Giurisprudenza - Espropriazione |
Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione
dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del
proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica
amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla
forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo». DIRITTO 11. Premesso che le questioni
decise dalla sentenza non definitiva (con contestuale ordinanza di rimessione
a questa Adunanza plenaria) n. 5400/2019 con le
statuizioni riportate sopra sub § 9. sono coperte da
giudicato interno ed esulano ormai dall’ambito oggettivo della presente
fase processuale, si osserva che logicamente prioritario è l’esame
delle questioni sub §§ 9.1.a) e 9.1.b), con le quali 12. Prima di procedere alla soluzione delle questioni sottoposte all’esame di questa Adunanza, è necessario ripercorrere sinteticamente la storia degli effetti dell’occupazione sine titulo della proprietà privata da parte della pubblica amministrazione, che ha interessato in modo complesso la legislazione e la giurisprudenza (ordinaria ed amministrativa) degli ultimi decenni nel settore dell’espropriazione per pubblica utilità. 12.1. La giurisprudenza più
risalente di questo Consiglio di Stato (ex multis: Sez. IV, 12.2. Sono, così, stati elaborati i distinti istituti: - della occupazione
acquisitiva o appropriativa (talvolta definita anche accessione invertita)
– attraverso l’inversione del principio civilistico superficies
solo cedit, per cui il privato, a fronte dell’irreversibile
trasformazione del bene di proprietà privata compiuta in funzione del
perseguimento di un’utilità pubblica, perdeva la proprietà del bene e,
quindi, la possibilità di ottenerne la restituzione, nonostante
l’illegittimità del procedimento espropriativo e la mancanza di un
titolo idoneo a determinare il trasferimento della proprietà dalla sfera
privata a quella pubblica (ciò, a partire dalla sentenza fondamentale Cass.
civ., Sez. un., - della occupazione usurpativa, caratterizzata dalla trasformazione del fondo di proprietà privata, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace (o perché mancante sin dall’inizio o perché venuta meno a seguito di annullamento giudiziale o perché carente dei suoi caratteri essenziali tipici, fra i quali la prefissione dei termini per il compimento delle espropriazioni e dei lavori, o perché comunque divenuta inefficace), nella quale non operava l’accessione invertita per l’assenza di una dichiarazione di prevalenza funzionale dell’interesse pubblico e, quindi, la pubblica amministrazione non acquistava la proprietà del bene, di cui restava titolare il privato. Uno dei presupposti
dell’istituto pretorio dell’occupazione acquisitiva era
costituito dalla «irreversibile trasformazione» del bene del privato,
che era integrata non da una semplice manipolazione del bene o dall’impiego di esso per il soddisfacimento di interessi
generali, ma occorreva che «l’opera dichiarata di pubblica utilità,
anche se non ultimata, [fosse] emersa come strutturalmente e
fisicamente nuova, così da evidenziare l’incompatibilità con essa
dell’autonoma sopravvivenza del fondo inglobato» (v., ex
plurimis, Cass. civ., Sez. I, 16 marzo 1994, n. 2507). Il rigore
nell’interpretazione di tale presupposto valeva ad
escludere l’occupazione acquisitiva in presenza di modifiche non
irreparabili del bene occupato. Anche 12.3. Secondo la ricostruzione pretoria degli istituti sopra richiamati, l’occupazione acquisitiva, comportante l’estinzione del diritto di proprietà del privato e l’acquisizione a titolo originario in capo all’ente costruttore, costituiva un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti), che abilitava il privato a chiedere nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento dell’irreversibile trasformazione del fondo la condanna dell’ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma che – dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 5-bis, comma 7-bis, d.-l. n. 333/1992 – era pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per la eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta, fino al giorno della liquidazione. Invece, nell’occupazione
usurpativa si configurava una mera occupazione illegittima
dell’immobile privato, ricondotta nell’alveo della responsabilità
aquiliana ex art. 2043 Cod. civ., con
le necessarie implicazioni sia in punto di prescrizione del diritto al
risarcimento del danno derivante dalla permanenza dell’illecita
occupazione, sia in punto di esperibilità delle azioni reipersecutorie a
tutela della non perduta proprietà del bene. La tesi per cui il privato,
previa rinuncia abdicativa alla proprietà del bene, potesse optare per il risarcimento del danno (per equivalente) per
la perdita definitiva del bene, è stata elaborata con specifico riferimento
all’istituto della occupazione usurpativa, nella quale manca(va)
qualsiasi collegamento tra occupazione del bene e interesse pubblico
immanente al vincolo di scopo impresso all’opera dalla preventiva
dichiarazione di pubblica utilità. In tale, specifico, contesto
ricostruttivo 12.4. Diverse erano le conseguenze derivanti dalle due forme di occupazione in relazione al momento della perdita del diritto di proprietà in capo al privato e dell’acquisto in capo all’amministrazione: - nel caso di occupazione
appropriativa, tale momento veniva individuato
– sia agli effetti della perdita che dell’acquisto – in
quello in cui si realizzava l’irreversibile trasformazione del bene
occupato (v. Cass. civ., Sez. un., - nel caso di occupazione
usurpativa, l’effetto della perdita della proprietà veniva
ancorato a un momento successivo che «dipende[va] da una
scelta [causalmente indotta dalla irreversibile trasformazione del
fondo e dall’azzeramento di fatto delle facoltà proprietarie; n.d.e.] del
proprietario usurpato che, rinunciando implicitamente al diritto dominicale,
opta[sse] per una tutela (integralmente) risarcitoria in luogo
della (pur possibile) tutela restitutoria» (v. Cass. civ., Mentre, nel
contesto di tale ultimo orientamento, l’effetto della perdita
della proprietà in capo al privato è sempre stato ricondotto, in modo
unanime, all’atto abdicativo, mai è stata trovata una soluzione univoca
in ordine all’individuazione del titulus e del modus
adquirendi del diritto di proprietà in capo
all’amministrazione occupante: in alcune sentenze, si prospettava una
rinuncia «a favore dell’amministrazione», con ciò evocando le
ipotesi di abbandono liberatorio disciplinate dal Codice civile (quali gli
artt. 1070, 1004, 882 e 550 Cod civ.), nelle quali tuttavia è sempre presente
anche un effetto traslativo coevo a quello abdicativo, mentre altre sentenze
facevano riferimento alla ‘vacanza’ dell’immobile
determinata dalla rinuncia abdicativa e al successivo acquisto, a titolo
originario, in capo allo Stato ai sensi dell’art. 827 Cod. civ.,
lasciando tuttavia aperta la questione del trasferimento della proprietà all’ente
espropriante o beneficiario, qualora diversi dallo Stato, oppure
configuravano un modo di acquisto ‘occupatorio’ in analogia agli
artt. 923, 940, 942 Cod. civ. (v., ad. es., Cass. civ., Sez. I., 12.5. A ciò si aggiungeva che la spesso incerta e dibattuta riconduzione di alcune fattispecie all’occupazione acquisitiva o usurpativa – che, fino alla legge n. 205/2000, rilevava anche ai fini del riparto di giurisdizione – risentiva di un approccio tendenzialmente obsoleto ai concetti di carenza e cattivo uso del potere e faceva applicazione, spesso inappropriata, dello schema della degradazione del diritto (affievolimento del diritto - annullamento del provvedimento - riespansione del diritto), contribuendo a un quadro giurisprudenziale incerto e dagli esiti imprevedibili nelle singole fattispecie concrete dedotte in giudizio. 12.6. A fronte di un siffatto
quadro normativo e giurisprudenziale, - il quadro normativo interno, di carattere essenzialmente giurisprudenziale, non dava regole sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, consentendo così interpretazioni contraddittorie se non addirittura arbitrarie; - non era compatibile col principio di legalità un meccanismo che consentiva di trarre beneficio da una situazione illegale, per effetto della quale il privato fosse messo innanzi al «fatto compiuto»; - risultavano
pertanto violati i principi della certezza del diritto e
dell’effettività della tutela giurisdizionale (v., ex multis,
Corte EDU, sentenze 15 e 12.6.1. Quanto allo
strumentario rimediale, Premesso che l’indirizzo
della Corte è stato confermato anche in alcune sentenze più recenti (sentenza
13. Sempre sul piano dello
strumentario rimediale, pure 14. Per porre rimedio alle
incoerenze con Il citato art. 43 è stato emanato dal legislatore delegato per dare una ‘legale via d’uscita’ alle diffuse e risalenti situazioni di illegalità che si erano stratificate nel corso del tempo, consentendo alle amministrazioni di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, con atti formali ancorati a una compiuta normativa e comunque sindacabili dal giudice amministrativo, quando il bene fosse stato «modificato per scopi di interesse pubblico». L’Adunanza plenaria, con la decisione n. 2/2005, reputava espunto dall’ordinamento interno l’istituto dell’occupazione acquisitiva, sostituito da quello delineato dall’art. 43 d.P.R. n. 327/2001 che consentiva alla pubblica amministrazione di emanare un provvedimento di acquisizione delle aree utilizzate a fini di interesse pubblico, ed affermava che detto provvedimento veniva a costituire l’unico titolo idoneo a trasferire all’amministrazione il diritto di proprietà sul bene illegittimamente occupato, nel contempo circoscrivendo in modo rigoroso l’esercizio di detto potere ablativo: il provvedimento di acquisizione, cui peraltro potevano attribuirsi solo effetti ex nunc, doveva essere emanato, valutati gli interessi in conflitto, solo ove l’interesse pubblico, posto a raffronto con quello privato, avesse particolare rilevanza, non potendo il provvedimento di acquisizione divenire uno strumento ordinario dell’azione amministrativa, alternativo alla procedura legittima, ma dovendo esso essere usato in casi assolutamente eccezionali, nei quali si ravvisasse (motivando adeguatamente) la particolare rilevanza dell’interesse pubblico che avesse giustificato il sacrificio privato alla restituzione del bene. L’art. 43 d.P.R. n. 327/2001 presentava ulteriori criticità, poiché – oltre a prevedere l’acquisizione disposta sulla base di un provvedimento dell’amministrazione – ai commi 3 e 4 disciplinava la c.d. acquisizione giudiziaria, riguardante le ipotesi in cui la pubblica amministrazione, nel corso del giudizio per l’annullamento di un atto del procedimento ablatorio o per la restituzione del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, avesse chiesto al giudice di disporre, in caso di fondatezza della domanda, la condanna al risarcimento del danno per equivalente, con esclusione della restituzione del bene espropriato. Infatti, in tal modo l’esercizio del potere ablativo, di natura discrezionale, anziché svolgersi in sede procedimentale con le garanzie partecipative e gli oneri istruttori e motivazionali propri del procedimento e provvedimento amministrativo, si sarebbe manifestato attraverso un’eccezione processuale sollevata dalla difesa dell’amministrazione, e la relativa decisione finale sarebbe stata rimessa all’organo giudicante, in violazione del principio di separazione dei poteri e dell’esigenza di delineare il potere di acquisizione in termini più certi e prevedibili. 15. Al fine di colmare la
lacuna aperta dalla declaratoria di incostituzionalità
dell’art. 43 d.P.R. n. 327/2001 e, nel contempo, di superare le
controverse questioni di diritto sostanziale e processuale sorte in sede di
applicazione dell’art. 43, il legislatore è intervenuto con
l’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 – inserito
dall’art. 34 d.-l. 2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l’amministrazione che ha adottato l’atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo. 3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma. 4. Il provvedimento di acquisizione, recante l’indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l’indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L’atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2. 5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell’autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell’indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene. 6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia. 7. L’autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale. 8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo». 15.1. Il nuovo istituto assolve alla funzione di ricondurre a legalità le (nel passato frequenti) situazioni connotate dall’utilizzazione, da parte della pubblica amministrazione, del bene immobile di un privato per scopi di interesse generale, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità. In sostanziale recepimento dei principi elaborati dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 2/2005, il legislatore ha, a tal fine, configurato un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale e da peculiari e autonomi presupposti, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano l’acquisizione del bene utilizzato al patrimonio indisponibile in funzione del mantenimento dell’opera pubblica realizzata (o, comunque, delle modificazioni apportate al bene) sine titulo. L’interesse pubblico prevalente, sorretto da attuali ed eccezionali ragioni, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale – rafforzato, stringente e assistito dalle garanzie partecipative rigorose delineate dalla legge n. 241/1990 con particolare riferimento ai procedimenti amministrativi che sfociano in provvedimenti discrezionali – basato sull’emersione di ragioni attuali ed eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come extrema ratio, dovendo in particolare essere dimostrato, in modo specifico e concreto, che non sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative. Con ciò, la norma attribuisce alla pubblica amministrazione il potere, valutati gli interessi in conflitto, di disporre l’acquisizione (al patrimonio indisponibile) dell’immobile appartenente al privato e utilizzato senza titolo, in presenza dei presupposti e alle condizioni da essa stabiliti, e disciplina la misura dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale conseguente alla perdita definitiva del bene, valutato al valore venale (al momento del trasferimento, alla stregua del criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano somme da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 d.P.R. n. 327/2001), maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato), e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare ulteriori autonome voci di danno (v., in tal senso, la ricostruzione dell’istituto nella sentenza n. 2/2016 dell’Adunanza plenaria – la quale, peraltro, è intervenuta su una fattispecie specifica di ottemperanza a un giudicato amministrativo relativo a una vicenda acquisitiva ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, al diverso fine di chiarire l’ampiezza dei poteri del commissario ad acta –, in parte qua condivisa da questo Collegio). La pubblica amministrazione – all’esito della valutazione delle circostanze e comparati gli interessi in conflitto secondo i criteri previsti dal comma 4 dell’art. 42-bis – è posta dinanzi all’alternativa, oggetto di valutazione provvedimentale, o di disporre l’acquisizione o di restituire l’area al proprietario previo ripristino dello stato anteriore (affrontando le spese di demolizione e di ripristino). Ritiene, in particolare, questo Collegio che, nello specifico contesto procedimentale e provvedimentale delineato dall’art. 42-bis, la misura della restituzione previa rimessione allo stato pristino dell’immobile illegittimamente occupato e trasformato non possa essere ri(con)dotta al mero obbligo di natura civilistica conseguente alla lesione del diritto di proprietà e, dunque, a un mero effetto legale della determinazione di non acquisire l’immobile, ma costituisca espressione di una specifica volontà provvedimentale. Infatti, in sede di bilanciamento dei contrapposti interessi privati e pubblici, ed attesa la necessità di motivare in ordine all’assenza di ragionevoli alternative alla adozione del provvedimento di acquisizione (tra le quali rientra la restituzione del bene previa rimessione in pristino), dovranno essere prese in considerazione anche le specifiche circostanze in tesi ostative all’alternativa restitutoria (quali, ad es., eventuali costi eccessivi e sproporzionati rispetto al valore del bene illegittimamente modificato, con la precisazione che si tratta di uno solo dei possibili elementi valutativi, da solo insufficiente a giustificare l’acquisizione, restando primario e prioritario quello relativo alla sussistenza di ragioni attuali ed eccezionali di prevalenti esigenze pubbliche, e non bastando un mero riferimento generico ad eccessive difficoltà ed onerosità dell’alternativa a disposizione dell’amministrazione). L’inestricabile interdipendenza reciproca delle valutazioni da porre a base dei diversi esiti procedimentali e provvedimentali comporta che l’eventuale concreta restituzione del bene previa riduzione in pristino, disposta all’esito di siffatta valutazione, non può che costituire espressione dell’esercizio della (doverosa) funzione attribuita alla pubblica amministrazione in materia espropriativa nel contesto dello speciale procedimento ablativo all’esame, sebbene contenutisticamente coincidente con l’obbligo restitutorio di stampo civilistico. Sotto altro profilo, il dovere
dell’amministrazione di far venir meno la occupazione sine
titulo, ossia di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto non
incisa dall’occupazione medesima (in primis, attraverso la
restituzione previa rimessione in pristino), costituisce espressione del
principio generale di legalità dell’azione amministrativa
(particolarmente stringente nel settore espropriativo, ai sensi
dell’art. 42, secondo e terzo comma, Cost.; v. infra sub §
15.2.), nella specie convogliata nella procedura speciale quale delineata
dall’art. 42-bis, nonché dei principi di imparzialità e di buon
andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.). Deve pertanto ritenersi
la sussistenza di un obbligo di provvedere ex art. Infatti, In altri termini, l’istituto disciplinato dall’art. 42-bis non si muove in una logica meramente rimediale rispetto a un pregresso comune illecito civilistico, ma risponde nel contempo all’esigenza di consentire alla pubblica amministrazione di «riprende[re] a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino» (v. Corte cost. n. 71/2015). 15.2. L’istituto dell’acquisizione ex art. 42-bis, quale sopra ricostruito, deve ritenersi conforme ai principi di legalità vigenti sia nell’ordinamento interno sia in quello sovranazionale. Nell’ordinamento interno, nel particolare settore dell’espropriazione per pubblica utilità, il principio di legalità del potere ablativo attribuito alla pubblica amministrazione è sancito direttamente dalla Costituzione: - il secondo comma dell’art. 42 Cost. («La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi d’acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti») demanda alla legge la determinazione dei modi di acquisto della proprietà, sia in via generale, sia in relazione a situazioni peculiari, sempre in presenza della finalità di assicurarne la funzione sociale; - il terzo comma dell’art. 42 Cost. («La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale») sancisce il principio della tipicità e tassatività delle fattispecie espropriative, ma ciò non implica che il potere espropriativo debba riferirsi ad un’unica ipotesi ablativa prefigurata in via generale e accompagnata da sequenze procedimentali costanti ed unitarie, potendosi essa esplicare legittimamente anche quando – sempre se sorretta da motivi d’interesse generale – si riferisca a fattispecie ablative divergenti dal modello generale, purché tipizzate dalla legge. Come sopra messo in evidenza, la peculiarità del procedimento all’esame è costituito dalla circostanza che lo stesso si innesta su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su un titolo astrattamente annullabile sub iudice (con la precisazione che, alla luce di una combinata lettura dei primi due commi dell’art. 42-bis, l’istituto deve ritenersi applicabile sia alle ipotesi olim qualificate di occupazione acquisitiva sia a quelle di occupazione usurpativa). Con la stessa sentenza, è altresì stata affermata la conformità dell’istituto – a norma del comma 8 dell’art. 42-bis da ritenersi applicabile anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore (purché non oggetto di rapporti esauriti), per i quali siano pendenti processi, e anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, proprio in funzione dell’eliminazione definitiva del fenomeno delle espropriazioni indirette e della situazione di deficit strutturale dell’ordinamento interno ripetutamente stigmatizzati dalla Corte EDU – ai canoni della Convenzione, per un verso, attraverso la riconduzione (per il passato) delle occupazioni illegittime tutt’ora pendenti nell’alveo della legalità tramite il potere di adottare un formale provvedimento acquisitivo e, per altro verso, attraverso la configurazione (per il futuro, ossia per le situazioni successive alla sua entrata in vigore) dell’istituto come procedura ablativa di natura eccezionale, e non già come ordinaria alternativa ad una procedura espropriativa condotta «in buona e debita forma», con ciò escludendo la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (v. §§ 6.9. e 6.9.1. della sentenza). Del pari, è stata affermata la rispondenza ai canoni convenzionali e costituzionali dell’indennizzo previsto dall’art. 42-bis. 16. Le questioni rimesse all’Adunanza plenaria quali enucleate nell’ordinanza di rimessione e riportate sopra sub §§ 9.1.a) e 9.1.b) devono essere risolte nel senso propugnato nell’ordinanza di rimessione, alla luce della sopra proposta ricostruzione dell’istituto della acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che segna la fine alla prassi delle espropriazioni indirette stigmatizzate dalla Corte EDU e le riconduce nell’alveo della legalità attraverso l’attribuzione all’amministrazione occupante del potere discrezionale, doveroso quanto all’avvio del relativo procedimento e discrezionale in ordine alla scelta finale tra acquisizione e restituzione, secondo gli stringenti parametri valutativi delineati nel comma 4. Un breve cenno va, preliminarmente, fatto alle sentenze n. 735/2015 delle Sezioni unite e n. 2/2016 dell’Adunanza plenaria, richiamate dagli appellanti incidentali nei propri scritti difensivi a suffragio della propria tesi difensiva affermativa dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa implicita nella richiesta di risarcimento dei danni da perdita del bene. L’Adunanza plenaria, con la successiva sentenza n. 2/2016, ha richiamato la sentenza della Corte di cassazione n. 735/2015, elencando, in via meramente incidentale, la rinuncia abdicativa (da ritenersi implicita nella domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà) quale una delle possibili ipotesi di cessazione dell’illecito permanente. Le richiamate sentenze non trattano, pertanto, ex professo le questioni rimesse a questa Adunanza plenaria, che possono articolarsi nei seguenti quesiti: (i) se la tesi che riconosce al proprietario del bene illegittimamente occupato e trasformato dalla pubblica amministrazione la facoltà di rinunciare al diritto di proprietà e di chiedere il risarcimento per equivalente del danno da perdita della proprietà, con l’effetto di determinare la cessazione dell’illecito permanente di occupazione sine titulo, sia compatibile con l’istituto delineato dall’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che si colloca nel settore ordinamentale speciale delle espropriazioni per pubblica utilità; (ii) se una siffatta rinuncia abdicativa possa, in linea generale, ritenersi implicita nella domanda risarcitoria per equivalente proposta in sede giudiziale (sempre, s’intende, con riferimento al danno da perdita della proprietà, attraverso la richiesta di un risarcimento che, quale posta principale, comprenda il valore venale del bene). 16.1. Va preliminarmente rilevato che ai fini della soluzione delle questioni all’esame non occorre affrontare, in questa sede, il tema dell’astratta ammissibilità nell’ordinamento generale, sotto uno stretto profilo civilistico, della rinuncia al diritto di proprietà su un bene immobile. Appare, al riguardo, sufficiente accennare alla dottrina civilistica prevalente che, argomentando da una serie di indici normativi – tratti dagli artt. 827, 923, 1350 n. 5) e 2643 n. 5), Cod. civ., nonché dalle norme che prevedono fattispecie di c.d. abbandono liberatorio, quali gli artt. 1170, 882, 550 e 1004 Cod. civ. – propende per l’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto dominicale, che assume i tratti di una rinuncia traslativa nei casi di abbandono liberatorio (infatti, in queste ultime ipotesi la rinuncia alla proprietà del bene immobile non ne produce la ‘vacanza’, ma l’acquisto della sua titolarità in capo, rispettivamente, al proprietario del fondo dominante, al proprietario confinante, agli altri eredi o legatari e agli altri comproprietari). 16.2. Ciò premesso, come sopra anticipato, al quesito sub § 16.(i) deve essere fornita risposta negativa. 16.2.1. In primo luogo, va rilevato che la trasposizione della figura negoziale della rinuncia abdicativa dall’ambito privatistico al settore dell’espropriazione per pubblica utilità, al dichiarato fine di apprestare un ulteriore strumento di tutela del proprietario leso dall’occupazione illegittima e dalla trasformazione del fondo da parte della pubblica amministrazione, genera un’irrazionalità amministrativa di tipo funzionale, in quanto lascia ‘aperta’ e irrisolta la questione dell’effetto acquisitivo in favore della pubblica amministrazione. Occorre, al riguardo, precisare che, in linea generale, i provvedimenti ablativi del diritto di proprietà (quale che sia il loro regime, ordinario o speciale) danno luogo ad un effetto privativo in capo al privato e, correlativamente, ad un effetto acquisitivo in capo all’amministrazione, essendo circolarmente l’uno conseguenza dell’altro (a prescindere dalla ricostruzione delle singole fattispecie espropriative come acquisti a titolo derivativo in senso stretto, o meno). Spezzare il nesso tra effetto privativo ed effetto acquisitivo significa privare la vicenda espropriativa della sua causa giuridica. Ebbene, come sopra esposto sub § 12.4., nel contesto dell’orientamento affermativo dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa quale strumento alternativo di tutela del privato leso dall’occupazione illegittima in funzione della domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà, non è mai stata fornita una soluzione certa e univoca in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante obbligata al risarcimento dei danni. In particolare, in tale contesto, l’effetto acquisitivo in capo
all’amministrazione occupante non può essere ricondotto all’art.
827 Cod. civ., il quale prevede l’acquisto – a titolo originario
e non iure successionis, come nella diversa fattispecie
disciplinata dall’art. 586 Cod. civ. – dei beni vacanti da parte
dello Stato (segnatamente, al suo patrimonio disponibile; v., su tale ultimo
punto, Cass. civ., Pur in tesi non attribuendo all’art. 827 Cod. civ. una portata meramente transitoria collegata all’entrata in vigore del Codice civile – volta, cioè, a disciplinare la sola situazione giuridica dei beni che, in ragione di discipline pregresse, a tale momento siano stati privi di proprietario –, la sua applicazione alle vicende espropriative quale quella all’esame giammai consentirebbe di sprigionare l’effetto dell’acquisto della proprietà del bene (che, peraltro, secondo le previsioni dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, dovrebbe avvenire al patrimonio indisponibile) in capo all’amministrazione occupante diversa dallo Stato, ma ne determinerebbe l’acquisto al patrimonio disponibile di quest’ultimo (o, nelle Regioni a statuto speciale della Sardegna, della Sicilia e del Trentino-Alto Adige, al patrimonio delle rispettive Regioni, in forza degli articoli 14, 34 e 67 dei rispettivi statuti speciali), con la conseguenza che l’ente occupante, pur ad avvenuto versamento della somma liquidata a titolo risarcitorio, non ne diverrebbe proprietario. Né a risolvere lo iato tra
effetto abdicativo della rinuncia ed effetto acquisitivo in capo
all’amministrazione occupante, determinato dall’applicazione
dell’art. 827 Cod. civ., appare idonea la
tesi, per cui la rinuncia alla titolarità del bene dovrebbe ritenersi
risolutivamente condizionata all’inadempimento
dell’amministrazione occupante all’obbligo di corrispondere il
controvalore monetario liquidato dal giudice al momento della definizione
della controversia, sicché la rinuncia, interinalmente efficace, consoliderebbe
i propri effetti al momento dell’effettivo ed integrale versamento del
risarcimento da parte dell’amministrazione occupante; secondo tale
tesi, il relativo provvedimento di liquidazione escluderebbe in via
definitiva la verificazione dell’evento (appunto l’inadempimento)
dedotto in condizione e sarebbe soggetto a trascrizione ai sensi del
combinato disposto degli artt. 2643 n. 5) e 2645 Cod. civ. «anche al fine
di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo
all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia»
(v., in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, Neppure appare possibile l’applicazione analogica di altre fattispecie di acquisto a titolo originario per fatti ‘occupatori’ disciplinate dal Codice civile, quali gli artt. 923, 940 o 942 Cod. civ., in quanto si incorrerebbe nella violazione del principio di legalità delle fattispecie ablative, sancito dalla Costituzione e dalla CEDU (v. sopra sub §§ 12.6. e 13.). Ad analoga obiezione si espongono i tentativi di ricostruire in via pretoria fattispecie traslative complesse, mediate da eventuali sentenze costitutive, atteso il principio di tassatività delle sentenze costitutive di effetti traslativi o acquisitivi di diritti reali, né offrendo l’art. 34, comma 1, lettera e), Cod. proc. amm. una sufficiente base legale per pronunce di siffatto tenore. Né, infine, appare configurabile un’ipotesi di formazione tacita di un accordo traslativo tra parte privata e pubblica amministrazione – ad es., ipotizzando un atto di consenso del privato coessenziale alla dismissione della proprietà e la non opposizione all’acquisto da parte dell’amministrazione –, attesa la necessità della forma scritta ad substantiam per i contratti traslativi della proprietà immobiliare, tanto più se parte contrattuale è una pubblica amministrazione. 16.2.2. In secondo luogo, s’impone il rilievo che l’evento della perdita della proprietà è un elemento costitutivo del fatto illecito produttivo del danno. Aderendo alla tesi della rinuncia abdicativa, l’evento dannoso (perdita della proprietà) verrebbe cagionato dallo stesso danneggiato, in contrasto con i principi che presiedono all’illecito aquiliano, che esigono un rapporto di causalità diretta tra evento dannoso e comportamento del soggetto responsabile, nella specie invece interrotto dalla rinuncia dello stesso danneggiato, la quale soltanto – secondo la tesi all’esame – determina l’effetto della perdita. Né tale rilievo appare superabile con l’obiezione per cui il proprietario verrebbe ‘costretto’ ad abdicare in quanto con l’occupazione gli sarebbe rimasto un bene totalmente privo di utilità, sicché sarebbe l’irreversibile trasformazione del fondo da parte dell’amministrazione ad averne causato la perdita: infatti, per un verso, in caso di contestazione s’imporrebbe la necessità di (spesso complessi) accertamenti giudiziari sul grado di trasformazione del fondo idoneo a giustificare l’atto abdicativo, dall’esito per definizione incerto, con la conseguente introduzione, sotto diversa veste, dell’acquisizione giudiziaria già prevista nel pregresso art. 43 d.P.R. n. 327/2001 ed espunta dall’ordinamento per le criticità che la connotavano, e, per altro verso, attraverso la riconduzione causale della perdita del bene alla sua occupazione e trasformazione sine titulo da parte dell’amministrazione si (re)introdurrebbe una forma di espropriazione indiretta in contrasto con i canoni della CEDU. Se, invece, la determinazione circa la rinuncia abdicativa fosse rimessa alla libera e insindacabile (sotto il profilo causale) scelta del proprietario – come sotteso alla tesi della sua ammissibilità, quale espressione della libera autodeterminazione del proprietario in ordine al diritto di proprietà sul bene leso dall’occupazione illegittima –, l’applicazione di tale strumento negoziale alle vicende delle occupazioni illegittime contrasterebbe con i richiamati principi civilistici in tema di illecito aquiliano. 16.2.3. Da ultimo, si osserva che la disciplina del procedimento espropriativo speciale ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 regola, in modo tipico, esaustivo e tassativo, il procedimento di (ri)composizione del contrasto tra l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale cui è preordinata l’acquisizione del bene alla mano pubblica comportante la cessazione dell’illecito permanente. L’operatività dell’istituto postula, sul piano logico-giuridico, che la formale titolarità della proprietà risulti ancora in capo al privato (e non sia venuta meno, in tesi, con l’eventuale rinuncia implicita nella proposizione della domanda risarcitoria): infatti, l’adozione dell’atto, unitamente alla liquidazione dell’indennizzo, rappresenta il necessario presupposto per il trasferimento del diritto di proprietà in favore dell’amministrazione. Una volta disciplinata dal legislatore in modo compiuto ed esauriente, la procedura ablativa speciale – presupponente l’occupazione illegittima e la correlativa modificazione del bene da parte dell’amministrazione (in sé prive di riflessi in ordine alla titolarità del bene) – ‘tipizza’ i poteri dell’amministrazione e ‘conforma’ la facoltà di autodeterminazione del proprietario in ordine alla sorte del bene rimasto di sua proprietà. Per quanto riguarda l’amministrazione, essa è titolare di una
funzione, a carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta
tra la restituzione del bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai
sensi dell’articolo 42-bis; non quindi una mera facoltà di
scelta (o di non scegliere) tra opzioni possibili,
ma doveroso esercizio di un potere che potrà avere come esito o la
restituzione al privato o l’acquisizione alla mano pubblica del bene.
Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo stato di
illegalità in cui versa la situazione presupposta dalla norma. Quanto al privato – e corrispondentemente all’alternativa posta in termini funzionali
all’amministrazione –, la sua facoltà di autodeterminazione resta
conformata (sul piano legislativo, ex art. 42, secondo e
terzo comma, Cost.) nel senso che al medesimo è attribuita la potestà di
compulsare la pubblica amministrazione, attraverso una correlativa
istanza/diffida, all’esercizio del potere/dovere di porre comunque
termine alla situazione di illecito permanente costituita
dall’occupazione senza titolo e ricondurla a legalità secondo la
seguente alternativa: - o adottando il provvedimento di acquisizione sulla base degli
stringenti criteri motivazionali delineati dal comma 4
dell’art. 42-bis, verso la corresponsione dell’indennizzo
parametrato ai criteri stabiliti nel precedente comma 1; - oppure, in mancanza dell’acquisizione, disponendo la
restituzione del bene previa rimessione allo stato pristino (con salvezza, in
entrambe le ipotesi, del diritto al risarcimento dei danni per il periodo
dell’occupazione illegittima e degli eventuali danni
ulteriori). Altre soluzioni, che potevano trovare una spiegazione in presenza di una lacuna legislativa, non sono
ipotizzabili, in quanto resterebbe irrisolta la definizione di una base
legale certa per l’effetto traslativo della proprietà. Di conseguenza,
all’interprete non è consentito più (se mai lo sia stato) di ricorrere
all’analogia iuris per integrare la fattispecie
normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa,
quale tassativamente predeterminata dal legislatore, attraverso il ricorso ad un istituto di natura prettamente privatistica, al
dichiarato fine di aggiungere un ulteriore strumento di tutela del privato,
limitativo e derogatorio all’istituto dell’art. 42-bis.
Siffatta operazione ermeneutica – oltre a non essere necessaria sotto
il profilo della garanzia della effettività della
tutela del proprietario leso, in quanto sussistono idonei mezzi coercitivi
affinché l’amministrazione occupante provveda a compiere la scelta tra
acquisizione o restituzione – comporta, invero, uno stravolgimento
dell’assetto d’interessi sotteso e (ri)composto (d)alla
particolare procedura ablativa disciplinata dal citato articolo di legge;
affida la decisione sulla sorte del bene ad un atto eventuale e unilaterale
del proprietario, cui si finirebbe per attribuire una sorta di diritto
potestativo direttamente ricadente nella sfera giuridica
dell’amministrazione; e si risolve, in definitiva,
nell’inammissibile introduzione praeter legem di una
nuova fattispecie ablativa/traslativa (peraltro, lasciando irrisolta la
questione fondamentale circa il titulus e il modus
adquirendi della proprietà del bene in capo all’ente
occupante), la cui disciplina è, invece, riservata alla legge e informata
alla tassatività e tipicità dei poteri ablatori e delle relative procedure. Concludendo sul punto, preminenti esigenze di
sicurezza giuridica, implicanti la prevedibilità, per tutti i soggetti
coinvolti (compresa la parte pubblica), della fattispecie
ablativa/acquisitiva, non possono che escludere la rilevanza dell’atto
unilaterale di rinuncia abdicativa alla proprietà dell’immobile, ai
fini della cessazione dell’illecito permanente costituito
dall’occupazione sine titulo del bene di proprietà
privata e della riconduzione della situazione di fatto a legalità. Come sopra ripetutamente accennato, l’ordinamento processuale amministrativo appresta uno strumentario processuale efficace per reagire all’eventuale inerzia della pubblica amministrazione con l’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm., oppure, a seconda della fase in cui pende il processo e del tipo di azione esercitata, attraverso l’assegnazione, nella sentenza cognitoria, di un termine per provvedere in ordine all’acquisizione o (in caso di non acquisizione) alla restituzione del bene illegittimamente occupato, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lettera b), Cod. proc. amm., con eventuale contestuale nomina di un commissario ad acta a norma dell’art. 34, comma 1, lett. e), Cod. proc. amm. per il caso di persistente inottemperanza all’ordine di provvedere (al fine, appunto, di ricondurre la situazione di occupazione illegittima nell’alveo della legalità attraverso l’esercizio del correlativo potere, di natura vincolata nell’an e discrezionale nel quomodo). In particolare, l’iniziativa procedimentale e il successivo giudizio sul silenzio costituiscono mezzi con cui il proprietario del bene occupato può far valere l’interesse ad ottenere un ristoro pecuniario in luogo della restituzione del bene, che, per le ragioni sopra esposte, non può più trovare tutela attraverso il meccanismo della rinuncia abdicativa (che rimetterebbe alla determinazione unilaterale del privato la decisione sulla sorte del bene, al contempo lasciando irrisolta la vicenda acquisitiva). Viene, con ciò, offerta al privato una tutela celere, concentrata e definitiva dell’interesse leso, senza necessità di ricorrere alla costruzione della rinuncia abdicativa. Ricorso, per quanto si è detto, non più consentito in assenza di una lacuna legislativa e anzi in presenza di una disciplina volta a fornire una base legale specifica, certa e prevedibile, all’effetto ablativo della proprietà. 16.3. Il carattere assorbente della risposta al quesito precedente rende non rilevante il quesito sub § 16.(ii), che comunque rafforza le criticità della teoria della rinuncia abdicativa. 16.3.1. In primo luogo, la proposizione di una domanda risarcitoria del pregiudizio sofferto rispetto a un bene, attraverso la richiesta di una somma corrispondente al controvalore del bene, nulla esprime realmente in ordine alla volontà di preservarne, o meno, la titolarità. Infatti, siffatta domanda non è né logicamente né giuridicamente incompatibile con la volontà di permanere titolare del diritto di proprietà, potendo anche il danno da perdita del godimento del bene, in vista della sua proiezione tendenziale all’infinito in ragione di una prospettata radicale e irreversibile trasformazione del bene, finire per equivalere al valore di scambio, sicché la mera richiesta di un risarcimento del danno commisurato al valore del bene appare del tutto neutra sotto il profilo della volontà di rinunciare, o meno, alla proprietà. Considerata la rilevanza degli effetti dell’atto abdicativo, comportante la perdita del diritto di proprietà su un bene immobile, non appare ammissibile, per ragioni di certezza del traffico giuridico immobiliare, ancorare l’effetto a manifestazioni di volontà enucleabili da atti processuali a contenuto non univoco, in violazione dei principi di accessibilità, precisione e prevedibilità cui deve essere improntata la disciplina delle procedure ablative nonché lo stesso regime giuridico di circolazione dei beni, per di più immobili. 16.3.2. In secondo luogo, occorre rilevare che l’atto di rinuncia al diritto di proprietà su beni immobili è soggetto alla forma scritta ad substantiam ai sensi dell’art. 1350, n. 5), Cod. civ., per cui vanno redatti per iscritto «gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti» (nei quali rientra anche il diritto di proprietà). Ebbene, anche in ipotesi aderendo all’orientamento giurisprudenziale e dottrinario che ritiene ammissibile una manifestazione tacita di volontà nel contesto di un atto per la cui validità è richiesta la forma scritta – con la motivazione che una forma vincolata non significa che la volontà debba essere espressa, essendo sufficiente che la stessa vi sia contenuta, anche in forma tacita, ma in modo da rilevare, per quanto qui interessa, una volontà incompatibile con il mantenimento del diritto di proprietà –, l’atto formale contenente la volontà tacita di rinuncia deve, in ogni caso, assumere la forma scritta ad substantiam (scrittura privata o atto pubblico), ossia essere munita della sottoscrizione personale della parte, autenticata o comunque riconosciuta nelle forme di legge. Tratterebbesi di requisito formale da vagliare caso per caso attraverso l’esame degli atti processuali di parte in tesi suscettibili di essere interpretati quali atti contenenti una volontà abdicativa. Nel caso concreto sub
iudice, né l’atto per motivi aggiunti del 16.3.3. Pertanto, anche sotto i profili sopra esaminati, la teoria della rinuncia abdicativa all’atto della sua applicazione pratica appaleserebbe una serie di criticità. 16.4. Concludendo, in risposta alle questioni rimesse a questa Adunanza plenaria nell’ordinanza di rimessione e riportate sopra sub §§ 9.1.a) e 9.1.b) si deve affermare il seguente principio di diritto: «Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione
dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del
proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica
amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma,
non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo». 16.4.1. La soluzione della questione sub § 9.1.e) è consequenziale ai sopra affermati principi di diritto e dovrà essere risolta dalla Sezione rimettente in sede di decisione definitiva della causa. 16.4.2. Da ultimo, si impongono due precisazioni. Esula dall’ambito oggettivo del presente giudizio e dalle questioni rimesse a questa Adunanza plenaria ogni questione relativa all’ammissibilità e agli eventuali presupposti dell’acquisto per usucapione in capo all’amministrazione del bene occupato sine titulo, trattandosi di tematica irrilevante ai fini della decisione del presente giudizio. Quanto alla previsione, contenuta nel comma 7 dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, per cui l’autorità che emana il provvedimento di acquisizione deve dare comunicazione dello stesso alla Corte dei conti, si osserva che tale comunicazione è funzionale all’eventuale esercizio dell’azione di responsabilità in relazione alle vicende che hanno dato luogo alla presupposta occupazione illegittima, la quale può – e deve, in presenza dei relativi presupposti – essere comunque esercitata anche nei casi di pronunce di condanna al risarcimento dei danni per equivalente (sia del giudice ordinario sia di quello amministrativo); invero, sotto tale profilo, il passaggio attraverso il procedimento ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 nulla immuta in punto di responsabilità amministrativa e l’emanazione dell’atto di acquisizione, volto ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, non comporta di per sé la sussistenza di una responsabilità amministrativa. 17. Procedendo all’esame delle questioni di natura processuale rimesse a questa Adunanza e riportate sopra sub §§ 9.1.c) e 9.1.d) – del seguente tenore: «c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42 bis; d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42 bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione» –, osserva il Collegio che: - nel caso di specie, gli
originari ricorrenti e odierni appellanti incidentali con i motivi aggiunti
notificati il - le questioni all’esame si risolvono pertanto nella prospettazione di un quesito astratto e ipotetico, non rilevante ai fini della decisione del presente giudizio. Ad ogni modo, l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc. amm., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali. Resta poi fermo che la qualificazione delle domande proposte in giudizio passa attraverso l’interpretazione dei relativi atti processuali, rimessa al giudice investito della decisione della controversia nel merito. 18. Premesso che ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm. l’Adunanza plenaria decide l’intera controversia, salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione remittente, ritiene il Collegio che, nel caso in esame, sussistano i presupposti perché, a seguito dell’enunciazione del principio di diritto di cui al precedente § 16.4., la causa sia rimessa alla Quarta Sezione del Consiglio di Stato, la quale ne valuterà le concrete ricadute al fine di deciderla con la sentenza definitiva. Deve pertanto essere disposta la restituzione degli atti alla Sezione rimettente, che dovrà statuire anche in ordine alle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), pronunciando nella causa d’appello come in epigrafe promossa, enuncia il principio di diritto di cui al precedente § 16.4., restituendo per il resto gli atti alla Sezione rimettente ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm.; spese al definitivo. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella
camera di consiglio del giorno Filippo Patroni Griffi, Presidente per le fattispecie disciplinate
dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità
viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua
restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti,
di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria, sentenza, 1. La questione di diritto sottoposta a questa Adunanza riguarda la configurabilità, nel nostro ordinamento giuridico, della rinuncia abdicativa quale atto implicito ed implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall'occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo. Deve in primo luogo perimetrarsi il tema d’indagine oggetto del presente giudizio. La questione, infatti, non riguarda l’ammissibilità in generale dell’istituto della rinuncia abdicativa, che conosce un vivace dibattito in altri settori dell’ordinamento. Infatti, benché il Legislatore non abbia espressamente disciplinato in una norma ad hoc la rinuncia abdicativa, la prevalente tradizionale dottrina ne afferma la sua ammissibilità. Trattasi di un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell'esercizio di una facoltà, dismette, abdica, perde una situazione giuridica di cui è titolare, rectius esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso. Gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono anche incidere sui terzi, sono, infatti, solo conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente ricollegabili all'intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell'atto, tant'è che la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia cd. traslativa proprio per la mancanza del carattere traslativo-derivativo dell'acquisto e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l'effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge. Per il suo perfezionamento non è, pertanto, richiesto l'intervento o l’espressa accettazione del terzo né che lo stesso debba esserne notiziato. L’oggetto del presente giudizio è, al contrario, limitato alla rinuncia abdicativa nella materia dell’espropriazione, e riguarda la mera possibilità di riconoscere la rinuncia abdicativa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A., in seguito, come detto, all’irreversibile trasformazione del fondo occupato. 2. La tesi della rinuncia
abdicativa deriva dai principi affermati in tema dall’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato con sentenza La tesi in discussione è stata
per la prima volta organicamente e sistematicamente ammessa dalla
giurisprudenza amministrativa con la sentenza del CGA Favorevoli alla rinuncia
abdicativa sono state anche Cass. civ., sez. I, Ancora di recente la sentenza
Cass. civ., Sez. Un., n. Anche la giurisprudenza di
questo Consiglio si è più volte pronunciata nel senso
dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia espropriativa
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 3. L’orientamento favorevole evidenzia che tale linea ricostruttiva presenta, sul piano pratico, aspetti favorevoli per il privato espropriato. In primo luogo, infatti, valorizza il principio di concentrazione della tutela ricavabile ex art. 111 Cost., quale corollario del principio di ragionevole durata del processo, che sarebbe pregiudicato dalla sua segmentazione in una fase amministrativistica relativa al giudizio sulla legittimità degli atti espropriativi e in una fase civilistica per la determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato. In secondo luogo, offre maggiori garanzie di compensare integralmente l’utilità (rectius: il bene) perduto dal privato, poiché, il quantum deve essere corrisposto al soggetto espropriato a titolo di risarcimento del danno (che è ordinariamente integrale) e non a titolo di indennizzo (che invece, come è noto, è solo parametrato al valore del bene perduto). Inoltre, poiché il risarcimento del danno è connesso alla proposizione della relativa domanda da parte del privato in giudizio, che implica rinuncia abdicativa, è da tale momento che si verifica un debito di valore, con tutte le note implicazioni in tema di interessi legali e rivalutazione. Questa Adunanza ritiene tuttavia che l’ipotesi ricostruttiva della rinuncia abdicativa, quanto meno nella materia in esame, non possa essere condivisa. Essa, invero, sul piano strutturale e normativo, si espone a un triplice ordine di obiezioni; e segnatamente: - non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante; - la rinuncia viene ricostruita quale atto implicito, secondo la nota dogmatica degli atti impliciti, senza averne le caratteristiche essenziali; - soprattutto, e in senso
decisivo e assorbente, non è provvista di base legale in un ambito, quello
dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è
richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a
livello di diritto europeo. Va ricordato, infatti, sotto questo profilo, che
occorre evitare, in materia di espropriazione cd.
indiretta, di ricorrere a istituti che in qualche modo si pongano sulla
falsariga della cd.occupazione acquisitiva, cui la giurisprudenza fece
ricorso negli anni Ottanta del secolo scorso per risolvere le situazioni
connesse a una espropriazione illegittima di un terreno che avesse tuttavia
subìto una irreversibile trasformazione in forza della costruzione di
un’opera pubblica. E’ noto che tale istituto non può più trovare
spazio nel nostro ordinamento a seguito delle ripetute pronunce della Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo che ne hanno evidenziato
la contrarietà alla Convenzione Europea, in particolare per quanto riguarda
l'art. 1 del primo protocollo Addizionale (ex multis, sentenza CEDU 4. Per quanto riguarda la prima obiezione (mancata spiegazione esauriente della vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante), si deve rilevare, infatti, che se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’Autorità espropriante. Nel diritto privato, è discusso se l’art. 827 c.c. possa essere la base legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge, ed effettivamente tale norma prevede che gli immobili che non sono in proprietà di alcuno spettino al patrimonio dello Stato, quale effetto giuridico conseguente ad una determinata situazione di fatto (vacanza del bene). Tuttavia, tale acquisto, peraltro a titolo originario e non derivativo, si realizzerebbe in capo allo Stato e non in capo all’Autorità espropriante, attuale occupante e in possesso del bene, che sarebbe del tutto esclusa dalla vicenda giuridica pur avendone costituito la causa efficiente tramite l’illecita apprensione del bene del privato. La spiegazione dell’effetto traslativo, pertanto, sarebbe del tutto eccentrica rispetto al rapporto amministrativo che viene innescato dall’Amministrazione espropriante, rendendo evidente l’artificiosità della soluzione teorica proposta. Né l’effetto traslativo può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno (e, quindi, della sua rinuncia abdicativa implicita a favore dell’Amministrazione espropriante), atteso che, come è noto, le vicende della trascrizione si pongono solo sul piano dell’opponibilità verso terzi degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la validità e l’efficacia giuridica degli stessi. Se l’atto non è in sé idoneo a determinare il passaggio del bene in capo all’Amministrazione espropriante non potrà già di per sé essere trascrivibile e all’eventuale ordine del giudice contenuto nella sentenza non potrebbe riconoscersi base legale. 5. Per quanto riguarda la seconda obiezione (rinuncia abdicativa quale atto implicito, ma carenza in tale rinuncia delle caratteristiche essenziali degli atti impliciti), si deve ricordare che la rinuncia abdicativa, se riferita al ricorso giurisdizionale, non viene effettuata dalla parte, né personalmente, né attraverso un soggetto dotato di idonea procura. Nel campo del diritto
amministrativo, come è noto, è ammessa la
sussistenza del provvedimento implicito quando l’Amministrazione, pur
non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i
contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero
determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie
coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello
equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente,
congiungendosi tra loro i due elementi di una manifestazione chiara di
volontà dell’organo competente e della possibilità di desumere in modo
non equivoco una specifica volontà provvedimentale, nel senso che
l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile della
presunta manifestazione di volontà (cfr., ex multis, Cons. St.,
Sez. VI, Ciò che emerge dalla dogmatica degli atti impliciti nel diritto amministrativo è inequivocabilmente la sussistenza di un atto formale, perfetto e validamente emanato il quale contiene “per implicito” un’ulteriore volontà provvedimentale, oltre a quella espressa claris verbis nel testo del provvedimento medesimo. E’ evidente, in questa ricostruzione, che non sussistono violazioni del principio di legalità dell’azione amministrativa perché la volontà amministrativa esiste ed è contenuta in un atto avente tutte le caratteristiche previste dalla legge per conferirle validità, con la peculiarità che detta volontà è ricavabile da un’interpretazione non meramente letterale dell’atto. Nel caso di specie, tuttavia, l’istituto della rinuncia abdicativa si pone come radicalmente estraneo alla teorica degli atti impliciti che, così come ricordato, riguarda solo gli atti amministrativi e non gli atti del privato. Né è possibile, evidentemente, utilizzare lo stesso paradigma per ricondurre la volontà di chiedere il risarcimento del danno alla volontà di abdicare alla proprietà privata. In primo luogo, sul piano sostanziale, non sembra che da una domanda risarcitoria sia possibile univocamente desumere (null’altro che) la rinuncia del privato al bene: la domanda risarcitoria, infatti, denuncia inequivocabilmente un illecito di cui la parte richiede la riparazione; ma a fronte della pluralità di strumenti offerti dall’ordinamento nonché in presenza di una disciplina legale del procedimento espropriativo, la domanda risarcitoria non può costituire univoca volontà espressa di rinuncia al bene. Sul piano formale, poi, va considerato che la domanda di risarcimento del danno contenuta nel ricorso giurisdizionale amministrativo è una domanda redatta e sottoscritta dal difensore e non dalla parte proprietaria del bene che ha la disponibilità dello stesso e che è l’unico soggetto avente la legittimazione ad abdicarvi, in quanto atto incidente e dispositivo di un bene immobiliare proprio della parte. Né è, altrettanto evidentemente rinvenibile una procura a vendere (rectius: a rinunciare) nel mandato difensivo della parte al proprio difensore, che non contiene neppure implicitamente una legittimazione al difensore a rinunciare al diritto di proprietà del proprio assistito. 6. Ma, al di là delle criticità che appalesa l’adesione alla teoria della rinuncia abdicativa nella materia in questione, è decisiva, per la soluzione del quesito posto, la terza ed ultima obiezione (assenza di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove è centrale il principio di legalità), di cui deve rimarcarsi il carattere assorbente per escludere l’operatività della rinuncia abdicativa quale strumento legalmente idoneo a definire l’assetto degli interessi coinvolti in una vicenda di espropriazione cd.indiretta. Al riguardo, si deve ricordare in primo luogo che, ai sensi dell’art. 42, commi 2 e 3 Cost., la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge (che, peraltro, “ne determina i modi di acquisto”) e può essere, “nei casi preveduti dalla legge”, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La rinuncia abdicativa non costituisce uno dei casi previsti dalla legge. Anzi, in una certa prospettiva,
sembra richiamare –come si accennava- l’ormai tramontato istituto
dell'occupazione acquisitiva, di cui Come è
noto, l’istituto della c.d. occupazione “appropriativa” o
“acquisitiva”, che determinava l’acquisizione della
proprietà del fondo a favore della pubblica amministrazione per
“accessione invertita”, allorché si fosse verificata
l’irreversibile trasformazione dell’area, è un istituto di
origine pretoria, sorto con la sentenza della Corte di Cassazione L’istituto, che pure rispondeva, nel silenzio della legge, all’esigenza pratica e sistematica di definire l’assetto proprietario di un bene illegittimamente occupato e il conseguente assetto degli interessi, risultava peraltro evidentemente privo di base legale ed è stato pertanto ritenuto illegittimo dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, con la conseguenza che, attualmente, il mero fatto dell’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non assurge a titolo di acquisto, non determina il trasferimento della proprietà e non fa venire meno l’obbligo dell’Amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. L’istituto della rinuncia abdicativa, di chiara matrice pretoria, finirebbe per presentare gli stessi problemi e dubbi interpretativi entrando in eliminabile tensione con i principi enunciati dalla Corte Europea e con le guarentigie apprestate al diritto di proprietà dalla nostra Carta Costituzionale. 7. E’ nel delineato contesto normativo che il legislatore nazionale è
intervenuto per regolare la fattispecie in esame, fornendo per ciò stesso una
base legale, sistematica e coerente, alla disciplina ivi prevista, dapprima
con l’art. 43 TUEs. (approvato con il d.P.R. n. Infatti, per i casi di occupazione sine titulo di un fondo da parte della Autorità devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è in vigore la specifica disciplina prevista dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, che ha in dettaglio individuato i poteri e i doveri della medesima Autorità, nonché i poteri del giudice amministrativo. L’art. 42-bis, in particolare: - prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo aver valutato, con un procedimento d’ufficio (che può essere sollecitato dalla parte in caso di inerzia), gli interessi in conflitto, adotti un provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto; - in altri termini, vincola l’Amministrazione occupante all’esercizio del potere ed attribuisce alla stessa un potere discrezionale in ordine alla scelta finale, all’esito della comparazione degli interessi; - comporta che, nel caso di
occupazione sine titulo, l’Autorità commette un illecito di
carattere permanente (Ad. Plen., - esclude che il giudice decida la ‘sorte’ del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal proprietario; - a maggior ragione, non può che escludere che la ‘sorte’ del bene sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene, sol perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o di volere il controvalore del bene. Come se il proprietario del bene fosse titolare di una sorta di diritto potestativo a imporre il trasferimento della proprietà, mediante rinuncia al bene (implicita o esplicita che sia), previa corresponsione del suo controvalore (non rileva, sotto questo profilo, se a titolo risarcitorio o indennitario). L’art. 42-bis ha, quindi, definito in maniera esaustiva la disciplina della fattispecie, con una normativa autosufficiente, rispetto alla quale non trovano spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa, ritenuta conforme al diritto europeo e alla Costituzione, che viene a costituire la base legale espressa della fattispecie in questione. La fattispecie di cui al predetto art. 42-bis è evidentemente delineata in termini di potere-dovere: non implica certo che l’Amministrazione debba necessariamente procedere all’acquisizione del bene, ma impone che essa eserciti doverosamente il potere di valutare se apprendere il bene definitivamente o restituirlo al soggetto privato, secondo una concezione di potere-dovere, o doverosità di certe funzioni, che è nota da tempo nel tessuto del diritto amministrativo e che discende dai noti principi di imparzialità e buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.). Già l’art. 43, poi dichiarato incostituzionale, peraltro, aveva
consapevolmente introdotto nel sistema norme di chiusura, volte ad attribuire
all’autorità amministrativa il potere di dare a regime una soluzione al
caso concreto quando gli atti del procedimento divengano inefficaci per
decorso del tempo o siano annullati dal giudice amministrativo, consentendo
‘una legale via d’uscita per gli illeciti già verificatisi’
(Sez. IV, 8. Ad avviso dell’Adunanza, dunque, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis una rigorosa applicazione del principio di legalità, in materia affermato dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, richiede una base legale certa perché si determini l’effetto dell’acquisto della proprietà in capo all’espropriante. E se la norma non prevede alcun riferimento a un’ipotesi di rinuncia abdicativa – che, peraltro, così delineata, avrebbe tutti i caratteri strutturali e gli effetti di una rinuncia traslativa- è stato per converso introdotto nell’ordinamento una disciplina specifica e articolata che attribuisce all’amministrazione una funzione autoritativa in forza della quale essa può scegliere tra restituzione del bene o acquisizione della proprietà nel rispetto dei requisiti sostanziali e secondo le modalità ivi previsti. Nessuna norma attribuisce per contro al soggetto espropriato, pur a fronte dell’illegittimità del titolo espropriativo, un diritto, sostanzialmente potestativo, di determinare l’attribuzione della proprietà all’amministrazione espropriante previa corresponsione del risarcimento del danno. Inoltre, poiché l’art. 42-bis dispone che il titolo di acquisto possa essere l’atto di acquisizione (espressione di una scelta dell’autorità), si ritiene che non si possa attribuire alcun rilievo a tal fine a un atto diverso, vale a dire al successivo atto di liquidazione del danno, peraltro emanato in esecuzione di una sentenza; in altre parole, né dall’art. 42-bis né da altra norma può ricavarsi l’attribuzione dell’effetto giuridico di rinuncia abdicativa alla fattispecie complessa derivante dalla coesistenza della sentenza di condanna e dell’atto di liquidazione del danno. Invero, per l’art. 42-bis l’autorità può acquisire il bene con un atto discrezionale, in assenza del quale scattano gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione, che non solo apprende in modo illecito il bene del privato, ma che attraverso una propria omissione (non esercitando il potere all’uopo previsto dalla legge) finirebbe per ottenere la proprietà del bene stesso ancora una volta al di fuori delle procedure legali previste dall’ordinamento. La scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va effettuata esclusivamente dall’autorità (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’autorità individuata dall’art. 42-bis. Pertanto, il giudice
amministrativo, in caso di inerzia
dell’Amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117
c.p.a., può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta,
che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. Qualora, invece, sia invocata solo la tutela (restitutoria e risarcitoria) prevista dal codice civile e non si richiami l’art. 42-bis, il giudice deve pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo sopra delineato e del carattere doveroso della funzione attribuita dall’articolo 42bis all’amministrazione. Non sarebbe peraltro ammissibile una richiesta solo risarcitoria, in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in contrasto con lo stesso. Il che non significa che il giudice possa nondimeno, ove ne ricorrano i presupposti fattuali, accogliere la domanda. A ben vedere, infatti, la domanda risarcitoria, al pari delle altre domande che contestino la validità della procedura espropriativa, consiste essenzialmente nell’accertamento di tale illegittimità e nella scelta del conseguente rimedio tra quelli previsti dalla legge. E’ infatti la legge speciale, nel caso di espropriazione senza titolo valido, a indicare quali siano gli effetti dell’accertata illegittimità: il trasferimento non avviene per carenza di titolo e il bene va restituito. La restituzione può essere impedita dall’amministrazione, la quale è tenuta, nell’esercizio di una funzione doverosa (e non di una mera facoltà di scelta) a valutare se procedere alla restituzione del bene previa riduzione in pristino o all’acquisizione del bene nel rispetto di tutti i presupposti richiesti dall’articolo 42 bis e con la corresponsione di un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10 per cento (e quindi con piena e integrale soddisfazione delle pretese dell’espropriato). Ad ogni modo, l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali. Resta poi fermo che la qualificazione delle domande proposte in giudizio passa attraverso l’interpretazione dei relativi atti processuali, rimessa al giudice investito della decisione della controversia nel merito. 9. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, deve dichiararsi il seguente principio di diritto: - per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità
viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua
restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti,
di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.
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