Nota di commento alla sentenza 15 maggio 2000 n. 96 (dep.
1 giugno 2000) del G.U.P. presso il Tribunale Militare di Torino.
Maria Elena Veneroni
1. Premessa. – 2. Udienza preliminare e sentenza di non luogo a procedere:
breve inquadramento. -3. L’art. 425 c.p.p. tra evoluzione storica
e problemi di raccordo sistematico. – 3.1. (Segue): I nuovi poteri del
G.u.p. – 3.2. (Segue): ... e la natura della sentenza di non luogo a procedere
alla luce delle novelle 105/1993 e 479/1999.
§ 1. Premessa.
La sentenza in commento affronta la annosa e complessa problematica
inerente ai poteri decisori del giudice dell’udienza preliminare.
Il G.u.p. presso il tribunale militare di Torino, investito della richiesta
di rinvio a giudizio di due persone imputate del reato militare di “violenza
con omicidio contro privati italiani”, avvenuto in data 7-12-1944, affronta,
preliminarmente, la dibattuta questione relativa ai criteri valutativi
cui deve ispirarsi il giudicante nella definizione dell’udienza preliminare
e, in particolare, all’ambito di applicazione dell’art. 425 c.p.p., come
novellato dalla legge n. 479 del 1999. Procede, quindi, ad una accurata
operazione interpretativa, letterale e sistematica, della norma in questione,
condotta anche attraverso l’analisi della sua evoluzione storica, al fine
di individuare i presupposti necessari a legittimare – rectius, imporre
- la emanazione della sentenza di non luogo a procedere.
Dopo un attento e dettagliato esame delle risultanze probatorie in
atti – di cui dà conto in motivazione – ritenuti gli elementi a
sostegno dell’ipotesi accusatoria formalizzata dal P.m. insufficienti a
dimostrare, in giudizio, la fondatezza della stessa, in ossequio al principio
non superfluità del dibattimento sotteso alla disciplina dell’udienza
preliminare e dei relativi provvedimenti definitori, il giudice militare
torinese pronuncia sentenza di non luogo a procedere i sensi dell’art.
425 comma 3.
§ 2. Udienza preliminare e sentenza di non luogo a procedere: breve
inquadramento.
Per meglio comprendere l’iter argomentativo che ha condotto
alla decisione che si commenta, appare opportuno un rapido e sintetico
inquadramento della tematica generale.
L’udienza preliminare, secondo il disegno originariamente delineato
dal legislatore del 1988, assolve ad una funzione di economia processuale
e deflazione del dibattimento, fungendo da filtro per imputazioni non fondate
o, comunque, non sufficientemente supportate da elementi probatori tali
da condurre, secondo una valutazione prognostica di ragionevole probabilità,
ad una sentenza dibattimentale di condanna (per un inquadramento generale
della tematica, vedi, tra gli altri, NEPPI MODONA, Indagini preliminari
e udienza preliminare, in AAVV, Profili del nuovo codice di procedura penale,
Conso-Grevi, IV, p. 485 sgg.; GALATI, Le indagini preliminari e l’udienza
preliminare, in A.A.V.V., Diritto processuale penale, II, p.204).
In questa fase procedimentale, “nuova” rispetto al sistema processuale
previgente, compito del giudice ad essa preposto era essenzialmente –e
rimane, se pure “ampliato” con le novelle legislative succedutesi in questi
anni - quello di assolvere ad una funzione di controllo giurisdizionale,
ad opera di un giudice, appunto, terzo ed imparziale (non più, come
avveniva sotto la vigenza del codice Rocco, direttamente coinvolto nella
ricerca di fonti di prova della responsabilità della persona sottoposta
alle indagini) al fine di vagliare la legittimità delle indagini
espletate, la fondatezza delle imputazioni e la idoneità processuale
degli elementi raccolti dagli organi inquirenti a sostenere l’accusa in
dibattimento.
Duplice è la ratio sottesa alla disciplina dell’udienza preliminare
e della sentenza di non luogo a procedere: esigenze di semplificazione,
celerità ed economia processuale mediante deflazione di dibattimenti
inutili, in ottemperanza alle specifiche direttive del legislatore delegante
( art. 2 n. 1 e 52 L. 16 febbraio 1987 n. 81), da un lato; tutela e garanzia
per l’imputato, che impone di evitare i tempi lunghi, la pubblicità
ed i connessi pregiudizi, personali oltreché economici, che un processo
penale, nonostante l’esito assolutorio cui possa pervenire, inevitabilmente
implica, dall’altro.
Pur conservando la struttura funzionale tipica di luogo di smistamento
del processo e di verifica giurisdizionale delle richieste avanzate dal
pubblico ministero, l’udienza preliminare è stata oggetto di una
progressiva e profonda revisione ad opera di interventi del legislatore
e della Corte costituzionale che ne hanno mutato la fisionomia originaria
trasformandola in una vera e propria udienza di formazione della “prova”
– in accezione atecnica – ad integrazione del compendio istruttorio risultato
delle investigazioni fino a quel momento compiute (cfr., in ordine cronologico,
Corte cost., sent. 10-02-1993 n.41; l. 08-04-1993 n. 105; l. 16-12-1999
n. 479).
Ovvie ed inevitabili le ripercussioni, non solo indirette, della riforma
sulla disciplina della sentenza di non luogo a procedere e, più
in generale, dei poteri valutativi e decisori del G.u.p. che preludono
ad essa.
§ 3. L’art. 425 c.p.p. tra evoluzione storica e problemi di raccordo
sistematico.
Limitando l’attenzione, in questa sede, alla tematica da ultimo
accennata, si impone, innanzitutto, un breve excursus storico - normativo,
indispensabile – come osservato dallo stesso giudice la cui pronuncia si
commenta – per interpretare correttamente l’attuale testo dell’art. 425
c.p.p.
La norma in esame contiene la elencazione tassativa dei casi in cui
deve pronunciarsi sentenza di non luogo a procedere e le relative formule
assolutorie, in parte coincidenti con quelle di cui agli artt. 129 e 530
c.p.p.
Nella sua versione originaria, l’art. 425 c.p.p. prevedeva che il giudice
competente, investito della richiesta di rinvio a giudizio dal pubblico
ministero ex art. 416 c.p.p., potesse – rectius, dovesse – pronunciare
sentenza di non luogo a procedere qualora, in esito all’udienza preliminare,
dal quadro probatorio, eventualmente integrato ai sensi degli artt. 421
e 422 c.p.p., risultasse <<evidente che il fatto non sussiste, l’imputato
non lo ha commesso o che non costituisce reato o che si tratta di persona
non punibile per qualsiasi altra causa…>>.
Il legislatore delegato del 1988, attraverso il rigoroso criterio di
giudizio formulato con l’attributo “evidente”, chiedeva al giudice dell’udienza
preliminare una valutazione di certezza in ordine alla innocenza dell’imputato.
L’ambito di effettiva operatività della sentenza di non luogo a
procedere finiva così per essere drasticamente circoscritto alle
sole e, fortunatamente, marginali ipotesi di richieste di rinvio a giudizio
manifestamente erronee o azzardate imponendo, viceversa, in tutti gli altri
casi in cui la infondatezza dell’imputazione non appariva ictu oculi clamorosa,
il passaggio al dibattimento, luogo privilegiato, se non unico, di accertamento
del merito con notevole compressione dei poteri del G.u.p. Il rigoroso
criterio di giudizio sottostante alla emanazione della sentenza di non
luogo a procedere, come emerge dall’analisi dei Lavori preparatori
al codice, era frutto della preoccupazione, particolarmente sentita dal
legislatore del 1988 che si stava accingendo ad attuare un “salto” radicale
di sistema – da inquisitorio ad accusatorio – e di cultura processuale,
di riproporre un udienza di anticipazione del dibattimento sul merito,
in contrasto con la funzione di mero filtro funzionale e riposava sulla
esigenza di scongiurare il riproporsi della sentenza di non doversi procedere
conclusiva dell’istruttoria formale del sistema del 1930.
Immediate, all’indomani dell’entrata in vigore del codice di procedura
penale, furono le reazioni di critica a tale scelta legislativa e le denuncie,
da parte della dottrina più attenta e degli stessi operatori giudiziari
della contraddizione interna al sistema che scaturiva dal raffronto sistematico
dell’art. 425, così congegnato, con gli artt. 408 c.p.p.-125 disp.
att., 129 e 530 c.p.p. (ricca é la letteratura sul punto: tra i
molti, vd. A. PRESUTTI, Presunzione di innocenza e regole di giudizio in
sede di archiviazione e di udienza preliminare, in Cass. Pen., 1991, p.
1360; nonché, V. GREVI, Archiviazione per <<inidoneità
probatoria>> ed obbligatorietà dell’azione penale, in Riv. it. dir.
proc. pen. 1990, p. 1309).
I principali punti di frizione e, quindi, i maggiori contrasti interpretativi
si registravano in relazione ai diversi criteri di valutazione che dovevano
presiedere alla archiviazione, rispetto a quelli richiamati, invece, per
le pronunce terminative dell’udienza preliminare.
In particolare, stante il combinato disposto degli artt. 408 c.p.p.
e 125 disp. att. c.p.p., come interpretato dalla stessa Corte costituzionale
con sentenza n. 91 del 1988, a fronte di una piattaforma indiziaria inconsistente
o, comunque, insufficiente a sostenere adeguatamente la prospettazione
accusatoria in giudizio, in virtù del principio di non superfluità
del dibattimento, il pubblico ministero doveva sciogliere l’alternativa
cui è chiamato ex art. 405 c.p.p. chiedendo l’archiviazione del
procedimento e il G.i.p., a sua volta, riconosciuta la legittimità
della richiesta, la accoglie per infondatezza della notizia di reato. Viceversa,
qualora il pubblico ministero, pur in presenza di una situazione probatoria
sostanzialmente analoga, invece di chiedere l’archiviazione, avesse optato
per l’opposta richiesta di rinvio a giudizio, il G.u.p., vincolato ex lege
ad attenersi alla regola di giudizio dell’”evidenza”, non avrebbe potuto
fare altro che assecondare la richiesta stessa, nonostante la prevedibile
inutilità di un dibattimento che, in virtù delle diverse
formule assolutorie di cui all’art. 530 c.p.p., si sarebbe concluso con
una pronuncia favorevole al reo per insufficienza o contraddittorietà
della prova. In altre parole, si lamentava come, potenziale effetto pratico
della applicazione della descritta normativa fosse una iniqua disparità
di trattamento nei confronti dell’indagato rispetto alla situazione conseguente
alla applicazione della regola di giudizio per la richiesta di archiviazione;
una medesima situazione probatoria, cioè, era suscettibile di condurre
a risultati diametralmente opposti sulla base di scelte del tutto discrezionali
e a priori non censurabili del P.m. (cfr. le osservazioni del C.S.M.
al testo 115 prog. prel. disp. att. c.p.p. Parere sul progetto preliminare
delle norme di attuazione del Codice di procedura penale (16 marzo 1989),
in Consiglio superiore della magistratura, Deliberazioni, risoluzioni e
pareri, Roma, 1990).
In realtà, non mancarono tentativi interpretativi diretti a
superare queste censure; in particolare, si affermò in dottrina
la tesi secondo cui l’art. 425 c.p.p. non richiedeva, per legittimare una
pronuncia di non luogo a procedere, l’”evidenza” della innocenza dell’imputato,
dovendosi ritenere sufficiente ed equiparata la situazione di mancanza
totale di prove a carico. Tale interpretazione correttiva, se pure accolta
in parte anche dalla giurisprudenza, non fu tuttavia considerata soddisfacente
né, tanto meno risolutiva (in questo senso, Cass. 19 giugno 1996,
con nota di D. DAWAN, Elementi probatori insufficienti: sentenza di non
luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio?, in Dir. Pen. Proc.,
1997, p. 174; Cass. 12 giugno 1991, in Cass. Pen. 92, p. 854; Cass. 12
marzo 1993, Mass. Pen. 193352; e numerose conformi).
Delicati problemi di coordinamento sistematico nascevano, inevitabilmente,
anche con riferimento alle disposizioni degli artt. 129 e 530 c.p.p.. Mentre
le inferenze con quest’ultima norma, se pure non prive di problematicità,
appaiono facilmente percepibili ponendosi, la stessa, come referente ultimo
e costante di ogni analisi involgente l’art. 425, quale espressione, in
chiave accusatoria, del principio di non superfluità del dibattimento
e, quindi, anticipazione (o mera prevenzione?) di una pronuncia assolutoria
già scontata, alquanto controversi furono – ed in parte sono tuttora–
i rapporti con il citato art. 129. La denunciata “asimmetria sistematica”
con questa norma generale, poggiava sull’osservazione che il disposto originario
dell’art. 425 era sostanzialmente analogo al 2° comma dell’ art. 129,
mentre rispetto al suo 1° comma si poneva come norma speciale, qualificata,
appunto, dall’elemento specializzante della evidenza della prova. Si obiettava,
pertanto, che, da un lato, il codice imponeva al giudice, nel corso del
“processo”- e quindi, anche dell’udienza preliminare – la immediata declaratoria
di cause di non punibilità non necessariamente qualificate dall’evidenza
probatoria (1° co. art. 129); dall’altro, omessa per qualsivoglia motivo
tale declaratoria, all’esito dell’udienza la sentenza di non luogo a procedere,
analoga negli effetti, sarebbe potuto essere pronunciata solo in presenza
di più penetranti presupposti; ancora una volta con conseguenti
e ingiustificate disparità di trattamento.
A tale situazione normativa confusa e contraddittoria pose parziale
rimedio la legge n. 105 del 1993 con l’abolizione del termine “evidente”.
Con riferimento al rapporto con l’art. 129, la posizione della giurisprudenza,
avvalorata ex post, dalla riforma del 1999, si è attestata nel senso
di ritenere distinto l’ambito di operatività delle due disposizioni,
rispondendo ad esigenze processuali differenti. Infatti –sostiene la Suprema
Corte – se il giudice dell’udienza preliminare, sulla richiesta di rinvio
a giudizio del pubblico ministero ravvisa la evidente sussistenza di una
delle cause di non punibilità previste dal codice, <<può
adottare il provvedimento previsto dall’art. 129, applicabile in ogni stato
e grado del procedimento proprio per evitare ulteriori costi alla giustizia;
se, invece, la presenza di una causa di non punibilità non è
palese, ed emerge l’esigenza di un approfondimento dell’indagine ovvero
se la causa di non punibilità non si è ancora verificata
al momento della fissazione dell’udienza preliminare, il giudice deve pronunciare
sentenza di non luogo a procedere>> (così, Cass. 11 marzo 1998,
n. 3046).
A questo punto il dibattito si sposta sulla portata innovativa della
riforma e, quindi, sull’an e quantum della estensione dei poteri di valutazione
del G.u.p., nonché sulla natura della sentenza di non luogo a procedere.
§ 3.1. (Segue): I nuovi poteri del G.u.p.
La soppressione della regola di giudizio dell’evidenza probatoria
alla quale era subordinata la emanazione della sentenza di non luogo a
procedere ha innegabilmente determinato un notevole potenziamento dei poteri
valutativi e decisori del G.u.p. e, conseguentemente, dell’area di operatività
dell’art. 425 c.p.p. (tra i diversi commenti alla legge n. 105 del 1993,
cfr: ILLUMINATI, Per il “non luogo a procedere” non è più
richiesta l’evidenza, in Gazz. Giur., 93, p. 2 sgg.; POTETTI, La legge
105/93: ovvero la triste sorte di una legge negata e di un giudice inutile?,
in Cass. Pen., 96, p. 2438; e, ancora, GARUTI, Nuove osservazioni sulla
regola di giudizio ex art. 425 c.p.p. ai fini della sentenza di non luogo
a procedere, in Cass. Pen., 98, p. 2438).
Tuttavia, i problemi interpretativi connessi a tale norma non vennero
meno (per un’interessante analisi delle problematiche di natura sistematica
sottese all’art. 425 prima e dopo la riforma del 1993, vedi D. DAWAN, op.
cit.).
In particolare, ci si chiese se, con tale riforma, il legislatore avesse
inteso estendere a questa fase i criteri di giudizio che governano la pronuncia
assolutoria dibattimentale, ex art. 530, attribuendo al giudice per l’udienza
preliminare più pregnanti poteri di controllo giurisdizionale e
di decisione, al punto da poter impedire il passaggio alla successiva fase
collegiale anche nelle ipotesi di prove a carico insufficienti e/o contraddittorie.
Altro e strettamente connesso dubbio derivante dalla nuova formulazione
dell’art. 425 investe la natura giuridica – meramente processuale o di
merito – della sentenza di non luogo a procedere.
Diverse e contrapposte le tesi formulate al riguardo in dottrina e
giurisprudenza.
Da un lato, coloro che, invocando i principi sottesi alla scelta
di un modello accusatorio e, quindi, alla funzione dell’udienza preliminare
stessa che, in quest’ottica doveva essere e rimanere una fase interlocutoria,
di mero filtro e verifica della legittimità delle indagini svolte
dal pubblico ministero, sostenevano che non avrebbe potuto, pena uno stravolgimento
del sistema, assurgere a momento di valutazione nel merito delle responsabilità
penali e che, quindi, non si poteva chiedere al G.u.p., in quella sede,
un giudizio prognostico che andasse oltre la esistenza e idoneità
processuale di elementi a carico. Dall’altro, coloro che, in coerenza con
la progressiva tendenza volta a deflazionare il più possibile i
dibattimenti incentivando “vie alternative” e soluzioni anticipate, in
risposta ad esigenze più pragmatiche di celerità e alleggerimento
del carico giudiziario, interpretarono la riforma del 1993 nel senso di
legittimare il G.u.p. a pronunciare sentenza di non luogo a procedere anche
a fronte di un compendio indiziario esistente ma non sufficiente. A favore
di quest’ultimo orientamento interpretativo si schierò, progressivamente,
la giurisprudenza maggioritaria, di merito e di legittimità. Quest’ultima
si attestò, in realtà, su posizioni più calibrate,
distinguendo a seconda del fatto che in presenza di un quadro gnoseologico
dubbio sia ragionevole prevedere che in dibattimento l’incertezza possa
o meno essere superata, per concludere che solo in questo caso si dovrebbe
imporre il non luogo a procedere, mentre nell’altro il rinvio a giudizio
(Corte cost. 71/1996). In altre parole, pur ammettendo una pronuncia di
non luogo a procedere in caso in situazioni di insufficienza o contraddittorietà
della prova, la esclude qualora una simile situazione sia prevedibilmente
superabile attraverso un’integrazione in sede dibattimentale (Cass. 18
novembre 1998 n. 1490, in Arch. n. proc. pen., 99, p. 169; Cass. 9 ottobre
1995 n. 3467, in Arch. n. proc. pen., 96, p. 98; oltre a numerose pronunce
di merito conformi, ad es., Uff. G.u.p. Milano, 28 maggio 1998, in Foro
Ambr. 99, p. 51; C. App. Catanzaro, 8 marzo 1995, in Giur. Mer., 96, p.
740; Trib. Teramo, 29 gennaio 1996, in Arch. n. proc. pen., 96, p. 267;
e altre).
Recepito l’insegnamento giurisprudenziale ed in coerenza con il tenore
complessivo della riforma dell’udienza preliminare, il legislatore del
1999 ha riformulato l’art. 425 c.p.p. specificandolo ed integrandolo. La
principale innovazione, ai fini che qui interessano, riguarda il nuovo
terzo comma della norma ove si esplicita che il giudice <<pronuncia
sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano
insufficienti, contraddittori o, comunque, non idonei a sostenere l’accusa
in giudizio>> (per approfondimenti sul tema, vedi i primi commenti alla
legge 16 dicembre 1999 n. 479: AAVV, Le recenti modifiche al codice di
procedura penale, vol. I, 2000; GROSSO, Commento all’art. 23 della l. 16
dicembre 1999 n. 479, in Dir. pen. proc., 2000, p. 284 sgg. ; PERONI, I
nuovi epiloghi dell’udienza preliminare, in Studium Iuris, 2000, p. 1209
ss.; R.Bricchetti in AA.VV. “Il nuovo processo penale davanti al Giudice
unico”, Milano 2000, p. 142-144)). Pur non rappresentando una novità
sostanziale, essendo meramente recettiva di un insegnamento ormai consolidato
in giurisprudenza, la nuova norma appare inequivoca nel mutuare le medesime
regole di giudizio di cui all’art. 530 c.p.p.
Indubbio e notevole il potenziamento dei poteri, non solo istruttori
(vedi nuovi artt. 421, 421 bis e 422 c.p.p.), ma anche valutativi e decisori
che ne derivano in capo al G.u.p.. Una interpretazione letterale e sistematica
dell’art.425 c.p.p., nuova versione, induce a ritenere che questi, nell’esercizio
dei suoi poteri di controllo giurisdizionale sulle richieste avanzate dall’accusa,
è chiamato, quindi, a compiere una valutazione completa e penetrante
del quadro probatorio addotto a sostegno del rinvio a giudizio onde verificarne
la consistenza, la univocità e le potenzialità dimostrative
dei fatti e delle responsabilità oggetto di contestazione. Il più
volte citato principio di celerità e non superfluità del
dibattimento impone un’interruzione del procedimento anche quando, in un
momento preliminare allo stesso, risulti dagli atti la ragionevole probabilità
che neppure uno sviluppo istruttorio in dibattimento sia tale da integrare
in maniera decisiva un quadro probatorio ab origine inidoneo a fondare
un legittimo giudizio di responsabilità. Interruzione che, peraltro,
non frustra l’interesse primario della giustizia ove si consideri che,
comunque, la sentenza di non luogo a procedere è revocabile in qualunque
momento ove emergano elementi nuovi a corroborare la tesi accusatoria.
Anzi, proprio per questo, una lettura in questi termini della disciplina
in esame, impedisce che si pervenga, con dispendio di risorse ed energie,
ad una prevedibile decisione assolutoria suscettibile di passare in giudicato
e preclusiva, quindi, di un successivo riesame nel merito della vicenda.
Appurato l’ampliamento degli spazi decisionali del G.u.p., un punto
ancora aperto, di estrema rilevanza ai fini della individuazione dei limiti
dell’attività dello stesso giudice è quello relativo alla
natura dei suoi poteri e, conseguentemente, della sentenza di non luogo
a procedere. Non è chiaro né pacifico se la nuova fisionomia
dell’udienza preliminare gli abbia implicitamente conferito funzioni di
merito, ovvero se la natura delle valutazioni strumentali alla emanazione
dei suoi provvedimenti continui ad avere solo ed esclusivamente natura
prettamente processuale (Corte costituzionale in sent. 10 febbraio 1993
n. 41).
Su tema in questione l’insegnamento della Suprema Corte non fornisce,
per il momento, parametri univoci, non foss’altro perché risalente
rispetto all’ultima novella.
Dall’analisi delle disposizioni riformate, tuttavia, può rinvenirsi
più di un indice normativo a sostegno della natura di merito
delle valutazioni che preludono alla pronuncia della sentenza di non luogo
a procedere.
Innanzitutto non può non incidere il notevole ampliamento dei
poteri istruttori riconosciuti, al giudice e alle parti in
questa fase, che, inevitabilmente, perde la fisionomia di udienza
di mero controllo per divenire, come anticipato, luogo di vera e propria
attività di acquisizione e valutazione degli elementi a carico e
a discarico. Valutazione, questa, sicuramente funzionale alla scelta di
riti alternativi, ma non solo...
In secondo luogo, argomento a sostegno della natura ormai sostanziale
del potere decisionale del G.u.p., sembra potersi rinvenire dal testo dello
stesso art. 425 che, al nuovo comma terzo, attribuisce il potere – tradizionalmente
di competenza esclusiva del giudice dibattimentale (cfr., per tutte, Cass.
4 novembre 1997, n. 4319, in Cass. Pen., 98, p. 2427) – di “tener conto”
delle circostanze attenuanti e di procedere al giudizio di comparazione
ex art. 69 c.p. Chiaramente ispirato, come espressamente dichiarato dal
legislatore in sede di lavori preparatori, all’esigenza di evitare giudizi
aventi ad oggetto delitti ormai prescritti, quindi superflui, tale norma
finisce, inevitabilmente, per chiedere al G.u.p. un’analisi nel merito
dei fatti e, persino, della personalità dell’imputato. Arrivare
a questo punto per poi, astrattamente, imporre allo stesso giudice di finalizzare
queste sue valutazione esclusivamente all’accertamento delle circostanze,
si risolverebbe, in concreto, in un forzato formalismo, astrattamente concepibile,
ma concretamente di difficile osservanza.
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