto dal
comma 2-ter dell'art. 18 della legge n. 109 del 1994 (inserito dall'art. 9, comma 30, della legge n. 415
del 1998), il quale esclude che i pubblici dipendenti possano espletare, nell'ambito territoriale del
proprio ufficio, incarichi professionali per conto delle amministrazioni di appartenenza. Con ciò
ponendosi un divieto ancora più restrittivo di quello discendente dal comma 56-bis, interpretato,
infatti, nel senso che quest'ultimo riguardi esclusivamente gli incarichi professionali che non trovino
assegnazione in base a procedure concorsuali di scelta adottate dall'amministrazione (così la già
citata circolare 18 luglio 1997 della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione
pubblica).

7.- Nella prospettiva, poi, dei doveri propri della professione forense, non è dubbio che, come
avverte lo stesso rimettente, il diritto di difesa risulta garantito solo se l'avvocato, in piena fedeltà
al mandato, è in grado di esercitare compiutamente il ministero tecnico a lui affidato.

Ma, in relazione a tale basilare principio, non sembrano, invero, porsi, per i professionisti legati da
un rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione, in regime di part-time ridotto,
particolari esigenze che non possano trovare soddisfazione, così come per l'opera di tutti i
professionisti, in quella disciplina generale dell'attività da essi svolta, che giunge a contemplare
anche il presidio, ove occorra, della sanzione penale (artt. 380 e 622 cod. pen.).

E questo a tacere delle norme deontologiche elaborate nell'ambito degli ordinamenti particolari (e, a
tal riguardo, rileva non solo il Codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale forense il 17
aprile 1997, ma anche quello europeo, approvato dal Consiglio degli ordini forensi europei il 28
ottobre 1998) che valgono anch'esse ad assicurare il corretto espletamento del mandato,
giustificando, nei congrui casi, l'esercizio del potere disciplinare degli organi professionali.

Va da sé che, in tale quadro di riferimento, potranno, eventualmente, rinvenire la loro risposta,
attraverso la opportuna valutazione da parte del legislatore, anche diverse ed ulteriori esigenze che
dovessero derivare dall'evoluzione normativa, quando questa, come nel caso qui considerato, risulti
incidente sulla stessa professione.

8.- Il rimettente denuncia, poi, l’ingiustificata discriminazione di cui soffrirebbe, in violazione
dell'art. 3 della Costituzione, il libero professionista che, non essendo anche dipendente pubblico, non
potrebbe usufruire, al contrario di quest'ultimo, "di un bagaglio di nozioni tecniche, scientifiche, o
anche di carattere solo organizzativo" acquisite proprio grazie al suo inserimento all’interno
dell’amministrazione.

Ma tale censura, lungi dall'evidenziare una disparità fra professionisti riferibile al contenuto
precettivo delle norme denunciate, vale in realtà a porre in rilievo soltanto l'utilità che il pubblico
dipendente può, in ipotesi, trarre, nell'esercizio della professione, dalle conoscenze e dalle
esperienze maturate nella pregressa attività. Si tratta, dunque, di situazioni di mero fatto che non
assumono rilievo nel giudizio di costituzionalità (tra le altre, sentenze n. 175 del 1997 e n. 417 del
1996).

9.- Le considerazioni, innanzi svolte, sulla ratio della denunciata normativa e sulle cautele delle quali
il legislatore ha circondato l’esercizio dell’attività professionale da parte del pubblico dipendente,
consentono di ritenere parimenti infondata la censura, prospettata sempre in riferimento all'art. 3
della Costituzione, sotto il profilo della "assoluta mancanza di ragionevolezza e logicità" delle
denunciate disposizioni che, in vista unicamente di esigenze di contenimento della spesa pubblica,
porrebbero "seriamente in pericolo valori costituzionali ben più rilevanti", quali il diritto di difesa ed
i principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione.

A fronte della riproposizione, sotto lo specifico aspetto qui considerato, di doglianze sostanzialmente
corrispondenti, sia pure nella diversità dei parametri evocati, a quelle sopra scrutinate, è sufficiente
osservare, richiamando quanto già detto, che le esigenze di contenimento della spesa pubblica, pur
presenti nel quadro riformatore di cui si è fatto cenno, non vanno a detrimento degli altri principi ed
interessi di rilievo costituzionale evocati dal rimettente, avendo, infatti, il legislatore apprestato gli
strumenti atti ad evitarne il nocumento. Neppure sotto questo profilo è possibile, perciò, ravvisare,
nella disciplina in esame, elementi atti a suffragare la pretesa lesione dell'art. 3 della Costituzione.

10.- Infondata è, infine, anche la prospettata censura di contrasto con l'art. 4 della Costituzione,
precetto che, nel garantire il diritto al lavoro, ne rimette l'attuazione, quanto a tempi e modi, alla
discrezionalità del legislatore. Tale discrezionalità, contrariamente a quanto assume il rimettente,
risulta, infatti, esercitata, nel caso in esame, in modo tutt'altro che irragionevole, ove si consideri
che le disposizioni denunciate sono intese a favorire l'accesso di tutti i soggetti in possesso dei
prescritti requisiti alla libera professione e cioè ad un ambito del mercato del lavoro che è
naturalmente concorrenziale. E ciò tanto più se si tiene conto, proprio in relazione all'attività
forense, dei più recenti interventi del legislatore (decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96), volti a
facilitare l'esercizio permanente della stessa attività da parte degli avvocati cittadini di uno Stato
membro dell'Unione europea.

                               PER QUESTI MOTIVI

                           LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 56 e 56-bis, della
legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevate, in
riferimento agli artt. 3, 4, 24, 97 e 98 della Costituzione, dal Consiglio nazionale forense, con le
ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2001.

F.to:

Cesare RUPERTO, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 giugno 2001.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
 

© Diritto - Concorsi & Professioni - riproduzione vietata