Corte costituzionale – sentenza 22 – 24
ottobre 2007, n. 349,
sull’illegittimità costituzionale di una norma nazionale
rispetto all’art. 117,
primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa –
con una o
più norme della CEDU, , nell’interpretazione data dalla Corte di
Strasburgo, al
fine di garantire una tutela dei diritti fondamentali almeno
equivalente al
livello garantito dalla Costituzione italiana (fattispecie in materia
di
occupazione acquisitiva e di criteri risarcitori)
1.
La Corte di cassazione e la Corte d’appello di Palermo, con ordinanze
del 20
maggio e del 29 giugno 2006, hanno sollevato, in riferimento all’art.
111,
primo e secondo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6
della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà
fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU),
ratificata e
resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed
esecuzione della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà
fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo
addizionale
alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952),
nonché all’art.
117, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6 della
CEDU ed
all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato
a Parigi
il 20 marzo 1952 (infra, Protocollo), questione di
legittimità
costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del
decreto-legge 11
luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
pubblica)
– convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 –
comma
aggiunto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662
(Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica).
2. La Corte di cassazione premette che il giudizio
principale ha ad
oggetto una domanda proposta da alcuni privati nei confronti del Comune
di
Avellino e dell’Istituto autonomo case popolari (IACP) della stessa città, al fine di ottenerne la
condanna al risarcimento del danno subito a causa della occupazione
acquisitiva
di alcuni terreni di loro proprietà, sui quali sono stati
realizzati alloggi
popolari ed opere di edilizia sociale, nonché al pagamento
dell’indennità per
l’occupazione temporanea degli stessi immobili.
La stessa Corte, con sentenza del 14 gennaio 1998, n. 457, accogliendo
il
ricorso proposto dagli enti pubblici, aveva cassato con rinvio la
pronuncia
d’appello, ritenendo applicabile la norma censurata, la quale ha
introdotto un
criterio riduttivo per il computo del risarcimento del danno da
occupazione
acquisitiva.
Riassunto il giudizio, il giudice del rinvio ha, quindi, liquidato
l’indennità
in base alla disposizione censurata; la pronuncia è stata
impugnata dalle parti
private, che, tra l’altro, hanno eccepito l’illegittimità
costituzionale del
citato art. 5-bis, comma 7-bis.
2.1. La rimettente, dopo avere esposto le argomentazioni
che inducono ad
escludere l’abrogazione della norma denunciata ad opera dell’art. 111
Cost. –
come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2
(Inserimento
dei princìpi del giusto processo nell’articolo 111 della
Costituzione) – ovvero
dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in
caso di
violazione del termine ragionevole del processo e modifica
dell’articolo 375 del
codice di procedura civile), sintetizza le pronunce di questa Corte che
hanno
già scrutinato la norma censurata, in riferimento agli artt. 3,
28, 42, 53, 97
e 113 Cost.
L’ordinanza esamina, quindi, l’orientamento della Corte europea dei
diritti
dell’uomo in ordine all’interpretazione dell’art. 1 del Protocollo,
evolutosi
nel senso di garantire una più intensa tutela del diritto di
proprietà. In
particolare, ricorda che la previsione di un’indennità equitable
è stata
limitata al caso della espropriazione legittima e che il carattere
illecito
dell’occupazione è stato ritenuto rilevante al fine della
quantificazione
dell’indennità, sicché, qualora non sia possibile la
restituzione in natura del
bene, all’espropriato è dovuta una somma corrispondente al
valore venale.
Secondo il rimettente, la Corte europea, in alcune sentenze,
puntualmente
indicate, ha ritenuto che l’occupazione acquisitiva si pone in
contrasto con le
citate norme convenzionali, tra l’altro, nella parte in cui non
garantisce il
diritto degli espropriati al risarcimento del danno in misura
corrispondente al
valore venale del bene, affermando analogo criterio di computo per il
calcolo
dell’indennità nel caso di espropriazione legittima. Infatti,
detta indennità
può non essere commisurata al «valore pieno ed intero dei
beni» nei soli casi
di espropriazioni dirette a conseguire legittimi obiettivi di pubblica
utilità
e, tuttavia, questi ultimi sono stati individuati in quelli coincidenti
con
misure di riforme economiche o di giustizia sociale, ovvero strumentali
a
provocare cambiamenti del sistema costituzionale.
In seguito, la medesima Corte, con le sentenze indicate nell’ordinanza
di
rimessione, ha applicato questi principi anche in riferimento al
criterio
stabilito dal censurato art. 5-bis e, ritenuta irrilevante la
circostanza che questa norma era parte di una complessa manovra
finanziaria, ha
condannato lo Stato italiano al risarcimento commisurato alla
differenza tra
l’indennità percepita ed il valore venale del bene, reputando
che l’espropriato,
a causa del tempo trascorso, aveva visto leso il proprio affidamento ad
un
indennizzo calcolato in base a quest’ultimo parametro. In virtù
delle sentenze
di questa Corte n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983, il criterio di
liquidazione
per l’espropriazione delle aree edificabili avrebbe infatti dovuto
essere
quello del giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita
(art. 39
della legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per
causa di
utilità pubblica»); quindi, l’applicabilità del
sopravvenuto art. 5-bis
avrebbe leso il diritto della persona al rispetto dei propri beni,
anche perché
la disciplina fiscale incide ulteriormente sulla somma concretamente
percepita.
Pertanto, secondo la Corte di Strasburgo, l’espropriazione indiretta o
occupazione
acquisitiva – riconosciuta dalla legislazione (art. 43 del d.P.R. 8
giugno
2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative
e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità») e dalla
giurisprudenza italiane – sarebbe incompatibile con l’art. l del
Protocollo e
la norma censurata violerebbe la regola della riparazione integrale del
pregiudizio, realizzando una lesione aggravata dalla
retroattività della
disposizione e dalla sua applicabilità ai giudizi in corso.
In definitiva, la norma censurata è stata giudicata in contrasto
con l’art. 1
del Protocollo sotto i seguenti profili: in primo luogo, poiché
al solo scopo
di sopperire ad esigenze di bilancio, al di fuori di un contesto di
riforme
economiche o sociali, viola la regola della corresponsione di un valore
pari al
valore venale del bene; in secondo luogo, in quanto stabilisce un
criterio
riduttivo, fondato su di un parametro irragionevole anche nel caso di
espropriazione legittima; in terzo luogo, poiché dispone
l’applicabilità del
criterio ai giudizi in corso, in violazione dell’art. 6 della CEDU; in
quarto
luogo, poiché viola il principio di legalità ed il
diritto ad un processo equo,
dato che la disposizione ha inciso sull’esito di giudizi in corso, nei
quali erano
parti amministrazioni pubbliche, obbligando il giudice ad adottare una
decisione fondata su presupposti diversi rispetto a quelli sui quali la
parte
aveva legittimamente fatto affidamento all’atto dell’instaurazione
della lite.
2.2. Secondo la rimettente, benché la disposizione
censurata si ponga in
contrasto con le citate norme convenzionali, come interpretate dalla
Corte
europea, non sarebbe tuttavia ammissibile la sua “non applicazione”,
mentre la
Corte di cassazione talora ha affermato che il giudice nazionale
è tenuto ad
interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, in
modo
conforme alla CEDU ed all’interpretazione offertane dalla Corte di
Strasburgo,
talaltra ha attenuato l’efficacia vincolante delle sentenze della Corte
europea.
A suo avviso, nella specie non sarebbe configurabile il potere del
giudice
comune di “non applicare” la norma interna, in quanto sussistente
soltanto nel
caso di contrasto con norme comunitarie e fondato sull’art. 11 Cost. Il
paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht neppure
permetterebbe di
ritenere la avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, con
la conseguenza che
l’interpretazione della Convenzione non spetta alla Corte di giustizia
delle
Comunità europee, dichiaratasi incompetente a fornire elementi
interpretativi
per la valutazione da parte del giudice nazionale della
conformità delle norme
di diritto interno ai diritti fondamentali di cui essa garantisce
l’osservanza
(nel contesto comunitario), quali risultano dalla CEDU, quando
«tale normativa
riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del
diritto
comunitario» (sentenza 29 maggio 1997, causa C-299/1995).
Peraltro, la teoria dei “controlimiti” potrebbe far ipotizzare un
contrasto tra
la regola che commisura l’indennità di espropriazione al valore
venale del bene
ed il principio costituzionale in virtù del quale il diritto di
proprietà
sarebbe recessivo rispetto all’interesse primario dell’utilità
sociale. In ogni
caso, siffatta regola non è suscettibile di diretta applicazione
ai sensi
dell’art. 10 Cost., sia in quanto tale norma costituzionale non
concerne il
diritto pattizio, sia in quanto essa neppure esprime un valore
generalmente
riconosciuto dagli Stati e, comunque, in quanto il giudice nazionale,
se pure
potesse direttamente recepire l’interpretazione della Corte europea,
non
avrebbe il potere di stabilire una disciplina indennitaria sostitutiva
di
quella prevista dalla norma denunciata.
In conclusione, secondo la rimettente, il contrasto della norma interna
con le
norme convenzionali non può essere evitato attraverso
un’interpretazione secundum
constitutionem della prima e, d’altro canto, il giudice nazionale
non
potrebbe disapplicare la norma interna, provvedendo, in luogo del
legislatore,
a coordinare le fonti e ad affermare la prevalenza della fonte
convenzionale
sulla fonte interna.
2.3. L’ordinanza di
rimessione osserva che questa Corte, benché abbia ritenuto non
irragionevole la
retroattività della norma censurata (sentenza n. 148 del 1999),
non ha
scrutinato tale norma in riferimento all’art. 111 Cost.
Ad avviso del giudice a quo, il contenuto precettivo del
parametro
costituzionale evocato non sarebbe stato compiutamente approfondito e,
sebbene
l’intento del legislatore, di costituzionalizzare la disposizione
convenzionale, sia stato accantonato nel corso dei lavori preparatori,
ciò non
esclude che la giurisprudenza della Corte europea possa contribuire
alla sua
corretta interpretazione, anche tenendo conto della circostanza che la
collocazione della CEDU nella gerarchia delle fonti non è stata
ancora
chiarita. Pertanto, nella specie rileverebbe il fatto che la Corte di
Strasburgo ha ritenuto la norma censurata in contrasto con l’art. 6
della CEDU,
in quanto il principio della parità delle parti davanti al
giudice vieta al
legislatore di intervenire nella risoluzione di una singola causa, o di
una
determinata categoria di controversie. Le fattispecie decise dal
giudice
europeo sarebbero omologhe a quella oggetto del giudizio principale,
nella
quale i proprietari, espropriati nell’anno 1985 in forza della
occupazione
acquisitiva, hanno agito in giudizio per ottenere l’indennizzo di
natura
risarcitoria loro spettante in virtù dei principi enunciati
dalla Corte
regolatrice – fondati sull’art. 39 della legge n. 2359 del 1865 e
sull’art. 3
della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello Stato nella spesa
degli
enti locali in relazione ai pregressi maggiori oneri delle
indennità di
esproprio) – corrispondente al valore venale dei beni; il giudice di
merito
aveva accolto la domanda, applicando detto criterio; nel corso del
giudizio
innanzi alla Corte di cassazione è sopravvenuta la norma
impugnata che ha
diversamente commisurato l’indennizzo, disponendo
l’applicabilità del nuovo
criterio ai giudizi in corso non definiti con sentenza passata in
giudicato,
con il risultato di ridurre, a giudizio iniziato, l’indennizzo a poco
meno del
50 per cento rispetto a quello in vista del quale i proprietari avevano
instaurato il giudizio.
2.4. Secondo la Corte di cassazione, la norma denunciata
si porrebbe,
inoltre, in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., che, nel
testo
novellato a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, mira
ad
eliminare una lacuna del nostro ordinamento, determinata dal contenuto
dell’art.
10 Cost., stabilendo una regola vincolante anche per il legislatore
statale.
La disposizione censurata violerebbe il principio del giusto processo
ed il
diritto di proprietà, quali risultano dagli artt. 6 della CEDU
ed 1 del
Protocollo, come interpretati dalla Corte europea, e, conseguentemente,
il
citato art. 5-bis, comma 7-bis, sarebbe
costituzionalmente
illegittimo, in quanto in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.
3. La Corte d’appello di
Palermo espone di essere stata adita in sede di giudizio di rinvio
avente ad
oggetto le domande restitutorie e risarcitorie proposte da alcuni
privati, i
quali hanno dedotto che un suolo edificabile di loro proprietà
ha costituito
oggetto di un procedimento di espropriazione per la costruzione di
alloggi di
edilizia popolare ed è stato irreversibilmente trasformato, in
difetto della
adozione di regolare provvedimento di espropriazione; gli enti pubblici
si sono
costituiti nel giudizio contestando la fondatezza della domanda e
chiedendo che
siano applicate le norme recate dal d.P.R. n. 327 del 2001; è
stata inoltre
accertata l’irreversibile trasformazione del fondo.
Secondo il giudice a quo, il principio di diritto enunciato
nella
sentenza di rinvio comporta che il decreto di espropriazione
dell’immobile, in
quanto adottato dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 13 della
legge n.
2359 del 1865, è illegittimo e deve essere disapplicato. La
fattispecie oggetto
del giudizio va qualificata come occupazione acquisitiva, poiché
la
trasformazione del bene è stata realizzata in pendenza di una
valida
dichiarazione di pubblica utilità, quindi, alla data di scadenza
dei termini di
cui all’art. 13 della legge n. 2359 del 1865, il bene è stato
acquistato dagli
enti pubblici, a titolo originario, e gli attori sono titolari del
diritto ad
ottenere il risarcimento del danno. Nella specie sarebbe applicabile il
citato
art. 5-bis, comma 7-bis, mentre, ad avviso del
rimettente, alla
data di instaurazione del giudizio di primo grado (12 aprile 1984), le
parti
private, in virtù dei principi enunciati dalla sentenza delle
sezioni unite
della Corte di cassazione n. 1464 del 1983 e di quanto previsto
dall’art. 39
della legge n. 2359 del 1865, potevano fare affidamento sulla spettanza
di un
risarcimento del danno pari al valore venale del fondo, che invece la
norma
censurata ha dimezzato.
La Corte d’appello di Palermo censura, quindi, la norma in esame in
riferimento
agli stessi parametri costituzionali indicati dalla Corte di cassazione
e con
argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle svolte nella
relativa
ordinanza di rimessione, sopra sintetizzate.
4. Nel giudizio promosso
dalla Corte di cassazione è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato
che,
anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza
pubblica, ha chiesto
che la questione sia dichiarata infondata.
Secondo la difesa erariale, l’ordinanza di rimessione richiede di
accertare: a)
se, nel caso di contrasto di una norma interna con la giurisprudenza
della
Corte europea, prevalga la seconda; b) se l’eventuale
prevalenza della
giurisprudenza di detta Corte concerna anche le norme costituzionali.
A suo avviso, deve anzitutto escludersi che la Corte di Strasburgo, in
via
interpretativa, possa ridurre o estendere il contenuto delle norme
convenzionali; l’art. 32 del Protocollo n. 11 alla Convenzione, fatto a
Strasburgo l’11 maggio 1994, ratificato e reso esecutivo con la legge
28 agosto
1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla
convenzione di
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
recante
ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla
convenzione, fatto
a Strasburgo l’11 maggio 1994), stabilisce che la competenza di detta
Corte
concerne tutte le questioni concernenti l’interpretazione e
l’applicazione
della Convenzione e dei suoi protocolli, senza affatto prevedere un
potere
creativo di norme convenzionali vincolanti, inesistente nel sistema
della
Convenzione di Vienna ratificata con la legge 12 febbraio 1974, n. 112
(Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con
annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), «che vuole
testuale ed oggettiva
l’interpretazione di qualunque trattato».
Pertanto, se la Corte europea non ha titolo per dubitare della
legittimità, nel
diritto nazionale, della norma retroattiva e del sistema italiano di
calcolo
dell’indennizzo, non potrebbe essere censurata una disposizione
conforme agli
artt. 25 e 42 Cost.; inoltre, l’art. 111 Cost., contrariamente a quanto
sostiene la rimettente, non concerne la disciplina sostanziale e,
comunque,
l’art. 6 della CEDU non stabilisce il divieto di retroattività
della legge in
materia diversa da quella penale.
Secondo la difesa erariale, l’art. 117, primo comma, Cost., fa
riferimento ai
«vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali» che, come chiarisce l’art. 1 della legge 5 giugno
2003, n. 131
(Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla
legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sono quelli derivanti da
«accordi di
reciproca limitazione della sovranità di cui all’art. 11 della
Costituzione,
dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali» e
«nulla di tutto
ciò è nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo a
proposito delle leggi
retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, per le
quali opera,
tutta e sola, la disciplina delle fonti di produzione nazionale».
Analogamente,
l’art. 1 del Protocollo non disporrebbe, come invece ritiene la Corte
EDU, che
l’indennizzo per l’espropriazione debba coincidere con il valore venale
del
bene.
Infine, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sarebbe inesatta
anche
perchè il valore venale del bene è dato
dall’utilizzabilità dell’area per
edificare, ma nessuno strumento urbanistico lascia la dimensione del
terreno al
lordo delle esigenze derivanti dalla pianificazione. Secondo
l’interveniente,
l’esperienza insegna «che su un terreno di X mq l’area
edificabile al netto
degli spazi che servono per le opere di urbanizzazione e per l’assetto
del
territorio, è pari ad X/2» e, quindi, non è
irragionevole che la legge disponga
in detti casi una drastica riduzione del valore per metro quadro.
4.1. Nel giudizio di
costituzionalità si sono costituiti, con separati atti, le parti
del giudizio
principale, chiedendo l’accoglimento della questione, anche sulla
scorta di
argomentazioni in larga misura coincidenti con quelle svolte
nell’ordinanza di
rimessione.
Dopo avere esposto considerazioni storico-filosofiche a conforto del
principio
secondo il quale il diritto non può porsi in contrasto con il
senso comune del
giusto, le parti sostengono che non solo la norma censurata, ma anche
l’art. 3
della legge n. 458 del 1988 e le sentenze di questa Corte n. 384 del
1990 e n.
486 del 1991, nonché alcune sentenze della Corte di cassazione,
laddove negano
il diritto di quanti hanno subito un’occupazione acquisitiva di
conservare la
proprietà del bene e di ottenere un risarcimento pari al valore
venale del
bene, si porrebbero in contrasto con l’art. 1 del Protocollo.
La retroattività della norma denunciata è censurata anche
attraverso richiami
alla Costituzione francese del 1791, alla Costituzione degli Stati
Uniti
d’America e ad un ampio excursus storico, svolti per
evidenziare il
contrasto di detta norma con l’art. 1 del Protocollo, violato
altresì dal
riconoscimento dell’istituto dell’accessione invertita e dalla
legittimazione
di un’attività illecita quale fonte di acquisto del diritto di
proprietà da
parte della pubblica amministrazione.
Pertanto, secondo le parti, la norma in esame, configurando un fatto
illecito
come fonte di estinzione del diritto di proprietà del privato,
violerebbe
l’art. 10, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1, secondo comma,
del Protocollo,
nonché l’art. 53 Cost..
Infine, la disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 10, primo
comma, e
con l’art. 111, secondo comma, Cost., anche in relazione all’art. 6, n.
1,
della legge n. 848 del 1955, fermo restando l’obbligo di risarcire il
danno
conseguente dalla violazione del termine di durata ragionevole del
processo
(art. 2 della legge 24 marzo 2001, n.
89).
4.2. Nel giudizio è
intervenuta una società a r.l., chiedendo l’accoglimento della
questione e
deducendo di essere titolare di un interesse che ne legittimerebbe
l’intervento, in quanto parte di un altro processo avente anch’esso ad
oggetto
il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, sospeso sino
all’esito
del presente giudizio.
4.3. Infine, ha spiegato
intervento nel giudizio la Consulta per la Giustizia Europea dei
Diritti
dell’Uomo (CO.GE.DU.), in persona del legale rappresentante, la quale,
anche
nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica,
espone che non è
parte del processo principale «e non sarebbe direttamente toccata
dalla
legislazione oggetto del giudizio presupposto», poiché non
ha alcun interesse
particolare che possa riguardare l’espropriazione per pubblica
utilità.
Tuttavia, la legittimazione all’intervento si fonderebbe sulla
circostanza che l’esito
del giudizio inciderebbe sul conseguimento dei suoi scopi statutari e
sul suo
interesse ad una pronuncia che riconosca alle norme della CEDU rango
costituzionale.
5. Nel giudizio promosso
dalla Corte d’appello di Palermo è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
svolgendo, nell’atto di intervento e nella memoria depositata in
prossimità
della camera di consiglio, deduzioni identiche a quelle contenute
nell’atto di
intervento concernente il giudizio promosso dalla Corte di cassazione e
chiedendo che la Corte dichiari infondate le questioni.
5.1. Nel giudizio promosso dalla Corte d’appello di
Palermo si sono
altresì costituite, con atto depositato fuori termine, le parti
private del
processo principale.
Considerato
in diritto
1. Le
questioni sollevate dalla Corte di
cassazione e dalla Corte d’appello di Palermo investono l’art. 5-bis,
comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure
urgenti
per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con
modificazioni,
dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 –, comma aggiunto dall’art. 3, comma
65,
della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della
finanza
pubblica), il quale stabilisce: «In caso di occupazioni
illegittime di suoli
per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30
settembre 1996,
si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di
determinazione
dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione
del 40 per
cento. In tal caso l’importo del risarcimento è altresì
aumentato del 10 per
cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai
procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in
giudicato».
Secondo le ordinanze di rimessione, la norma si porrebbe in contrasto
con
l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6
della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà
fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU),
ratificata
e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed
esecuzione
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà
fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo
addizionale
alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed
all’art. 1 del
Protocollo addizionale, in quanto, disponendo l’applicabilità ai
giudizi in
corso della disciplina dalla stessa stabilita in tema di risarcimento
del danno
da occupazione illegittima e quantificando in misura incongrua il
relativo
indennizzo, violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto
di
proprietà di cui rispettivamente ai citati artt. 6 ed 1, come
interpretati
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, quindi
violerebbe i
corrispondenti obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Inoltre, detta disposizione si porrebbe in contrasto anche con l’art.
111,
primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU,
poiché la
previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso
violerebbe il principio
del giusto processo, in particolare sotto il profilo della
parità delle parti,
da ritenersi leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre
una
determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di
controversie.
2. I giudizi, avendo ad
oggetto la stessa norma, censurata in riferimento agli stessi parametri
costituzionali, per profili e con argomentazioni sostanzialmente
coincidenti,
devono essere riuniti e decisi con un’unica sentenza.
3. Preliminarmente, deve essere ribadita
l’inammissibilità degli
interventi della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti
dell’Uomo
(CO.GE.DU.) e di A. C. fu G. s.r.l., dichiarata con ordinanza della
quale è
stata data lettura in udienza, allegata alla presente sentenza.
Inoltre, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione
delle parti del
giudizio pendente dinanzi alla Corte d’appello di Palermo,
poiché avvenuta
oltre il termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n.
87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
computato
secondo quanto previsto dagli artt. 3 e 4 delle norme integrative per i
giudizi
davanti alla Corte costituzionale, da ritenersi perentorio (per tutte,
sentenza
n. 190 del 2006).
4. Le due ordinanze di rimessione hanno motivato non
implausibilmente in
ordine alle ragioni dell’applicabilità, in entrambi i giudizi,
della norma
censurata, anche a seguito della emanazione del d.P.R. 8 giugno 2001,
n. 327
(Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
di
espropriazione per pubblica utilità), nonché sulla
circostanza che gli stessi
hanno ad oggetto una fattispecie di occupazione acquisitiva,
disciplinata
appunto da detta norma.
Inoltre, in virtù di un principio che va confermato, la
questione di
legittimità costituzionale può avere ad oggetto anche
l’interpretazione
risultante dal «principio di diritto» enunciato dalla Corte
di cassazione (che
vincola questa stessa nel giudizio di impugnazione della sentenza
pronunciata
in sede di rinvio), in quanto il regime delle preclusioni proprio del
giudizio
di rinvio non impedisce di censurare la norma dalla quale detto
principio è
stato tratto (sentenze n. 78 del 2007, n. 58 del 1995, n. 257 del 1994,
n. 138
del 1993; ordinanza n. 501 del 2000)
Le questioni sono, quindi, ammissibili.
5. Le questioni vanno esaminate entro i limiti del thema
decidendum
individuato dalle ordinanze di rimessione, dato che, secondo la
consolidata
giurisprudenza di questa Corte, non possono essere prese in
considerazione le
censure svolte dalle parti del giudizio principale, con riferimento a
parametri
costituzionali ed a profili non evocati dal giudice a quo (ex
plurimis, sentenze n. 310 e n. 234 del 2006).
6. La questione sollevata in riferimento all’art. 117,
primo comma,
Cost., è fondata.
6.1. In considerazione
del parametro costituzionale evocato dai giudici a quibus e
delle
argomentazioni svolte in entrambe le ordinanze di rimessione, il
preliminare
profilo da affrontare è quello delle conseguenze del prospettato
contrasto
della norma interna con «i vincoli derivanti […] dagli obblighi
internazionali»
e, in particolare, con gli obblighi imposti dalle evocate disposizioni
della
CEDU e del Protocollo addizionale.
In generale, la giurisprudenza di questa Corte, nell’interpretare le
disposizioni della Costituzione che fanno riferimento a norme e ad
obblighi
internazionali – per quanto qui interessa, gli artt. 7, 10 ed 11 Cost.
– ha
costantemente affermato che l’art. 10, primo comma, Cost., il quale
sancisce
l’adeguamento automatico dell’ordinamento interno alle norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i
principi
generali e le norme di carattere consuetudinario (per tutte, sentenze
n. 73 del
2001, n. 15 del 1996, n. 168 del 1994), mentre non comprende le norme
contenute
in accordi internazionali che non riproducano principi o norme
consuetudinarie
del diritto internazionale. Per converso, l’art. 10, secondo comma, e
l’art. 7
Cost. fanno riferimento a ben identificati accordi, concernenti
rispettivamente
la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra lo Stato e la
Chiesa
cattolica e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali
diverse
da quelle espressamente menzionate.
L’art. 11 Cost., il quale stabilisce, tra l’altro, che l’Italia
«consente, in
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni», è invece la disposizione che ha permesso di
riconoscere alle norme comunitarie
efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del
2007; n. 170
del 1984).
Con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più
volte affermato
che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le
medesime, rese
esecutive nell’ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano
il rango
e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per
la
continuità dell’orientamento, sentenze n. 388 del 1999, n. 315
del 1990, n. 188
del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito
l’esclusione delle
norme meramente convenzionali dall’ambito di operatività
dell’art. 10, primo
comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate, si vedano le
sentenze n.
224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994).
L’inconferenza, in relazione alle norme della CEDU, e per quanto qui
interessa,
del parametro dell’art. 10, secondo comma, Cost., è resa chiara
dal preciso
contenuto di tale disposizione. Né depongono in senso diverso i
precedenti di
questa Corte in cui si è fatto riferimento anche a quel
parametro, dato che ciò
è accaduto essenzialmente in considerazione della coincidenza
delle
disposizioni della CEDU con le fonti convenzionali relative al
trattamento
dello straniero: ed è appunto questa la circostanza della quale
le pronunce in
questione si sono limitate a dare atto (sentenze n. 125 del 1977, n.
120 del
1967).
In riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che l’art.
11
Cost. «neppure può venire in considerazione non essendo
individuabile, con
riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna
limitazione
della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980),
conclusione che si
intende in questa sede ribadire. Va inoltre sottolineato che i diritti
fondamentali non possono considerarsi una “materia” in relazione alla
quale sia
allo stato ipotizzabile, oltre che un’attribuzione di competenza
limitata
all’interpretazione della Convenzione, anche una cessione di
sovranità.
Né la rilevanza del parametro dell’art. 11 può farsi
valere in maniera
indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte di
giustizia
della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di
disposizioni della
CEDU come principi generali del diritto comunitario.
È vero, infatti, che una consolidata giurisprudenza della Corte
di giustizia,
anche a seguito di prese di posizione delle Corti costituzionali di
alcuni
Paesi membri, ha fin dagli anni settanta affermato che i diritti
fondamentali,
in particolare quali risultano dalla CEDU, fanno parte dei principi
generali di
cui essa garantisce l’osservanza. È anche vero che tale
giurisprudenza è stata
recepita nell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea e,
estensivamente, nella
Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza da altre tre
istituzioni
comunitarie, atto formalmente ancora privo di valore giuridico ma di
riconosciuto rilievo interpretativo (sentenza n. 393 del 2006). In
primo luogo,
tuttavia, il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela
dei
diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività
interpretativa di
quest’ultima da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo,
è una
realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla
Comunità europea
creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto
del
Trattato di Maastricht del 1992.
In secondo luogo, la giurisprudenza è sì nel senso che i
diritti fondamentali
fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di
cui il
giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri ed in particolare alla
Convenzione di
Roma (da ultimo, su rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale
belga,
sentenza 26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordini avvocati c. Consiglio,
punto
29). Tuttavia, tali princìpi rilevano esclusivamente rispetto a
fattispecie
alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti
comunitari,
poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine
le
deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal
rispetto
dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT). La
Corte di
giustizia ha infatti precisato che non ha tale competenza nei confronti
di
normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto
comunitario
(sentenza 4 ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of
Unborn
Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/95, Kremzow): ipotesi
che si
verifica precisamente nel caso di specie.
In terzo luogo, anche a prescindere dalla circostanza che al momento
l’Unione
europea non è parte della CEDU, resta comunque il dato
dell’appartenenza da
tempo di tutti gli Stati membri dell’Unione al Consiglio d’Europa ed al
sistema
di tutela dei diritti fondamentali che vi afferisce, con la conseguenza
che il
rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri,
non
essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle
(né
esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto
variamente ma
saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale. Né,
infine, le
conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 21
e 22
giugno 2007 e le modifiche dei trattati ivi prefigurate e demandate
alla
conferenza intergovernativa sono allo stato suscettibili di alterare il
quadro
giuridico appena richiamato.
Altrettanto inesatto è sostenere che la incompatibilità
della norma interna con
la norma della CEDU possa trovare rimedio nella semplice non
applicazione da
parte del giudice comune. Escluso che ciò possa derivare dalla
generale
“comunitarizzazione” delle norme della CEDU, per le ragioni già
precisate,
resta da chiedersi se sia possibile attribuire a tali norme, ed in
particolare
all’art. 1 del Protocollo addizionale, l’effetto diretto, nel senso e
con le
implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto,
in
particolare la possibilità per il giudice nazionale di
applicarle direttamente
in luogo delle norme interne con esse confliggenti. E la risposta
è che, allo
stato, nessun elemento relativo alla struttura e agli obiettivi della
CEDU
ovvero ai caratteri di determinate norme consente di ritenere che la
posizione
giuridica dei singoli possa esserne direttamente e immediatamente
tributaria,
indipendentemente dal tradizionale diaframma normativo dei rispettivi
Stati di
appartenenza, fino al punto da consentire al giudice la non
applicazione della
norma interna confliggente. Le stesse sentenze della Corte di
Strasburgo, anche
quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei
confronti del proprio
Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da
questo
pretendono un determinato comportamento. Ciò è tanto
più evidente quando, come
nella specie, si tratti di un contrasto “strutturale” tra la conferente
normativa nazionale e le norme CEDU così come interpretate dal
giudice di
Strasburgo e si richieda allo Stato membro di trarne le necessarie
conseguenze.
6.1.1. Nella
giurisprudenza di questa Corte sono individuabili pronunce le quali
hanno
ribadito che le norme della CEDU non si collocano come tali a livello
costituzionale, non potendosi loro attribuire un rango diverso da
quello
dell’atto – legge ordinaria – che ne ha autorizzato la ratifica e le ha
rese
esecutive nel nostro ordinamento. Le stesse pronunce, d’altra parte,
hanno
anche escluso che, nei casi esaminati, la disposizione interna fosse
difforme
dalle norme convenzionali (sentenze n. 288 del 1997 e n. 315 del 1990),
sottolineando la «sostanziale coincidenza» tra i principi
dalle stesse
stabiliti ed i princìpi costituzionali (sentenze n. 388 del
1999, n. 120 del
1967, n. 7 del 1967), ciò che rendeva «superfluo prendere
in esame il problema
[…] del rango» delle disposizioni convenzionali (sentenza n. 123
del 1970). In
altri casi, detta questione non è stata espressamente
affrontata, ma,
emblematicamente, è stata rimarcata la «significativa
assonanza» della
disciplina esaminata con quella stabilita dall’ordinamento
internazionale
(sentenza n. 342 del 1999; si vedano anche le sentenze n. 445 del 2002
e n. 376
del 2000). È stato talora osservato che le norme interne
assicuravano «garanzie
ancora più ampie» di quelle previste dalla CEDU (sentenza
n. 1 del 1961),
poiché «i diritti umani, garantiti anche da convenzioni
universali o regionali
sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa
garanzia,
nella Costituzione» (sentenze n. 388 del 1999, n. 399 del 1998).
Così il
diritto del singolo alla tutela giurisdizionale è stato
ricondotto nel novero
dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti dall’art. 2 della
Costituzione,
argomentando «anche dalla considerazione che se ne è fatta
nell’art. 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo» (sentenza n. 98 del
1965).
In linea generale, è stato anche riconosciuto valore
interpretativo alla CEDU,
in relazione sia ai parametri costituzionali che alle norme censurate
(sentenza
n. 505 del 1995; ordinanza n. 305 del 2001), richiamando, per
avvalorare una
determinata esegesi, le «indicazioni normative, anche di natura
sovranazionale»
(sentenza n. 231 del 2004). Inoltre, in taluni casi, questa Corte, nel
fare
riferimento a norme della CEDU, ha svolto argomentazioni espressive di
un’interpretazione conforme alla Convenzione (sentenze n. 376 del 2000
e n. 310
del 1996), ovvero ha richiamato dette norme, e la ratio ad esse
sottesa,
a conforto dell’esegesi accolta (sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del
2003),
avvalorandola anche in considerazione della sua conformità con i
«valori
espressi» dalla Convenzione, «secondo l’interpretazione
datane dalla Corte di
Strasburgo» (sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998),
nonché sottolineando
come un diritto garantito da norme costituzionali sia «protetto
anche dall’art.
6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti […] come applicato
dalla
giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (sentenza n.
154 del 2004).
È rimasto senza seguito il precedente
secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte
riconducibile a
una competenza atipica» e, come tali, sarebbero
«insuscettibili di abrogazione
o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria»
(sentenza n. 10
del 1993).
6.1.2. Dagli orientamenti della giurisprudenza di
questa Corte è
dunque possibile desumere un riconoscimento di principio della
peculiare
rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione del
contenuto della
medesima, tradottasi nell’intento di garantire, soprattutto mediante lo
strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione
delle
garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore
ordinario è tenuto a rispettare e realizzare.
La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con
l’adesione
alla Convenzione in esame è stata ben presente al legislatore
ordinario.
Infatti, dopo il recepimento della nuova disciplina della Corte europea
dei
diritti dell’uomo, dichiaratamente diretta a «ristrutturare il
meccanismo di
controllo stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare
l’efficacia
della protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali prevista
dalla Convenzione» (Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e
reso esecutivo
con la legge 28 agosto 1997, n. 296), si è provveduto a
migliorare i meccanismi
finalizzati ad assicurare l’adempimento delle pronunce della Corte
europea
(art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte
a
garantire che l’intero apparato pubblico cooperi nell’evitare
violazioni che
possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre
2006, n.
296). Infine, anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo è
stata
disciplinata l’attività attribuita alla Presidenza del Consiglio
dei ministri,
stabilendo che gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di
Strasburgo sono curati da un Dipartimento di detta Presidenza (d.P.C.m.
1
febbraio 2007 – Misure per l’esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n.
12,
recante disposizioni in materia di pronunce della Corte europea dei
diritti
dell’uomo).
6.2. È dunque alla luce della complessiva
disciplina stabilita dalla
Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di questa Corte,
che deve
essere preso in considerazione e sistematicamente interpretato l’art.
117,
primo comma, Cost., in quanto parametro rispetto al quale valutare la
compatibilità della norma censurata con l’art. 1 del Protocollo
addizionale
alla CEDU, così come interpretato dalla Corte dei diritti
dell’uomo di
Strasburgo.
Il dato subito emergente è la lacuna esistente prima della
sostituzione di
detta norma da parte dell’art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre
2001, n.
3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), per
il fatto
che la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto
internazionale
convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa Corte
soltanto
entro i limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La conseguenza
era che
la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura
convenzionale non contemplate dall’art. 10 e dall’art. 11 Cost. da
parte di
leggi interne comportava l’incostituzionalità delle medesime
solo con
riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali (sentenza
n. 223
del 1996). E ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi
caratterizzanti
dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla
forte
apertura al rispetto del diritto internazionale e più in
generale delle fonti
esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di diritto
internazionale
privato; e nonostante l’espressa rilevanza della violazione delle norme
internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali.
Inoltre,
tale violazione di obblighi internazionali non riusciva ad essere
scongiurata
adeguatamente dal solo strumento interpretativo, mentre, come sopra
precisato,
per le norme della CEDU neppure è ammissibile il ricorso alla
“non applicazione”
utilizzabile per il diritto comunitario.
Non v’è dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle
norme
costituzionali e degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo
dell’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in
armonia con
le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla
sua
collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei
principi che
espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di
determinati
obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Ciò non significa, beninteso, che con l’art. 117, primo comma,
Cost., si possa
attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi
internazionali,
oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso
delle norme della
CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l’obbligo
del
legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che
la
norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli
“obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per
ciò
stesso tale parametro costituzionale. Con l’art. 117, primo comma, si
è
realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di
volta
in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli
obblighi
internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto
da essere
comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a
sua volta, come
si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con
le norme della
Costituzione.
Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna
in modo
conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali
ciò sia
permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile,
ovvero dubiti
della compatibilità della norma interna con la disposizione
convenzionale
‘interposta’, egli deve investire questa Corte della relativa questione
di
legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117,
primo comma,
come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa
occasione.
In relazione alla CEDU, inoltre, occorre tenere conto della sua
peculiarità
rispetto alla generalità degli accordi internazionali,
peculiarità che consiste
nel superamento del quadro di una semplice somma di diritti ed obblighi
reciproci degli Stati contraenti. Questi ultimi hanno istituito un
sistema di
tutela uniforme dei diritti fondamentali. L’applicazione e
l’interpretazione
del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai
giudici degli
Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione.
La
definitiva uniformità di applicazione è invece garantita
dall’interpretazione
centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti
dell’uomo di
Strasburgo, cui spetta la parola ultima e la cui competenza «si
estende a tutte
le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della
Convenzione e
dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni
previste»
dalla medesima (art. 32, comma 1, della CEDU). Gli stessi Stati membri,
peraltro,
hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare
il diritto di
riserva relativamente a questa o quella disposizione in occasione della
ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì
che, in difetto
dell’una e dell’altra, risulta palese la totale e consapevole
accettazione del
sistema e delle sue implicazioni. In considerazione di questi caratteri
della
Convenzione, la rilevanza di quest’ultima, così come
interpretata dal “suo”
giudice, rispetto al diritto interno è certamente diversa
rispetto a quella
della generalità degli accordi internazionali, la cui
interpretazione rimane in
capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la
composizione del
contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di
conciliazione
di tipo negoziale.
Questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli
diversi, sia
pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i
diritti
fondamentali dell’uomo. L’interpretazione della Convenzione di Roma e
dei
Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo
garantisce
l’applicazione del livello uniforme di tutela all’interno dell’insieme
dei
Paesi membri. A questa Corte, qualora sia sollevata una questione di
legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto
all’art. 117, primo
comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una
o più
norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso
affermativo,
verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla
Corte di
Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno
equivalente
al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta,
invero, di
sindacare l’interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di
Strasburgo,
come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie,
ma di
verificare la compatibilità della norma CEDU,
nell’interpretazione del giudice
cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati
membri, con le
pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un
corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli
obblighi
internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che
ciò possa
comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa.
7. Premessa la lettura sistematica dell’art. 117, primo
comma, Cost.,
invocato dai rimettenti, è opportuna una ricognizione
dell’evoluzione
normativa e giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva, oggetto
della norma
denunciata.
In origine (legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante
«Espropriazioni per causa di
utilità pubblica»), fu prevista l’occupazione temporanea
(artt. 64 e 70), senza
alcun trasferimento di proprietà; e l’occupazione d’urgenza
(artt. 71 e 73),
inizialmente collegata ai casi contingenti di calamità naturali,
fu poi
generalizzata ai casi di occupazione per l’espletamento di lavori
dichiarati
urgenti dal Consiglio superiore dei lavori pubblici. Nella prassi,
tuttavia,
l’istituto dell’occupazione d’urgenza è divenuto un passaggio
normale della
procedura espropriativa, fino al punto che sovente l’opera pubblica era
realizzata sul fondo occupato in via di urgenza, sulla base di una
previa
dichiarazione di pubblica utilità, senza che poi seguisse alcun
valido
provvedimento espropriativo.
A tali casi si riferisce l’istituto, di origine giurisprudenziale,
della c.d.
«accessione invertita» o «occupazione
appropriativa», consacrato dalla sentenza
delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983,
più volte
confermata negli anni successivi. Le sezioni unite, in particolare,
sulla
premessa della illegittimità dell’occupazione al di fuori di un
compiuto
procedimento espropriativo, della realizzazione di un’opera di
interesse
pubblico e della impossibilità di far coesistere una
proprietà del bene
realizzato con una diversa proprietà del fondo, affermarono
l’acquisto a titolo
originario da parte della pubblica amministrazione a seguito e per
effetto
della trasformazione irreversibile del bene. A tale conclusione, il
giudice di
legittimità pervenne utilizzando quell’esigenza di bilanciamento
di interessi
che pure è presente nella disciplina dell’accessione (art. 934 e
seguenti del
codice civile) e che nell’ipotesi di specie faceva ritenere prevalenti
le
ragioni dell’amministrazione in quanto a soddisfazione di interessi
pubblici.
La ricaduta di tale pronuncia in termini patrimoniali, peraltro,
è stata il
diritto del proprietario non all’indennità di espropriazione, ma
al
risarcimento del danno da illecito, equivalente almeno al valore reale
del bene,
con prescrizione quinquennale dal momento della trasformazione
irreversibile
del bene.
L’orientamento successivo della Cassazione, pur con qualche
oscillazione di
minor rilievo (ad esempio sul termine di prescrizione), sostanzialmente
ha
confermato i punti principali della sentenza del 1983: trasferimento in
capo
alla pubblica amministrazione della proprietà del bene e
risarcimento del danno
corrispondente al suo valore di mercato. La logica di tale orientamento
era
focalizzata soprattutto sull’aspetto civilistico, relativo al mutamento
di
titolarità del bene per ragioni di certezza delle situazioni
giuridiche, mentre
rimaneva pacifico il principio della responsabilità aquiliana e
per ciò stesso
la negazione di un’alternativa al ristoro del danno, corrispondente al
valore
reale del bene e con le somme accessorie di rito.
7.1 Negli anni successivi, il legislatore ordinario non
sempre ha
mantenuto ferma la sopra precisata ricaduta patrimoniale
dell’occupazione
acquisitiva. E sono al riguardo da ricordare, ai fini che qui
interessano, gli
interventi di questa Corte.
Inizialmente, la legge 27 ottobre 1988, n. 458, all’art. 3, aveva dato
espressa
base normativa all’istituto giurisprudenziale dell’occupazione
acquisitiva, sia
pure con riferimento ad una specifica tipologia di opere pubbliche; e
confermato il principio del risarcimento integrale del danno subito dal
titolare del bene, limitandosi a disciplinare l’ipotesi che il
provvedimento
espropriativo fosse dichiarato illegittimo con sentenza passata in
giudicato.
Investita della questione di legittimità costituzionale di tale
norma in
riferimento all’art. 42, secondo e terzo comma, Cost., questa Corte
l’ha
dichiarata infondata, osservando, significativamente, che con essa il
legislatore, «in una completa ed adeguata valutazione degli
interessi in gioco,
non si è limitato a corrispondere “l’indennizzo”, ma ha previsto
l’integrale
risarcimento del danno subito», con la conseguenza che «al
mancato adempimento
della pretesa restitutoria, imposto da preminenti ragioni di pubblico
interesse, si sostituisce la tutela risarcitoria (art. 2043 cod. civ.),
integralmente garantita» (sentenza n. 384 del 1990; le
argomentazioni sono
state ribadite dall’ordinanza n. 542 del 1990). La Corte ha poi
dichiarato
illegittima la stessa normativa appena evocata, nella parte in cui non
si
estendeva anche all’ipotesi in cui mancasse del tutto un provvedimento
espropriativo, confermando il principio del risarcimento integrale del
danno
(sentenza 486 del 1991). La sentenza n. 188 del 1995 ha ribadito come
questa
disciplina fosse appunto «coerente alla connotazione illecita
della vicenda»,
produttiva del «diritto al risarcimento e non
all’indennità».
Successivamente il legislatore, con la legge 28 dicembre 1995, n. 549,
art. 5-bis, ha stabilito la parificazione tra
ristoro del danno per occupazione acquisitiva ed indennizzo
espropriativo.
Questa Corte, con la sentenza n. 369 del 1996, ha censurato tale
parificazione
in riferimento all’art. 3 Cost., sottolineando che, «mentre la
misura dell’indennizzo
– obbligazione ex lege per atto legittimo – costituisce il
punto di
equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell’opera e
interesse del
privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento –
obbligazione ex
delicto – deve realizzare il diverso equilibrio tra l’interesse
pubblico al
mantenimento dell’opera già realizzata e la reazione
dell’ordinamento a tutela
della legalità violata per effetto della
manipolazione-distruzione illecita del
bene privato». Dunque, ha rimarcato la pronuncia, «sotto il
profilo della
ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Costituzione),
poiché nella
occupazione appropriativa l’interesse pubblico è già
essenzialmente soddisfatto
dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione
dell’opera pubblica, la
parificazione del quantum risarcitorio alla misura
dell’indennità si
prospetta come un di più che sbilancia eccessivamente il
contemperamento tra i
contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del
primo. Con
le ulteriori negative incidenze, ben poste in luce dalle varie
autorità
rimettenti, che un tale “privilegio” a favore dell’amministrazione
pubblica può
comportare, anche sul piano del buon andamento e legalità
dell’attività
amministrativa e sul principio di responsabilità dei pubblici
dipendenti per i
danni arrecati al privato». Infine, secondo detta pronuncia, la
«perdita di
garanzia che al diritto di proprietà deriva da una così
affievolita risposta
dell’ordinamento all’atto illecito compiuto in sua violazione»,
vulnerava anche
l’art. 42, secondo comma, della Costituzione.
Il principio desumibile dalla giurisprudenza di questa Corte è,
pertanto, che
l’accessione invertita «realizza un modo di acquisto della
proprietà […]
giustificato da un bilanciamento fra interesse pubblico (correlato alla
conservazione dell’opera in tesi pubblica) e l’interesse privato
(relativo alla
riparazione del pregiudizio sofferto dal proprietario) la cui
correttezza
“costituzionale” è ulteriormente» confortata «dal
suo porsi come concreta
manifestazione, in definitiva, della funzione sociale della
proprietà»
(sentenza n. 188 del 1995, che richiama la sentenza n. 384 del 1990).
E,
tuttavia, essendo l’interesse pubblico già essenzialmente
soddisfatto dalla non
restituibilità del bene e dalla conservazione dell’opera
pubblica, la misura
della liquidazione del danno non può prescindere dalla
adeguatezza della tutela
risarcitoria che, nel quadro della conformazione datane dalla
giurisprudenza di
legittimità, comportava la liquidazione del danno derivante
dalla perdita del
diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al
valore venale
del bene, con la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere
di
acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione.
Successivamente, l’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 ha
introdotto
nell’art. 5-bis del
decreto-legge n. 333 del 1992, il comma
7-bis, secondo cui in caso
di occupazione illegittima di suoli
per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30
settembre 1996,
si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di
determinazione
dell’indennità di cui al comma 1» (quella, cioè,
prevista per l’espropriazione
dei suoli edificatori: semisomma tra valore di mercato e reddito
catastale
rivalutato, decurtata del 40 per cento), con esclusione di tale
riduzione e con
la precisazione che «in tal caso l’importo del risarcimento
è altresì aumentato
del 10 per cento».
Il profilo della misura della liquidazione del danno, con specifico
riferimento
alla norma appena ricordata, è stato esaminato dalla sentenza n.
148 del 1999,
che va valutata al giusto. Essa ha dichiarato l’infondatezza delle
censure
riferite – per quanto qui interessa – agli artt. 3 e 42 Cost.,
essenzialmente
in considerazione della mancanza di copertura costituzionale della
regola della
integralità della riparazione del danno e della equivalenza
della medesima al
pregiudizio cagionato, della «eccezionalità del
caso», giustificata
«soprattutto dal carattere temporaneo della norma
denunziata», nonché della
esigenza di salvaguardare una ineludibile, e limitata nel tempo,
manovra di
risanamento della finanza pubblica.
La legittimità rispetto all’art. 42 Cost. di un ristoro
inferiore (e di molto)
al valore reale del bene, in definitiva, è stata ancorata dalla
pronuncia del
1999 anzitutto in riferimento ad un parametro diverso da quello evocato
in
questa sede. Inoltre, a tale conclusione questa Corte è
pervenuta
essenzialmente in considerazione della temporaneità della
disciplina, nonché di
esigenze congiunturali di carattere finanziario. E ancora sulla
temporaneità
pone l’accento la sentenza n. 24 del 2000.
8. Precisato il quadro normativo e giurisprudenziale in
cui si colloca
la normativa qui impugnata, va ora esaminata la censura con la quale si
prospetta, per la prima volta, che la norma denunciata violerebbe
l’art. 117,
primo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con le norme
internazionali convenzionali e, anzitutto, con l’art. 1 del Protocollo
addizionale della CEDU, nell’interpretazione offertane dalla Corte
europea dei
diritti dell’uomo.
Al riguardo, occorre premettere che entrambe le ordinanze di rimessione
non
sollevano il problema della compatibilità dell’istituto
dell’occupazione
acquisitiva in quanto tale con il citato art. 1, ma censurano la norma
denunciata
esclusivamente nella parte in cui ne disciplina la ricaduta
patrimoniale.
Pertanto, oggetto del thema decidendum posto dalla questione di
costituzionalità è solo il profilo della
compatibilità di tale ricaduta
patrimoniale disciplinata dalla norma censurata con la disposizione
convenzionale, ciò che impone di fare riferimento alle
conferenti sentenze del
giudice europeo di Strasburgo.
L’art. 1 del Protocollo addizionale stabilisce: «Ogni persona
fisica o
giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può
essere privato
della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica
e nelle condizioni
previste dalla legge e dai principi generali del diritto
internazionale».
La Corte europea ha interpretato tale norma in numerose sentenze,
puntualmente
e diffusamente richiamate nell’ordinanza di rimessione della Corte di
cassazione, dando vita ad un orientamento ormai consolidato, confermato
dalla Grande
Chambre della Corte (per tutte, Grande Chambre, sentenza 29
marzo
2006, Scordino, dove anche una completa ricostruzione dell’indirizzo
confermato
dalla pronuncia), formatosi anche in processi concernenti la disciplina
ordinaria dell’indennità di espropriazione stabilita dal citato
art. 5-bis (per più ampi svolgimenti v.
sentenza n. 348
in pari data).
In sintesi, relativamente alla misura dell’indennizzo, nella
giurisprudenza
della Corte europea è ormai costante l’affermazione secondo la
quale, in virtù
della norma convenzionale, «una misura che costituisce
interferenza nel diritto
al rispetto dei beni deve trovare il “giusto equilibrio” tra le
esigenze
dell’interesse generale della comunità e le esigenze imperative
di salvaguardia
dei diritti fondamentali dell’individuo». Pertanto, detta norma
non garantisce
in tutti i casi il diritto dell’espropriato al risarcimento integrale,
in
quanto «obiettivi legittimi di pubblica utilità, come
quelli perseguiti dalle
misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono
giustificare un
rimborso inferiore al valore commerciale effettivo». Per
converso, proprio in
riferimento alla disciplina stabilita dal richiamato art. 5-bis della
legge qui in discussione, la Corte europea ha affermato che, quando si
tratta
di «esproprio isolato che non si situa in un contesto di riforma
economica,
sociale o politica e non è legato ad alcun altra circostanza
particolare», non
sussiste «alcun obiettivo legittimo di “pubblica utilità”
che possa
giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale»,
osservando altresì
che, al fine di escludere la violazione della norma convenzionale,
occorre
dunque «sopprimere qualsiasi ostacolo per l’ottenimento di un
indennizzo avente
un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato»
(sentenza 29 marzo
2006, Scordino).
La Corte europea, inoltre, nel considerare specificamente la disciplina
dell’occupazione acquisitiva, ha anzitutto premesso e ribadito che
l’ingerenza
dello Stato nel caso di espropriazione deve sempre avvenire rispettando
il
«giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale
e gli imperativi
della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (Sporrong e
Lönnroth
c. Svezia del 23 settembre 1982, punto 69). Inoltre, con riferimento
allo
specifico profilo della congruità della disciplina qui
censurata, la Corte
europea ha ritenuto che la liquidazione del danno per l’occupazione
acquisitiva
stabilita in misura superiore a quella stabilita per l’indennità
di
espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente
significativa, non
permette di escludere la violazione del diritto di proprietà,
così come è
garantito dalla norma convenzionale (tra le molte, I Sezione, sentenza
23
febbraio 2006, Immobiliare Cerro s.a.s.; IV sezione, sentenza 17 maggio
2005,
Scordino; IV Sezione, sentenza 17 maggio 2006, Pasculli); e ciò
dopo aver da
tempo affermato espressamente che il risarcimento del danno deve essere
integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal
provvedimento illegittimo (sentenza 7 agosto 1996, Zubani).
Il bilanciamento svolto in passato con riferimento ad altri parametri
costituzionali deve essere ora operato, pertanto, tenendo conto della
sopra
indicata rilevanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, e
cioè
della regola stabilita dal citato art. 1 del Protocollo addizionale,
così come
attualmente interpretato dalla Corte europea. E sul punto va ancora
sottolineato che, diversamente da quanto è accaduto per altre
disposizioni
della CEDU o dei Protocolli (ad esempio, in occasione della ratifica
del
Protocollo n. 4), non vi è stata alcuna riserva o denuncia da
parte dell’Italia
relativamente alla disposizione in questione e alla competenza della
Corte di
Strasburgo.
In definitiva, essendosi consolidata l’affermazione della
illegittimità nella
fattispecie in esame di un ristoro economico che non corrisponda al
valore
reale del bene, la disciplina della liquidazione del danno stabilita
dalla
norma nazionale censurata si pone in contrasto, insanabile in via
interpretativa, con l’art. 1 del Protocollo addizionale,
nell’interpretazione
datane dalla Corte europea; e per ciò stesso viola l’art. 117,
primo comma,
della Costituzione.
D’altra parte, la norma
internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte
europea, non è
in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione.
La temporaneità del criterio di computo stabilito dalla norma
censurata, le
congiunturali esigenze finanziarie che la sorreggono e l’astratta
ammissibilità
di una regola risarcitoria non ispirata al principio della
integralità della
riparazione del danno non costituiscono elementi sufficienti a far
ritenere
che, nel quadro dei princìpi costituzionali, la disposizione
censurata realizzi
un ragionevole componimento degli interessi a confronto, tale da
contrastare
utilmente la rilevanza della normativa CEDU. Questa è coerente
con l’esigenza
di garantire la legalità dell’azione amministrativa ed il
principio di
responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al
privato. Per
converso, alla luce delle conferenti norme costituzionali,
principalmente
dell’art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto
equilibrio tra
interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi
soddisfatto da una
disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un
bene in
difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica
realizzata,
senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di
mercato del
bene, sia integralmente risarcito.
In conclusione, l’art. 5-bis, comma
7-bis, del decreto-legge n. 333 del
1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
introdotto
dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, non prevedendo un
ristoro
integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da
parte
della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del
bene
occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti
dall’art. 1
del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola
l’art. 117, primo
comma, della Costituzione.
9. Restano assorbite le censure incentrate sugli
ulteriori profili e
parametri costituzionali invocati dai rimettenti.
PQM
La Corte
costituzionale riuniti i
giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis,
comma
7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti
per il
risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto
dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica).