Giurisprudenza - Pubblico impiego |
Cassazione
Sez. Un, 16 febbraio 2009, n. 3677, sulla giurisdizione del Giudice ordinario
in materia di pubblico impiego e sulla disapplicazione degli atti di macro
organizzazione
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il Comune di Limbiate impugnava davanti alla Corte d'appello di Milano la statuizione emessa dal locale Tribunale, con cui erano state accolte la maggior parte delle domande proposte da D'Amato Domenico e Ficarra Pietro, rispettivamente dirigente amministrativo e dirigente dei servizi alla persona presso il predetto Comune, i quali avevano lamentato la illegittimità del provvedimento di sospensione cautelare e poi di revoca dell'incarico dirigenziale, adottato dal Sindaco, nonché la illegittimità della delibera della Giunta comunale, prima di dichiarazione di eccedenza e poi di collocamento in disponibilità dall'agosto 2002. I dirigenti avevano eccepito la mancata individuazione dei motivi della revoca dell'incarico ed il mancato rispetto della relativa procedura; avevano lamentato altresì: a) la
sospensione dell'incarico protrattasi per oltre due mesi;
b) la
dequalificazione a seguito dell'incarico dirigenziale a staff, non avendo
mai svolto alcuna attività;
c) la
nullità della procedura di modifica della dotazione organica dei
dirigenti e della connessa procedura di mobilità, cui erano stati
sottoposti, per la mancata osservanza dell'iter previsto sia dalla legge,
sia dalla contrattazione collettiva, sia dall'accordo integrativo decentrato
del Comune di Limbiate, anche perché la nuova dotazione organica
aveva previsto la creazione di due posizioni di staff poi eliminate a distanza
di soli due mesi;
d) che
detti atti amministrativi di organizzazione essendo illegittimi, avrebbero
potuto essere disapplicati dall'AGO, con conseguente venir meno degli atti
di esecuzione e cioè della dichiarazione di eccedenza e della successiva
collocazione in disponibilità;
e) la
illegittimità della procedura di disponibilità di cui al
D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 33 (TU);
f) il
carattere comunque discriminatorio dei provvedimenti presi nei loro confronti,
dovuti alla loro diversa collocazione politica rispetto alla nuova giunta;
chiedevano quindi dichiararsi la illegittimità dei suddetti atti
di gestione del rapporto, previa disapplicazione degli atti amministrativi
presupposti; la reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento dei danni
patrimoniali, e alla lesione della loro professionalità, dei danni
esistenziali, dei danni all'immagine e del danno morale.
La Corte
d'appello, con la sentenza in epigrafe indicata, confermava la illegittimità
della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché la illegittimità
del collocamento in disponibilità, confermava la misura del danno
patrimoniale e del danno all'immagine come liquidato dal primo Giudice,
riduceva il danno alla professionalità al 50% di quanto determinato
dal Tribunale per il D'Amato ed all'80% per il Ficarra, rigettava la domanda
di risarcimento dei danni morali, mentre, disattendendo l'appello incidentale
dei dirigenti, rigettava la domanda di reintegrazione o riammissione in
servizio nelle precedenti mansioni dirigenziali.
La Corte
territoriale respingeva preliminarmente l'eccezione di difetto di giurisdizione
sollevata dal Comune, sul rilievo che la revoca dell'incarico dirigenziale
rientra nella giurisdizione dell'AGO ai sensi della previsione espressa
dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, mentre, quanto agli atti amministrativi
presupposti, cd. di macro organizzazione, come quelli relativi alla approvazione
della nuova dotazione organica dell'ufficio, i dirigenti ne avevano chiesto
solo la disapplicazione ai fini della declaratoria di illegittimità
del provvedimento in disponibilità. Quanto alla legittimità
della sospensione prima e della revoca poi dell'incarico dirigenziale,
la Corte adita negava la esistenza degli addebiti posti a fondamento del
provvedimento, e ne affermava il carattere discriminatorio per motivi politici
e sindacali. Rilevato poi che non era stata impugnata la sentenza di primo
grado sulla esistenza del demansionamento seguito ai provvedimenti di sospensione
e revoca dell'incarico dirigenziale e di successiva collocazione a staff,
la Corte territoriale passava all'esame dei provvedimenti di messa in disponibilità,
di cui il Comune sosteneva la legittimità. La Corte - esaminati
gli atti che avevano dato luogo alla messa in disponibilità, e precisamente
le delibere n. 91 e n. 119 del 2002 di modificazione della dotazione organica,
con i quali era stata decisa la eliminazione della posizione di staff in
cui il D'Amato ed il Ficarra erano stati collocati da ultimo, e quindi
la riduzione delle posizioni dirigenziali ad una sola, e cioè a
quella preposta al settore tecnico - ne affermava la illegittimità
per vari profili:
sia
perché posta in essere in violazione della L. n. 127 del 1997, art.
6, comma 14, che impone la rilevazione dei carichi di lavoro come presupposto
indispensabile per la rideterminazione delle dotazioni organiche (disposizione
non abrogata dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 274 TU), sia perché
detta variazione non era stata disposta in coerenza con la programmazione
triennale del fabbisogno di personale, come prescritto dalla L. n. 449
del 1997, art. 39, sia perché non vi era stata una specifica concertazione
con i rappresentati sindacali della dirigenza pubblica ai sensi dell'art.
4 del CCDI, mentre non era sufficiente la prova, fornita dal Comune, di
avere effettuato una comunicazione alle OO.SS. territoriali confederali
e di avere sottoscritto con le RSU e le OO.SS., in data 20 maggio 2002,
un verbale sindacale in cui si dava atto di una concertazione positiva
sul nuovo regolamento comunale. La illegittimità degli atti presupposti
si riverberava sui conseguenti provvedimenti di eliminazione delle posizioni
dirigenziali a staff, in cui il D'Amato ed il Ficarra erano stati collocati
e della successiva collocazione in disponibilità. Questi atti riguardanti
i due dirigenti erano quindi illegittimi, ma non nulli, non essendo stati
posti in essere per motivi discriminatori, avendo l'operazione di riorganizzazione
interessato una serie di posizioni ed essendo riservata alla discrezionalità
amministrativa, il che impediva l'accoglimento della domanda di riammissione
nella precedenti mansioni, non tanto perché vige un generale divieto
di applicazione dell'art. 2103 c.c., ma perché il periodo di messa
in disponibilità era ormai praticamente concluso alla data della
decisione di primo grado, scadendo il termine di 24 mesi il 10 agosto 2004,
con la conseguenza che l'inadempimento contrattuale era ormai suscettibile
solo di tutela risarcitoria. Tuttavia all'epoca di presentazione del ricorso
il rapporto di lavoro non era ancora cessato, essendo la cessazione avvenuta
per il Ficarra solo alla scadenza dei 24 mesi di collocazione in disponibilità,
per cui solo da tale data avrebbe potuto sorgere l'interesse dei due dirigenti
ad impugnare il recesso ed a chiedere la condanna ripristinatoria.
Quanto
al risarcimento dei danni, confermato il diritto alle differenze retributive
tra quanto spettante nella precedente posizione dirigenziale e quanto percepito,
sia per il periodo di collocazione a staff dal primo aprile al 31 luglio
2002, sia per tutto il periodo di 24 mesi di messa in disponibilità,
la Corte, in parziale accoglimento dell'appello del Comune, rigettava le
domande di risarcimento del danno morale e, ritenuta eccessiva la determinazione
del danno alla professionalità, la riduceva al 50% delle retribuzioni
di fatto per il D'Amato e all'80% per il Ficarra, sul rilievo che il primo,
nel 2004, aveva trovato altra collocazione dirigenziale e che aveva svolto
un'altra collaborazione per l'intero anno 2003, mentre il secondo aveva
svolto per minor tempo un'attività lavorativa limitata.
Avverso
detta sentenza il Comune di Limbiate propone ricorso con tre motivi nei
confronti del D'Amato che a sua volta ha proposto ricorso incidentale con
cinque motivi illustrati da memoria, cui il Comune ha risposto con controricorso.
Il Ficarra
ha proposto ricorso avverso la medesima sentenza con otto motivi, ed il
Comune di Limbiate ha resistito con controricorso e ricorso incidentale
con cinque motivi illustrati da memoria, cui il Ficarra ha risposto con
controricorso. Il Comune ha presentato anche memoria.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Va preliminarmente
disposta la riunione dei quattro ricorsi ex art. 335 c.p.c..
Con
il primo motivo del ricorso principale proposto dal Comune di Limbiate
nei confronti del D'Amato si denunzia la carenza di giurisdizione dell'AGO
in relazione agli atti amministrativi di adozione di una nuova dotazione
organica e di approvazione del nuovo regolamento comunale degli uffici
di cui alle delibere 91 e 119 del 2002, nell'esercizio del potere conferito
dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2 (TU), in applicazione del D.Lgs.
30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 1.
Sostiene
il Comune ricorrente che, essendo stato impugnato l'atto di determinazione
del nuovo organico del personale, in applicazione della normativa sopra
indicata, dovrebbe essere dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo
anche in relazione agli effetti riflessi ed indiretti del medesimo atto
(la eliminazione della dirigenza a staff e della messa in disponibilità).
Il motivo attinente alla giurisdizione non è fondato. 1. il D.Lgs.
30 marzo 2001, n. 165, art. 63 devolve al giudice ordinario in funzione
del giudice del lavoro "tutte" le controversie relative ai rapporti di
lavoro alle dipendenze della P.A. ... ancorché vengano in questione
atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai
fini della decisione, il giudice li disapplica se illegittimi".
Ne consegue,
com'è stato già affermato (tra le tante Cass. 13169 del 5
giugno 2006) proprio in tema di variazione della pianta organica di un
ente pubblico, che, in materia di lavoro pubblico privatizzato, dal sistema
di riparto di giurisdizione delineato dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165,
art. 63, comma 1, risulta che non è consentito al titolare del diritto
soggettivo, che risente degli effetti di un atto amministrativo, di scegliere,
per la tutela del diritto, di rivolgersi al giudice amministrativo per
l'annullamento dell'atto, oppure al giudice ordinario per la tutela del
rapporto di lavoro previa disapplicazione dell'atto presupposto, atteso
che, in tutti i casi nei quali vengano in considerazione atti amministrativi
presupposti, ove si agisca a tutela delle posizioni di diritto soggettivo
in materia di lavoro pubblico, è consentita esclusivamente l'instaurazione
del giudizio davanti al giudice ordinario, nel quale la tutela è
pienamente assicurata dalla disapplicazione dell'atto e dagli ampi poteri
riconosciuti a quest'ultimo dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63,
comma 2. Non si dubita che in forza del rapporto di lavoro "privatizzato"
intercorso con il Comune la posizione fatta valere dal D'Amato e dal Ficarra
abbia la consistenza del diritto soggettivo e che tutte le controversie
relative agli atti di gestione del rapporto rientrino nella giurisdizione
dell'AGO. Nella specie i due dirigenti si dolgono direttamente degli atti
di gestione del rapporto - e cioè della revoca degli incarichi dirigenziali
e poi, a seguito della soppressione, di tutte le posizioni dirigenziali,
della dichiarazione di eccedenza e della successiva messa in mobilità
- rispetto ai quali il provvedimento di variazione della pianta organica
del Comune era evidentemente l'atto presupposto degli atti di gestione
medesimi. I dirigenti chiedono quindi, non già l'annullamento, ma
la disapplicazione, sostenendone la illegittimità, di questo atto
presupposto, al limitato fine di sottrarre fondamento ai successivi atti
di gestione del rapporto di lavoro.
1.2.
Il Comune invoca invero alcune pronunzie di questa Corte con cui, in relazione
alle variazioni della pianta organica dell'ente pubblico, o comunque in
relazione ad atti organizzativi di carattere generale, è stata affermata
la giurisdizione del giudice amministrativo. In quei casi, però,
contrariamente a quanto si verifica nella specie, gli atti organizzativi
non incidevano direttamente su atti di gestione del rapporto di lavoro,
perché, pur pregiudicando in qualche modo la posizione dei lavoratori,
avevano sui singoli rapporti solo efficacia riflessa.
Ed infatti
con l'ordinanza n. 21592 dell'8 novembre 2005 si è affermata la
giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ad un ricorso proposto
dalle associazioni sindacali che avevano impugnato un regolamento della
Regione Lazio, in materia di inquadramento del personale, il quale aveva
consentito il conferimento della qualifica dirigenziale a numerosi dipendenti.
È evidente che in tal caso, in primo luogo, la posizione delle OO.SS.
non era di diritto soggettivo, ed inoltre il regolamento non aveva direttamente
inciso sui singoli rapporti di lavoro, ma spiegava su di essi solo una
incidenza riflessa, di talché nei confronti del medesimo regolamento
erano configurabili solo situazioni di interesse legittimo.
Nello
stesso senso, con l'ordinanza n. 15904 del 13 luglio 2006, è stata
affermata la giurisdizione amministrativa in un caso in cui alcuni dipendenti
del Ministero dell'Istruzione, inquadrati nei profili professionali di
assistente amministrativo, avevano impugnato l'organico provinciale dell'ATA
per l'anno scolastico 2003/2004, e ne avevano chiesto l'annullamento, asserendo
che gli stessi erano inficiati nella parte in cui avevano disposto una
riduzione di fatto degli organici, in misura rilevante e non prevedibile,
così ledendo le loro legittime aspettative alla chiesta mobilità
presso altri Istituti scolastici della Provincia. Anche in questo caso,
dunque, il provvedimento organizzativo di carattere generale non incideva
direttamente sui rapporti di lavoro, essendo dedotta solo una lesione di
"aspettative".
Ed ancora,
nel caso di cui all'ordinanza n. 8363/2007, è stata dichiarata la
giurisdizione del giudice amministrativo in una fattispecie in cui veniva
contestato un atto organizzatorio consistente nella delibera della Giunta
comunale di modifica del regolamento del personale, con la previsione della
possibilità di procedere alla copertura di un posto vacante di dirigente
mediante stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato. In tutti
questi casi dunque il provvedimento amministrativo non veniva in considerazione
quale atto presupposto della gestione del rapporto di lavoro, perché
il nuovo modulo organizzativo così introdotto non incideva direttamente
sulla posizione del singolo dipendente, ma su queste aveva solo una efficacia
indiretta e, d'altra parte, il pregiudizio di cui astrattamente avrebbero
potuto risentire poteva essere eliminato, nelle fattispecie sopra ricordate,
non già dalla disapplicazione, ma dall'annullamento vero e proprio
del provvedimento amministrativo.
In osservanza
alla nuova formulazione dell'art. 384 c.p.c. va dunque affermato il principio
di diritto per cui "Le controversie concernenti gli atti di organizzazione
dell'amministrazione rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario,
e sono passibili di disapplicazione, in tutti i casi in cui costituiscano
provvedimenti presupposti di atti di gestione del rapporto di lavoro del
pubblico dipendente".
2. Con
il secondo motivo si denunzia la violazione degli artt. 4 CCDI settore
dirigenti e dell'art. 25, commi 3, 4, e 5, dell'art. 26 comma 3, 7 e 11
del CCNL comparto regioni enti locali settore dirigenti. Si sostiene che
l'art. 4 del CCDI prevede come oggetto di concertazione le variazioni della
dotazione organica della dirigenza, nel caso di cui agli artt. 25, commi
3, 4, e 5 e 26, in particolare del comma 3 del CCNL. Tuttavia, ne' l'art.
25, ne' l'art. 26 riguarderebbero il caso di specie; inoltre l'art. 26
prende in considerazione la dotazione organica e la riorganizzazione per
l'accrescimento dei livelli qualitativi e quantitativi dei servizi esistenti
con ampliamento delle competenze, mentre, nella specie, la nuova dotazione
organica aveva condotto ad un decremento del numero dei dirigenti, di talché
non verrebbero in applicazione le ipotesi in cui è prevista la concertazione,
ma quelle in cui è prescritta solo la preventiva informazione, che
era stata data il giorno 27 marzo 2003. Inoltre, le rappresentanze sindacali
erano state convocate per la concertazione che si era tenuta all'esito
del rinvio del precedente incontro del 20 maggio 2002; ed ancora, per le
eccedenze di personale inferiori alle 10 unità non sarebbe necessaria
la concertazione, ma solo la informativa (D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165,
art. 33, comma 1 e art. 7 CCNL dirigenti).
Neppure
questo motivo merita accoglimento dal momento che la contrarietà
alla legge della delibera di variazione della dotazione organica dei dirigenti
adottata dal Comune era stata ravvisata, dalla sentenza impugnata, in forza
di una pluralità di argomentazioni, e quindi sulla base di molteplici
rationes decidendi, su alcune delle quali non sono state svolte censure.
Ed infatti non è stata censurata la contrarietà della delibera
ne' alla L. n. 127 del 1997, art. 6, comma 14 (che prescrive, per i comuni
con più di quindicimila abitanti, la rilevazione dei carichi di
lavoro quale presupposto indispensabile per la rideterminazione delle dotazioni
organiche), ne' la contrarietà alla L. n. 449 del 1997, art. 39,
comma 1 (che obbliga gli organi di vertice delle amministrazioni alla programmazione
triennale del fabbisogno di personale). Ne consegue che la statuizione
sulla illegittimità del provvedimento trova conferma sulla base
dei punti non impugnati.
Dal
rigetto di tale secondo motivo discende quindi la irrevocabilità
della dichiarazione di contrarietà alla legge delle delibere di
variazione dell'organico dei dirigenti nn. 91 e 119 del 2002. 3. Con il
terzo mezzo si censura la sentenza per violazione degli artt. 2697 e 1223
c.c., per mancata prova sulla esistenza del danno esistenziale e quindi
la erroneità della statuizione sul riconoscimento del danno all'immagine
ravvisato dalla Corte di Milano, in quanto derivante in re ipsa dalla dequalificazione,
senza allegazione, ne' prove della sua esistenza da parte del richiedente
che ne sarebbe onerato.
Neppure
questo motivo è fondato.
Va premesso
che, riguardo alla posizione del D'Amato, il Comune ricorrente non ha censurato
la sentenza nella parte in cui ha affermato la illegittimità dei
provvedimenti di sospensione prima e di revoca poi dell'incarico dirigenziale:
rimane quindi irretrattabile la statuizione che ha negato l'inadempimento
del dirigente e quindi la invalidità della collocazione a staffe
dei successivi atti di dichiarazione di eccedenza e di messa in disponibilità.
In questo
contesto la Corte territoriale ha riconosciuto un solo risarcimento del
danno non patrimoniale, ossia il danno all'immagine, fondando la statuizione
su dati certi, costituiti dalla vicenda di cui il D'Amato era stato oggetto:
prima la sospensione cautelare per due mesi dall'incarico dirigenziale
e successivamente la revoca, con collocazione a staff (dove nessuna funzione
gli era stata affidata, circostanza non contestata dal Comune) e quindi
la dichiarazione di eccedenza e la collocazione in disponibilità.
Non si tratta quindi di pregiudizio di carattere soggettivo, che, come
dagli ultimi arresti giurisprudenziali, ha necessariamente bisogno di allegazione
e prova, ma di pregiudizio discendente oggettivamente dalla vicenda giudiziaria
posta all'esame della Corte territoriale. Il ricorso principale proposto
dal Comune nei confronti del D'Amato va quindi integralmente respinto.
4. Va
esaminato a questo punto il ricorso incidentale proposto dal Comune nei
confronti del Ficarra, essendo preliminare sotto il profilo logico.
Con
il primo motivo il Comune eccepisce la carenza di giurisdizione dell'AGO,
motivo che va respinto per le considerazioni già svolte al punto
1.
Parimenti
va rigettato il secondo motivo (violazione dell'art. 4 CCDI dirigenti e
dell'art. 25 commi 3, 4 e 5, dell'art. 26 comma 3, dell'art. 7 e 11 del
CCNL comparto regioni enti locali e difetto di motivazione) in quanto analogo
a quello già dedotto con il ricorso principale nei confronti del
D'Amato.
Con
il terzo mezzo si lamenta difetto di motivazione, per avere la Corte territoriale
ritenuto acclarata la discriminazione a danno del Ficarra, perché
le prove testimoniali dimostrerebbero che costui non aveva partecipato
ad alcune riunioni e che il direttore generale aveva avuto contatti diretti
con il personale, mentre, sostiene il Comune, la mancata precisazione dei
tempi starebbe a dimostrare che ciò si era verificato nel periodo
di sospensione e in quello immediatamente successivo di revoca dell'incarico
dirigenziale. Neppure questo motivo merita accoglimento, in quanto tendente
non già ad evidenziare incoerenze e mancata considerazione di circostanze
decisive da parte della sentenza impugnata, ma a sollecitare un diversa
riconsiderazione dei fatti, dal momento che la dedotta mancanza di motivazione
sulle date, non vale a smentire le circostanze poste a base della statuizione:
sospensione per due mesi dall'incarico dirigenziale, successiva revoca
e collocazione a staff senza assegnazione di alcuna funzione, abolizione
delle posizioni di staff: dichiarazione di eccedenza e di collocazione
in disponibilità, tutto ciò in mancanza di prova, che il
Comune avrebbe dovuto fornire, di inadempimenti, da parte del dirigente,
tali da giustificare dette iniziative non essendo invece stata proposta
censura avverso le affermazioni della sentenza impugnata sulla insussistenza
degli addebiti mossi.
Il quarto
motivo, relativo al riconoscimento del risarcimento del danno all'immagine,
va parimenti rigettato, per le ragioni già esposte in relazione
al terzo motivo del ricorso principale proposto dal Comune nei confronti
del D'Amato.
Con
il quinto mezzo si denunzia difetto di motivazione, perché, da un
lato, la Corte territoriale avrebbe ritenuto legittimo il provvedimento
di messa in disponibilità, e poi, contraddittoriamente lo avrebbe
ritenuto risarcibile.
Il motivo
è infondato, giacché la Corte territoriale non ha affermato
la legittimità della collocazione in disponibilità, avendo
testualmente rilevato che la illegittimità dell'atto presupposto,
ossia il provvedimento di definizione della nuova pianta organica, si riverberava
sugli atti esecutivi posti in essere, e cioè sulla revoca degli
incarichi dirigenziali di staff e sulla successiva procedura di messa in
disponibilità di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 33. La
Corte di Milano, pur escludendo la nullità della stessa delibera
di determinazione della pianta organica, avendo negato che fosse stata
posta in essere per motivi discriminatori, e cioè al solo fine di
liberarsi dei dirigenti, ne ha però sancito la illegittimità
(derivata) e tanto è sufficiente a sorreggere la statuizione risarcitoria.
Conclusivamente
il ricorso incidentale proposto dal Comune nei confronti del Ficarra va
integralmente rigettato.
5. Con
il primo motivo del ricorso principale il Ficarra lamenta la violazione
degli artt. 1418, 1419, 1453 e 2058 c.c. in ordine alla mancata reintegrazione
nelle funzioni di dirigente del settore, perché la Corte territoriale,
pur avendo affermato la natura discriminatoria della revoca dell'incarico
dirigenziale, non lo aveva reintegrato nelle funzioni, mentre sarebbe irrilevante
la circostanza ravvisata dalla sentenza impugnata per cui il periodo di
disponibilità era spirato alla data di presentazione del ricorso,
attenendo detta circostanza, tutt'al più, alla fase dell'esecuzione.
Con il secondo motivo del ricorso principale del Ficarra, che corrisponde
al primo motivo del ricorso incidentale del D'Amato, si denunzia difetto
di motivazione, per non avere la Corte di Milano riconosciuto che la delibera
di attuazione del regolamento - nella parte in cui definiva la nuova dotazione
organica con la soppressione delle posizioni dirigenziali prima esistenti,
nonché i successivi atti di revoca dell'incarico di staff, la dichiarazione
di eccedenza e la messa in mobilità - fosse nulla o inefficace perché
adottata per motivi discriminatori. Si assume che la Corte non avrebbe
valutato le circostanze precedenti alla modifica della dotazione organica,
della cui necessità il Comune non aveva mai neppure allegato prova.
Il Ficarra,
con il terzo mezzo, che corrisponde al secondo motivo del D'Amato, si duole
della parte della sentenza già oggetto della censura precedente,
per violazione dell'art. 416 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., perché
il Comune non avrebbe mai chiesto di provare l'esistenza di motivi organizzativi
ed economici sottesi al provvedimento adottato sulla nuova dotazione organica.
Il Ficarra, con il quarto motivo, che corrisponde al terzo del D'Amato,
censura ancora la parte della sentenza impugnata di cui ai precedenti motivi
secondo e terzo, per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt.
2727 e 2729 c.c., prospettando l'esistenza di un motivo illecito che avrebbe
ispirato il provvedimento di modifica della dotazione organica, come dimostrato
dalle prove testimoniali attestanti il carattere discriminatorio della
revoca degli incarichi, il quale costituirebbe presunzione del carattere
parimenti discriminatorio della soppressione dei posti dirigenziali, considerato
anche che, in meno di sei mesi, la struttura organizzativa del Comune era
stata stravolta per ben tre volte: prima ampliando le posizioni dirigenziali
da tre a quattro, poi istituendo altre due posizioni dirigenziali di staff,
per poi diminuirle ad una sola unità. Pertanto la natura discriminatoria
dei provvedimenti impugnati comporterebbe il ripristino della situazione
contrattuale originaria precedente, e quindi la prosecuzione de iure del
rapporto dirigenziale, con diritto alla corresponsione delle retribuzioni
maturate fino alla effettiva riammissione in servizio. Con il quinto motivo
si censura la sentenza per violazione degli artt. 1453 e 2058 c.c. e dei
principi costituzionali che tutelano l'autonomia e l'indipendenza del dirigente
pubblico, garantendogli un regime di stabilità del rapporto, nonché
dei principi dell'ordinamento che privilegiano la tutela sattisfattoria
dell'interesse leso.
Si reiterano
le considerazioni già svolte nel primo motivo sul diritto alla reintegrazione
nel posto dirigenziale già occupato in forza del regime di stabilità
che caratterizzerebbe il pubblico dirigente.
6. Va
preliminarmente rigettata la eccezione, sollevata dal Comune, di inammissibilità
del controricorso e del ricorso incidentale del D'Amato per avere costui
depositato un fascicolo "ricostituito" contenente documenti non prodotti
nei gradi di merito, giacché ciò comporta la inammissibilità
del deposito di nuovi documenti senza però inficiare la validità
ne' del controricorso ne' del ricorso incidentale.
7. I
suddetti primi cinque motivi del ricorso principale Ficarra e i primi tre
motivi del ricorso incidentale D'Amato, che per la loro connessione vanno
trattati congiuntamente, sono fondati. Va rilevato in primo luogo che gli
effetti economici pregiudizievoli della illegittima revoca dell'incarico
dirigenziale hanno trovato riparazione nella condanna inflitta al Comune
al pagamento delle differenze retributive tra quanto spettante con il mantenimento
dell'incarico medesimo e la minor somma di fatto percepita. Resta, ed è
questa la questione fatta valere con i motivi suddetti, il tema del diritto
dei dirigenti al ripristino delle funzioni dirigenziali.
La Corte
di Milano ha affermato che la delibera di soppressione delle posizioni
dirigenziali era stata effettuata con violazione di legge (statuizione
che resta ormai ferma a seguito del rigetto dei ricorsi del Comune) e che
la illegittimità di questo atto presupposto si riverberava in primo
luogo sulla revoca degli incarichi dirigenziali originariamente ricoperti
(dirigente del settore amministrazione generale e di dirigente del settore
servizi alla persona) e quindi sulla revoca del collocamento in posizione
di staff e successivamente ancora sulla messa in disponibilità.
Tuttavia ha rilevato nel prosieguo che la collocazione in disponibilità,
pur essendo illegittima, non era però nulla per motivi discriminatori,
e ciò non consentiva la reintegra nell'incarico dirigenziale. La
Corte territoriale, ritenendo che solo l'esistenza del motivo discriminatorio
consentirebbe di pervenire alla richiesta riammissione nell'incarico dirigenziale,
ha erroneamente omesso di considerare le conseguenze derivanti dalla pur
dichiarata disapplicazione dell'atto presupposto, e quindi tutti gli effetti
che questo provocava sull'atto di gestione del rapporto costituito dalla
revoca ante tempus dell'incarico medesimo.
8. Tuttavia,
il ravvisato difetto di motivazione può condurre all'accoglimento
delle censure in esame, e quindi all'annullamento della sentenza, solo
risolvendo in senso positivo la questione relativa al diritto del dirigente
alla riassegnazione dell'incarico, revocato prima della scadenza prefissata,
in conseguenza della illegittimità del provvedimento presupposto,
essendo evidente che, in caso negativo, il dispositivo sarebbe conforme
a diritto e si tratterebbe solo di correggere la motivazione ai sensi dell'art.
384 c.p.c., u.c..
È
noto che il legislatore della "privatizzazione" del rapporto di pubblico
impiego non ha introdotto la giurisdizione esclusiva in capo al giudice
ordinario, alla stregua di quanto previsto in capo al giudice amministrativo
nella precedente disciplina. Dallo "sdoppiamento" di attribuzione tra giudice
del provvedimento e giudice dell'atto di gestione, emergono profili problematici
quanto all'ambito di protezione riservato al dirigente (ma anche a qualsiasi
dipendente pubblico), stante la portata lesiva che nei suoi confronti può
assumere un atto generale di organizzazione, sia ex sè, sia in quanto
presupposto illegittimo per l'assunzione di un atto paritetico. E detta
efficacia lesiva risulta ancor più accentuata da quella giurisprudenza
(la già citata Cass. n. 13169/2006) che, proprio in tema di variazione
della pianta organica di un ente pubblico, ritiene che non è consentito
al titolare del diritto soggettivo, che risente degli effetti di un atto
amministrativo, di scegliere, per la tutela del diritto, di rivolgersi
al giudice amministrativo per l'annullamento dell'atto, oppure al giudice
ordinario per la tutela del rapporto di lavoro previa disapplicazione dell'atto
presupposto.
Invero,
una volta ricondotte le espressioni della potestà amministrativa
nei ristretti limiti segnati al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2, comma
1, non sono molti i casi in cui un atto amministrativo di autorganizzazione
può essere astrattamente considerato come immediatamente e direttamente
lesivo degli interessi dell'impiegato pubblico; è vero invece che,
come nella specie, sono molto frequenti i casi in cui l'atto di gestione
del rapporto non è altro che la mera applicazione dell'atto di autorganizzazione.
Nel caso in esame il provvedimento organizzatorio di eliminazione di tutte
le posizioni dirigenziali (ad esclusione di quella tecnica) ha avuto come
immediata conseguenza la revoca degli incarichi prima della scadenza prefissata,
la dichiarazione di eccedenza dei due dirigenti e la loro messa in disponibilità.
In altri casi l'effetto lesivo per i pubblici dipendenti può derivare
da una
ristrutturazione
della pianta organica con soppressione di alcuni uffici, che determina
la collocazione in disponibilità del personale che vi era addetto.
Tuttavia
lo stretto nesso tra il provvedimento amministrativo di autorganizzazione
e l'atto paritetico di gestione del rapporto di lavoro, non può
condurre a negare che, anche in questi casi, il giudice ordinario possa
conoscere della situazione giuridica soggettiva dedotta dal lavoratore.
Infatti ciò che il giudice del lavoro deve accertare è la
legittimità degli atti di gestione del rapporto, nella specie dell'atto
di revoca degli incarichi dirigenziali, e degli atti conseguenti.
8.1.
Poiché il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, conferisce al giudice
del rapporto la possibilità di verificare la legittimità
del provvedimento amministrativo presupposto di autorganizzazione (giacché
il datore di lavoro pubblico è astretto in ciò ad una precisa
disciplina, a differenza del datore di lavoro privato) e di disapplicarlo
ove ne ravvisi la contrarietà alle regole, la disapplicazione conduce
necessariamente a negare ogni effetto, tra le parti, all'atto generale
di organizzazione, privando così di fondamento l'atto di gestione
consequenziale.
Osserva
tuttavia parte della dottrina che il giudice, nel ripristinare la posizione
sostanziale lesa del dipendente, non può però ignorare che
l'atto organizzativo generale, non solo esiste, ma sarebbe anche definitivamente
stabile, non essendo stato eliminato dal giudice amministrativo, a cui
nessuno ha fatto ricorso, e non potendo essere annullato dal giudice ordinario,
di talché il giudice del lavoro potrebbe fornire solo quei rimedi
che siano compatibili con il provvedimento generale presupposto. Nella
specie, non essendovi più le posizioni dirigenziali rivestite dai
ricorrenti, non sarebbe possibile disporre la riassegnazione agli interessati
delle precedenti mansioni dirigenziali, e non resterebbe che la tutela
risarcitoria.
8.2.
Vi è tuttavia da considerare che la legge non ha escluso l'operatività
del meccanismo della disapplicazione dell'atto organizzativo illegittimo
nei casi in cui, come nella specie, l'atto di gestione del rapporto di
lavoro sia meramente applicativo di esso;
risulta
quindi "insito nel sistema" che il provvedimento di macro organizzazione
(non sottoposto ad annullamento) da un lato rimanga operativo in via generale,
e, dall'altro, essendo privato di effetti nei confronti del dipendente
interessato, non valga a sorreggere l'atto di gestione consequenziale,
comportando il pieno ripristino della situazione precedente, non potendosi
ipotizzare una disapplicazione "dimidiata", ristretta al solo aspetto risarcitorio.
Nel caso in esame, l'attribuzione del solo risarcimento non costituirebbe
effettiva "disapplicazione" dell'illegittimo provvedimento presupposto,
perché questo continuerebbe a giustificare la revoca dell'incarico
dirigenziale e i conseguenti provvedimenti che sono culminati, per quanto
riguarda il Ficarra, con il licenziamento a seguito del decorso dei ventiquattro
mesi di collocazione in disponibilità.
Invero,
in tal caso, la situazione che si viene a creare non sembra dissimile rispetto
a quanto avviene nel lavoro privato, in relazione alle pronunzie di reintegra
nel posto di lavoro conseguenti a sentenze che ravvisino la illegittimità
del licenziamento e che intervengano a distanza di tempo: anche in questi
casi la posizione lavorativa, il reparto, le funzioni precedentemente svolte
possono non esistere più, eppure non per questo si è mai
ritenuto di negare la pronunzia di reintegra nel posto di lavoro, giacché
una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere,
altra cosa è la sua idoneità ad essere eseguito in forma
specifica. Si tratta invero dei consueti limiti che incontra la tutela
del lavoratore e che attengono non già al giudizio di cognizione
ma alla fase esecutiva, in cui peraltro non può escludersi l'adempimento
spontaneo da parte del datore. D'altra parte, ai sensi del D.Lgs. 30 marzo
2001, n. 165, art. 63, comma 2, il giudice adotta, nei confronti delle
PA, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna ritenuti
necessari e, precisa la disposizione, che siano richiesti dalla natura
dei "diritti" tutelati, e non vi è dubbio che il dipendente vanti
un diritto soggettivo, di talché è consentito condannare
la PA ad un facere a seguito della disapplicazione. Precisandosi che, in
ogni caso, la riassegnazione è limitata alla durata residua di cui
all'atto di attribuzione originario, dedotto il periodo di illegittima
sottrazione.
8.3
Quanto poi alle conseguenze che si determinano sul piano del rapporto di
lavoro, il conferimento dell'incarico dirigenziale determina (accanto al
rapporto fondamentale a tempo indeterminato, secondo il cd. sistema "binario")
l'instaurazione di contratto a tempo determinato, il quale, ai sensi dell'art.
2119 c.c., è passibile di recesso prima della scadenza solo per
giusta causa, che nella specie fu indicata dal Comune come dovuta al provvedimento
di soppressione delle posizioni dirigenziali, il quale però, essendo
contra legem, non può valere come giustificazione. La norma codicistica
citata non precisa le conseguenze che si determinano sul rapporto di lavoro
a tempo determinato in caso in cui il recesso ante tempus non sia assistito
dalla giusta causa, tuttavia, a fronte dell'inadempimento datoriale, i
dirigenti ben potevano chiedere, in forza dell'art. 1453 c.c., la condanna
dell'Amministrazione all'adempimento, per cui, una volta ritenuta illegittima
la revoca, riacquista efficacia l'originario provvedimento di conferimento
dell'incarico dirigenziale. Infatti, a seguito di questo, la posizione
del dirigente aveva ormai acquisito lo spessore del diritto soggettivo
allo svolgimento, non più di un qualsiasi incarico dirigenziale,
ma proprio di quello specifico che era stato attribuito.
Va ancora
negato, sotto questo aspetto, il parallelismo tra dirigenti pubblici e
dirigenti privati, giacché se è vero che a questi ultimi
è negata la tutela ripristinatoria, è vero anche che per
essi il rapporto è a tempo indeterminato, mentre l'incarico conferito
al dirigente pubblico è esclusivamente temporaneo, di talché
la pronunzia di ripristino ha in ogni caso effetti limitati, inevitabilmente
circoscritti alla scadenza prefissata. 8.5 Si trae conferma della possibilità
di riassegnazione dell'incarico dirigenziale illecitamente revocato dai
principi enunciati in molteplici pronunzie della Corte Costituzionale in
materia del cd. spoil system (Corte Cost. n. 233/2006, n. 104 del 2007,
n. 103/2007) e quindi in casi che, benché innegabilmente diversi
da quello in esame, fanno tuttavia comprendere i parametri entro i quali
va collocata la tutela riservata al dirigente pubblico, in termini di effettività.
Nell'ultima
pronunzia citata il Giudice delle leggi ha affermato che la prevista contrattualizzazione
della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità
di recedere liberamente dal rapporto di ufficio e che quest'ultimo, sul
quale si innesta il rapporto di servizio sottostante, pur se caratterizzato
dalla temporaneità dell'incarico, deve essere connotato da specifiche
garanzie, in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell'azione
amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo
politico - amministrativo e quelli di gestione, affinché il dirigente
possa esplicare la propria attività in conformità ai principi
di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa ex
art. 97 Cost.. Ha aggiunto la Corte che, a regime, la revoca delle funzioni
legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza solo
di una accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati
presupposti ed all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato.
Inoltre,
con la sentenza n. 381 del 2008, la medesima Corte ha dichiarato la illegittimità
costituzionale della L.R. Lazio n. 8 del 2007, con la quale, in caso di
decadenza dalla carica conseguente a pronunzie della Corte Costituzionale,
si dava alla Giunta regionale la facoltà alternativa o di procedere
al reintegro nelle cariche, con ripristino dei relativi rapporti di lavoro,
oppure di procedere ad un'offerta di equo indennizzo. In detta pronunzia
la Corte ha affermato che in questi casi "forme di riparazione economica,
quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute
dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente
licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti
efficaci di tutela lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi....".
Inoltre, con la sentenza n. 3929 del 20 febbraio 2007 questa Corte ha affermato
che "dichiarato nullo e inefficace il licenziamento di un dirigente comunale
per motivi disciplinari inerenti alla responsabilità dirigenziale,
il dirigente stesso ha diritto alla reintegrazione nel rapporto di impiego
e nel rapporto di incarico, oltre che alle retribuzioni sino all'effettiva
reintegrazione." 9. Resta da affermare che anche il D'Amato, pur avendo
reperito, durante il periodo di collocazione in disponibilità un
altro incarico dirigenziale, ha ugualmente interesse alla pronunzia, al
pari di quanto avviene per il dipendente privato illecitamente licenziato
che chieda la tutela giudiziale, pur avendo reperito nelle more un'altra
occupazione.
10.
La sentenza impugnata in questi punti della controversia va quindi cassata,
affermandosi il seguente principio di diritto: "in caso di illegittimità,
per contrarietà alla legge, del provvedimento di riforma della pianta
organica di un comune, con soppressione delle posizioni dirigenziali, questo
deve essere disapplicato dal giudice ordinario, con conseguente perdita
di effetti dei successivi atti di gestione del rapporto di lavoro, costituiti
dalla revoca dell'incarico dirigenziale, non sussistendo la giusta causa
per il recesso ante tempus dal contratto a tempo determinato che sorge
a seguito del relativo conferimento, con diritto del dirigente alla riassegnazione
di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata,
detratto il periodo di illegittima revoca."
11.
Il Ficarra con il sesto mezzo, che corrisponde al quarto mezzo del D'Amato,
denunzia violazione dell'art. 2059 c.c. e degli articoli 1, 2, 3, 4, 35,
97 e 98 Cost., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell'art. 185
c.p. per avere, il giudice dell'appello, rigettato la domanda di condanna
al risarcimento dei danni morali per mancanza di reato, trattandosi di
diritti inviolabili della persona. Con il settimo mezzo il Ficarra e con
il quinto il D'Amato denunziano ancora violazione dell'art. 2059 c.c. in
relazione all'art. 323 c.p. nonché degli artt. 1374 e 1375 c.c.
per avere escluso la sentenza impugnata l'ipotesi di reato di abuso d'ufficio
a danno di essi ricorrenti e difetto di motivazione.
Con
l'ottavo motivo il Ficarra denunzia difetto di motivazione in relazione
al mancato accoglimento del risarcimento del danno esistenziale.
Questi
ultimi motivi, che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente,
non sono fondati.
Le Sezioni
unite di questa Corte, con la sentenza n. 26972 dell'11 novembre 2008 si
sono espresse sulla risarcibilità del danno morale ex art. 2059
c.c.. La pronunzia ha ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile
nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi:
le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso
(fatto illecito integrante reato) e quello in cui la risarcibilità,
pur non essendo prevista da norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla
base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059
c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della
persona direttamente tutelato dalla legge. Nella medesima sentenza è
stato aggiunto che il danno non patrimoniale costituisce una categoria
ampia ed onnicomprensiva, all'interno della quale non è possibile
ritagliare ulteriori sotto categorie. Pertanto il c.d. danno esistenziale,
inteso quale "il pregiudizio alle attività non remunerative della
persona" causato dal fatto illecito lesivo di un diritto costituzionalmente
garantito, costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non
può essere liquidato separatamente sol perché diversamente
denominato.
Ciò
vale a rigettare l'ultimo motivo di ricorso del Ficarra, non avendo il
danno esistenziale richiesto una valenza autonoma e quindi non essendo
cumulabile m relazione al danno morale.
Infine
per quanto attiene alla prova del danno, le SS.UU. hanno ammesso che essa
possa fornirsi anche per presunzioni semplici, fermo restando però
l'onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto da cui desumere
l'esistenza e l'entità del pregiudizio. Applicando detti principi
nella fattispecie in esame, si deve concludere che, anche volendo riconoscere
il diritto al risarcimento dei danni morali, i motivi vanno rigettati per
l'assorbente ragione che, essendosi le censure concentrate esclusivamente
sulla questione della risarcibilità, nessuna allegazione in fatto
è stata effettuata sulla esistenza del pregiudizio, ne' si è
lamentato la mancata valutazione, da parte della Corte territoriale, di
elementi in fatto dedotti nei gradi di merito e non valutati. Il danno,
infatti, non è "in re ipsa" (nello stesso senso Cass. SU n. 6572
del 24 marzo 2006), ma va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti
dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni,
per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi, che solo dall'interessato
possono essere dedotti, si possa, attraverso un prudente apprezzamento,
coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno,
facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali
derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo
e nella valutazione delle prove.
Vanno
quindi affermati i seguenti principi di diritto: "Il danno c.d. esistenziale,
non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel
danno morale, non può essere liquidato separatamente solo perché
diversamente denominato. Il diritto al risarcimento del danno morale, in
tutti i casi in cui è ritenuto risarcibile, non può prescindere
dalla allegazione da parte del richiedente, degli elementi di fatto dai
quali desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio."
Conclusivamente,
va affermata la giurisdizione del giudice ordinario, vanno integralmente
rigettati entrambi i ricorsi proposti dal Comune di Limbiate (quello principale
nei confronti del D'Amato e quello incidentale nei confronti del Ficarra).
Vanno
accolti i primi cinque motivi del ricorso principale del Ficarra e i primi
tre motivi del ricorso incidentale del D'Amato, mentre vanno rigettati
tutti gli altri motivi proposti da entrambe le parti private.
La sentenza
impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altro
Giudice, che si designa nella Corte d'appello di Milano, in diversa composizione,
la quale deciderà la causa attenendosi ai principi sopra illustrati,
provvedendo anche alla decisione sulle ulteriori pretese economiche del
Ficarra di cui al quarto motivo, in relazione al diritto alle retribuzioni
fino alla effettiva riammissione in servizio. Il Giudice del rinvio provvederà
anche per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE
Riunisce
i quattro ricorsi. Dichiara la giurisdizione dell'AGO e rigetta integralmente
il ricorso principale proposto dal Comune nei confronti del D'Amato e quello
incidentale proposto nei confronti del Ficarra. Accoglie i primi tre motivi
del ricorso incidentale del D'Amato ed i primi cinque motivi del ricorso
principale del Ficarra, rigetta tutti gli altri; cassa la sentenza impugnata
in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte
d'appello di Milano in diversa composizione.
Così
deciso in Roma, il 4 novembre 2008.
Depositato
in Cancelleria il 16 febbraio 2009
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