Giurisprudenza - Enti locali

L’abuso d’ufficio nel caso di rilascio di una concessione edilizia illegittima

La sentenza di seguito trascritta affronta alcune importanti questioni in ordine al reato di abuso d’ufficio. Innanzi tutto precisa che l'art. 323 c.p. richiede per la sanzionabilità della condotta del pubblico ufficiale la violazione di una norma di legge o di regolamento di carattere sostanziale, non essendo sufficiente quella formale o procedimentale.
Nel caso concreto sono stati ritenuti sussistenti gli estremi del reato di abuso d’ufficio da parte del Sindaco a seguito di una concessione edilizia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti nel Comune.
La decisione precisa che se taluno intende svolgere funzioni pubbliche non può vantare il diritto di ignorare quali siano le norme che presiedono alla sua attività e l'eventuale parere favorevole (non vincolante) della Commissione edilizia comunale non può considerarsi scriminante, posto che il controllo politico-amministrativo spetta proprio al titolare della carica politica e ne costituisce l'aspetto pregnante.
Va comunque osservato che, per effetto della legge Bassanini bis la competenza al rilascio delle concessioni edilizie è stata attribuita al Dirigente del settore e non più al Sindaco. (Ugo Di Benedetto)

Cass. pen., sez. VI, 24 giugno 1999, n. 1999
                                   
Omissis”
La Corte d'appello di Roma con sentenza 5/11/1998 confermava la sentenza 28/11/1997 del Tribunale della stessa città che condannava F. M. alla pena di mesi 6 di reclusione per il reato di cui all'art. 323 c.p. Il F., assessore all'urbanistica del Comune di M., aveva rilasciato una concessione edilizia per una cubatura superiore a quella consentita dal p.r.g. della zona interessata al fine di favorire il beneficiario del provvedimento, (e ciò non ostanti diverse denunce pervenute all'amministrazione comunale circa l'illegittimità della richiesta di variante in corso d'opera e il parere negativo dell'ufficio tecnico comunale).
Ricorre la difesa dell'imputato:
a) per violazione della legge processuale, non essendo stato rispettato il termine di sette giorni liberi, previsto a pena di inammissibilità dall'art. 468, c. 1, c.p.p., per la presentazione delle liste testimoniali da parte del RM. - eccezione respinta sia in primo che in secondo grado per erroneo computo nel termine stesso del dies a quo;
b) per mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione al fatto che l'imputato ignorava essere la zona interessata classificata come "parco naturale", il provvedimento era stato emanato a seguito di parere favorevole espresso dalla Commissione edilizia comunale e non sussisteva il dolo trattandosi di errore tecnico-amministrativo.
Con motivo aggiunto la difesa si duole della violazione dell'art. 323 c.p. e della carenza e illogicità della motivazione della sentenza in relazione a detta norma, con conseguente pronuncia di annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza, in quanto la nuova formulazione dell'art. 32 3 c.p. richiede la violazione di norme di legge o di regolamento, che nella specie non sussisterebbero, non potendosi ritenere tali le prescrizioni del piano regolatore e gli altri strumenti urbanistici dei Comuni.
                             MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il termine fissato a pena di inammissibilità dall'art. 468, c. 1, c.p.p. è riferito a sette giorni liberi, in base al disposto dell'art. 172, C. 5, c.p.p. Sul punto la giurisprudenza di questa Suprema Corte è assolutamente costante (fra le altre, Sez. 111, 2/3/1994, P….).
Sotto questo profilo la prima doglianza della difesa appare in tesi fondata, nel senso che i giudici di merito hanno erroneamente ritenuto, in primo come in secondo grado, che il dies a quo dovesse essere computato nel termine.
Vero è - però - che la doglianza, astrattamente condivisibile, appare del tutto generica poiché non indica quali siano i testi e quali le deposizioni viziate di inutilizzabilità.
La genericità del motivo comporta la sua inammissibilità.
2. Il secondo motivo appare egualmente inammissibile perché relativo a questioni di fatto, correttamente ed esaurientemente affrontate dalla Corte di merito. L'ignoranza dell'imputato circa la classificazione della zona come parco naturale, in relazione alla quale era competente nella sua qualità di assessore all'urbanistica del Comune di M., è del tutto irrilevante e comunque ascrivibile ad una sua inammissibile negligenza.
Se taluno, infatti, intende svolgere funzioni pubbliche non può vantare il diritto di ignorare quali siano le norme che presiedono alla sua attività e l'eventuale parere favorevole (non vincolante) della Commissione edilizia comunale non può considerarsi scriminante, posto che il controllo politico-amministrativo spetta proprio al titolare della carica politica e ne costituisce l'aspetto pregnante.
Se di errore tecnico-amministrativo si è trattato - come ritiene la difesa dell'imputato - l'amministratore (politico) in virtù di una posizione qualificante del suo operare non può invocare una incompetenza tecnica, salvo con ciò tradire il ruolo di cui è stato investito (e che ha in qualche modo ricercato nel momento in cui si è proposto prima all'elettorato e poi all'interno della maggioranza risultata vincente). Deve essere affermato a chiare lettere che colui il quale affronta una competizione elettorale per ottenere poteri di amministrazione (anche, e soprattutto) sul piano locale, non può poi arroccarsi su di una posizione di apparente neutralità, pretendendo di delegare ai " tecnici" senza assunzione di responsabilità diretta le decisioni su questioni che riguardano con immediatezza la sua funzione pubblica.
3. Più complessa è la questione concernente la violazione dell'art. 323 c.p. (oggetto del motivo aggiunto), sotto il profilo che la nuova formulazione della norma (ridisegnata dall'art. 1 della L. 16/7/1997, n. 234) esige la «violazione di norme di legge o di regolamento». Il punto di riferimento necessario è costituito da numerose norme di legge in materia edilizia e urbanistica.
4. Vengono anzitutto in considerazione le disposizioni del codice civile, in particolare l'art. 869 secondo cui «i proprietari d'immobili nei comuni dove sono formati piani regolatori devono osservare le prescrizioni dei piani stessi nelle costruzioni e nelle edificazioni o modificazioni delle costruzioni esistenti». La norma ha come destinatari diretti i "proprietari" di immobili i quali, peraltro, non sono liberi di operare pur attenendosi alle prescrizioni dei piani regolatori, in quanto le costruzioni, edificazioni o modificazioni sono subordinate al rilascio della licenza da parte delle autorità amministrative locali. E' di tutta evidenza che, se il proprietario deve attenersi alle prescrizioni dei piani regolatori nel presentare il progetto da sottoporre a licenza e nell'eseguire l'opera a licenza ottenuta, a maggior ragione sono tenuti alle stesse prescrizioni gli amministratori all'atto di concedere la licenza edilizia. Diversamente opinando si
verificherebbe una situazione abnorme,in base alla quale male agisce il proprietario che edifica in violazione delle prescrizioni dei piani regolatori pur avendo ottenuto licenza dall'autorità amministrativa, e bene agisce l'amministratore pubblico che quella licenza violatrice delle prescrizioni dei piani regolatori ha rilasciato. L'art. 871 precisa che le regole da osservarsi nelle costruzioni sono stabilite dalla legge speciale e dai  regolamenti edilizi comunali e l'art. 872 aggiunge che «le conseguenze di carattere amministrativo della violazione delle norme indicate dall'articolo precedente sono stabilite da leggi speciali». Il quadro di riferimento quale evidenziato, non soltanto per gli aspetti civilistici del problema, è di natura esclusivamente legislativa nel senso che il precetto relativo alla violazione delle prescrizioni dei piani regolatori (non importa se approvati con norme regolamentari) discende sia dal codice civile, sia dalle norme
di leggi speciali da quest'ultimo richiamare.
5. Quanto alle leggi speciali il punto di riferimento è la legge urbanistica (17/8/1942, n. 1150), coeva al codice civile salve le successive modifiche, che all'art. 10 stabilisce le regole generali per l'approvazione dei piano regolatore generale ed all'art. 31 determina le condizioni per l'ottenimento della licenza di costruzione da parte del Sindaco del Comune in cui l'opera deve essere eseguita.
Al pari di quanto osservato in ordine alle norme del codice civile, la richiesta della licenza presuppone che il richiedente osservi le prescrizioni contenute nei piani regolatori generali e, a fortiori, che il Sindaco (o il suo delegato) osservi le medesime prescrizioni: tutto ciò al fine di evitare la già evidenziata discrasia - ove si assuma un diverso orientamento interpretativo - fra una richiesta del privato contra legem, come tale illegittima, e una licenza concessa egualmente contra legem, ma indifferente giuridicamente. - 6. il quadro è completato dalla legge 28/1/1977, n. 10, sulla edificabilità dei suoli, che esplicita normativamente quanto desunto a livello interpretativo dalle norme finora menzionate. 
L'art. 1 della L. 10/1977 stabilisce che l'esecuzione delle opere comportanti trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio è subordinata a concessione da parte del sindaco ai sensi della stessa legge, mentre l'art. 4 dispone che la concessione è data dal sindaco al proprietario dell'arca o a chi abbia titolo per richiederla con le modalità, con la procedura e con gli effetti di cui all'art. 31 L. 17/8/1942, n. 1150 e successive modifiche e integrazioni «in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi». Si pone, a questo punto, il quesito se il piano regolatore generale debba considerarsi regolamento o strumento urbanistico; quesito dalla cui soluzione dipende la più generale questione che qui rileva in ordine all'applicazione dell'art. 323 c.p. nell'ipotesi in cui la licenza edilizia venga concessa in violazione del piano regolatore generale.
7. Che il piano regolatore non sia regolamento è questione risolta più volte da questa Suprema Corte. La sentenza 2/10/1998, T….. e altri, di questa sezione - che pure assume conclusioni diverse in ordine al problema se le norme del piano regolatore generale possono essere recepite dalla legge e come tali determinanti per l'applicazione dell'art. 323 c.p. nel caso di illegittima concessione della licenza edilizia - afferma che al potere regolamentare, un tempo inteso come manifestazione della discrezionalità amministrativa e quindi legittimamente autodisciplinato dai soggetti emananti, sono state date basi e disciplina legislativa nei confronti delle autonomie locali (deputate appunto alla materia delle concessioni edilizie) dall'art. 5 della L. 142/1990. Il regolamento deve intendersi connotato dal carattere della tipicità e perciò tale da poter essere riconosciuto soltanto nei casi in cui la sua emanazione sia espressamente consentita dalla legge. Il primo requisito dell'atto è del resto che il soggetto emanante lo qualifichi come regolamento, facendo
dichiaratamente uso del relativo potere con riferimento alla fonte legislativa abilitante. L'uso della denominazione regolamento è infatti espressamente disposto dall'ultimo comma dell'art. 17 L. 400/1988, con una di quelle norme cui viene riconosciuta portata generale. L’emanazione comporta la deliberazione da parte del consiglio comunale e il controllo di legittimità da parte del comitato regionale di controllo, elementi che sono comuni agli atti amministrativi generali, ma comporta altresì, in modo tipizzante, la pubblicazione e l'assunzione di obbligatorietà il quindicesimo giorno successivo (art. 10 disp. prel. C.C.)». La sentenza 16/10/1998, L….., di questa sezione, che offre una soluzione diversa rispetto a quella appena ora ricordata, si pone sulla medesima linea nell'escludere che il piano regolatore possa considerarsi norma regolamentare. Il dato può dirsi acquisito, tanto da non doversi aggiungere ulteriori considerazioni a quelle prima evidenziate, così da potersi ribadire senza ulteriori argomentazioni che il piano regolatore generale non
rientra nella categoria dei regolamenti.
8. Che il piano regolatore generale sia strumento urbanistico, anzi lo strumento urbanistico per eccellenza, appare di tutta evidenza alla luce delle norme della legge 17/8/1942, n. 1150 e successive modifiche, in particolare dell'art. 7 che dispone che il piano deve considerare la totalità del territorio comunale e, per quanto riguarda il contenuto, deve indicare le localizzazioni di opere e impianti pubblici; la divisione del territorio in zone con la precisazione di quelle destinate all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna di esse; i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico. Sotto questo profilo esso contiene prescrizioni di immediata applicazione, pur potendo assumere anche carattere programmatorio di scelte generali.
La essenzialità del piano regolatore generale come strumento urbanistico è tale per cui, ove i Comuni non abbiano provveduto a munirsene, la legge stessa (art. 4 quinquies, c. 1, L. n. 1150/1942) vi supplisce ponendo una serie di limitazioni alla edificabilità. Lo stesso articolo, nei commi successivi, stabilisce altre regole sia in relazione ai Comuni già dotati di piano regolatore, sia a quelli che devono approvarlo, sia a quelli che intendono rivedere il piano preesistente.
9. Dal complesso delle disposizioni normative riportate si evince con assoluta sicurezza che la concessione edilizia data dal Sindaco deve conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici (in primis il piano regolatore). Il rinvio della legge agli strumenti urbanistici fa sì che la condotta illecita dei Sindaco (concessione data senza il rispetto del piano regolatore) si configuri come violazione di legge.
10. Resta da verificare se tale «violazione di legge», per essere rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 323 c.p., non violi il principio di stretta legalità. La Corte costituzionale, con la sentenza 11/6/1990, n. 1282, ha chiarito il tema affermando che il principio di stretta legalità vigente nella materia penale può ritenersi soddisfatto, sotto il profilo della riserva di legge, allorquando la legge determini con sufficiente specificazione il fatto cui è riferita la sanzione penale,
essendo necessario che la legge consenta di distinguere la sfera del lecito e quella dell'illecito, ponendo a tal fine una indicazione normativa sufficiente ad orientare la condotta dei consociati.  Non contrasta, perciò, con il principio della riserva, sia la funzione integrativa svolta da un provvedimento amministrativo rispetto ad elementi normativi del fatto sottratti alla possibilità di un'anticipata individuazione particolareggiata da parte della legge, sia l'ipotesi in cui il precetto penale assume una funzione lato sensu sanzionatoria rispetto a provvedimenti emanati dall'autorità amministrativa ove sia la legge ad indicarne i presupposti, contenuto, caratteri e limiti, in modo che il precetto penale riceva intera la sua enunciazione con l'imposizione del divieto». La norma dell'art. 323 c.p., richiedendo per la sanzionabilità della condotta del pubblico ufficiale che la stessa sia caratterizzata dalla inosservanza sostanziale, non essendo sufficiente quella formale o procedimentale, di norma introdotte da leggi (o da regolamenti) e sia per il necessario nesso causale produttiva di ingiusto vantaggio patrimoniale (nella specie non posto in discussione), procede alla definizione tipica della fattispecie per parte, con elementi naturalistici determinati da espressioni e modi di uso comune, e per parte con rinvio alla valutazione posta da norme di legge (o di regolamento) che fungono da mediazione per la delimitazione materiale e di fatto, eliminando ogni incertezza della fattispecie: norma che deve risultare violata.
Nel caso di specie la mediazione conoscitiva e tipizzante, effetto del rinvio operato con i termini «violazione di legge», a partire dall'attività concessoria svolta dal pubblico ufficiale in materia edilizia, è certa per il contenuto e incidente esaustivamente sulla connotazione materiale della condotta vietata. Infatti, per disposizione di legge, qui definita in senso proprio, a fronte del dovere di chi voglia edificare di munirsi della concessione edilizia, sussiste il dovere dei Sindaco di provvedere a norma dell'art. 4 della L. 10/1977. La concessione è data dal Sindaco con la procedura e con gli effetti di cui all'art. 31 L. 1150/1942. Sulla base di questi dati normativi questa Corte (sez. VI, 16/10/1998, L…..) ha chiaramente affermato che «il principio discriminante la condotta lecita da quella illecita è fissato con precisione non soggetta ad interpretazioni ambigue o incerte. Esso deriva dalla imposizione della volontà statuale a mezzo dello
strumento della legge e in questa, quanto alla norma di mediazione, fa riferimento ad elementi descrittivi dell'obbligo di comportamento che rinviano non ad altri elementi normativi propri, ma a presupposti di fatto, in questo caso gli strumenti urbanistici esistenti.  Si deve ritenere che questi ultimi partecipano soltanto alla determinazione del contesto applicativo materiale della attività del pubblico ufficiale, pienamente descritta, sotto il profilo della doverosità della condotta, da specifica norma di legge, la quale soltanto costituisce l'oggetto della violazione, contemplata dall'art. 323
c.p., ai fini della sussistenza dell'elemento materiale del reato in esame». Di conseguenza, consumandosi la mediazione dell'elemento normativo, fissato dalla legge perle concessioni edilizie, all'interno di un circuito normativo di fonti primarie, l'apparato prescrittivo degli strumenti urbanistici si definisce in funzione di presupposto di fatto della norma di legge violata che delimita la possibilità di concessione edilizia (da parte del concedente) alla conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, così che non possono restare margini di incertezza sulla individuazione della condotta vietata. “Omissis
 

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