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Giurisprudenza - Espropriazione |
Corte Cost., 24 ottobre
2007, n. 348, dichiara l’illegittimità
costituzionale, dei commi 1 e 2 dell'art. 37 del d.P.R. n. 327 del
2001, per
quanto concerne la determinazione dell’indennità di esporprio
per le aree
edificabili perché non adeguto al criterio del valore venale SENTENZA nei
giudizi di legittimità
costituzionale dell'art. 5-bis del
decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento
della
finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto
1992, n.
359, promossi con ordinanze del 29 maggio e del 19 ottobre 2006 (nn. 2
ordd.)
dalla Corte di cassazione, rispettivamente iscritte ai nn. 402 e 681
del
registro ordinanze 2006 ed al n. 2 del registro ordinanze 2007 e
pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 42, prima serie speciale, dell'anno 2006 e nn. 6 e 7, prima serie
speciale,
dell'anno 2007. Visti
gli atti di costituzione di
R.A., di A.C., di M.T.G., nonché gli atti di intervento del
Presidente del
Consiglio dei ministri; udito
nell'udienza pubblica del 3
luglio 2007 il Giudice relatore Gaetano Silvestri; uditi
gli avvocati Felice Cacace e
Francesco Manzo per R.A., Nicolò Paoletti per A.C.,
Nicolò Paoletti e
Alessandra Mari per M.T.G. e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri
per il
Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto
in fatto
1. − Con ordinanza depositata il 29 maggio 2006 (r.o. n.
402 del 2006),
la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità
costituzionale
dell'art. 5-bis del decreto-legge 11
luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
pubblica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per
violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in
relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma il
4 novembre
1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n.
848 (Ratifica
ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e
delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e
del Protocollo
addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo
1952), nonché
dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 6 CEDU
ed
all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a
Parigi il 20
marzo 1952, cui è stata data esecuzione con la medesima legge n.
848 del 1955. La norma è oggetto di
censura nella parte
in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di
espropriazione dei suoli
edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il
valore
dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone
altresì
l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore
della legge
n. 359 del 1992.
1.1. − La Corte rimettente riferisce che nel giudizio
principale la
parte privata R.A., già proprietaria di
suoli espropriati per l'attuazione di un programma di edilizia
economica e
popolare nel Comune di Torre Annunziata, e firmataria di un atto di
cessione volontaria in data 2 aprile 1982, ha proposto ricorso avverso
la
sentenza della Corte d'appello di Napoli del 6 dicembre 2001 per
censurare la
liquidazione dell'indennità ivi effettuata, in quanto non
adeguata al valore
dei beni, anche con riferimento alla mancata rivalutazione della somma
liquidata.
Nel giudizio di legittimità si sono costituiti il
Comune di Torre
Annunziata, il quale ha proposto ricorso incidentale, e l'Istituto
autonomo
case popolari della Provincia di Napoli.
Con memoria illustrativa la ricorrente R.A. ha eccepito
l'illegittimità
costituzionale dell'art. 5-bis del
decreto-legge n. 333 del 1992, norma applicata ai fini della
quantificazione
dell'indennità, per contrasto con gli artt. 42, terzo comma, 24
e 102 Cost., in
quanto il criterio ivi previsto non garantirebbe un serio ristoro ai
proprietari dei suoli espropriati e la sua applicazione ai giudizi in
corso
costituirebbe una «indebita ingerenza del potere legislativo
sull'esito del
processo». A questo proposito si ricorda come la Corte europea
dei diritti
dell'uomo abbia costantemente rilevato il contrasto del menzionato art.
5-bis con l'art. 1 del primo Protocollo
della Convenzione europea.
La censura della parte ricorrente
è estesa all'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo
unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per
pubblica utilità), in quanto si tratta della disposizione, oggi
vigente, che ha
perpetuato il criterio di calcolo censurato.
1.2. − Il rimettente esclude la rilevanza della questione
avente ad
oggetto la norma citata da ultimo, in quanto applicabile solo ai
procedimenti
espropriativi iniziati a partire dal 1° luglio 2003, secondo la
previsione
contenuta nell'art. 57 del medesimo d.P.R. n. 327 del 2001. Nel caso di
specie,
invece, il giudizio è iniziato nel 1988.
Al contempo, la Corte di cassazione ritiene rilevante e
non
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale della norma
di cui all'art. 5-bis del
decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla
legge n.
359 del 1992.
1.3 – In merito alla rilevanza della questione sollevata,
il rimettente
sottolinea come nella specie si tratti «indiscutibilmente»
di suoli
edificabili, ai quali è applicabile il citato art. 5-bis,
commi 1 e 2. In particolare, si evidenzia come l'oggetto del
contendere sia costituito dal «prezzo della cessione
volontaria», rectius, «dal conguaglio
dovuto rispetto
a quanto a suo tempo convenuto, in applicazione della legge n. 385 del
1980».
Il giudice a quo ricorda, in
proposito, che il prezzo della cessione volontaria deve essere
commisurato alla
misura dell'indennità di espropriazione; da ciò consegue
che nel giudizio
principale è ancora in contestazione la determinazione
dell'indennizzo
espropriativo e che l'eventuale ius
superveniens, costituito da un nuovo criterio di determinazione
dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili,
troverebbe senz'altro
applicazione.
1.4. − Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di
cassazione
ritiene di dover riformulare i termini della questione prospettata
dalla parte
privata ricorrente, individuando i parametri costituzionali di
riferimento
negli artt. 111 e 117 Cost. Il ragionamento è condotto alla luce
dell'esame
parallelo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo e di
quella costituzionale in materia di indennizzo espropriativo.
In relazione alla prima, sono richiamate in particolare le
sentenze del
29 luglio 2004 e del 29 marzo 2006, entrambe emesse nella causa
Scordino contro
Italia, con le quali lo Stato italiano è stato condannato per
violazione delle
norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Nella pronunzia
del
2004, la Corte europea ha censurato l'applicazione, operata dai giudici
nazionali, dell'art. 5-bis ai giudizi
in corso, stigmatizzando la portata retroattiva della norma in parola,
come
tale lesiva della certezza e della trasparenza nella sistemazione
normativa
degli istituti ablatori, oltre che del diritto della persona al
rispetto dei
propri beni. Infatti, l'applicazione di tale criterio ai giudizi in
corso ha
violato l'affidamento dei soggetti espropriati, i quali avevano agito
in
giudizio per essere indennizzati secondo il criterio del valore venale
dei
beni, previsto dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359
(Espropriazioni
per pubblica utilità), ripristinato a seguito della
dichiarazione di
incostituzionalità delle norme che commisuravano in generale
l'indennizzo al
valore agricolo dei terreni (sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983).
Con la sentenza del 2006, invece, la Corte di Strasburgo
ha rilevato la
strutturale e sistematica violazione, da parte del legislatore
italiano,
dell'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea, osservando
che la
quantificazione dell'indennità in modo irragionevole rispetto al
valore del
bene ha determinato, appunto, una situazione strutturale di violazione
dei
diritti dell'uomo. Nell'occasione la Corte di Strasburgo ha
sottolineato come,
ai sensi dell'art. 46 della Convenzione, lo Stato italiano abbia il
dovere di
porre fine a siffatti problemi strutturali attraverso l'adozione di
appropriate
misure legali, amministrative e finanziarie.
Sul fronte interno, il giudice rimettente evidenzia come
la norma
oggetto di censura sia stata più volte scrutinata dalla Corte
costituzionale,
che l'ha ritenuta conforme all'art. 42, terzo comma, Cost.,
perché introduttiva
di un criterio mediato che assicura un ristoro «non
irrisorio» ai soggetti
espropriati, nel rispetto della funzione sociale della proprietà
(sentenze n.
283, n. 414 e n. 442 del 1993). Anche sotto il profilo
dell'applicazione ai
giudizi in corso, la Corte costituzionale ha respinto le censure
affermando, in
particolare nella sentenza n. 283 del 1993, che
l'irretroattività delle leggi,
pur costituendo un principio generale dell'ordinamento, non è
elevato − fuori
dalla materia penale − al rango di norma costituzionale. Nel caso di
specie,
attesa la situazione di carenza normativa che caratterizzava al tempo
la
materia (dopo gli interventi caducatori della stessa Corte, con le
sentenze n.
5 del 1980 e n. 223 del 1983) e la conseguente applicazione in via
suppletiva
del criterio del valore venale, la retroattività dell'intervento
legislativo
non poteva dirsi confliggente con il canone della ragionevolezza.
In esito alla disamina risulterebbe evidente, a parere del
giudice a quo, che la questione debba essere
posta oggi in riferimento ai diversi parametri individuati negli artt.
111 e
117 Cost., secondo una prospettiva inedita che è quella del
sopravvenuto
contrasto della norma censurata con i principi del giusto processo e
del
rispetto degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, attraverso
il
richiamo delle norme convenzionali contenute nell'art. 6 CEDU e
nell'art. 1 del
primo Protocollo, in funzione di parametri interposti.
1.5. − La Corte di cassazione svolge poi una serie di
considerazioni per
giustificare il ricorso all'incidente di costituzionalità,
sottolineando come
spetti al legislatore la predisposizione dei mezzi necessari per
evitare la
violazione strutturale e sistematica dei diritti dell'uomo, denunciata
dalla
Corte europea nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, richiamata
poco sopra.
In particolare, la stessa Corte rimettente esclude che il
giudice
nazionale possa disapplicare l'art. 5-bis,
sostituendolo con un criterio frutto del proprio apprezzamento o
facendo
rivivere la disciplina previgente.
L'impossibilità di disapplicare la norma interna in
contrasto con quella
della Convenzione deriverebbe, a dire della Corte, anche da altre
considerazioni. In primo luogo, va escluso che, in riferimento alle
norme CEDU,
sia ravvisabile un meccanismo idoneo a stabilire la sottordinazione
della fonte
del diritto nazionale rispetto a quella internazionale, assimilabile
alle
limitazioni di sovranità consentite dall'art. 11 Cost.,
derivanti dalle fonti
normative dell'ordinamento comunitario. Non sembra infatti sostenibile
la tesi
dell'avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, ai sensi del
par. 2 dell'art. 6
del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in quanto il rispetto
dei
diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione, costituisce una
direttiva
per le istituzioni comunitarie e «non una norma comunitaria
rivolta agli Stati
membri». A conferma di tale ricostruzione, il rimettente richiama
il parere negativo
espresso dalla Corte di giustizia allorché fu prospettata
l'adesione della
Comunità europea alla CEDU (parere 28 marzo 1996, n. 2/94). Il
parere era
fondato sul rilievo che l'adesione avrebbe comportato l'inserimento
della
Comunità in un sistema istituzionale distinto, nonché
l'integrazione del
complesso delle disposizioni della CEDU nell'ordinamento comunitario.
Nella
stessa direzione, la Corte del Lussemburgo ha dichiarato la propria
incompetenza a fornire elementi interpretativi per la valutazione da
parte del
giudice nazionale della conformità della normativa interna ai
diritti
fondamentali, quali risultano dalla CEDU, e ciò «in quanto
tale normativa
riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del
diritto
comunitario» (Corte giustizia, 29 maggio 1998, causa C-299/95).
Il giudice a quo richiama
altresì il principio della soggezione dei giudici alla legge,
sancito dall'art.
101 Cost., che impedirebbe di ritenere ammissibile un potere (a fortiori, un obbligo) di
disapplicazione della normativa interna, atteso che ciò
significherebbe
attribuire al potere giudiziario una funzione di revisione legislativa
del
tutto estranea al nostro sistema costituzionale, nel quale
l'abrogazione della
legge statale rimane «legata alle ipotesi contemplate dagli artt.
15 disp.
prel. cod. civ. e 136 Cost.», mentre il mancato rispetto della
regola di
conformazione si traduce nel vizio di violazione di legge, denunziabile
dinanzi
alla Corte di cassazione (è richiamata Cass., 26 gennaio 2004,
n. 1340), anche
se non mancano opinioni che attenuano ulteriormente l'efficacia
vincolante
delle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo (Cass., 26
aprile
2005, n. 8600, e 15 settembre 2005, n. 18249).
A tutto concedere, secondo la Corte rimettente, un vincolo
all'interpretazione del giudice nazionale sarebbe ravvisabile ove la
norma
interna costituisca, come nella disciplina dell'equa riparazione per
irragionevole durata del processo, la riproduzione di norme
convenzionali, per
le quali i precedenti della Corte di Strasburgo costituiscono
riferimento
obbligato, ovvero quando la norma convenzionale sia immediatamente
precettiva,
e comunque di chiara interpretazione, e non emerga un conflitto
interpretativo
tra il giudice nazionale e quello europeo (è richiamata Cass.,
19 luglio 2002,
n. 10542). Diversamente, in caso di disapplicazione dell'art. 5-bis, si porrebbe il problema della
sostituzione del criterio ivi indicato con quello previsto dalla
normativa
previgente, ovvero con un criterio rimesso all'apprezzamento del
giudice.
Al riguardo, il giudice a quo esprime
perplessità circa l'incidenza, in ipotesi di disapplicazione
dell'art. 5-bis, della norma suppletiva costituita
dall'art. 39 della legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore
venale
dei beni e che è richiamata dalla sentenza 29 luglio 2004 della
Corte di
Strasburgo come criterio sul quale poggiava l'affidamento delle parti
ricorrenti al momento dell'instaurazione del giudizio. Detta norma,
infatti,
non costituisce «regola tendenziale dell'ordinamento», in
quanto non essenziale
per la funzione sociale riconosciuta alla proprietà dalla Carta
fondamentale,
secondo l'affermazione costante della giurisprudenza costituzionale
(sono
richiamate le sentenze n. 61 del 1957, n. 231 del 1984, n. 173 del
1991, n. 138
del 1993 e n. 283 del 1993), mentre l'art. 5-bis,
come già evidenziato, è stato ritenuto conforme a
Costituzione anche sotto il
profilo della efficacia retroattiva. In definitiva, in caso di
disapplicazione
della norma censurata, il giudice sarebbe chiamato ad individuare un
criterio
di determinazione dell'indennizzo che, pur non essendo coincidente con
il
valore di mercato dei beni ablati, attesa la funzionalizzazione del
diritto
dominicale alla pubblica utilità, sia comunque idoneo ad
assicurare un quid pluris rispetto al criterio
contenuto nell'art. 5-bis, così
compiendo un'operazione «palesemente ammantata da margini di
discrezionalità
che competono solo al legislatore», anche per la necessità
di reperire i mezzi
finanziari per farvi fronte.
Il rimettente evidenzia come la stessa giurisprudenza CEDU
non sia
univoca con riferimento alla identificazione del valore venale dei beni
quale
unico criterio indennitario ammissibile alla luce dell'art. 1 del primo
Protocollo. Infatti, mentre nella citata pronuncia del 29 marzo 2006 la
Corte
europea ha affermato che solo un indennizzo pari al valore del bene
può essere
ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto, fatti salvi i casi
riconducibili a situazioni eccezionali di mutamento del sistema
costituzionale
(è richiamata la sentenza 28 novembre 2002, ex
re di Grecia e altro contro Grecia), la stessa Corte «di solito
ha ammesso che
il giusto equilibrio tra le esigenze di carattere generale e gli
imperativi di
salvaguardia dei diritti dell'individuo non comporta che l'indennizzo
debba
corrispondere al valore di mercato del bene espropriato» (sono
richiamate le
pronunce rese in causa James e altri
contro Regno Unito, del 21 febbraio 1986; Les
saint monasteres contro Grecia, del 9 dicembre 1994; la già
citata sentenza
Scordino del 29 luglio 2004).
Quanto rilevato con riferimento all'art. 11 Cost., per
negare la
«comunitarizzazione» della CEDU e, quindi, la
praticabilità della
disapplicazione della norma interna, varrebbe altresì ad
escludere l'utilizzo
del predetto parametro ai fini dello scrutinio.
Secondo il rimettente, il recupero del dictum
della Corte europea non potrebbe avvenire neppure attraverso
il richiamo all'obbligo di conformazione del diritto interno alle norme
internazionali
che, ai sensi dell'art. 10 Cost., impegna l'intero ordinamento;
infatti, per un
verso il parametro citato non ha per oggetto il diritto pattizio e, per
altro
verso, la commisurazione dell'indennizzo espropriativo al valore di
mercato del
bene non costituisce principio generalmente riconosciuto dagli Stati.
L'intervento giudiziale, infine, secondo la Corte
rimettente, non
potrebbe trovare giustificazione nella finalità di supplire
all'inerzia del
legislatore, giacché quest'ultimo ha di recente reiterato il
regime
indennitario introdotto con l'art. 5-bis,
avendolo trasfuso nell'attuale art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001. A
questo
proposito, il giudice a quo rammenta
come, già nel 1993, la Corte costituzionale (con la sentenza n.
283) avesse
invitato il legislatore ad elaborare una legge atta ad assicurare un
serio
ristoro, ritenendo l'art. 5-bis
compatibile con la Costituzione in ragione del suo carattere urgente e
provvisorio, desumibile anche dall'incipit
della disposizione che recita: «fino all'emanazione di
un'organica
disciplina per tutte le espropriazioni».
Dunque, l'«inadeguatezza in
abstracto» del criterio
indennitario contenuto nell'art. 5-bis a
compensare la perdita della proprietà dei suoli edificabili per
motivi di
interesse pubblico, definitivamente sancita dalla giurisprudenza della
Corte
europea dei diritti dell'uomo, unitamente alla acquisita
definitività della
disciplina, riproposta dal legislatore nel 2001, all'art. 37 del d.P.R.
n. 327,
renderebbe necessario un nuovo scrutinio di costituzionalità.
Le argomentazioni che dimostrano l'impercorribilità
della strada della
disapplicazione da parte del giudice nazionale varrebbero, al tempo
stesso, ad
escludere che il contrasto possa essere composto in via interpretativa.
1.6. – Su questa premessa, il giudice a quo passa
ad illustrare i
motivi di contrasto della norma impugnata rispetto ai parametri
costituzionali
evocati. In particolare, richiamate ancora le pronunce della Corte
costituzionale sul menzionato art. 5-bis,
precisa che, per un verso, quest'ultimo non è stato scrutinato
rispetto al
parametro di cui all'art. 111 Cost., nel testo modificato dalla legge
costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del
giusto
processo nell'art. 111 della Costituzione), e che, per altro verso, i
contenuti
della disposizione costituzionale in esame, avuto riguardo agli aspetti
programmatici (primo e secondo comma), sarebbero in gran parte ancora
da
esplorare, così come sarebbe da chiarire il rapporto «di
discendenza della nuova
formulazione della norma costituzionale dalla Convenzione europea dei
diritti
dell'uomo».
Seppure, come è noto, l'originario intento di
“costituzionalizzare”
l'art. 6 della Convenzione abbia subito modifiche nel corso dei lavori
parlamentari, non di meno, a parere della Corte rimettente, andrebbe
avallata
la tesi secondo cui la ricostruzione dei nuovi precetti costituzionali
debba
essere condotta proprio alla luce della giurisprudenza della Corte
europea.
Pertanto, nel ricercare il significato precettivo del riformulato art.
111
Cost. si potrebbe utilmente fare ricorso all'interpretazione resa dalla
Corte
di Strasburgo dell'analoga disposizione contenuta nell'art. 6 della
Convenzione. A questo proposito, le pronunce rese nella causa Scordino
contro
Italia, in materia di indennizzo espropriativo, hanno affermato che il
principio della parità delle parti dinanzi al giudice implica
l'impossibilità
per il potere legislativo di intromettersi nell'amministrazione della
giustizia, allo scopo di influire sulla risoluzione della singola causa
o di
una circoscritta e determinata categoria di controversie.
Il giudice a quo evidenzia
come la vicenda giudiziaria che ha dato luogo alle citate sentenze
della Corte
europea e quella che ha originato la presente questione di
legittimità
costituzionale risultino del tutto assimilabili: in entrambi i casi,
infatti, i
soggetti espropriati hanno agito in giudizio sul presupposto che,
espunti
dall'ordinamento (per effetto delle pronunce della Corte costituzionale
n. 5 del
1980 e n. 223 del 1983) i penalizzanti criteri di quantificazione
dell'indennizzo previsti dalla legge 29 luglio 1980, n. 385 (Norme
provvisorie
sulla indennità di espropriazione di aree edificabili
nonché modificazioni di
termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n.
457, e
15 febbraio 1980, n. 25), si fosse determinata la reviviscenza del
criterio del
valore venale, con la conseguente nullità dell'atto di cessione
volontaria per
indeterminatezza dell'oggetto e con l'insorgenza del diritto
all'indennità
commisurata al predetto valore.
Il giudice di merito, invece, dovendo stabilire il
«prezzo della
cessione» da commisurare all'indennità di esproprio, ha
dovuto fare
applicazione del sopravvenuto art. 5-bis
del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla
legge
n. 359 del 1992, ed ha di conseguenza condannato il Comune espropriante
al
pagamento della differenza, a titolo di conguaglio della somma in
precedenza
corrisposta.
Il risultato è stato che le proprietarie
espropriate, «a giudizio
iniziato», si sono viste ridurre del 50 per cento la somma per il
conseguimento
della quale si erano determinate ad agire.
Per le ragioni suesposte la Corte di cassazione ritiene
che la norma
censurata sia in contrasto con l'art. 111, primo e secondo comma,
Cost., anche
alla luce dell'art. 6 CEDU, nella parte in cui, disponendo
l'applicabilità ai
giudizi in corso delle regole di determinazione dell'indennità
di
espropriazione in esso contenute, viola i principi del giusto processo,
in
particolare le condizioni di parità delle parti davanti al
giudice.
1.7. – La Corte rimettente assume che il censurato art. 5-bis si ponga in contrasto anche con
l'art. 117, primo comma, Cost., alla luce delle norme della Convenzione
europea, come interpretate dalla Corte di Strasburgo.
Infatti la nuova formulazione della norma costituzionale,
introdotta
dalla legge di riforma del titolo V della parte seconda della
Costituzione,
avrebbe colmato «una lacuna dell'ordinamento». In tal
senso, a detta della
rimettente, la sedes materiae non
risulterebbe decisiva per «ridimensionare» l'effetto
innovativo dell'art. 117,
primo comma, Cost., circoscrivendolo al solo riparto di competenze
legislative
tra Stato e Regioni. Al contrario, nella norma in esame «sembra
doversi
ravvisare il criterio ispiratore di tutta la funzione legislativa,
anche di
quella contemplata dal secondo comma, riguardante le competenze
esclusive dello
Stato, cui è riconducibile la normativa in tema di
indennità di espropriazione».
Dunque, secondo il giudice a quo,
le norme della Convenzione europea, e specialmente l'art. 6 CEDU e
l'art. 1 del
primo Protocollo, diverrebbero, «attraverso l'autorevole
interpretazione che ne
ha reso la Corte di Strasburgo», norme interposte nel presente
giudizio di
costituzionalità. In particolare, la sopravvenuta
incompatibilità dell'art. 5-bis con le norme
CEDU e quindi con
l'art. 117, primo comma, Cost., riguarderebbe i profili evidenziati
dalla Corte
europea, ovvero la «contrarietà ai principi del giusto
processo» e
l'«incongruità della misura indennitaria, nel rispetto che
è dovuto al diritto
di proprietà». 2. –
È intervenuto in giudizio il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello
Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale
siano
dichiarate infondate. 2.1. – La
difesa erariale individua il thema
decidendum nei seguenti punti: a)
«se, in caso di contrasto tra la giurisprudenza europea e la
legge nazionale,
prevalga la prima, e dunque quale sia il destino della seconda»; b) «se, in caso di risposta affermativa
al primo quesito, la soluzione valga anche con riguardo alle norme
costituzionali».
Prima di rispondere ai quesiti indicati, a parere
dell'Avvocatura
generale, occorre stabilire se davvero la giurisprudenza della Corte
europea
possa, in via interpretativa, imporre agli Stati aderenti di
considerare
ridotte o espanse le norme convenzionali «in una sorta di diritto
di esclusiva
che farebbe premio sia sui procedimenti di formazione dei patti
internazionali
sia sulla diretta interpretazione del giudice nazionale, il quale pur
si trova
ad applicare le stesse norme [CEDU] in quanto recepite dalla legge
nazionale 4
agosto 1955 n. 848».
La difesa erariale contesta che tale potere, per quanto
rivendicato
dalla Corte europea, sia previsto da norme convenzionali. L'art. 32 del
Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la
legge
28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11
alla
convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali,
recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla
convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994), circoscrive la
competenza
della predetta Corte «a tutte le questioni concernenti
l'interpretazione e
l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli». Ad
avviso
dell'Avvocatura generale, si tratterebbe di una norma posta a garanzia
dell'indipendenza dei giudici di Strasburgo, che «non può
trasformarsi in una
fonte di produzione normativa vincolante oltre il processo e,
addirittura,
limitativa dei poteri istituzionali dei Parlamenti nazionali o della
nostra
Corte di cassazione o perfino della Corte costituzionale».
La pretesa della Corte di Strasburgo di produrre norme
convenzionali
vincolanti non sarebbe compatibile con l'ordinamento internazionale
generale e
ancor più con il sistema della Convenzione di Vienna, cui
è stata data
esecuzione con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed
esecuzione della
convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il
23
maggio 1969), secondo cui l'interpretazione di qualunque trattato deve
essere
testuale ed oggettiva.
Pertanto, la difesa dello Stato evidenzia come le
questioni odierne
abbiano ragione d'essere soltanto se si riconosce alle norme di origine
giurisprudenziale della Corte europea il valore di parametro
interposto.
Diversamente, non vi sarebbe motivo di dubitare che, ai sensi degli
artt. 25 e
42 Cost., il legislatore nazionale possa introdurre norme di carattere
retroattivo, operanti anche nei processi in corso, e conformare sistemi
indennitari che contemperino il diritto dei singoli con le esigenze
della
collettività, così evitando che gli indennizzi degli
espropri coincidano con il
prezzo di mercato degli immobili. 2.2. – La
difesa dello Stato contesta
l'impostazione del ragionamento della Corte rimettente anche con
riferimento ai
parametri evocati.
Secondo l'Avvocatura generale, l'art. 111 Cost., una volta
depurato «da
ogni suggestione di prevalenza degli “insegnamenti” CEDU sulla
legislazione
ordinaria e costituzionale o sulla giurisprudenza della Corte di
cassazione e
della stessa Corte costituzionale», non stabilisce affatto quello
che il giudice
a quo crede di leggervi. Il «giusto processo»
non riguarda le
prerogative del legislatore, in particolare non gli impedisce di
intervenire
sulla disciplina sostanziale con norme di carattere retroattivo, che il
giudice
è tenuto ad applicare in ossequio al disposto dell'art. 101
Cost. Del resto,
osserva la difesa erariale, neppure l'art. 6 CEDU, che ha ispirato la
novella
dell'art. 111 Cost., contiene riferimenti al divieto di leggi
retroattive in
materia extrapenale; tale divieto esiste, quindi, soltanto nella
giurisprudenza
della Corte europea, la quale, peraltro, secondo gli argomenti
già esposti,
sarebbe priva di potere creativo di norme convenzionali.
Discorso parzialmente analogo varrebbe per l'art. 117,
primo comma,
Cost., il quale impone il rispetto dei vincoli derivanti
dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali, là dove, per
l'appunto, le
predette norme configurino limitazioni all'esercizio della
potestà legislativa.
La difesa erariale richiama in proposito l'art. 1 della
legge 5 giugno
2003, n. 131 (Disposizioni per
l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge
costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3), il quale stabilisce che costituiscono
vincoli alla
potestà legislativa dello Stato e delle Regioni «quelli
derivanti […] da
accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui
all'art. 11 della
Costituzione, dall'ordinamento comunitario e dai trattati
internazionali».
Nulla di tutto ciò, secondo l'Avvocatura generale, è
presente nella CEDU, sia
con riferimento alla previsione di leggi retroattive di immediata
applicazione
ai processi in corso, e per le quali opera quindi la sola disciplina
delle
fonti di produzione nazionali, sia con riguardo ai diritti del
proprietario
espropriato. A tale proposito, l'interveniente rileva che l'art. 1 del
primo
Protocollo, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo,
si
limita ad affermare il principio per cui il sacrificio della
proprietà privata
è ammissibile solo per cause di pubblica utilità e alle
condizioni previste
dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. La
norma
convenzionale richiamata non imporrebbe in alcun modo, quindi, che
l'indennizzo
dovuto al proprietario espropriato debba corrispondere al valore venale
del
bene. 2.3. – In
conclusione, la difesa erariale
evidenzia come il valore venale del terreno urbano non esista in rerum natura, ma sia direttamente
collegato agli strumenti urbanistici e perciò determinato in
funzione della
utilizzabilità dell'area, con la conseguenza che un sistema
indennitario che
imponga una drastica riduzione del valore del bene non è
così distante dalla
realtà degli scambi economici. 3. –
Si è costituita in giudizio R.A.,
ricorrente in via principale nel giudizio a quo, richiamando
genericamente tutte le censure, eccezioni e deduzioni svolte nei
diversi gradi
del procedimento, ed in particolare l'eccezione di illegittimità
costituzionale
formulata nel giudizio di cassazione, con riserva di depositare
successive
memorie.
4. – In data 19 giugno 2007 la stessa parte privata ha
depositato una
memoria illustrativa con la quale insiste affinché la questione
sia dichiarata
fondata.
4.1. – In particolare, dopo aver riassunto l'intera
vicenda giudiziaria
dalla quale è originato il giudizio a quo,
la difesa della parte rileva che la misura dell'indennizzo
espropriativo
prevista nella norma censurata, non presentando le caratteristiche del
«serio
ristoro», sarebbe tutt'ora censurabile sotto il profilo del
contrasto con
l'art. 42, terzo comma, Cost., nonostante l'esito dei precedenti
scrutini
(sentenze n. 283 e n. 442 del 1993). Infatti, nelle pronunzie
richiamate, la
Corte costituzionale aveva fatto salva la norma censurata solo
perché
caratterizzata da «provvisorietà ed
eccezionalità».
4.2. – Con riferimento al profilo afferente l'applicazione
della norma
censurata ai giudizi in corso, la parte privata ritiene violati gli
artt. 24 e
102 Cost. L'avvenuta modifica della norma sostanziale in corso di causa
e la
conseguente variazione della «dimensione qualitativa e
quantitativa» del
diritto azionato costituirebbero un'indebita ingerenza del potere
legislativo
sull'esito del processo, in violazione della riserva contenuta
nell'art. 102
Cost. Non si tratterebbe, nel caso di specie, di mera
retroattività, ma di vera
e propria interferenza nell'esercizio della funzione giudiziaria da
parte del
legislatore, «allo scopo dichiarato di limitare l'onere
(legittimo) a carico
della pubblica amministrazione».
Inoltre, la censura prospettata in riferimento all'art.
42, terzo comma,
Cost. andrebbe estesa all'art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, nel quale
è
contenuto un criterio di calcolo dell'indennizzo espropriativo che
conduce ad
una riduzione di circa il 50 per cento rispetto al valore reale del
bene. Tale
norma, peraltro, non presenta i caratteri di provvisorietà e
urgenza che
avevano connotato l'art. 5-bis,
trattandosi, con ogni evidenza, di disciplina definitiva.
Da ultimo, sul rilievo che gli argomenti svolti dal
giudice a quo per escludere la violazione degli
ulteriori parametri indicati nell'eccezione di parte non assumono
valore
preclusivo, la parte auspica che la Corte costituzionale estenda il
proprio
scrutinio anche a tali parametri.
5. – Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n.
681 del 2006),
la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità
costituzionale
dell'art. 5-bis del decreto-legge n.
333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del
1992, per
violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione
all'art. 6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà
fondamentali ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione
stessa,
nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato
art. 1 del
primo Protocollo.
La norma è oggetto di censura nella parte in cui,
ai fini della
determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli
edificabili, prevede
il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il
reddito
dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai
giudizi in corso
alla data dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.
5.1. – La Corte rimettente riferisce che nel giudizio
principale il
Comune di Montello ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte
d'appello di Brescia, la quale – dopo aver accertato che l'area di
proprietà di
A.C., occupata sin dal 21 maggio 1991 ed espropriata in data 8 maggio
1996,
doveva considerarsi terreno edificabile da privati – aveva liquidato
l'indennità di espropriazione ai sensi dell'art. 5-bis
del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.
Il Comune ricorrente lamenta l'erronea qualificazione
dell'area
espropriata come edificabile, e in subordine, la mancata applicazione
della
riduzione del 40 per cento, nonché l'insufficiente motivazione a
sostegno del
computo del valore dei manufatti preesistenti. La parte privata si
è costituita
ed ha proposto, a sua volta, ricorso incidentale nel quale censura la
quantificazione dell'indennità di esproprio, nonché il
mancato riconoscimento
della rivalutazione monetaria degli importi liquidati; chiede
altresì la
disapplicazione dell'art. 5-bis, in
quanto contrastante con l'art. 1 del primo Protocollo (che sarebbe
stato
“comunitarizzato” dall'art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio
1992),
ed invoca un mutamento dell'orientamento giurisprudenziale in
virtù del quale
«l'indennità viene corrisposta come debito pecuniario di
valuta, con la
conseguenza che nulla compete per la rivalutazione
all'espropriato». Con
successiva memoria, la ricorrente incidentale ha formulato,
subordinatamente al
mancato accoglimento della richiesta di disapplicazione, eccezione di
illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis,
per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 Cost., in
relazione
all'art. 1 del primo Protocollo ed all'art. 6 CEDU.
5.2. – Preliminarmente, la Corte di cassazione richiama le
argomentazioni sviluppate riguardo all'analoga questione di
legittimità
costituzionale avente ad oggetto il menzionato art. 5-bis,
sollevata dalla medesima Corte con ordinanza del 29 maggio
2006 (r.o. n. 402 del 2006), riservandosi soltanto di integrarne il
contenuto
«in rapporto al contrasto della norma interna con le citate norme
della Convenzione
europea».
Il giudice a quo procede,
quindi, all'esame della giurisprudenza della Corte di Strasburgo,
citata anche
dalla parte ricorrente a sostegno sia della richiesta di
disapplicazione della
norme interna, sia dell'eccezione di illegittimità
costituzionale. L'esame è
condotto a partire dal contenuto della pronuncia resa il 28 luglio
2004, in
causa Scordino contro Italia, alla quale è seguita, nella
medesima
controversia, la pronuncia definitiva resa dalla Grande
chambre il 29 marzo 2006, sul ricorso proposto dal Governo
italiano.
Tanto premesso, la rimettente evidenzia
l'analogia intercorrente tra la fattispecie oggetto del giudizio
principale e
quella che ha dato luogo alla richiamata pronuncia della Grande
chambre: anche nel presente giudizio, infatti, il profilo
della utilità pubblica risulterebbe di modesta rilevanza,
essendo le aree
espropriate destinate alla costruzione di un parcheggio e alla
realizzazione di
“verde attrezzato”.
5.3. – La Corte di cassazione procede, di seguito, a
valutare il profilo
riguardante la disapplicazione dell'art. 5-bis,
espressamente richiesta dalla ricorrente incidentale, essendo tale
delibazione
presupposto di ammissibilità della presente questione di
legittimità
costituzionale.
Il giudice a quo dà atto che
la stessa Corte di cassazione, con la già citata ordinanza n.
12810 del 2006
(r.o. n. 402 del 2006) e con l'ordinanza del 20 maggio 2006, n. 11887
(r.o. n.
401 del 2006), che ha rimesso analoga questione per la parte
riguardante
l'entità del risarcimento danni da occupazione acquisitiva
illecita (art. 5-bis, comma 7-bis), ha
negato che, in mancanza di una disciplina specifica e
precettiva in sede sopranazionale dei criteri di liquidazione, il
giudice
nazionale possa disapplicare la legge interna.
Tale conclusione è condivisa dall'attuale
rimettente, la quale rammenta
che la sentenza della Corte europea del 29 marzo 2006, in causa
Scordino contro
Italia, ha rimesso allo Stato italiano l'adozione delle misure
«legislative,
amministrative e finanziarie» necessarie all'adeguamento del
sistema interno
alle norme sopranazionali (par. 237), così implicitamente
chiarendo che la
propria pronuncia non ha «effetti abrogativi».
Quanto al carattere precettivo delle norme contenute nella
Convenzione, il
giudice a quo ritiene debbano essere
distinti i diritti da essa protetti, «riconosciuti» dagli
Stati contraenti come
«fondamentali» anche nel diritto interno (art. 1), dai
mezzi e dalle modalità
di tutela di tali diritti, rimessi ai singoli Stati aderenti. In caso
di
violazione, anche da parte di soggetti che agiscono nell'esercizio di
funzioni
pubbliche, l'art. 13 della Convenzione prevede il ricorso alla
magistratura
interna di ciascuno Stato, salvo l'intervento sussidiario della Corte
di
Strasburgo sui ricorsi individuali ai sensi dell'art. 34 della stessa
Convenzione, e la conseguente condanna dello Stato inadempiente
all'equa
riparazione di cui all'art. 41. Nello stesso senso deporrebbe la
previsione
contenuta nell'art. 46 della Convenzione, a mente del quale «le
Alte Parti
contraenti s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della
Corte nelle
controversie nelle quali sono parti», escludendosi così
ogni effetto
immediatamente abrogativo di norme interne.
La Corte rimettente evidenzia, inoltre, che la legge 9
gennaio 2006, n.
12 (Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte
europea
dei diritti dell'uomo), ha individuato nel Governo e nel Parlamento gli
organi
ai quali devono essere trasmesse le sentenze della Corte europea, in
quanto
unici legittimati a dare esecuzione agli obblighi che da esse
discendono.
Sottolinea, infine, che il disposto dell'art. 56 della Convenzione
ammette la
possibilità che l'applicazione della stessa possa non essere
uniforme in tutto
il territorio degli Stati aderenti, a fronte di «necessità
locali», con la
conseguenza che nel sistema della Convenzione, pur essendo precettivo
il
riconoscimento dei diritti garantiti nell'accordo per tutti gli Stati
aderenti,
le modalità di tutela e di applicazione di quei principi nei
territori dei
singoli Stati sono rimesse alla legislazione interna di ciascuno.
Risulterebbe chiara, pertanto, l'esclusione del potere di
disapplicazione in capo ai singoli giudici; tanto più che nelle
fattispecie
riguardanti l'indennizzo espropriativo si porrebbe l'esigenza di
assicurare
copertura finanziaria alla modifica di sistema, conseguente alla scelta
di un
diverso criterio indennitario, stante la previsione dell'art. 81 Cost.
Il giudice a quo ribadisce,
riprendendo le precedenti ordinanze della stessa Corte di cassazione,
la
ritenuta impossibilità di assimilare le norme della Convenzione
EDU ai
regolamenti comunitari ai fini di applicazione immediata
nell'ordinamento
interno (sull'argomento è richiamata Cass. 19 luglio 2002, n.
10542). E'
condiviso anche l'assunto che il richiamo contenuto nell'art. 6, par.
2, del
Trattato di Maastricht, al rispetto dei «diritti fondamentali
quali sono
garantiti dalla Convenzione europea […] e quali risultano dalle
tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali
del
diritto comunitario», non esclude la diversità tra
l'organo giurisdizionale
preposto alla tutela di tali diritti (Corte di Strasburgo) e quello cui
è
invece demandata l'interpretazione delle norme comunitarie, cioè
la Corte di
giustizia del Lussemburgo, che ha negato la propria competenza in
materia di
diritti fondamentali (Corte di Giustizia, 29 maggio 1997, C. 199-95, Kremzow).
Del resto, aggiunge il rimettente, la stessa Corte
costituzionale, prima
delle modifiche degli artt. 46 e 56 della CEDU, apportate con il
Protocollo n.
11, reso esecutivo in Italia con la legge n. 296 del 1997, sembrava
aver
assunto orientamenti non incompatibili con la diretta
applicabilità delle norme
della Convenzione (sono richiamate le sentenze n. 373 del 1992 e n. 235
del
1993). Solo successivamente, anche a seguito della novella degli artt.
111 e
117 Cost., il giudice delle leggi si sarebbe orientato «a dare
rilievo
indiretto alle norme convenzionali, come fonti di obblighi cui l'Italia
è da
tali norme vincolata» (sono richiamate la sentenza n. 445 del
2002 e
l'ordinanza n. 139 del 2005).
In definitiva, il riconoscimento con carattere precettivo
dei diritti
tutelati dall'accordo sopranazionale non rileverebbe ai fini
dell'abrogazione
di norme interne contrastanti, fino a quando il legislatore interno non
abbia
specificato i rimedi a garanzia di detti diritti (è richiamata
Cass. 12 gennaio
1999, n. 254). Nondimeno, prosegue il giudice a quo, i
diritti tutelati dalla Convenzione EDU esistono sin dal
momento della ratifica, o anche prima, se già garantiti dal
diritto interno,
sicché i successori degli originari titolari potranno chiederne
la tutela al
giudice nazionale una volta che sia stata modificata la disciplina
interna.
La Corte rimettente osserva infine che, se pure il giudice
italiano
disapplicasse l'art. 5-bis, non
potrebbe imporre come giusto indennizzo quello corrispondente al valore
venale
del bene espropriato, e questo perché, mentre in sede
sopranazionale tale
criterio è stato più volte considerato «l'unico di
regola applicabile»,
nell'ambito interno la Corte costituzionale ha ritenuto che la nozione
di
«serio ristoro» sia compatibile con una riduzione del
prezzo pieno del bene
ablato, come sacrificio individuale dovuto alla pubblica utilità.
5.4. – Esclusa la possibilità di disapplicare
l'art. 5-bis, la Corte di cassazione procede alla
delibazione delle questioni preliminari riguardanti la qualificazione
delle
aree espropriate come edificabili, discendendo da tale qualificazione
la
rilevanza della norma censurata per la fattispecie in esame.
Riaffermata l'edificabilità delle aree espropriate,
il giudice a quo ritiene «certamente
rilevante» la
questione di legittimità sollevata, dato che, nella
espropriazione oggetto di
causa, l'indennità è stata liquidata con i criteri di
determinazione di cui
all'art. 5-bis.
La Corte di cassazione evidenzia come la parte privata si
dolga del
fatto che, pure in assenza della riduzione del 40 per cento,
l'indennità
riconosciutale in base alla norma censurata non costituisce un serio
ristoro
della perdita subita. All'opposto, il ricorrente Comune di Montello
lamenta che
la Corte di merito ha computato il valore del soprassuolo ai fini della
determinazione dell'indennità. Ciò dimostra, ad avviso
della rimettente, che il
giudizio principale non può essere definito prescindendo
dall'applicazione
dell'art. 5-bis.
5.5. – Con riferimento alla non manifesta infondatezza
della questione,
il giudice a quo procede all'esame
delle pronunce con le quali la Corte costituzionale ha definito i
giudizi
aventi ad oggetto il menzionato art. 5-bis
del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla
legge
n. 359 del 1992. Sono richiamate, in particolare, le sentenze n. 283 e
n. 442
del 1993, nelle quali è stata esclusa l'illegittimità dei
criteri di
determinazione dell'indennità di esproprio dei suoli
edificabili, sulla base
del loro «carattere dichiaratamente temporaneo, in attesa di
un'organica disciplina
dell'espropriazione per pubblica utilità» e
giustificandoli per «la particolare
urgenza e valenza degli “scopi” che […] il legislatore si propone di
perseguire» nella congiuntura economica in cui versava il Paese
(sentenza n.
283 del 1993). Come noto, il contenuto della norma è stato
trasposto nell'art.
37 del d.P.R. n. 327 del 2001, che ha reso “definitivi” quei criteri di
liquidazione dell'indennizzo, sicché la “provvisorietà”
degli stessi, che aveva
sorretto il giudizio di non fondatezza, può dirsi venuta meno.
Nella citata pronuncia n. 283 del 1993, la Corte
costituzionale ha
riconosciuto, a differenza della Corte europea, il carattere di
principi e
norme fondamentali di riforma economico-sociale alla disciplina dettata
dal
legislatore con l'art. 5-bis, e
difatti ha ritenuto illegittima la norma in esame, per contrasto con
gli artt.
3 e 42 Cost., soltanto nella parte in cui, per i procedimenti in corso,
non
prevedeva una «nuova offerta di indennità», la cui
accettazione da parte
dell'espropriato escludesse l'applicazione della riduzione del 40 per
cento.
Quanto alla applicazione retroattiva dell'art. 5-bis,
il giudice delle leggi ha affermato che il principio
dell'irretroattività delle leggi, contenuto nell'art. 11 disp.
prel. cod. civ.,
non è recepito nella Costituzione, escludendo nel contempo il
contrasto della
norma censurata con l'art. 3 Cost. Diversamente oggi, a parere della
rimettente, il principio del giusto processo, sancito dal novellato
art. 111
Cost., garantirebbe anche la condizione di parità tra le parti,
sicché appare
necessario sottoporre la norma, anche per tale aspetto, ad un nuovo
scrutinio
di costituzionalità.
Assume il giudice a quo che la
norma censurata, incidendo sulla liquidazione delle indennità
nei procedimenti
in corso, «anteriormente alla futura opposizione alla stima
ancora non
proponibile per ragioni imputabili all'espropriante» (è
richiamata la sentenza
n. 67 del 1990 della Corte costituzionale), ha determinato una
ingerenza del
legislatore nel processo a sfavore dell'espropriato. Questi, infatti,
in
assenza della predetta norma, avrebbe potuto pretendere e ottenere una
maggiore
somma, se i procedimenti amministrativi o giurisdizionali in corso
fossero
stati conclusi prima della relativa entrata in vigore.
Il rimettente richiama, in proposito, l'affermazione
contenuta nella
sentenza Scordino del 29 marzo 2006, secondo cui l'ingerenza del
legislatore
nei procedimenti in corso viola l'art. 6 della Convenzione, in rapporto
all'art. 1 del primo Protocollo, poiché la previsione della
perdita di una
parte dell'indennità con efficacia retroattiva non risulta
giustificata da una
rilevante causa di pubblica utilità.
Quanto al merito del criterio di calcolo
dell'indennità, contenuto nella
norma censurata, il rimettente osserva come la Corte europea abbia
ormai
definitivamente affermato, con numerose pronunce, il contrasto con
l'art. 1 del
primo Protocollo dei ristori indennitari e risarcitori previsti per le
acquisizioni lecite e illecite connesse a procedimenti espropriativi,
con o
senza causa di pubblica utilità. Ritiene la Corte rimettente,
quindi, che la
norma censurata debba essere nuovamente scrutinata alla luce del testo
vigente
del primo comma dell'art. 117 Cost., sul rilievo che l'intera normativa
ordinaria, e dunque anche le norme previgenti alla legge costituzionale
18
ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo
V della parte seconda della Costituzione), possa essere
esaminata ed
eventualmente dichiarata incostituzionale per contrasto “sopravvenuto”
con i
nuovi principi inseriti nella Carta fondamentale (è richiamata
la sentenza n.
425 del 2004).
6. – È intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha
concluso per la non fondatezza delle questioni, svolgendo
considerazioni del
tutto coincidenti con quelle sviluppate nel giudizio promosso con
l'ordinanza
del 29 maggio 2006 della Corte di cassazione (r.o. n. 402 del 2006).
Pertanto,
si richiama integralmente quanto sopra riportato al punto 2.
7. – Si è costituita in giudizio A.C.,
controricorrente e ricorrente in
via incidentale nel giudizio a quo,
la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità
delle questioni –
dovendosi ritenere che spetti ai giudici nazionali disapplicare le
norme
interne in contrasto con quelle della Convenzione europea – ed in
subordine per
l'accoglimento delle questioni medesime.
7.1. – La parte privata ritiene che il contrasto tra norma
interna e
norma CEDU debba esser risolto con la disapplicazione della prima. In
proposito
è richiamato il Protocollo n. 11 della Convenzione, il quale ha
riformulato il
meccanismo di controllo istituito dalla stessa, stabilendo che i
singoli
cittadini degli Stati contraenti possano adire direttamente la Corte
europea
(art. 34 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11) e che
«1. Le
Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze
definitive della
Corte nelle controversie nelle quali sono parti. 2. La sentenza
definitiva
della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne
sorveglia l'esecuzione»
(art. 46 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11).
La medesima parte privata ricorda come l'intero meccanismo
di controllo
si fondi sul principio di sussidiarietà, in virtù del
quale la Corte europea
«non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie
di ricorso interne»
(art. 35 della Convenzione). Pertanto, i giudici nazionali sono tenuti
ad
applicare il diritto interno in modo conforme alla Convenzione,
«spettando alla
Corte europea, invece, in via sussidiaria e a seguito dell'esaurimento
dei
rimedi interni, verificare se il modo in cui il diritto interno
è interpretato
ed applicato produce effetti conformi ai principi della
Convenzione».
A questo proposito, la parte privata sottolinea come la
Risoluzione 1226
(2000) dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa abbia
affermato che
gli Stati contraenti sono tenuti ad assicurare, tra l'altro,
«l'applicazione
diretta, da parte dei Giudici nazionali, della Convenzione e delle
sentenze
della Corte Europea che la interpretano e la applicano». Nella
stessa direzione
si muovono anche la Risoluzione Res(2004)3 del 12 maggio 2004 del
Comitato dei
ministri del Consiglio d'Europa, relativa alle sentenze che accertano
un
problema strutturale sottostante alla violazione, la Raccomandazione
Rec(2004)5, di pari data, del Comitato dei ministri del Consiglio
d'Europa,
relativa alla verifica di conformità dei progetti di legge,
delle leggi vigenti
e della prassi amministrativa agli standard
stabiliti dalla Convenzione, nonché la Raccomandazione
Rec(2004)6, di pari
data, con cui il Comitato dei ministri ha ribadito che gli Stati
contraenti, a
seguito delle sentenze della Corte che individuano carenze di carattere
strutturale
o generale dell'ordinamento normativo o delle prassi nazionali
applicative,
sono tenuti a rivedere l'efficacia dei rimedi interni esistenti e, se
necessario, ad instaurare validi rimedi, al fine di evitare che la
Corte venga
adita per casi ripetitivi.
La parte privata richiama, inoltre, il contenuto della
sentenza 29 marzo
2006 della Corte di Strasburgo in causa Scordino contro Italia, in
riferimento
sia alla inadeguatezza del criterio generale di cui all'art. 5-bis, applicato indipendentemente dalla
tipologia dell'opera che deve essere realizzata, sia all'effetto di
interferenza del potere legislativo sul potere giudiziario, che si
è
determinato con l'applicazione della predetta norma ai giudizi in
corso.
Secondo la Corte europea tale effetto non può trovare
giustificazione nelle
ragioni di natura finanziaria che il Governo italiano ha prospettato
nel
ricorso alla Grande chambre. È
inoltre richiamato il passaggio della menzionata pronunzia, ove sono
citate le
sentenze n. 223 del 1983, n. 283 e n. 442 del 1993, con le quali la
Corte
costituzionale ha invitato il legislatore ad adottare una disciplina
normativa
che assicuri «un serio ristoro» al privato, ed ha escluso
l'esistenza di un
contrasto tra l'art. 5-bis e la
Costituzione «in considerazione della sua natura urgente e
temporanea».
Peraltro, osserva l'interveniente, poiché il criterio contenuto
nella norma
citata è stato trasfuso nel testo unico in materia di
espropriazioni (d.P.R. n.
327 del 2001), la Corte di Strasburgo non ha mancato di rilevare come
sia
agevolmente prefigurabile la proposizione di numerosi e fondati ricorsi.
Tutto ciò premesso, se la conformità
dell'ordinamento ai principi
affermati nella sentenza citata deve essere assicurata dai giudici
nazionali,
come rilevato dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa nella
richiamata
Raccomandazione Rec(2004)5, e se la Corte europea ha accertato, con
sentenza
che costituisce «cosa giudicata interpretata», ai sensi
dell'art. 46 della
Convenzione, che la norma interna rilevante è causa di
violazione strutturale
di una o più norme della Convenzione medesima, allora tale
norma, a parere
della parte privata, deve essere «disapplicata» dal giudice
nazionale. La
disapplicazione della norma interna contrastante sarebbe conseguenza
diretta ed
immediata del principio di sussidiarietà dell'art. 46 della
stessa Convenzione,
sicché, in definitiva, con riferimento al sistema CEDU si deve
giungere
all'affermazione di principi analoghi a quelli che la Corte
costituzionale ha
enucleato in relazione al diritto comunitario nella sentenza n. 170 del
1984.
La diversa conclusione cui è giunta la Corte
rimettente contrasterebbe,
tra l'altro, con l'assunto, affermato dalla medesima Corte, della
vincolatività
delle norme della Convenzione e della giurisprudenza della Corte
europea.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, la difesa di
A.C. conclude
sollecitando una dichiarazione di inammissibilità della
questione di
legittimità costituzionale.
7.2. – In via subordinata, la parte privata insiste per la
declaratoria
di incostituzionalità della norma censurata per contrasto con
l'art. 117, primo
comma, Cost., sviluppando argomentazioni analoghe a quelle contenute
nell'ordinanza di rimessione.
8. – In data 20 giugno 2007 la parte privata A.C. ha
depositato una
memoria illustrativa con la quale insiste nelle conclusioni già
formulate
nell'atto di costituzione.
8.1. – In particolare, nella memoria si evidenzia come la
posizione
assunta dalla Presidenza del Consiglio dei ministri nel presente
giudizio si
ponga in contrasto con il «preciso obbligo dello Stato italiano
di eseguire la
sentenza Scordino [del 29 marzo 2006] adottando misure di carattere
generale
suscettibili di eliminare la violazione strutturale accertata dalla
Corte
europea, nonché, più in generale, con il solenne obbligo
internazionale a suo
tempo assunto dallo Stato italiano di cooperare efficacemente e
lealmente con
il Consiglio d'Europa per assicurare il funzionamento del meccanismo di
tutela
dei diritti umani che fa perno sulla Convenzione Europea dei Diritti
dell'Uomo
e sulla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo».
Al riguardo, la parte privata sottolinea come l'art. 1
della legge n. 12
del 2006, introducendo la lettera a-bis),
nel comma 3 dell'art. 5 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina
dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del
Consiglio dei
Ministri), abbia individuato proprio nella Presidenza del Consiglio dei
ministri l'organo deputato non solo a promuovere «gli adempimenti
di competenza
governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti
dell'uomo
emanate nei confronti dello Stato italiano», ma anche a
comunicare
«tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini
dell'esame da parte
delle competenti Commissioni parlamentari permanenti» ed a
presentare
«annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di
esecuzione delle
suddette pronunce».
Per le ragioni anzidette la parte privata reputa
necessaria una
pronunzia di illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis,
«che consenta all'Italia di assolvere i propri obblighi
internazionali, di non uscire dalla legalità internazionale e di
far recuperare
unità all'ordinamento».
8.2. – In merito all'esistenza di un presunto contrasto
tra la
giurisprudenza della Corte europea e quella della Corte costituzionale,
la
difesa privata ritiene che si tratti di una divergenza soltanto
apparente,
determinata dalla diversità dei parametri di giudizio finora
adottati dalle due
Corti. Si tratterebbe, pertanto, di «interpretare (ed applicare)
le norme
rilevanti nel presente giudizio di costituzionalità con lo
stesso parametro di
tutela dei diritti umani utilizzato dalla Corte europea»; infatti
– osserva la
parte costituita – se il giudizio è condotto sulla base del
parametro sopra indicato,
l'esito non può non essere identico.
Peraltro, le divergenze interpretative tra le Corti
costituzionali degli
Stati membri e la Corte di Strasburgo «non sono affatto inusuali,
ma sono
piuttosto connaturate allo stesso meccanismo di tutela dei diritti
umani
previsto dalla Convenzione ed ai principi di sussidiarietà e
solidarietà sul
quale è basata».
8.3. – La difesa della parte privata passa, poi, in
rassegna la più
recente giurisprudenza della Corte europea in tema di «violazioni
strutturali»,
evidenziando le condizioni in presenza delle quali ricorre un
«problema
strutturale» e non una mera violazione «episodica»
della Convenzione europea.
In particolare, si rileva come finora siano state
«per lo più proprio le
Corti costituzionali degli Stati contraenti – in applicazione dei
principi di
sussidiarietà e solidarietà – a rimediare ai problemi
strutturali evidenziati
nelle sentenze della Corte europea». A questo proposito, sono
richiamate
numerose pronunzie della Corte europea, cui hanno fatto seguito
svariate
decisioni delle Corti costituzionali degli Stati contraenti, tendenti a
far
fronte ai problemi strutturali evidenziati dai giudici di Strasburgo.
In alcuni casi, poi, l'accertamento dell'esistenza di una
violazione
strutturale della CEDU ha spinto lo Stato interessato a modificare la
propria
Carta costituzionale.
Con specifico riferimento all'Italia, sono richiamati il
caso Sejdovic (sentenza della Grande
chambre del 1° marzo 2006), a
seguito del quale si è resa necessaria la modifica dell'art. 175
del codice di
procedura penale a seguito dell'accertamento di violazione strutturale
ai sensi
dell'art. 46 CEDU, la modifica dell'art. 111 Cost., attuata in
relazione alle
sentenze della Corte europea che avevano rilevato violazioni delle
garanzie
dell'equo processo, e infine le sentenze n. 152 e n. 371 del 1996 della
Corte
costituzionale, che hanno fatto seguito, rispettivamente, alle sentenze
CEDU
Cantafio contro Italia del 20 novembre 1995 e Ferrantelli/Santangelo
contro
Italia del 7 agosto 1996.
8.4. – In merito all'odierna questione, la difesa della
parte privata
osserva che la tutela del diritto di proprietà prevista
nell'art. 1 del primo
Protocollo non differisce nel contenuto dalla tutela apprestata
dall'art. 42
Cost., posto che entrambe le norme richiedono un giusto bilanciamento
tra
interessi del singolo e interesse della comunità.
Secondo la parte costituita, la necessità di un
«giusto equilibrio»
porta alla conclusione per cui «ogni volta che venga sacrificato
il diritto e
l'interesse di un singolo per la realizzazione di una singola opera
pubblica
e/o di pubblica utilità, l'indennizzo deve essere pari al valore
venale
integrale del bene, mentre è soltanto nei casi eccezionali, in
cui la
privazione della proprietà riguardi una serie indeterminata di
soggetti e sia
volta ad attuare fondamentali riforme politiche, economiche e/o
sociali, che
l'indennizzo potrebbe, se del caso, essere inferiore all'integrale
valore
venale del bene, fermo restando che, anche in questi casi, l'indennizzo
deve
sempre e comunque essere in ragionevole collegamento con detto
valore».
Dunque, a parere della parte privata, l'integrale
compensazione della
perdita subita dal proprietario sarebbe perfettamente compatibile con
il
principio contenuto nell'art. 42 Cost., come dimostrerebbe la
circostanza che
il criterio seguito fino al 1992 è stato quello previsto
dall'art. 39 della
legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore di mercato, con
l'unica
eccezione costituita dalla legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento
della
città di Napoli). Peraltro, si sarebbe trattato di un'eccezione
solo apparente,
poiché la legge n. 2892 del 1885 riguardava essenzialmente
l'espropriazione di
edifici, sicché l'indennità era determinata «sulla
media del valore venale e
dei fitti coacervati dell'ultimo decennio, purché essi abbiano
data certa
corrispondente al rispettivo anno di locazione», ed era assistita
da una logica
legata alla contingente situazione della città di Napoli
(fabbricati di scarso
valore perché degradati, che però producevano un reddito
alto per la condizione
di sovraffollamento e di canoni elevati). Il criterio ivi previsto non
conduceva, pertanto, a risultati penalizzanti per gli espropriati, i
quali, se
si fosse applicato il criterio generale del valore venale, avrebbero
percepito
un'indennità minore.
Il criterio previsto nel censurato art. 5-bis,
invece, non attuerebbe «il necessario ed imprescindibile
giusto equilibrio tra il diritto umano del singolo e l'interesse della
collettività», assumendo, pertanto, un «carattere
sostanzialmente “punitivo”».
9. – Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n.
2 del 2007),
la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità
costituzionale
dell'art. 5-bis del decreto-legge n.
333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del
1992, per
violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione
all'art. 6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà
fondamentali ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione
stessa,
nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato
art. 1 del
primo Protocollo.
La norma è oggetto di censura nella parte in cui,
ai fini della
determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli
edificabili, prevede
il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il
reddito
dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai
giudizi in corso
alla data dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.
9.1. – Nel giudizio a quo, la parte privata M.T.G., già
proprietaria di terreni siti nel comune di Ceprano, occupati nel 1980
ed
espropriati nel 1984, ha proposto ricorso avverso la sentenza
definitiva della
Corte d'appello di Roma del 22 novembre-18 dicembre 2000, censurando la
quantificazione dell'indennità di espropriazione, determinata ai
sensi
dell'art. 5-bis, nonché il rigetto
della domanda di liquidazione degli interessi legali e della
rivalutazione
monetaria. La ricorrente chiede la disapplicazione del citato art. 5-bis, per contrasto con gli artt. 1 del
primo Protocollo e 6 CEDU, oltre ad invocare il mutamento
dell'orientamento
giurisprudenziale nel senso della qualificazione dell'indennità
di
espropriazione come credito di valore anziché di valuta. Avverso
la medesima
sentenza ha proposto ricorso incidentale il Comune di Ceprano, il quale
lamenta, in via principale ed assorbente, che la Corte di merito ha
rideterminato l'indennità di espropriazione, in senso favorevole
alla parte
ricorrente, dopo che la stessa Corte, con la sentenza non definitiva
del 28
gennaio 1991, aveva respinto la domanda di risarcimento danni per
l'occupazione
dei suoli e su tale rigetto si era formato il giudicato. Il ricorrente
incidentale censura altresì la mancata applicazione dell'art. 16
del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino
della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della
legge 23
ottobre 1992, n. 421), in luogo dell'art. 5-bis,
ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione.
Con successiva memoria, la parte ricorrente in via
principale ha
formulato, subordinatamente al mancato accoglimento della richiesta di
disapplicazione, eccezione di illegittimità costituzionale
dell'art. 5-bis, per violazione degli artt. 2, 10,
11, 42, 97, 111 e 117 Cost., in relazione all'art. 1 del primo
Protocollo e
all'art. 6 CEDU.
9.2. – Il giudice a quo
procede preliminarmente alla delibazione del motivo di ricorso
incidentale
relativo all'inammissibilità della opposizione alla
indennità, e ciò in quanto
l'eventuale suo accoglimento comporterebbe l'inapplicabilità
dell'art. 5-bis nel giudizio in corso. Superato il
profilo preliminare, nel senso della infondatezza del motivo di
impugnazione, è
esaminata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, come eccepita dalla parte
ricorrente.
Il percorso argomentativo, in esito al quale la Cassazione
solleva la
questione nei termini indicati in premessa, è peraltro in tutto
identico a
quello sviluppato nell'ordinanza r.o. n. 681 del 2006, e dunque
può rinviarsi a
quanto esposto nel paragrafo 5.
9.3. – Avuto riguardo alla rilevanza della questione, il
giudice a quo precisa che, essendo incontestata
la natura edificabile delle aree espropriate, nel giudizio principale
trova
applicazione, ratione temporis, la
norma contenuta nell'art. 5-bis, e
non l'art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, pure richiamato dalla parte
ricorrente, il quale risulta applicabile ai soli giudizi iniziati dopo
il 1°
luglio 2003. Il giudizio di opposizione alla stima è stato
introdotto nel 1987,
in esito al procedimento espropriativo iniziato nel 1980. Il
riferimento
temporale risulta decisivo, a parere della Corte rimettente, ai fini
della
rilevanza del denunciato contrasto dell'art. 5-bis con
l'art. 111 Cost, in relazione all'art. 6 CEDU.
L'applicazione retroattiva del relativo criterio di determinazione
dell'indennità avrebbe comportato, nel caso di specie,
l'alterazione della
condizione di parità delle parti nel processo, a favore
dell'espropriante, e
dunque la lesione dell'affidamento della parte privata, la quale si era
risolta
a proporre il giudizio confidando nell'applicazione delle più
favorevoli regole
allora vigenti.
10. – È intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
il quale
ha concluso per la non fondatezza delle questioni, svolgendo
considerazioni del
tutto coincidenti con quelle sviluppate nei giudizi promossi con le
ordinanze
del 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006) e del 19 ottobre 2006 (r.o.
n. 681
del 2006) della Corte di cassazione. Si rinvia, pertanto, a quanto
esposto nel
paragrafo 2.
11. – Con memoria depositata il 25 gennaio 2007 si
è costituita M.T.G.,
ricorrente principale nel giudizio a quo,
la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità
delle questioni ed
in subordine per l'accoglimento delle stesse, con conseguente
declaratoria di
illegittimità costituzionale della norma censurata.
La memoria della parte privata è in tutto
coincidente con quella
depositata nel giudizio di cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto si
rinvia a
quanto esposto nel paragrafo 7.
12. – In data 20 giugno 2007 la stessa M.T.G. ha
depositato una memoria
integrativa, con allegata documentazione. Nella
memoria si contestano il contenuto
dell'atto di costituzione della Presidenza del Consiglio dei ministri e
le
conclusioni ivi raggiunte, nel senso della infondatezza delle questioni
poste
dalla Corte rimettente, e sono svolti ulteriori argomenti a sostegno
delle
conclusioni già rassegnate nel proprio atto di costituzione.
La memoria propone, in maniera pressoché identica,
le argomentazioni
svolte nell'omologo atto depositato dalla parte privata A.C. nel
giudizio di
cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto si rinvia a quanto esposto nel
paragrafo 8.
Viene segnalata, inoltre, la sproporzione ancor più
grave che si
produrrebbe, a carico dei proprietari espropriati, per effetto
dell'applicazione nel caso di specie del criterio indennitario
contenuto
nell'art. 5-bis, trattandosi di suoli
espropriati per essere destinati a fini di edilizia residenziale
pubblica. In
virtù della legge 17 febbraio 1992, n. 179 (Norme
per l'edilizia residenziale pubblica), antecedente
all'introduzione dell'art. 5-bis, gli
assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica possono
liberamente
cedere tali alloggi a terzi, a qualunque prezzo, dopo che siano
trascorsi
cinque anni dall'assegnazione. Ciò fa sì che il
depauperamento subito dal
proprietario del suolo oggetto di espropriazione vada a beneficio di
altri
privati, rientrando gli immobili ivi edificati nel mercato delle libere
contrattazioni dopo cinque anni dall'assegnazione, con la conseguenza
di
rendere ancor più inaccettabile, perché ingiustificato,
il criterio
indennitario previsto dalla norma censurata. Considerato
in diritto
1. – Con tre distinte ordinanze la Corte di cassazione ha
sollevato
questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis
del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il
risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
dalla legge
8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell'art. 111, primo e secondo
comma,
della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU), firmata
a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la
legge 4 agosto
1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la
salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il
4 novembre
1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a
Parigi il
20 marzo 1952), ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione
stessa,
firmato a Parigi il 20 marzo 1952, nonché dell'art. 117, primo
comma, Cost., in
relazione ai citati artt. 6 CEDU e 1 del primo Protocollo.
La norma è oggetto di censura nella parte in cui,
ai fini della
determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli
edificabili, prevede
il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il
reddito
dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai
giudizi in corso
alla data dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.
2. – I giudizi, per l'identità dell'oggetto e dei
parametri costituzionali
evocati, possono essere riuniti e decisi con la medesima sentenza.
3. – Preliminarmente, occorre valutare la ricostruzione,
prospettata
dalla parte privata A.C., dei rapporti tra sistema CEDU, obblighi
derivanti
dalle asserite violazioni strutturali accertate con sentenze definitive
della
Corte europea e giudici nazionali.
3.1. – Secondo la suddetta parte privata, il contrasto,
ove accertato,
tra norme interne e sistema CEDU dovrebbe essere risolto con la
disapplicazione
delle prime da parte del giudice comune. Viene richiamato, in
proposito, il
Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la
legge
28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11
alla
convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali,
recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla
convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994). L'art. 34 di tale
Protocollo
prevede la possibilità di ricorsi individuali diretti alla Corte
europea da parte
dei cittadini degli Stati contraenti, mentre, con l'art. 46, gli stessi
Stati
si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle
controversie delle quali sono parti.
Sono parimenti invocate la Risoluzione 1226 (2000)
dell'Assemblea
Parlamentare del Consiglio d'Europa, con la quale le Alte Parti
contraenti sono
invitate ad adottare le misure necessarie per dare esecuzione alle
sentenze
definitive della Corte di Strasburgo, la Risoluzione Res(2004)3 del 12
maggio
2004 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, relativa alle
sentenze
che accertano un problema strutturale sottostante alla violazione, la
Raccomandazione Rec(2004)5, di pari data, del Comitato dei ministri del
Consiglio d'Europa, relativa alla verifica di conformità dei
progetti di legge,
delle leggi vigenti e della prassi amministrativa agli standard
stabiliti dalla
Convenzione, nonché la Raccomandazione Rec(2004)6, di pari data,
con cui il
Comitato dei ministri ha ribadito che gli Stati contraenti, a seguito
delle
sentenze della Corte che individuano carenze di carattere strutturale o
generale dell'ordinamento normativo o delle prassi nazionali
applicative, sono
tenuti a rivedere l'efficacia dei rimedi interni esistenti e, se
necessario, ad
instaurare validi rimedi, al fine di evitare che la Corte venga adita
per casi
ripetitivi.
3.2. – La prospettata ricostruzione funge da premessa alla
richiesta,
avanzata dalla predetta parte privata, che la questione sia dichiarata
inammissibile, posto che i giudici comuni avrebbero il dovere di
disapplicare
le norme interne che la Corte europea abbia ritenuto essere causa di
violazione
strutturale della Convenzione.
3.3. – L'eccezione di inammissibilità non
può essere accolta.
Questa Corte ha chiarito come le norme comunitarie
«debbano avere piena
efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati
membri, senza
la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti
aventi forza e
valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da
entrare ovunque contemporaneamente
in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di
tutti i
destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984). Il
fondamento
costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato
nell'art. 11
Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della
sovranità nazionale
necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali
rivolte
ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni.
Il riferito indirizzo giurisprudenziale non riguarda le
norme CEDU,
giacché questa Corte aveva escluso, già prima di sancire
la diretta
applicabilità delle norme comunitarie nell'ordinamento interno,
che potesse
venire in considerazione, a proposito delle prime, l'art. 11 Cost.
«non essendo
individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame,
alcuna
limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188
del 1980). La
distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere
ribadita nel
presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa
giurisprudenza di
questa Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza,
in
quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà
fondamentali delle
persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano
lo Stato,
ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da
affermare la
competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle
controversie ad
essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in
eventuale contrasto.
L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel
2001 con la
riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha
confermato il
precitato orientamento giurisprudenziale di questa Corte. La
disposizione
costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo,
i
vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli
riconducibili agli
«obblighi internazionali».
Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma
anche
sostanziale.
Con l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia è
entrata a far parte di
un “ordinamento” più ampio, di natura sopranazionale, cedendo
parte della sua
sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle
materie oggetto
dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilità dei
principi e dei
diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.
La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento
giuridico
sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili
negli Stati
contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale
multilaterale
– pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate più
avanti – da
cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non
l'incorporazione
dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai
cui organi
deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso
medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.
Correttamente il giudice a quo
ha escluso di poter risolvere il dedotto contrasto della norma
censurata con
una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo
egli
stesso a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile
con la
seconda. Le Risoluzioni e Raccomandazioni citate dalla parte
interveniente si
indirizzano agli Stati contraenti e non possono né vincolare
questa Corte, né
dare fondamento alla tesi della diretta applicabilità delle
norme CEDU ai
rapporti giuridici interni.
3.4. – Si condivide anche l'esclusione – argomentata nelle
ordinanze di
rimessione – delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall'ambito di
operatività dell'art. 10, primo comma, Cost., in
conformità alla costante
giurisprudenza di questa Corte sul punto. La citata disposizione
costituzionale, con l'espressione «norme del diritto
internazionale
generalmente riconosciute», si riferisce soltanto alle norme
consuetudinarie e
dispone l'adattamento automatico, rispetto alle stesse,
dell'ordinamento
giuridico italiano. Le norme pattizie, ancorché generali,
contenute in trattati
internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla
portata
normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte la CEDU,
con la
conseguente «impossibilità di assumere le relative norme
quali parametri del
giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole
(sentenza n. 188 del
1980), ovvero come norme interposte ex
art. 10 della Costituzione» (ordinanza n. 143 del 1993; conformi,
ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987,
n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464
del
2005).
4. – La questione di legittimità costituzionale
dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata
in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., è fondata.
4.1. – La questione, così come proposta dal giudice
rimettente, si
incentra sul presunto contrasto tra la norma censurata e l'art. 1 del
primo
Protocollo della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea per i
diritti
dell'uomo, in quanto i criteri di calcolo per determinare l'indennizzo
dovuto ai
proprietari di aree edificabili espropriate per motivi di pubblico
interesse
condurrebbero alla corresponsione di somme non congruamente
proporzionate al
valore dei beni oggetto di ablazione.
Il parametro evocato negli atti introduttivi del presente
giudizio è
l'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto dalla legge
costituzionale
18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al
titolo V della parte seconda della Costituzione). Il giudice
rimettente
ricorda infatti che la stessa norma ora censurata è già
stata oggetto di
scrutinio di costituzionalità da parte di questa Corte, che ha
rigettato la
questione di legittimità costituzionale, allora proposta in
relazione agli
artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113 e 117 Cost. (sentenza n. 283 del
1993). La
sentenza citata è stata successivamente confermata da altre
pronunce di questa
Corte del medesimo tenore. Il rimettente non chiede oggi alla Corte
costituzionale di modificare la propria consolidata giurisprudenza
nella
materia de qua, ma mette in rilievo
che il testo riformato dell'art. 117, primo comma, Cost., renderebbe
necessaria
una nuova valutazione della norma censurata in relazione a questo
parametro,
non esistente nel periodo in cui la pregressa giurisprudenza
costituzionale si
è formata.
4.2. – Impostata in tal modo la questione da parte del
rimettente, è in
primo luogo necessario riconsiderare la posizione e il ruolo delle
norme della
CEDU, allo scopo di verificare, alla luce della nuova disposizione
costituzionale, la loro incidenza sull'ordinamento giuridico italiano.
L'art. 117, primo comma, Cost. condiziona l'esercizio
della potestà
legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi
internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti
dalla Convenzione
europea per i diritti dell'uomo. Prima della sua introduzione,
l'inserimento
delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del diritto
italiano era tradizionalmente affidato, dalla dottrina prevalente e
dalla
stessa Corte costituzionale, alla legge di adattamento, avente
normalmente
rango di legge ordinaria e quindi potenzialmente modificabile da altre
leggi
ordinarie successive. Da tale collocazione derivava, come naturale
corollario,
che le stesse norme non potevano essere assunte quali parametri del
giudizio di
legittimità costituzionale (ex plurimis,
sentenze n. 188 del 1980, n. 315 del 1990, n. 388 del 1999).
4.3. – Rimanevano notevoli margini di incertezza, dovuti
alla difficile
individuazione del rango delle norme CEDU, che da una parte si
muovevano nell'ambito
della tutela dei diritti fondamentali delle persone, e quindi
integravano
l'attuazione di valori e principi fondamentali protetti dalla stessa
Costituzione italiana, ma dall'altra mantenevano la veste formale di
semplici
fonti di grado primario. Anche a voler escludere che il legislatore
potesse
modificarle o abrogarle a piacimento, in quanto fonti atipiche (secondo
quanto
affermato nella sentenza n. 10 del 1993 di questa Corte, non seguita
tuttavia
da altre pronunce dello stesso tenore), restava il problema degli
effetti
giuridici di una possibile disparità di contenuto tra le stesse
ed una norma
legislativa posteriore.
Tale situazione di incertezza ha spinto alcuni giudici
comuni a
disapplicare direttamente le norme legislative in contrasto con quelle
CEDU,
quali interpretate dalla Corte di Strasburgo. S'è fatta strada
in talune
pronunce dei giudici di merito, ma anche in parte della giurisprudenza
di
legittimità (Cass., sez. I, sentenza n. 6672 del 1998; Cass.,
sezioni unite,
sentenza n. 28507 del 2005), l'idea che la specifica antinomia possa
essere
eliminata con i normali criteri di composizione in sistema delle fonti
del
diritto. In altre parole, si è creduto di poter trarre da un
asserito carattere
sovraordinato della fonte CEDU la conseguenza che la norma interna
successiva,
modificativa o abrogativa di una norma prodotta da tale fonte, fosse
inefficace, per la maggior forza passiva della stessa fonte CEDU, e che
tale
inefficacia potesse essere la base giustificativa della sua non
applicazione da
parte del giudice comune.
Oggi questa Corte è chiamata a fare chiarezza su
tale problematica
normativa e istituzionale, avente rilevanti risvolti pratici nella
prassi
quotidiana degli operatori del diritto. Oltre alle considerazioni che
sono
state svolte nel paragrafo 3.3 (per più ampi svolgimenti si
rinvia alla
sentenza n. 349 del 2007), si deve
aggiungere che il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost, se da
una parte
rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU
rispetto a
leggi ordinarie successive, dall'altra attrae le stesse nella sfera di
competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non
generano
problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla
rispettiva
collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di
legittimità
costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di
disapplicare la
norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU,
poiché
l'asserita incompatibilità tra le due si presenta come una
questione di
legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art.
117, primo
comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi.
Ogni argomentazione atta ad introdurre nella pratica,
anche in modo
indiretto, una sorta di “adattamento automatico”, sul modello dell'art.
10,
primo comma, Cost., si pone comunque in contrasto con il sistema
delineato
dalla Costituzione italiana – di cui s'è detto al paragrafo 3.4
– e più volte
ribadito da questa Corte, secondo cui l'effetto previsto nella citata
norma
costituzionale non riguarda le norme pattizie (ex plurimis,
sentenze n. 32 del 1960, n. 323 del 1989, n. 15 del
1996).
4.4. – Escluso che l'art. 117, primo comma, Cost., nel
nuovo testo,
possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di norme
costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11), si deve
pure
escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto
nell'ambito dei
rapporti tra lo Stato e le Regioni. L'utilizzazione del criterio
interpretativo
sistematico, isolato dagli altri e soprattutto in contrasto con lo
stesso
enunciato normativo, non è sufficiente a circoscrivere l'effetto
condizionante
degli obblighi internazionali, rispetto alla legislazione statale,
soltanto al
sistema dei rapporti con la potestà legislativa regionale. Il
dovere di
rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e
univocamente sul
contenuto della legge statale; la validità di quest'ultima non
può mutare a
seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di
competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in
esame
nella sua potenzialità normativa generale. La legge – e le norme
in essa
contenute – è sempre la stessa e deve ricevere
un'interpretazione uniforme, nei
limiti in cui gli strumenti istituzionali predisposti per
l'applicazione del
diritto consentono di raggiungere tale obiettivo.
Del resto, anche se si restringesse la portata normativa
dell'art. 117,
primo comma, Cost. esclusivamente all'interno del sistema dei rapporti
tra
potestà legislativa statale e regionale configurato dal titolo V
della parte
seconda della Costituzione, non si potrebbe negare che esso vale
comunque a
vincolare la potestà legislativa dello Stato sia nelle materie
indicate dal secondo
comma del medesimo articolo, di competenza esclusiva statale, sia in
quelle
indicate dal terzo comma, di competenza concorrente. Poiché,
dopo la riforma
del titolo V, lo Stato possiede competenza legislativa esclusiva o
concorrente
soltanto nelle materie elencate dal secondo e dal terzo comma,
rimanendo
ricomprese tutte le altre nella competenza residuale delle Regioni,
l'operatività del primo comma dell'art. 117, anche se
considerata solo
all'interno del titolo V, si estenderebbe ad ogni tipo di
potestà legislativa,
statale o regionale che sia, indipendentemente dalla sua collocazione.
4.5. – La struttura della norma costituzionale, rispetto
alla quale è
stata sollevata la presente questione, si presenta simile a quella di
altre
norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta
operatività solo se poste
in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale,
destinate
a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via
generale una
qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le
norme necessarie a
tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio
tra
questa e la legge ordinaria. A prescindere dall'utilizzazione, per
indicare
tale tipo di norme, dell'espressione “fonti interposte”, ricorrente in
dottrina
ed in una nutrita serie di pronunce di questa Corte (ex
plurimis, sentenze n.
101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4 del 2000, n. 533 del 2002, n. 108
del 2005,
n. 12 del 2006, n. 269 del 2007), ma di cui viene talvolta contestata
l'idoneità a designare una categoria unitaria, si deve
riconoscere che il
parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa
concretamente
operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi
internazionali”
che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle
Regioni. Nel caso
specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro
viene
integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione
è quindi di
concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi
internazionali
dello Stato.
4.6. – La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati
internazionali, la
caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo
giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'uomo, cui è
affidata la
funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti
l'art. 32,
paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a
tutte le
questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della
Convenzione e
dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni
previste negli
articoli 33, 34 e 47».
Poiché le norme giuridiche vivono
nell'interpretazione che ne danno gli
operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale
conseguenza che
deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra
gli obblighi
internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica
della
CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme
di tale
trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente
istituita per
dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare
quindi di una
competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi
giudiziari
dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che
gli Stati
contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con
ciò a
precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia.
4.7. – Quanto detto sinora non significa che le norme
della CEDU, quali
interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme
costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di
legittimità costituzionale
di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano
il parametro
costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello
sub-costituzionale, è
necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare
natura delle
stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle
concordatarie, fa
sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa
limitarsi alla possibile
lesione dei principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis,
sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del
1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis, sentenze n. 30 e n. 31 del
1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16
del 1978,
n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni
profilo
di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali.
L'esigenza che le norme che integrano il parametro di
costituzionalità
siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e
inderogabile, per
evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata
incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua
volta in
contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente
da
pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne,
occorre
verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di
entrambe e
precisamente la compatibilità della norma interposta con la
Costituzione e la
legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma
interposta.
Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in
contrasto con una
norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare
l'inidoneità
della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali,
ad
espungerla dall'ordinamento giuridico italiano.
Poiché, come chiarito sopra, le norme della CEDU
vivono
nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea,
la
verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la
norma come prodotto
dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé
considerata. Si deve
peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano
incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di
costituzionalità delle
leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole
bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali,
quale
imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi
costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della
Costituzione.
In sintesi, la completa operatività delle norme
interposte deve superare
il vaglio della loro compatibilità con l'ordinamento
costituzionale italiano,
che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste
non derivano
da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state
accettate
limitazioni di sovranità come quelle previste dall'art. 11 della
Costituzione.
5. – Alla luce dei principi metodologici illustrati sino a
questo punto,
lo scrutinio di legittimità costituzionale chiesto dalla Corte
rimettente deve
essere condotto in modo da verificare: a)
se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via
interpretativa tra la
norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte
europea ed
assunte come fonti integratrici del parametro di
costituzionalità di cui
all'art. 117, primo comma, Cost.; b)
se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro,
nell'interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano
compatibili con
l'ordinamento costituzionale italiano.
5.1. – L'art. 5-bis del
decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla
legge n.
359 del 1992, prescrive, al primo comma, i criteri di calcolo
dell'indennità di
espropriazione per pubblica utilità delle aree edificabili, che
consistono
nell'applicazione dell'art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio
1885, n.
2892 (Risanamento della città di Napoli), «sostituendo in
ogni caso ai fitti
coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui
agli
articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi,
approvato con
d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917». L'importo così
determinato è ridotto del 40
per cento. Il secondo comma aggiunge che, in caso di cessione
volontaria del
bene da parte dell'espropriato, non si applica la riduzione di cui
sopra.
La norma censurata è stata oggetto di questione di
legittimità
costituzionale, definita con la sentenza n. 283 del 1993.
Nel dichiarare non fondata la questione, questa Corte ha
richiamato la
sua pregressa giurisprudenza, consolidatasi negli anni, sul concetto di
«serio
ristoro», particolarmente illustrato nella sentenza n. 5 del
1980. Quest'ultima
pronuncia ha stabilito che «l'indennizzo assicurato
all'espropriato dall'art.
42, comma terzo, Cost., se non deve costituire una integrale
riparazione della
perdita subita – in quanto occorre coordinare il diritto del privato
con
l'interesse generale che l'espropriazione mira a realizzare – non
può essere,
tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma deve
rappresentare un serio ristoro. Perché ciò possa
realizzarsi, occorre far
riferimento, per la determinazione dell'indennizzo, al valore del bene
in
relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla
potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo
può
assicurarsi la congruità del ristoro spettante all'espropriato
ed evitare che
esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del
bene».
Il principio del serio ristoro è violato, secondo
tale pronuncia,
quando, «per la determinazione dell'indennità, non si
considerino le
caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti un diverso
criterio che
prescinda dal valore di esso».
5.2. – L'effetto della sentenza
da ultimo richiamata (e della successiva n. 223 del 1983) è
stato quello di
rendere nuovamente applicabile il criterio del valore venale, quale
previsto
dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per
causa di
utilità pubblica) sino all'introduzione, nel 1992, della norma
censurata.
A proposito di quest'ultima, la Corte, con la già
ricordata sentenza n.
283 del 1993, ha confermato il principio del serio ristoro, precisando
che, da
una parte, l'art. 42 Cost. «non garantisce all'espropriato il
diritto ad
un'indennità esattamente commisurata al valore venale del bene
e, dall'altra,
l'indennità stessa non può essere (in negativo) meramente
simbolica od
irrisoria, ma deve essere (in positivo) congrua, seria, adeguata».
Posto che, in conformità all'ormai consolidato
orientamento
giurisprudenziale, deve essere esclusa «una valutazione del tutto
astratta in
quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene
ablato», questa
Corte ha ritenuto ammissibili criteri «mediati», lasciando
alla discrezionalità
del legislatore l'individuazione dei parametri concorrenti con quello
del
valore venale. La Corte stessa ha tenuto a precisare che la
«mediazione tra
l'interesse generale sotteso all'espropriazione e l'interesse privato,
espresso
dalla proprietà privata, non può fissarsi in un
indefettibile e rigido criterio
quantitativo, ma risente sia del contesto complessivo in cui
storicamente si
colloca, sia dello specifico che connota il procedimento espropriativo,
non
essendo il legislatore vincolato ad individuare un unico criterio di
determinazione dell'indennità, valido in ogni fattispecie
espropriativa».
Come emerge chiaramente dalla citata pronuncia, questa
Corte, accanto al
criterio del serio ristoro – che esclude la pura e semplice
identificazione
dell'indennità espropriativa con il valore venale del bene – ha
pure
riconosciuto la relatività sincronica e diacronica dei criteri
di
determinazione adottabili dal legislatore. In altri termini,
l'adeguatezza dei
criteri di calcolo deve essere valutata nel contesto storico,
istituzionale e
giuridico esistente al momento del giudizio. Né il criterio del
valore venale
(pur rimasto in vigore dal 1983 al 1992), né alcuno dei criteri
«mediati»
prescelti dal legislatore possono avere i caratteri dell'assolutezza e
della
definitività. La loro collocazione nel sistema e la loro
compatibilità con i
parametri costituzionali subiscono variazioni legate al decorso del
tempo o al
mutamento del contesto istituzionale e normativo, che non possono
restare senza
conseguenze nello scrutinio di costituzionalità della norma che
li contiene.
La Corte ha concluso affermando: «anche un contesto
complessivo che
risulti caratterizzato da una sfavorevole congiuntura economica – che
il
legislatore mira a contrastare con un'ampia manovra
economico-finanziaria – può
conferire un diverso peso ai confliggenti interessi oggetto del
bilanciamento
legislativo. Questa essenziale relatività dei valori in giuoco
impone una
verifica settoriale e legata al contesto di riferimento nel momento in
cui si
pone il raffronto tra il risultato del bilanciamento operato dal
legislatore
con la scelta di un determinato criterio “mediato” ed il canone di
adeguatezza
dell'indennità ex art. 42, comma 3,
della Costituzione».
5.3. – La Corte rimettente ha posto in evidenza proprio la
relatività
delle valutazioni, che richiede di verificare nel tempo e nello spazio
normativo il punto di equilibrio tra i contrastanti interessi
costituzionalmente protetti. Si impongono pertanto due distinti
approfondimenti: a) l'incidenza del
mutato quadro normativo sulla compatibilità della norma
censurata con la tutela
del diritto di proprietà; b) il
legame tra la contingente situazione storica (economica e finanziaria)
esistente al momento della sentenza n. 283 del 1993 e l'esito del
giudizio di
legittimità costituzionale sulla stessa norma.
5.4. – Sul primo punto, si deve rilevare che l'art. 1 del
primo
Protocollo della CEDU è stato oggetto di una progressiva
focalizzazione
interpretativa da parte della Corte di Strasburgo, che ha attribuito
alla
disposizione un contenuto ed una portata ritenuti dalla stessa Corte
incompatibili con la disciplina italiana dell'indennità di
espropriazione.
In esito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale, la Grande Chambre, con la decisione del 29
marzo 2006, nella causa Scordino contro Italia, ha fissato alcuni
principi
generali: a) un atto della autorità
pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare
un giusto
equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale e gli imperativi
della
salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui (punto 93); b) nel controllare il rispetto di questo
equilibrio, la Corte riconosce allo Stato «un ampio margine di
apprezzamento»,
tanto per scegliere le modalità di attuazione, quanto per
giudicare se le loro
conseguenze trovano legittimazione, nell'interesse generale, dalla
necessità di
raggiungere l'obiettivo della legge che sta alla base
dell'espropriazione
(punto 94); c) l'indennizzo non è
legittimo, se non consiste in una somma che si ponga «in rapporto
ragionevole
con il valore del bene»; se da una parte la mancanza totale di
indennizzo è
giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall'altra non è
sempre
garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95); d)
in caso di «espropriazione isolata», pur se a fini di
pubblica
utilità, solo una riparazione integrale può essere
considerata in rapporto
ragionevole con il valore del bene (punto 96); e)
«obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli
perseguiti
da misure di riforma economica o di giustizia sociale possono
giustificare un
indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo» (punto 97).
Poiché i criteri di calcolo dell'indennità
di espropriazione previsti
dalla legge italiana porterebbero alla corresponsione, in tutti i casi,
di una
somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale), la Corte
europea ha
dichiarato che l'Italia ha il dovere di porre fine ad una violazione
sistematica e strutturale dell'art. 1 del primo Protocollo della CEDU,
anche
allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un
numero
rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima.
5.5. – Per stabilire se e in quale misura la suddetta
pronuncia della
Corte europea incide nell'ordinamento giuridico italiano, occorre
esaminare
analiticamente il criterio di calcolo dell'indennità di
espropriazione previsto
dalla norma censurata.
L'indennità dovuta al proprietario espropriato,
secondo la citata norma,
è pari alla media del valore venale del bene e del reddito
dominicale
rivalutato riferito all'ultimo decennio, con un'ulteriore sottrazione
del 40
per cento dalla cifra così ottenuta.
Si deve, in primo luogo, osservare che è stato
modificato l'originario
criterio previsto dalla legge n. 2892 del 1885, che, essendo mirata al
risanamento di una grande città, prevedeva coerentemente il
ricorso, ai fini
della media, alla somma risultante dai «fitti coacervati»
dell'ultimo decennio.
C'era l'evidente e dichiarata finalità di indennizzare i
proprietari di
fabbricati ricadenti nell'area urbana, tenendo conto che gli stessi
erano per
lo più degradati, ma densamente abitati da inquilini che
pagavano alti canoni
di locazione. Si intendeva, in tal modo, indennizzare i proprietari per
il
venir meno di un reddito concreto costituito dai fitti che gli stessi
percepivano. L'indennizzo così calcolato poteva essere anche
più alto del
valore venale del bene in sé e per sé considerato.
La sostituzione dei fitti coacervati con il reddito
dominicale ha
spostato verso il basso l'indennità rispetto a quella prevista
dalla legge per
il risanamento di Napoli, con il risultato pratico che, nella
generalità dei
casi, la somma ottenuta in base alla media prevista dalla legge
è di circa il 50
per cento del valore venale del bene. A ciò si aggiunge
l'ulteriore
decurtazione del 40 per cento, evitabile solo con la cessione
volontaria del
bene.
5.6. – Sia la giurisprudenza della Corte costituzionale
italiana sia
quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di
riferimento
per determinare l'indennità di espropriazione deve essere il
valore di mercato
(o venale) del bene ablato. V'è pure concordanza di principio –
al di là delle
diverse espressioni linguistiche impiegate – sulla non coincidenza
necessaria
tra valore di mercato e indennità espropriativa, alla luce del
sacrificio che
può essere imposto ai proprietari di aree edificabili in vista
del
raggiungimento di fini di pubblica utilità.
Rispetto alla pregressa giurisprudenza di questa Corte, si
deve rilevare
un apparente contrasto tra le sentenze di rigetto (principalmente la n.
283 del
1993) sulle questioni riguardanti la norma oggi nuovamente censurata e
la netta
presa di posizione della Corte di Strasburgo circa
l'incompatibilità dei
criteri di computo previsti in tale norma e l'art. 1 del primo
Protocollo della
CEDU.
In realtà, come rilevato, questa Corte – nel
dichiarare non fondata la
questione relativa all'art. 5-bis del
decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla
legge n.
359 del 1992 – ha posto in rilievo il carattere transitorio di tale
disciplina,
giustificata dalla grave congiuntura economica che il Paese stava
attraversando
ed ha precisato – come s'è ricordato al paragrafo 5.2 – che la
valutazione
sull'adeguatezza dell'indennità deve essere condotta in termini
relativi,
avendo riguardo al quadro storico-economico ed al contesto
istituzionale.
Sotto il primo profilo, si deve notare che il criterio
dichiaratamente
provvisorio previsto dalla norma censurata è divenuto oggi
definitivo, ad opera
dell'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità)
– non censurato ratione temporis dal
giudice rimettente –, che contiene una norma identica, conformemente,
del
resto, alla sua natura di atto normativo compilativo. È venuta
meno, in tal
modo, una delle condizioni che avevano indotto questa Corte a ritenere
la norma
censurata non incompatibile con la Costituzione. Né si
può ritenere che una
«sfavorevole congiuntura economica» possa andare avanti
all'infinito,
conferendo sine die alla legislazione
una condizione di eccezionalità che, se troppo prolungata nel
tempo, perde tale
natura ed entra in contraddizione con la sua stessa premessa. Se
problemi
rilevanti di equilibrio della finanza pubblica permangono anche al
giorno
d'oggi – e non si prevede che potranno essere definitivamente risolti
nel breve
periodo – essi non hanno il carattere straordinario ed acuto della
situazione
dei conti pubblici verificatasi nel 1992, che indusse Parlamento e
Governo ad
adottare misure di salvataggio drastiche e successivamente non
replicate.
Un'indennità «congrua, seria ed
adeguata» (come precisato dalla sentenza
n. 283 del 1993) non può adottare il valore di mercato del bene
come mero punto
di partenza per calcoli successivi che si avvalgono di elementi del
tutto
sganciati da tale dato, concepiti in modo tale da lasciare alle spalle
la
valutazione iniziale, per attingere risultati marcatamente lontani da
essa.
Mentre il reddito dominicale mantiene un sia pur flebile legame con il
valore
di mercato (con il risultato pratico però di dimezzare, il
più delle volte,
l'indennità), l'ulteriore detrazione del 40 per cento è
priva di qualsiasi
riferimento, non puramente aritmetico, al valore del bene. D'altronde
tale
decurtazione viene esclusa in caso di cessione volontaria e quindi
risulta
essere non un criterio, per quanto “mediato”, di valutazione del bene,
ma l'effetto
di un comportamento dell'espropriato.
5.7. – Da quanto sinora detto si deve trarre la
conclusione che la norma
censurata – la quale prevede un'indennità oscillante, nella
pratica, tra il 50
ed il 30 per cento del valore di mercato del bene – non supera il
controllo di
costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame»
con il valore venale,
prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente,
del
resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla
giurisprudenza consolidata di
questa Corte. La suddetta indennità è inferiore alla
soglia minima accettabile
di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in
considerazione del
fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene
ulteriormente
falcidiata dall'imposizione fiscale, la quale – come rileva il
rimettente – si
attesta su valori di circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che
può
essere imposto in nome dell'interesse pubblico non può giungere
sino alla
pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà.
Non emergono, sulla base delle considerazioni fin qui
svolte, profili di
incompatibilità tra l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU,
quale
interpretato dalla Corte di Strasburgo, e l'ordinamento costituzionale
italiano,
con particolare riferimento all'art. 42 Cost.
Si deve tuttavia riaffermare che il legislatore non ha il
dovere di
commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al
valore di mercato
del bene ablato. L'art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e
garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la
«funzione
sociale». Quest'ultima deve essere posta dal legislatore e dagli
interpreti in
stretta relazione all'art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e
sociale.
Livelli troppo elevati di spesa per l'espropriazione di aree
edificabili
destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse
potrebbero
pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla
Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero
essere di
freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per
un più
efficiente esercizio dell'iniziativa economica privata.
Valuterà il legislatore se l'equilibrio tra
l'interesse individuale dei
proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere
fisso e
uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte
europea, debba
essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla
qualità dei fini di
utilità pubblica perseguiti. Certamente non sono assimilabili
singoli espropri
per finalità limitate a piani di esproprio volti a rendere
possibili interventi
programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia
sociale.
Infatti, l'eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe
impossibili o troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto
non
deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più
consistente, per gli
«espropri isolati», di cui parla la Corte di Strasburgo.
Esiste la possibilità di arrivare ad un giusto
mezzo, che possa
rientrare in quel «margine di apprezzamento», all'interno
del quale è
legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, che il
singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle
norme
CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte.
Ciò è conforme
peraltro a quella «relatività dei valori» affermata,
come ricordato sopra,
dalla Corte costituzionale italiana. Criteri di calcolo fissi e
indifferenziati
rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto
alle quali
il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo
alla
portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono
perseguire, pur sempre
definite e classificate dalla legge in via generale.
È inoltre evidente che i criteri per la
determinazione dell'indennità di
espropriazione riguardante aree edificabili devono fondarsi sulla base
di
calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo
potenziale sfruttamento
non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti
urbanistici
vigenti nei diversi territori.
6. – La dichiarazione di illegittimità
costituzionale della norma
censurata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., rende
superflua ogni
valutazione sul dedotto contrasto con l'art. 111 Cost., in rapporto
all'applicabilità della stessa norma ai giudizi in corso al
momento della sua
entrata in vigore, poiché, ai sensi dell'art. 30, terzo comma,
della legge 11
marzo 1953, n. 87, essa non potrà avere più applicazione
dal giorno successivo
alla pubblicazione delle presente sentenza.
7. – Ai sensi dell'art. 27 della
legge n. 87 del 1953, deve essere dichiarata l'illegittimità
costituzionale, in
via consequenziale, dei commi 1 e 2 dell'art. 37 del d.P.R. n. 327 del
2001,
che contengono norme identiche a quelle dichiarate in contrasto con la
Costituzione dalla presente sentenza. LA
CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara
l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n.
333 (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359; dichiara,
ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, l'illegittimità costituzionale, in via consequenziale,
dell'art. 37,
commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità). Così deciso in Roma, nella
sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007. F.to: Franco
BILE,
Presidente Gaetano
SILVESTRI, Redattore Gabriella
MELATTI, Cancelliere Depositata
in
Cancelleria il 24 ottobre 2007. Il
Cancelliere F.to: MELATTI
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