Giurisprudenza - Edilizia ed urbanistica

Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza n. 6769 del 18 dicembre 2000, sul regime della ristrutturazione anche in caso di demolizione totale e ricostruzione fedele dell’edificio

  REPUBBLICA ITALIANA     
    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO   .
Il  Consiglio  di  Stato  in  sede  giurisdizionale,   Quinta  Sezione           
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello nr.4901 del 1995, proposto dal Comune di Cureggio, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’ avv.to Paolo Scaparone, elettivamente domiciliato in Roma, via Pierluigi da Palestrina, n.63, presso l’avv. Mario Contaldi;
CONTRO
il sig. Pietro Fornara, rappresentato e difeso dagli avv.ti Guido Sertorio e Enrico Romanelli, presso il quale è elettivamente domiciliato in Roma, via Cosseria, n.5, 
e nei confronti
della società Immobiliare Enne, s.a.s., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avv.ti Giuseppe Ravasio e Giovanni Cascino, presso il quale è elettivamente domiciliata in Roma, via del Corso,n.525, 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. del Piemonte, sezione I, 2 marzo 1995, n.121.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’appellato sig. Pietro Fornara, che ha proposto appello incidentale, e della società Immobiliare Enne s.a.s.,
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica  udienza del 17 ottobre 2000, relatore il consigliere Marcello Borioni, uditi per le parti gli avv.ti Andrea Abbamonte, su delega dell’avv. P. Scarapone, ed Enrico Romanelli;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Il T.A.R. del Piemonte, sezione I, con sentenza 2 marzo 1995, n.121, ha in parte dichiarato inammissibile, in parte accolto il ricorso proposto dal sig. Pietro Fornara, con il quale erano stati impugnati atti concernenti un progetto per lavori edilizi relativi ad un edificio sito in via De Amicis 2 del Comune di Cureggio (concessione edilizia 15 settembre 1988, n.31; concessione in variante del 26 giugno 1989, successivamente annullata d’ufficio; concessione in variante del 3 luglio 1989, n.36).
     La sentenza ha accolto il ricorso nella parte in cui investe la concessione edilizia n.31/1989 e la variante n.36/1989 (e i relativi pareri della commissione edilizia), considerate illegittime per contrasto con l’art.3.2. delle norme tecniche di attuazione, che consentono interventi di ristrutturazione con ampliamento. Il T.A.R. ha anche esaminato e respinto le ulteriori censure.
     La sentenza è stata impugnata dal Comune di Cureggio, il quale ne ha contestato la motivazione e la conclusione nella parte che ha portato all’accoglimento del ricorso.
     Il sig. Fornara, ricorrente originario, si è costituito per resistere all’appello ed ha proposto appello incidentale, volto a riproporre le censure disattese dal T.A.R..
      Si è costituita in giudizio anche la società Immobiliare Enne, che ha depositato una memoria intesa a sostenere la fondatezza dell’appello del Comune e l’infondatezza dell’appello incidentale.
      Alla pubblica udienza del 17 ottobre 2000, il ricorso veniva trattenuto per la decisione.
DIRITTO
     Va, anzitutto, rilevato che la società Immobiliare Enne, in quanto titolare della concessione edilizia annullata con la sentenza di primo grado, era legittimata ad appellare, onde il suo intervento di sostegno all’impugnazione proposta dal Comune è inammissibile.
     Va poi disattesa l’eccezione di irricevibilità dell’appello. A norma dell’art.8 della legge 20 novembre 1982, n.890, la notificazione si ha per eseguita “decorsi dieci giorni dalla data del deposito” del piego presso l’ufficio postale (comma IV), ovvero “alla data del ritiro del piego”, se precedente (comma VI). Nella specie il ritiro è avvenuto il 3 aprile 1995, entro i dieci giorni dal deposito, e l’appello è stato notificato il 2 giugno 1995, quando il termine di decadenza non era ancora scaduto. 
      Anche l’eccezione di inammissibilità non ha fondamento, poiché l’amministrazione è sempre legittimata ad agire a tutela dei propri provvedimenti, essendo irrilevante che l’esito del giudizio possa risultare favorevole per un privato (nella specie, la società Immobiliare Enne, titolare della concessione edilizia controversa). 
     L’appello dell’amministrazione comunale è fondato. 
     Con il ricorso originario l'attuale appellato aveva impugnato la concessione edilizia n.31 del 15 settembre 1988 e la successiva concessione in variante n.36 del 3 luglio 1989, sostenendo, nel primo motivo, che, essendo consentiti nella zona soltanto interventi di manutenzione e di ristrutturazione (art. 3.2 delle n.t.a.), non potevano essere rilasciate concessione edilizie implicanti l’integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio.
     Siffatta tesi, cui il T.A.R. ha aderito, non può essere condivisa.
     Come la giurisprudenza ha più volte affermato (da ultimo Cons. Stato, sez.V, 2 aprile 2000, n.1906; 27 settembre 1999, n.1183; 24 febbraio 1999, n.197; 20 ottobre 1998, n.1491; 28 marzo 1998, n.369), la nozione di “ristrutturazione”, di cui all’art.31, comma I, della legge 5 agosto 1978, n.457 comprende anche l’intervento di demolizione e ricostruzione di un immobile, non contemplato in modo esplicito dal legislatore. La norma citata qualifica, infatti, di “ristrutturazione” gli interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto ... diverso dal precedente" e la totale diversità del manufatto presuppone necessariamente che quello preesistente sia stato integramente demolito. E’, pertanto, insatto, che la concessione edilizia controversa cada in contrasto con il citato art. 3.2 n.t.a., il cui disposto consente “interventi …di ristrutturazione e/o ampliamenti degli edifici esistenti”, sicché sotto questo profilo, e contrariamente a quanto affermato dal T.A.R., la concessione edilizia originaria (n.31/1988) è indenne da vizi.
     Caduta l’argomentazione sulla quale poggia la sentenza di primo grado, vengono in evidenza le altre censure dedotte con il ricorso originario, considerate infondate dal T.A.R. e riproposte con l’appello incidentale.
     In questa parte la sentenza merita conferma.
     Anzitutto, nell’appello incidentale si ribadisce che la citata concessione edilizia n.31/1988 sarebbe illegittima anche per violazione delle norme sulle distanze dal ciglio stradale (D.M. 1 aprile 1968, n.1404) e dai confini (art.3.1 n.t.a.).
     Entrambe le censure sono infondate.
     La prima è stata disattesa dal T.A.R., in quanto “da nessun elemento si evince che…l’edificio esistente…sia ubicato fuori dal perimetro del centro abitato del comune di Cureggio o fuori del perimetro degli insediamenti previsti” dagli strumenti urbanistici, tale essendo il presupposto per l’applicazione delle disposizioni del citato D.M. n.1044/1968. Conclusione corretta, poiché nel giudizio di primo grado nulla era stato affermato circa l’ubicazione dell’edificio rispetto al “perimetro” che delimita l’applicazione della norma. E contrariamente a quanto mostra di ritenere l’appellante incidentale, non è lecito dedurre alcunché dalla mancata contestazione della censura da parte dell’amministrazione, poiché l’onere di fornire almeno un inizio di prova degli elementi di fatto addotti per contestare la legittimità del provvedimento impugnato grava sul ricorrente. 
     In ogni caso, l’art.3.1, comma 3, delle n.t.a. stabilisce che “negli ampliamenti di edifici esistenti posti a meno di cinque metri dalle strade è ammessa una distanza dalle strade pari a quella degli edifici esistenti”. Se la regola vale per gli ampliamenti, a maggior ragione deve ritenersi applicabile agli interventi di ristrutturazione che, in quanto diretti al “recupero del patrimonio edilizio esistente” (art. 31 della legge n.457/1978), non conducono alla realizzazione di “nuove costruzioni”.
     Per la stessa considerazione non trova applicazione la disposizione - invocata a sostegno della seconda censura - di cui al comma 1 del citato art.3.1, che fissa le distanze dai confini per le “nuove costruzioni ed ampliamenti”, e non già per le ristrutturazioni.
     A torto viene dedotta, con l’ ulteriore censura, la violazione dell’art.48, comma IV, della legge della Regione Piemonte 5 dicembre 1977, n.56, e successive modificazioni, che subordina alla preventiva verifica di compatibilità sanitaria il rilascio di concessione edilizie “relative ad insediamenti industriali ed attività produttive compre si negli elenchi formati a norma dell’art.216 T.U. delle leggi sanitarie R.D. 27 luglio 1934, n.1265”. La destinazione (“uso artigianale per riparazione preziosi”), dichiarata nella concessione edilizia impugnata, non rientra fra gli “insediamenti industriali” né fra le “attività produttive”, in considerazione della natura dell’attività (“riparazione preziosi”) e per i limiti dimensionali propri dell’impresa artigiana. Beninteso, sarà obbligo dell’autorità competente vigilare che l’attività svolta non sia diversa da quella dichiarata e non assuma in concreto, per i materiali impiegati e i procedimenti di lavorazione seguiti, i caratteri della insalubrità.
     Viene riproposta anche la censura - dichiarata inammissibile dal T.A.R. per genericità – intesa a sostenere che il progetto presentato a corredo dell’istanza di concessione forniva una falsa rappresentazione della realtà, in quanto vi figurava come esistente una “manica di fabbricato” che, in realtà, era stata già demolita. 
     Sul punto la conclusione cui è pervenuto il T.A.R. è corretta. In primo luogo, come si è osservato in precedenza, è irrilevante, sotto il profilo probatorio, che l’asserita difformità non sia stata contrastata né dal Comune né dalla società Immobiliare Enne, titolare dalla concessione impugnata (ciò non è neppure esatto, cfr. memoria del 19 gennaio 1995, pagg.10 e 11, depositata nel giudizio di primo grado). D’altra parte, nell’ appello incidentale si afferma che il progetto originario presentato dalla società Immobiliare Enne dava atto dell’esistenza della “manica di fabbricato” sul lato nord del fabbricato. Sicché neppure è agevole comprendere in che cosa consista e a quale progetto si riferisca l’asserita difformità dallo stato dei luoghi. Se si è inteso fare riferimento al progetto presentato a corredo della istanza di concessione per variante in corso d’opera (20 maggio 1989), la divergenza rispetto allo stato dei luoghi non esisteva, poiché nel frattempo la “manica di fabbrica” era stata abbattuta (relazione dell’ufficio tecnico comunale 28 aprile 1989). E se ciò sia avvenuto abusivamente è questione che può portare all’irrogazione di sanzioni, ma è irrilevante per valutare la legittimità del provvedimento conclusivo, quale risulta dalle previsioni della concessione n.31/1988 come modificate e integrate dalla concessione in variante 3 luglio 1898, n.36. 
     Per quanto concerne quest’ultima concessione il T.A.R. ha ritenuto fondata la censura di illegittimità derivata dal vizio di violazione dell’art.3.2 delle n.t.a., inficiante la concessione originaria. Accertata l’insussistenza del vizio, cade la conseguenza che ne è stata tratta. 
     Sono infondate anche le censure che investono in via autonoma la concessione in variante.
     Viene affermato che l’intervento non poteva essere qualificato di “ristrutturazione”, in quanto il fabbricato, alla data di richiesta della concessione in variante, era stato integralmente abbattuto, sicché, in sostanza, verrebbe meno la contestualità dei lavori necessaria perché, alla luce della giurisprudenza dianzi citata, la demolizione e la ricostruzione possano configurare un intervento di ristrutturazione.
       E’ vero che la “ristrutturazione” presuppone l’esistenza dell’immobile da “recuperare”. Ma tale condizione non viene meno quando, nel corso dei lavori, si sia proceduto ad interventi demolitori più ampi di quelli previsti dal provvedimento originario. Il dato rilevante è che la ristrutturazione sia consentita dalla disciplina urbanistica vigente e che la demolizione sia avvenuta prima che sia stata dichiarata la decadenza della concessione originaria.
     Per quanto concerne l’asserita violazione delle norme sulle distanze dal confine vale quanto osservato in precedenza con riguardo alla stessa censura riferita alla concessione edilizia originaria n.31/1988.
     Quanto all’asserito superamento della volumetria consentita per effetto dell’ampliamento del locale interrato e della sua destinazione alla custodia e conservazione dei metalli preziosi, di nuovo deve rilevarsi che la censura è stata formulata in modo generico e senza alcun riferimento concreto che ne consenta l’apprezzamento. La genericità permane anche considerando la relazione peritale del 14 novembre 1989 (arch. Cesare Bianchi), che non fornisce alcun dato idoneo a dimostrare, con la dovuta concludenza, l’asserito superamento della volumetria consentita nella zona. Il semplice incremento di volume del “piano scantinato” non è di per significativo, posto che il citato art.3.2 delle n.t.a. consentiva interventi “di ristrutturazione e/o ampliamenti”.
     Nulla, infine, lascia intendere, contrariamente a quanto si assume nell’appello incidentale, che il locale ampliato sia destinato allo svolgimento di attività commerciale anziché allo svolgimento della dichiarata attività artigianale. In ogni caso, l’attività “espositiva e di vendita” è consentita “all’interno di ciascuna attività produttiva esistente e/o prevista…in misura non superiore al 25% della superficie lorda complessiva” (art.3.2 comma 4, delle n.t.a.). 
     Le censure esaminate sono proposte anche nei confronti del parere reso dalla commissione edilizia e, per le stesse considerazioni, vanno disattese. 
     In conclusione, per le ragioni esposte, l’appello principale del Comune di Cureggio va accolto e l’appello incidentale del sig. Fornara va rigettato. Per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, il ricorso originario dello stesso sig. Ferrara va rigettato.
     Quanto alle spese, l’annullamento della parte principale della sentenza del TAR comporta la caducazione della parte accessoria di detta sentenza, relativa appunto alle spese, che del resto erano state allora compensate.
L’Immobiliare Enne che non ha appellato ed ha svolto nel secondo grado un intervento inammissibile, non ha titolo di ottenere la rifusione di quelle sentite in primo grado, ed ancor meno in appello.
Il Comune non ga sentito spese in primo grado, non essendosi allora costituito. Si è però costituto in appello; ed è giusto sia tenuto indenne delle spese sentite dinanzi a questo Consiglio. Esse vanno ravisate nel dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione V), dichiarato inammissibile l’intervento adesivo della società Immobiliare Enne, accoglie l’appello principale del Comune di Cureggio e rigetta l’appello incidentale del sig. Fornara. Per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, rigetta il ricorso originario dello stesso sig. Ferrara.
Condanna il sig. Fornara al pagamento di £.7.000.000 in favore del Comune di Cureggio per spese del secondo grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio del 17 ottobre 2000, con l'intervento dei sigg.ri 
Giovanni Paleologo   presidente,
Stefano Baccarini    consigliere,
Piergiorgio Trovato   consigliere,
Corrado Allegretta    consigliere,
Marcello Borioni    consigliere estensore.
 
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