Corte Cost., 30 aprile 1999 n. 148
L'occupazione appropriativa nella giurisprudenza della
Corte Costituzionale con breve commento di Federico Lorenzini
Con la sentenza in esame la Corte Costituzionale
ha preso posizione su alcune importanti e
controverse questioni in materia di occupazione appropriativa. In primo luogo
ha riconosciuto la legittimità costituzionale dell'istituto di creazione
giurisprudenziale anche nell'ipotesi in cui il legislatore preveda un
risarcimento del danno non integrale ossia inferiore al valore venale
dell'area su cui l'opera è stata realizzata.
Infatti, con l'articolo 3, comma 65, della legge n.
662 del 1996 è stato novellato il comma 7 bis dell'articolo 5 bis della legge
359 del 1992, disponendo che in caso di occupazione illegittima di suoli per
causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si
applicano i criteri di determinazione dell'indennità di cui al primo comma
dello stesso articolo 5 bis, con esclusione della riduzione del 40 per cento,
e con un aumento del dieci per cento. La nuova disposizione si applica allo sola occupazione appropriativa di aree edificabili,
mentre per le aree agricole trova applicazione il criterio del valore venale
(Cass., sez. I, 3 marzo 1998, n. 2336), tenuto conto delle concrete
possibilità di utilizzazione del bene compatibili con la zona (Cass., sez. I,
16 luglio1997, n. 6510). La norma si applica anche ai giudizi in corso purché
la sentenza di primo grado sia impugnata con riferimento alla determinazione
del danno (Cass, sez. I, 12 maggio 1998, n. 4759). La nuova disposizione di
cui all'articolo 3, comma 65, della legge n. 662 del
1996 è stata ritenuta non in contrasto con la Costituzione ne’
per quanto concerne l’ammontare ridotto del risarcimento dovuto per le aree
edificabili, ne’ sotto il profilo della temporaneità del regime ne’, infine,
in ordine al differente trattamento tra aree edificabili, per le quali opera
la riduzione del risarcimento rispetto al valore venale, e le aree agricole
che vanno risarcite integralmente (Corte Cost., 30 aprile 1999, n. 148).La
sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, poi, conferma l’orientamento
giurisprudenziale diretto a limitare l’ambito di applicazione della
disposizione ai soli casi di opera realizzata in
pendenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità. Infatti, la
sentenza condivide l’indirizzo giurisprudenziale di legittimità (Casus., sez. I, n. 6515 del 16 luglio 1997; n. 7998) secondo
cui le norme sul risarcimento, in caso di occupazione appropriativa, si
applicano alle sole occupazioni illegittime dei suoli per causa di pubblica
utilità, per cui in mancanza di valida dichiarazione di pubblica utilità (cui
viene equiparata la dichiarazione annullata perché illegittima) si è al di
fuori delle ipotesi contemplate per il risarcimento dalla norma denunciata.
La questione è stata, pertanto, ritenuta manifestamente inammissibile per
tali ipotesi in quanto non è diretta a
disciplinarle.
La norma, poi, non si applica alle occupazioni illegittime posteriori al 30
settembre 1996 per le quali, pertanto, trova applicazione il principio
generale del risarcimento integrale del danno, salvi futuri interventi
legislativi. La differenziazione del criterio di liquidazione del danno
rispetto alla espropriazione determina la
sussistenza dell'interesse al ricorso avverso gli atti della procedura
espropriativa anche in caso di realizzazione dell'opera con conseguente
impossibilità di ottenere la retrocessione del bene in quanto, per effetto
dell'annullamento degli atti, insorge il diritto del proprietario del fondo
al risarcimento dei danni (Cass., Sez. Un., 12 novembre 1997, n. 11147). Tali
principi sono ricavabili dalla motivazione della sentenza sotto riportata.
.Omissis"
Considerato in diritto
1.- Le questioni sottoposte all’esame della Corte riguardano
l'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con
modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3,
comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica), il quale prevede che "in caso di occupazione
illegittima di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente
al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di
determinazione dell’indennità di cui al comma 1" (quella, cioè, prevista
per la espropriazione dei suoli edificatori: semisomma tra valore di mercato
e reddito catastale rivalutato, decurtata del 40%) con esclusione della
riduzione del 40 per cento, che "in tal caso l’importo del risarcimento
è altresì aumentato del 10 per cento", e che tale disposizione si
applica anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in
giudicato. Si assume la illegittimità costituzionale
della disposizione denunciata per violazione:
a) dell’art. 3 della Costituzione (invocato, in
alcune ordinanze, limitatamente al primo comma, in altre nel suo complesso),
sotto i diversi profili:
a.1) del deteriore trattamento riservato a chi subisce danno da occupazione appropriativa,
che non ottiene l’integrale ristoro dello stesso, rispetto a tutti gli altri
soggetti ai quali viene arrecato danno da fatto
illecito altrui e che, ai sensi dell’art. 2043 cod.civ., hanno diritto al
risarcimento integrale del danno stesso;
a.2) della sostanziale identità di trattamento di situazioni diversificate, quali quella del soggetto sottoposto ad una
legittima procedura espropriativa, e di quello illegittimamente privato della
proprietà del suolo in virtù di c.d. occupazione acquisitiva da parte della
p.a.: identità sostanziale di trattamento che risulta dalla circostanza che,
nel secondo caso, l’indennità viene aumentata del solo 10 per cento, mentre
la esclusione della decurtazione del 40 per cento, decurtazione prevista nei
casi di espropriazione, viene in tali ipotesi ottenuta ugualmente attraverso
la cessione volontaria dei beni, che non è possibile in caso di occupazione
acquisitiva;
a.3) della irragionevole disparità di trattamento
tra i proprietari assoggettati alla occupazione illegittima entro il 30
settembre 1996, cui si applicano, per il risarcimento del danno, criteri
sostanzialmente uguali a quelli previsti in caso di espropriazione, e quelli
che subiscono tale occupazione in epoca successiva a quella data, i quali
hanno diritto all’integrale risarcimento; nonché tra coloro che non hanno
visto ancora definiti i relativi rapporti al momento della entrata in vigore
della disciplina di cui si tratta, che è ad essi applicabile, ed i titolari
di situazioni ormai definite con sentenza passata in giudicato, che sfuggono
alla disciplina stessa;
a.4) della irragionevole disparità di trattamento
cui dà luogo la disciplina censurata rispetto a quella prevista per le
occupazioni appropriative destinate al soddisfacimento di esigenze abitative,
di cui all’art. 3 della legge n. 458 del 1988 (come ampliato nella sua sfera
oggettiva dalla pronuncia additiva della Corte costituzionale n. 486 del
1991), che prevede l’integrale risarcimento del danno subito (rilievo svolto
dalla sola Corte d’appello di Reggio Calabria con ordinanza R.O. n. 292 del
1977);
a.5) della irragionevole disparità di trattamento
rispetto all’ipotesi di occupazione ab initio illegittima, in quanto non
assistita da dichiarazione di pubblica utilità ovvero presidiata da
dichiarazione poi venuta meno perché illegittima, ipotesi estranee alla
previsione normativa censurata, e nelle quali, pertanto, il privato potrebbe
legittimamente aspirare all’integrale risarcimento del danno (rilievo svolto
dalla sola Corte d’appello di Reggio Calabria con l’ordinanza sopra citata);
a.6) della irragionevolezza della scelta del
legislatore, che avrebbe ridotto in misura eccessiva, nelle ipotesi di
occupazione illegittima della p.a., il risarcimento rispetto al ristoro
integrale del danno, ed in misura esigua rispetto all’indennità di esproprio,
per una preponderante valutazione del concorso dell’interesse pubblico, già
considerato ampiamente ai fini della determinazione dell’effetto
estintivo-acquisitivo della proprietà, e che, pertanto, in sede di
liquidazione del danno, avrebbe dovuto essere oggetto di una minore
valutazione;
a.7) della disparità di trattamento che la norma
determinerebbe tra le ipotesi di espropriazione legittima dei suoli agricoli
o non edificabili - rispetto ai quali l’indennizzo viene commisurato, ai
sensi del comma 4 dell’art. 5-bis del d.l. n. 333, convertito, con
modificazioni, nella legge n. 359 del 1992, al valore agricolo medio, e,
quindi, secondo un criterio prossimo a quello del valore venale - ed i casi
di occupazione illegittima degli stessi, in cui l’ammontare del risarcimento
dovuto sarebbe quantificato ad un livello inferiore al valore venale del bene
(rilievo svolto dal Tribunale di Potenza con le ordinanze nn. 735 del 1997 e
408 del 1998).
b) dell’art. 42 della Costituzione (invocato da
alcuni giudici limitatamente al secondo ovvero al terzo comma, da altri nel
suo complesso), in quanto la esigua misura riconosciuta per il risarcimento
non costituirebbe adeguata tutela del diritto di proprietà, ed inoltre perché
l’indennizzo previsto dalla Costituzione in caso di esproprio presuppone una
procedura legittima laddove un comportamento illegittimo sarebbe sempre fonte
dell’obbligazione di ripristinare lo status quo ante, direttamente o per
equivalente; infine, in quanto la norma impugnata creerebbe il rischio di
ricorso ad una forma anomala di espropriazione, svincolata dall’osservanza di
garanzie procedurali (rilievo del Tribunale di S. Maria Capua Vetere);
c) dell’art. 10, primo comma, della Costituzione, per il contrasto con gli
artt. 7, 8 e 17, secondo comma, della dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, e con l’art. 13 della convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà, che sanciscono il
diritto di ogni persona al rispetto dei suoi beni (censura proposta dalla
Corte d’appello di Cagliari con ord. R.O. n. 417 del 1977);
d) dell’art. 24, primo comma, della Costituzione, per il contrasto con il
principio della effettività della tutela
giurisdizionale, che non sarebbe garantito dalla riduzione della entità del
risarcimento da fatto illecito consistente nella occupazione illegittima di
un suolo ad opera della p.a. (censura proposta dalla sola Corte d’appello di
Cagliari, con l’ordinanza sopra indicata);
e) dell’art. 28 della Costituzione, per il
sostanziale esonero da responsabilità per il pubblico funzionario in caso di
occupazione illegittima, non potendo la causazione di un danno aggiuntivo
limitato per la p.a., tra l’altro bilanciata dal soddisfacimento dell’interesse
alla conservazione dell’opera pubblica, essergli addebitata a titolo di colpa
grave e configurandosi i casi di dolo come ipotesi eccezionali (censura
proposta dalla Corte d’appello di Cagliari con ord. R.O. n. 417 del 1997,
dalla Corte d’appello di Firenze con ordinanze R.O. nn. 788 e 789 del 1997, e
dal Tribunale di Lamezia Terme con le ordinanze R.O. nn. 423-426 del
1997);
f) dell’art. 53 della Costituzione, in quanto
porrebbe una notevole parte del costo dell’opera pubblica realizzata a
seguito di occupazione illegittima a carico del proprietario dell’area
occupata, in contrasto con il principio secondo il quale il concorso di
ciascuno alla sfera pubblica è commisurato alla sua capacità contributiva
(censura proposta dalla Corte d’appello di Cagliari con l’ordinanza sopra
menzionata);
g) degli artt. 71, primo comma, e 72, primo comma,
della Costituzione (invocati dalla Corte d’appello di Cagliari) in quanto la
norma in questione, essendo inserita in una legge che raccoglie in soli tre
articoli (ciascuno dei quali consistente in una lunghissima serie di commi)
disposizioni del tutto eterogenee, sarebbe stata approvata, avuto anche
riguardo alla circostanza che sulla legge di cui si tratta venne posta all’epoca
la questione di fiducia, senza che ciascun parlamentare potesse liberamente
manifestare, su ognuno degli articoli, la propria opinione e volontà;
h) dell’art. 97 della Costituzione (invocato da
alcuni giudici con riferimento al solo primo comma, da altri nel suo
complesso), in quanto la limitazione del risarcimento del danno arrecato
dalla p.a. contrasterebbe con le finalità di buon andamento ed imparzialità dell’azione
amministrativa (censura proposta dalla Corte di appello di Reggio Calabria
con ord. R.O. n. 292 del 1997, da quella di Cagliari con ord. R.O. n. 417 del
1997, da quella di Firenze con le ordinanze R.O. nn. 788 e 789 del 1997, dal
Tribunale di Lamezia Terme con le ordinanze R.O. nn. 423 - 426 del 1997, da
quello di Potenza con le ordinanze R.O. nn. 735 del 1997 e 408 del 1998, dal
Giudice istruttore del Tribunale di Torino con ordinanza R.O. n. 571 del
1997);
i) dell’art. 113, primo e secondo comma, della Costituzione, per la
limitazione della tutela giurisdizione nei confronti degli atti della p.a. (censura
proposta dalla Corte d’appello di Cagliari con ordinanza R.O.
n. 417 del 1997).
2.- I giudizi devono essere riuniti in quanto
riguardano la medesima disposizione di legge e propongono questioni in buona
parte coincidenti o connesse per cui si impone una trattazione unitaria delle
censure dedotte.
3.- Preliminarmente, devono essere esaminate le eccezioni di
inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato.
Al riguardo, va osservato che quelle proposte in relazione
alle ordinanze R.O. nn. 292, 571 e 573 del 1997, per mancanza di
rilevanza, sono prive di fondamento, in quanto le ordinanze di rimessione
contengono una motivazione tutt’altro che implausibile sulla rilevanza delle
questioni, che si impernia sulla considerazione che i giudici a quibus
debbono fare applicazione della norma denunciata, di cui è evidente l’incidenza,
in quanto il relativo giudizio riguarda il risarcimento e la liquidazione del
danno per occupazione appropriativa.
Ciò è sufficiente per respingere le eccezioni anzidette, non potendosi procedere
in questa sede ad un sindacato (diverso dal
controllo esterno) sul giudizio di rilevanza espresso dall’ordinanza di
rimessione in modo, come appena chiarito, non implausibile (v. per tutte,
sentenza n. 286 del 1997), e con motivazione tutt’altro che carente (v.
ordinanza n. 62 del 1997).
E’ invece fondata l’eccezione di inammissibilità
proposta sempre dall’Avvocatura generale dello Stato in riferimento
all’ordinanza R.O. n. 191 del 1997 sotto il profilo che la fattispecie
sarebbe palesemente non inscrivibile tra le occupazioni appropriative, atteso
il pacifico intervenuto annullamento in sede giurisdizionale della
dichiarazione di pubblica utilità. Infatti - secondo un indirizzo
giurisprudenziale di legittimità (Cass., sez. I, n. 6515 del 16 luglio 1997;
n. 7998) - le norme sul risarcimento in caso di occupazione appropriativa si
applicano alle sole occupazioni illegittime dei suoli per causa di pubblica
utilità, per cui in mancanza di valida dichiarazione di pubblica utilità (cui
viene equiparata la dichiarazione annullata perché
illegittima) si è al di fuori delle ipotesi contemplate per il risarcimento
dalla norma denunciata. La questione è, pertanto, manifestamente
inammissibile sulla base degli stessi elementi contenuti nella
ordinanza di rimessione.
4.- Passando all'esame del merito delle questioni sollevate nelle altre
ordinanze, giova premettere che con sentenza n. 369 del 1996 questa Corte ha
dichiarato la illegittimità costituzionale del comma
6 dell’art. 5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con
modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, come sostituito dall’art.
1, comma 65, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica), nella parte in cui applica al
"risarcimento del danno" i criteri di determinazione stabiliti per
"il prezzo, l’entità dell’indenizzo".
Il legislatore, con la norma denunciata, è intervenuto modificando il
precedente criterio applicato alle occupazioni acquisitive ed
in particolare ha escluso, in caso di occupazioni illegittime dei suoli per
causa di pubblica utilità, la decurtazione del 40 per cento prevista per l’indennità
di esproprio, aumentando inoltre l’importo del risarcimento del 10 per cento,
e con previsione di applicabilità alle occupazioni illegittime di suoli
intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, anche in relazione ai
procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato.
5.- Le questioni proposte sono prive di fondamento per una serie di ordini di considerazioni.
Innanzitutto la regola generale di integralità della
riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al
danneggiato non ha copertura costituzionale (sentenze n. 369 del 1996; n. 132
del 1985).
In casi eccezionali il legislatore può ritenere equa e conveniente una
limitazione al risarcimento del danno: nel caso delle occupazioni
appropriative "sussistono in astratto gli estremi giustificativi di un
intervento normativo ragionevolmente riduttivo della misura della riparazione
dovuta dalla pubblica amministrazione al proprietario dell’immobile che sia
venuto ad essere così incorporato nell’opera
pubblica" (sentenza n. 369 del 1996).
L’eccezionalità del caso appare giustificata nella fattispecie soprattutto
dal carattere temporaneo della norma denunciata, che rimane inserita in un
testo normativo con le caratteristiche, da un lato, della dichiarata
temporaneità, collegata alla emanazione di una nuova
disciplina organica per tutte le espropriazioni preordinate alla
realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, dall’altro, della
finalità egualmente temporanea e di emergenza, rivolta a regolare situazioni
passate.
6.- Alla stregua dei criteri riconfermati dalla citata sentenza n. 369 del
1996, deve ritenersi ragionevole la riduzione imposta dalla norma denunciata,
essendosi realizzato un equilibrato componimento dei contrapposti interessi
in gioco, con l’eliminazione della ingiustificata
coincidenza della entità dell'indennizzo per l’illecito della pubblica
amministrazione con quello relativo al caso di legittima procedura
ablatoria.
La valutazione dell’incremento (non irrisorio, né meramente apparente) a
favore del privato danneggiato, risultante nella norma denunciata - nei
termini sottolineati - rispetto alla previsione largamente riduttiva della
precedente norma colpita da dichiarazione di illegittimità
costituzionale, vale ad escludere quella irragionevolezza ritenuta nella
precedente formulazione normativa, e fondata essenzialmente sulla predetta
coincidenza (ora eliminata con apprezzabile differenziazione) di indennità in
caso di illecito e di procedura legittima dell’amministrazione.
Ciò soprattutto assume un significato, come sopra evidenziato, in
correlazione alla natura e al carattere eccezionale e
temporaneo della disposizione denunciata.
Né la limitazione temporale della operatività del
regime risarcitorio in questione alle occupazioni illegittime di suoli per
causa di pubblica utilità intervenute anteriormente al 30 settembre 1996 -
limitazione contenuta nell'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 -
può ritenersi in contrasto con il principio di ragionevolezza e con quello di
uguaglianza, ove si consideri la coincidenza di detta data con quella di
presentazione in Parlamento del disegno di legge collegato alla finanziaria per
il 1997 (dal quale sarebbe scaturita la citata legge n. 662 del 1996), e la
esigenza, che se ne inferisce, di salvaguardare una ineludibile, e limitata
nel tempo, manovra di risanamento della finanza pubblica, già predisposta, in
vista - come sottolineato dall'Avvocatura generale dello Stato - degli
impegni assunti in sede comunitaria.
Nemmeno può condividersi il rilievo in ordine alla
disparità di trattamento cui darebbe luogo la disposta applicazione del
regime risarcitorio di cui si tratta anche ai giudizi pendenti. Al riguardo, la Corte ha ripetutamente
affermato che il legislatore può, salvo il limite previsto in materia penale
dall'art. 25 della Costituzione, nell'introdurre una
nuova disciplina, prevederne la efficacia retroattiva, anche ove questa
incida sfavorevolmente su posizioni di diritto soggettivo perfetto, purché
non risultino violati specifici canoni costituzionali, primo fra i quali
quello della ragionevolezza (v., tra le altre, sentenze nn. 283 e 39 del
1993). Nella fattispecie, non confligge con tale principio l'attribuzione di
carattere retroattivo al criterio risarcitorio previsto per l'occupazione
acquisitiva dalla norma impugnata, non potendo costituire limite invalicabile
della discrezionalità legislativa l'aspettativa dei
titolari delle aree occupate a vedersi liquidato il danno secondo un criterio
più favorevole di quello ragionevolmente adottato dal legislatore
nell'attuale momento storico (v. sentenza n. 283 del 1993); ciò in special
modo quando si tratti di normativa diretta a sostituire una disciplina
dichiarata incostituzionale ed a regolare i rapporti pregressi in aderenza ai
principi enunciati dalla Corte.
Quanto alla lamentata disparità di trattamento rispetto ad altri casi relativi a suoli agricoli o ad occupazioni destinate al
soddisfacimento di esigenze abitative, è sufficiente rilevare che sotto il
profilo costituzionale non è preclusa la possibilità di diversi regimi
espropriativi e di calcolo dell'indennizzo in relazione alle differenti
categorie di beni espropriati e alle diverse finalità dell'intervento
pubblico, che può esigere un diverso bilanciamento dei contrapposti interessi
pubblici e privati.
7.- Le osservazioni che precedono danno ragione della infondatezza
delle censure sollevate in riferimento all'art. 3 della Costituzione nelle
diverse prospettazioni sopra riportate, e all'art. 42 della Costituzione,
(rispetto al quale la denunciata violazione dell'art. 10 della Costituzione
nulla aggiunge).
8.- Deve escludersi, poi, che si possa profilare un contrasto con l’art. 53 della Costituzione in quanto il richiamo a detto
precetto costituzionale risulta inconferente, poiché alla determinazione dell’indennizzo
anche nel caso di occupazione acquisitiva non può riconoscersi alcun
connotato tributario, per cui resta estraneo il principio della capacità
contributiva (cfr. ordinanza n. 395 del 1996).
9.- Quanto alla asserita violazione degli articoli
71, primo comma, e 72, primo comma, della Costituzione, va rilevato che la
censura nulla aggiunge ai profili già decisi nel senso dell'infondatezza
dalla sentenza n. 391 del 1995.
10.- Deve, altresì, essere esclusa la pertinenza del richiamo agli artt. 24 e
113 della Costituzione essendo estranea la norma a profili di tutela
giurisdizionale, per la quale non sussiste alcuna limitazione o restrizione
rispetto ai generali mezzi di ricorso.
11.- Egualmente deve essere escluso che dalla norma denunciata possano
derivare esoneri o limitazioni di responsabilità per i pubblici funzionari, i
quali continueranno a rispondere secondo le regole ordinarie per i danni che
abbiano arrecato alla pubblica amministrazione con il loro comportamento
negligente che abbia determinato l’illegittimità della procedura
espropriativa, danno che non si esaurisce solo nelle somme maggiori che l’amministrazione
è tenuta a corrispondere per gli indennizzi, ma anche per i ritardi nel
compimento dell’opera pubblica e per l’aggravio di lavoro che il contenzioso
arreca quasi sempre alla pubblica amministrazione.
Del resto la vastità del fenomeno delle occupazioni acquisitive e la abnorme frequenza di mancata conclusione regolare delle
procedure espropriative in alcune zone e regioni deve indurre gli organi
titolari delle azioni di responsabilità, nelle diverse sedi, a verificare la
sussistenza di ipotesi di dolo.
Ciò induce a ritenere infondati, oltre ai profili relativi all’art. 28 della Costituzione, anche quelli riferiti all'art. 97
della Costituzione, in quanto non sono certamente l’entità dell’indennizzo, o
la responsabilità conseguente, ad incidere sul buon andamento dell’amministrazione.
Questo non deriva, se non in misura marginale, dall'affermazione di
responsabilità patrimoniale più o meno estesa a
carico dei funzionari, ma piuttosto dai sistemi di controlli sulla legalità dell’azione
dei singoli organi, dall’esercizio dei poteri disciplinari di fronte alla
colpevole negligenza nel condurre le procedure di espropriazione e nell’esercizio
dei poteri-doveri di denuncia e di rapporto rispetto a comportamenti a
carattere doloso, profili che nulla hanno in comune con la norma denunciata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE
COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.
5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti
per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
nella legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della
legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica), sollevate in riferimento agli artt. 42, terzo comma, 3 e 28 della
Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale di Lecce; agli artt. 3,
primo comma, 42, secondo comma, 28 e 97 della Costituzione, dalla Corte
d'appello di Firenze; agli artt. 42, secondo comma, 3, primo comma, e 97,
primo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Reggio Calabria;
agli artt. 3 e 42 della Costituzione, dal Tribunale di Latina; agli artt. 3,
28, 42, 97, 10, primo comma, 24, primo comma, 53, 71, primo comma, 72, primo
comma, 113, primo e secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello
di Cagliari; agli artt. 3, 28, 42, secondo e terzo comma, e 97, primo comma,
della Costituzione, dal Tribunale di Lamezia Terme; agli artt. 3, primo
comma, 42, secondo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dal
Tribunale di Potenza; agli artt. 3, 42, secondo comma, e 97 della
Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale di Torino; agli artt. 3,
primo comma, e 42, secondo comma, della Costituzione, dai Tribunali di Bari e
Udine; agli art. 3 e 42, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di
Lagonegro; agli artt. 3 e 42, terzo comma, della Costituzione dal Tribunale
di Santa Maria Capua Vetere, con le ordinanze indicate in epigrafe;
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale del predetto art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333
del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992,
sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 42, secondo comma,
della Costituzione, dalla Corte d'appello di Torino con l'ordinanza indicata
in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 aprile 1999.
F.to Renato GRANATA, Presidente
Riccardo CHIEPPA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in cancelleria il 30 aprile 1999.
|