Dottrina

 Attività non autoritativa della P. A.: quali regole, quali finalità, quali tutele?

(Relazione svolta al convegno di Sperlonga 21-22 ottobe 2005)

 

di Ugo Di Benedetto

 

1.Premessa: la sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004. 2.La legge n. 15 del 2005. 3.Cenni all’attività non autoritativa. 4. Le regole dell’attività non autoritativa. 5.La finalità comune dell’attività non autoritativa e di quella autoritativa: le conseguenze. 6. La tutela giurisdizionale dell’attività non autoritativa. 7. Quali conseguenze sulla tutela giurisdizionale sull’attività autoritativa

 

 

 

 

 

L’analisi del concetto di attività non autoritativa della Pubblica Amministrazione, quale aspetto dell’attività amministrativa e, quindi, quale strumento alternativo all’attività provvedimentale per la cura del pubblico interesse deve fare riferimento innanzi tutto alla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004.

Vero è che, per il contenuto dispositivo della sentenza, gli effetti sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella materia dei servizi pubblici e dell’uso del territorio sono stati tutto sommato limitati (vedi anche le varie relazioni svolte in occasione del convegno di Napoli celebrativo del Trentennale dei T.A.R. e rimando per il mio pensiero alla relazione svolta in detta sede vedi www.diritto2000.it) per la tipologia di controversie sottratte al Giudice amministrativo e riattribuite al giudice ordinario che hanno riguardato per la prima tutte le pretese di natura paritaria, o se vogliamo privatistiche, quali indennità, canoni ed altri corrispettivi e per la seconda i meri comportamenti (anche se non è ancora chiaro se tali controversie riguardino anche tutte le ipotesi di occupazione appropriativa o solo quella usurpativa ammesso che detti istituti esistano ancora o siano venuti meno per effetto del nuovo istituto dell’atto di acquisizione, di cui all’articolo 43 T. U. in materia espropriativi, come sembra ritenuto dalla recente sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 29 aprile 2005, n. 2). Tuttavia le affermazioni di principio che hanno portato a questi limitati effetti hanno avuto un evidente risonanza e sono state in più sedi criticate in quanto hanno evidenziato un’impostazione, che si è ritenuto di far discendere dalla Costituzione (art 103), diretta a limitare la giurisdizione del giudice amministrativo ai casi in cui la “la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti” del cittadino.

In realtà valorizzando le prime argomentazioni della stessa sentenza, ritengo che la Corte Costituzionale abbia voluto escludere dalla giurisdizione del giudice amministrativo le ipotesi, lo riporto tra virgolette, “in cui la pubblica amministrazione operi in una dimensione esclusivamente civilistica”, “per giunta senza sottostare al controllo nomofilattico, che costituisce anche garanzia di parità di trattamento, della Corte di Cassazione”, e, quindi, le controversie in cui la la Pubblica Amministrazione è nella posizione di «qualsiasi litigante privato».

Quindi, secondo l’impostazione della sentenza della Corte Costituzionale la Pubblica amministrazione o opera autoritativamente o opera come qualsiasi altro soggetto privato. Questa è la premessa da cui ha tratto le note conseguenze.

La Corte Costituzionale non si è occupata diffusamente, pertanto, della terza ipotesi ossia dell’attività amministrativa, non civilistica ma non autoritativa della Pubblica Amministrazione, anche se, incidentalmente, ha rilevato che la giurisdizione del giudice amministrativo ben può estendersi, senza violare alcun paramentro costituzionale, ai casi in cui siano adottati strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se la P. A. si vale di tale facoltà nelle ipotesi consentite dalla legge (la quale, tuttavia, presuppone l'esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241del 1990). In tali ipotesi, precisa ulteriormente la sentenza, richiamando gli articolo 11 e 15 della legge n. 241 del 1990, non vi è “una generica rilevanza pubblicistica, bensì l'intreccio di situazioni soggettive qualificabili come interessi legittimi e come diritti soggettivi “. In sostanza vanno escluse dalla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo solo “le controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere.

 

 

2.La legge n. 15 del 2005

 

In questo contesto si inserisce perfettamente la legge n. 15 del 2005 la quale, all’articolo 1 ha definito l’attività amministrativa ed individuato i suoi principi fondamentali. Senza contrastare l’impostazione di fondo della sentenza della Corte Costituzionale, nella stessa norma, è stato inserito l’articolo 1 bis, il quale ha precisato che la pubblica  amministrazione, nell’adozione degli atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato. La versione finale divenuta legge è diversa sia dalla proposta approvata da un ramo del Parlamento la precedente legislatura sia da alcune versioni circolanti in precedenza che non facevano riferimento all’attività non autoritativa ma direttamente alle norme del diritto privato.

L’esplicito riferimento all’attività non autoritativa, invece, a mio parere, è diretta ad evidenziare in modo più chiaro un terzo tipo di attività dell’Amministrazione diversa dalla pura attività privatistica. Solo in quest’ultima la Pubblica Amministrazione opera, come precisa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 204/2004, come “qualsiasi litigante privato” come nelle ipotesi in cui si controverte di mere pretese patrimoniali.

Se si desse una lettura, secondo me limitativa, dell’articolo 1 bis nel senso di un’equivalenza tra attività non autoritativa ed attività privatistica pura (es. stipulazione di una compravendita) la norma sarebbe inutile e ripetitiva di principi già acquisiti.

Nessuno ha mai  dubitato della generale capacità di diritto privato della Pubblica Amministrazione, ne’ del fatto che in caso di inadempimento del contratto di diritto privato della p. A. essa debba essere condannata ad adempiere o subire la risoluzione del contratto e la condanna al risarcimento dei danni. Conferma tale assunto l’esistenza di precise disposizioni normative derogatorie e di favore della Pubblica Amministrazione regolanti l’esecuzione dei contratti, previste sia a livello legislativo (basti pensare alle numerosissime norme contenute nella legge Merloni e successive modificazioni concernenti l’esecuzione dei contratti) o a livello regolamentare (come il regolamento DPR 554/1999 di attuazione della legge Merloni o il capitolato generale sulle opere pubbliche del 2000, anch’esso operante  a livello regolamentare, che richiama puntualmente principi civilisti in materia di nullità parziale e di inserzione automatica di clausole). Tuttavia, tutte queste disposizioni si inserisconono perfettamente in una logica privatistica e riguardano, comunque, un’attività di diritto civile (la cui giurisdizione è pacificamente del Giudice Ordinario) in cui la Pubblica Amministrazione opera, magari in una posizione privilegiata propria anche di altri contraenti privati (tanto è vero che il legislatore in analoghe situazioni in cui non vi è parità di posizioni sostanziali tra privati ha sentito l’esigenza di tutelare la parte più debole con varie norme es. art 1341 e 1342 c. c.). Per tali situazioni il Giudice ordinario ha già da tempo elaborato principi precisi anche quando nel rapporto privatistico sia parte la Pubblica Amministrazione.

La legge n. 15/2005, invece, non si occupa di detta attività negoziale comune o di un’attività di “mera gestione patrimoniale” (la sola sulla quale, secondo me, è intervenuta anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004 nella materia dei servizi pubblici) bensì dell’attività negoziale “come strumento di azione amministrativa”.

A mio parere, pertanto, l’attività non autoritativa, cui fa riferimento la legge n. 15/2005, si riferisce proprio a quest’ultima e recepisce, pertanto, il principio per cui l’azione amministrativa può essere posta in essere sia attraverso un’attività autoritativa, ossia moduli autoritativi, che attraverso attività non autoritativa, ossia prevalentemente, ma non esclusivamente, per questo aspetto, con moduli convenzionali. In quest’ultima ipotesi possiamo anche parlare di strumenti di diritto privato a condizione di riferirci ad uno strumento di azione amministrativa per il perseguimento del pubblico interesse che potremmo definire, ad esempio, un’attività amministrativa di diritto privato.

 

3.Cenni all’attività non autoritativa.

 

Coerentemente con la previsione generale di un’attività non autoritativa quale strumento generale per il perseguimento del pubblico interesse si è valorizzata la possibilità di utilizzo di un’attività non autoritativa già tipizzata dal legislatore negli accordi tra privati e pubblica amministrazione non solo diretti a predeterminare il contenuto del provvedimento finale ma anche sostitutivi del provvedimento stesso. L’articolo 11 della legge n. 241 del 1990, nel testo modificato dalla legge n. 15/2000, infatti, attribuendo portata generale all’accordo sostitutivo ha definitivamente posto sullo stesso piano, quanto al fine perseguito, l’attività provvedimentale e quella consensuale (accordi) non autoritativa. Per meglio evidenziare, senza possibilità di equivoci, la diversità di questa attività non autoritativa, rispetto a quella puramente privatistica il comma 4 bis introdotto dalla legge n. 15/2005, ha prescritto la necessità di far precedere detti accordi da una determinazione dell’organo competente ad adottare il provvedimento finale, a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, per meglio evidenziare il carattere di strumento di azione amministrativa per il perseguimento del pubblico interesse che l’accordo assume.

Certo resta il problema di evidenziare altri atti di natura non autoritativa e sarà compito della dottrina e della giurisprudenza fornire un contributo in tal senso. Occorrerà precisare se dovranno essere riqualificati come atti non autoritativi atti ai quali, in passato, era stata riconosciuta natura provvedimentale (si pensi alle tesi, ancorchè minoritarie fino ad ora, concernenti i provvedimenti favorevoli di natura concessoria) o se sussiste la possibilità, indicandone i criteri e limiti, di utilizzare altri atti privatistici tipizzati dal codice civile al fine di perseguire un pubblico interesse o la possibilità di porre in essere atti non autoritativi atipici in applicazione del principio dell’articolo 1322 del codice civile.

In quest’ultima ipotesi, però, la via praticabile riguarderà quasi esclusivamente atti consensuali perché il riferimento ai principi privatistici comporta l’applicabilità anche del principio di tipicità degli atti unilaterali obbligatori, proprio del diritto privato, che si fa tradizionalmene derivare dall’articolo 1987 c.c..

Pertanto, quest’ultima problematica ha un minor impatto perché notoriamente è l’accordo lo strumento privatistico per eccellenza che la nuova formulazione dell’articolo 11 rende funzionale al perseguimento dei fini dell’Amministrazione come strumento di portata generale.

In definitiva, per le ragioni sopra esposte, l’attività non autoritativa unilaterale potrà essere posta in essere nel rispetto del principio di tipicità, ossia nei soli casi in cui la legge prevede l’emanazione di atti da parte della Pubblica amministrazione per perseguire una specifica finalità mentre l’attività non autoritativa convenzionale potrà anche essere atipica.

Indubbiamente, come evidenziato dallo stesso relatore della legge n. 15/2005 (vedi Cerulli Irelli , verso un più compito assetto della disciplina generale dell’azione amministrativa, in Astrid rassegna, n. 4 del 2005, paragrafo 4), il principio potrà avere un’ambito di applicazione potenzialmente vasto perché “la norma, innanzi tutto, esprime un principio tendenziale dell’ordinamento e un indirizzo politico legislativo” ma evidenzia anche che esso può divenire operativo anche “nei casi in cui le Amministrazioni agiscono instaurando rapporti con soggetti terzi non previsti da specifiche norme di diritto pubblico” come in materia di godimento ed uso di beni demaniali, di esercizi commerciali di sovvenzioni (vedi Cerulli Irelli opera cit.) ma, è da ritenere, a mio parere, rientranti nello schema consensuale.

Il nuovo principio, per esempio, potrebbe assumere importanza nel settore dei rapporti d’impiego non privatizzati dove gli atti, tradizionalmente considerati di natura autoritativa, quali gli inquadramenti, potrebbero essere riconsiderati in termini non autoritativi, con conseguente applicazione delle regole privatistiche.

Le nomine nelle società partecipate dagli enti pubblici seguiranno il regime privatistico e ne avranno gli effetti.

La norma, in definitiva, avrà un impatto più importante se porterà la dottrina e la giurisprudenza a riqualificare in termini non autoritativi attività che ora vengono considerate espressione di attività autoritativa.

 

 

4. Le regole dell’attività non autoritativa.

 

L’articolo 1 bis, pertanto, nel prevedere che l’attività non autoritativa sia disciplinata anche dal punto di vista sostanziale, dalle norme di diritto privato ha anche un’evidente portata precettiva.

Pertanto, nello svolgimento delle trattative e nella conclusione degli accordi con la parte privata la P. A. delle comportarsi secondo buona fede (art.. 1337 e 1338 c. c.), l’accordo per quanto non previsto va integrato sia dalle norme civilistiche sia da quelle proprie della legislazione amministrativa inderogabile, concernenti la disciplina del contratto in generale e, se esistenti, da quelle particolari concernenti contratti la cui funzione è analoga (si pensi al prezzo di una compravendita di un terreno necessario a realizzare un’opera pubblica che non potrà superare la somma dovuta a titolo di indennità di esproprio, in quanto detta norma imperativa si imporrà con il meccanismo della sostituzione automatica di cui all’articolo 1419 c.c., al prezzo concordato). L’anomalia nel funzionamento della causa è disciplinata dalle norme in materia di risoluzione per inadempimento, impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità, ivi compreso l’istituto della presupposizione. La patologia dell’attività non autoritativa è retta dai principi civilistici e può portare alla nullità o annullabilità (quest’ultima in caso di errore, essenziale e riconoscibile, violenza e dolo). Il principio dell’affidamento domina la formazione, conclusione ed esecuzione dell’attività non autoritativa, così come avviene in campo privatistico.

L’atto non autoritativo va interpretato sulla base dei criteri propri dell’interpretazione dei contratti previste dal codice civile.

Non ci saranno termini rigorsi di decadenza per la contesatzione giudiziaria dell’attività non autoritativa, ma soltanto i più lunghi termini di prescrizione, con la conseguente disciplina della interruzione dei termini stessi.

Il contrasto tra l’atto non autoritativo e la legge ne determinerà l’automatica nullità (virtuale), ai sensi dell’articolo 1418 c. c., senza la necessità di un intervento di autotutela della P. A. stessa.

Naturalmente, salvi i poteri pubblicistici dell’autotutela di cui all’articolo 21 quinques ed octies che riguarderanno la determinazione amministrativa autoritativa a monte, se esistente, basata sulle note valutazioni di pubblico interesse. 

L’annullamento e la revoca della presupposta determinazione determinerà l’automatica cessazione dell’accordo o, comunque, degli atti non autoritativi posti in essere.

Tali principi potranno riguardare anche gli atti unilaterali non autoritativi della pubblica amministrazione in virtù del principio civilistico per cui agli atti unilaterali si applicano le regole dei contratti compatibili. Fermo restando che, stante il principio di cui all’articolo 1987 del codice civile la loro emanazione (mi riferisco a quelli unilaterali) deve essere prevista dalla legge.

 

5.La finalità comune dell’attività non autoritativa e di quella autoritativa: le conseguenze.

 

Da quanto sopra esposto emerge una comune finalità dell’attività autoritativa e di quella non autoritativa, naturalmente come è stata sopra definita. Ciò è un chiaro indizio della tendenza al superamento di una concezione dell’attività amministrativa esclusivamente come mero esercizio di un potere e di un interesse legittimo quale “potere di pretendere il legittimo esercizio di una potestà” che aveva portato ad una legislazione diretta ad imporre oneri formali e ad una tutela del privato diretta a verificare se l’agire amministrativo inteso come rispetto formale delle regole vi era stato a prescindere dal contenuto concreto dell’attività svolta e dei risultati raggiunti, ritenuti spesso insindacabili quale area riservata all’Amministrazione.

Sia i diritti soggettivi che gli interessi legittimi vanno considerate posizioni di vantaggio, riconosciute dall’ordinamento, correlate ad un bene della vita di natura sostanziale

Del resto da tempo anche il diritto comunitario ha superato detta contrapposizione, ignorando l’interesse legittimo, anzi ha addirittura superato la contrapposizione tra soggetti formalmente pubblici e soggetti formalmente privati facendo riferimento ad una pubblica  amministrazione intesa come “insieme di soggetti, pubblici o privati, ai quali è attribuita la cura di interessi pubblici”.

Sulla stessa scia l’articolo 1 ter della legge n. 15 del 2005 ha introdotto un principio di portata generale (fino ad ora già applicato in casi particolari ancorché numerosi vedi ad esempio la normativa in materia di appalti pubblici o di diritto di accesso) secondo il quale “i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrativa assicurano il rispetto dei principi di cui al comma 1”così come al primo comma dell’articolo 1 si è precisato che anche l’attività amministrativa autoritativa è disciplinata dai principi dell’ordinamento comunitario e, quindi, dal principio di “buona amministrazione” di “proporzionalità” e di “legittima aspettativa” e di legittimo affidamento (ripreso dalla normativa concernente l’autotutela nell’attività provvedimentale art 21 quinques e nonies e normativa speciale di cui all’articolo 1, comma 136° della legge 30 dicembre 2004, n. 311). Maggior attenzione da parte del legislatore, anche per quanto concerne l’attività amministrativa autoritativa, si ha alla portata sostanziale dell’esercizio del potere tra l’altro correlandola alla eliminazione della rilevanza degli oneri formali, pur imposti dal legislatore,  con la nuova disciplina dei limiti all’annullabilità del provvedimento sancita dall’articolo 21 octies della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005.

Analogamente l’attività amministrativa non autoritativa è caratterizzata dalla libertà del procedimento, salvo casi eccezionali, o meglio dalla inesistenza di un procedimento formativo della volontà, ancorchè privatistico (fermo restanto la necessità della forma scritta dell’atto per la pubblica amministrazione)

E’ un ulteriore chiaro indizio verso la tendenza da parte del legislatore al superamento del dualismo diritto soggettivo – interesse legittimo, entrambe posizioni di vantaggio riconosciute dall’ordinamento correlate ad un bene della vita di natura sostanziale, naturalmente soltanto quando si è di fronte a strumenti di azione amministrativa per il perseguimento del pubblico interesse, sia nelle forma dei moduli autoritativi che non autoritativi.

 

6. La tutela giurisdizionale dell’attività non autoritativa.

 

Il principio per cui l’interesse pubblico può essere curato sia attraverso un’attività autoritativa, ossia moduli autoritativi, che attraverso attività non autoritativa, ad esempio con moduli convenzionali non può che giustificare la scelta del legislatore (senza incorrere in censure di incostituzionalità) dell’attribuzione di una giurisdizione esclusiva in materia di moduli convenzionali come sancito espressamente per gli accordi, dall’articolo 11 della legge n. 241 del 1990, dalla recente normativa in materia di D. I. A. di cui al D. L. n. 35 del 2005 come convertito nella legge n. 80 del 2005, dalla normativa in materia di accesso agli atti amministrativi.

Resta il problema degli ulteriori casi di attività non autoritativa, al di fuori della materia degli accordi in cui il legislatore ha previsto espressamente la giurisdizione esclusiva, che dovrebbero rientrare, de jure condendo, nella giurisdizione del Giudice Amministrativo apparendo incongruo attribuire la giurisdizione a due giudici diversi a seconda del diverso strumento utilizzato, tra l’altro con scelta facoltativa dell’Amministrazione, per perseguire la stessa finalità pubblicistica nello svolgimento dell’attività amministrativa in senso lato. Un intervento del legislatore forse è necessario per questo aspetto.

Quanto al contenuto del potere esercitato sull’attività non autoritativa va osservato che già da tempo la dottrina ed i principi comunitari hanno posto l’attenzione sull’esigenza di un controllo giurisdizionale più effettivo e meno formale dell’attività amministrativa.

Il riferimento all’agire secondo le norme del diritto privato per quanto concerne l’attività amministrativa non autoritativa è in linea con questa esigenza. Infatti, i principi civilistici hanno sempre portato il giudice ordinario ad un controllo sostanziale del contenuto dell’attività negoziale privatistica, per accertare se lo schema formale negoziale utilizzato, nella sostanza ossia nella sua funzione concreta, costituisca o meno il mezzo per eludere l’applicazione delle norme imperative o se costituisca la violazione di una norma imperativa con conseguente applicabilità degli articoli 1418 e 1419 del codice civile che ne sanziona la nullità totale o parziale. Analogamente la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di accordi, ai sensi dell’articolo11della legge n. 241 del 1990 ed il riferimento sostanziale per gli stessi all’agire secondo le norme del diritto privato, previsto anche dal citato articolo1 bis, dovrebbe portare ad un controllo giurisdizionale sostanziale sul contenuto degli stessi anche al fine della declaratoria di una nullità totale o parziale (at. 1418 e 1419 c. c.), anche in caso di violazione di norme imperative, di un’integrazione degli stessi ai sensi dell’articolo  1419, comma 2°, del codice civile o ad un loro annullamento in caso di vizi del volere, avendo come parametro di riferimento proprio le norme privatistiche sinteticamente sopra richiamate.

Infatti, in diritto civile non viene sindacata la scelta di autonomia privata (così come il giudice amministrativo non effettua alcun sindacato sulle scelte di discrezionalità amministrativa ossia sulle scelte di opportunità dei fini da perseguire con l’attività provvedimentale), che rientra nell’autonomia della parte, ma valuta la sostanza del rapporto, con particolare riferimento alla causa del contratto con riferimento all’assetto concreto degli interessi effettivamente perseguiti. Ciò al fine di verificare se le modalità negoziali utilizzate per perseguire gli obiettivi perseguiti con l’atto di autonomia negoziale, o l’assetto concreto degli interessi emergenti dal contratto rientrino nei limiti legali dell’attività privatistica stessa. In pratica non è sindacato il merito della scelta rientrante nell’autonomia negoziale ma le modalità concrete utilizzate con l’atto negoziale stesso.

 

 

7. Quali conseguenze sulla tutela giurisdizionale sull’attività autoritativa.

 

A questo punto viene da chiedersi se i nuovi principi che governano l’attività non autoritativa della Pubblica amministrazione e la tutela giurisdizionale rivolta al contenuto stesso di detta attività siano diretti a valorizzare, in via interpretativa, un più incisivo grado di tutela giurisdizionale anche nei confronti dell’attività autoritativa della P. A., con possibilità di un maggior controllo sul rapporto sostanziale, nel rispetto della discrezionalità amministrativa riservata alla P.A..

Si è già evidenziato, infatti, che sia l’attività autoritativa, ossia i moduli autoritativi, sia l’attività non autoritativa, tra cui prevalentemente i moduli convenzionali, costituiscono strumenti alternativi, posti sullo stesso piano dalla legge n. 15/2005 per la cura dell’interesse pubblico. Pur nella diversità degli strumenti e delle regole sostanziali e formali che disciplinano l’attività autoritativa e non autoritativa, anche la tutela giurisdizionale deve essere parimenti incisiva. Sotto questo profilo, pertanto, anche il controllo giurisdizionale non deve essere ridotto in caso di attività provvedimentale.

Del resto, anche per quanto concerne l’attività autoritativa vi sono precisi segnali per una limitazione del controllo formale sullo svolgimento dell’attività e, secondo me, per la valorizzazione di un controllo sostanziale sul contenuto della stessa.

 L’articolo 21 octies, infatti, limita l’annullabilità per vizi solo formali e consente all’Amministrazione di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso per evitare l’annullamento del provvedimento in caso di vizi procedimentali di partecipazione. Con ciò assicurando al giudice amministrativo la possibilità di valutare attraverso un controllo intrinseco, l’attendibilità di detta dimostrazione.

I principi che governano l’attività amministrativa, infatti, sanciti proprio dall’articolo 1 della legge n. 241 del 1990, come integrata dalla legge n. 15/2001, sono principi sostanziali perché non basta la pubblicità e la trasparenza ma occorre efficacia ed economicità e riguardano sia l’attività autoritativa che quella non autoritativa.

Naturalmente il giudice amministrativo non può applicare i principi civilisti all’attività provvedimentale della pubblica amministrazione, in mancanza di una riforma legislativa che modifichi espressamente e dalle fondamenta anche l’agire autoritativo della Pubblica Amministrazione.

Tuttavia, al fine di assicurare pari forma di tutela giurisdizionale, nel rispetto dei principi che governano l’attività autoritativa della Pubblica Amministrazione vanno sicuramente valorizzati gli orientamenti giurisprudenziali, finora applicati a particolarissime situazioni che assumono il rango di curiosità giuridiche, di un sindacato sulla discrezionalità tecnica. Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche se solo a livello di principio senza significative applicazioni pratiche, la discrezionalità tecnica non attiene al merito dell’azione amministrativa ma alla legittimità. Libera ed insindacabile l’Amministrazione nel determinare i fini dell’attività amministrativa (e ciò anche nell’attività non autoritativa) in quanto ciò rientra nei compiti suoi propri, tuttavia il giudice amministrativo deve poter sindacare la corretta  applicazione delle regole tecniche, ossia le concrete modalità operative, utilizzate per perseguire detti fini.

Infatti, la discrezionalità amministrativa concerne l’esercizio di una funzione pubblica diretta a valutare ciò che è più opportuno per il perseguimento dell’interesse pubblico affidato alla P. A.. Solo alla Pubblica Amministrazione possono essere “riservate” dette scelte per il principio della separazione dei poteri trattandosi delle valutazioni e conseguenti scelte di vera e propria amministrazione attiva, che coinvolgono valutazioni comparative tra interessi al fine di adottare la decisione più opportuna ed utile per la collettività.

Diversamente la discrezionalità tecnica non coinvolge scelte di opportunità amministrativa bensì una valutazione antecedente ad essa che riguarda l’analisi dei fatti e la valutazione degli stessi ancorchè opinabili in base ai criteri scientifici e tecnici utilizzabili, alle conoscenze ed agli strumenti a disposizione. In pratica la discrezionalità tecnica concerne soltanto gli aspetti di valutazione, sia pur suscettibili di diversi apprezzamenti, mentre difetta totalmente la fase della scelta dell’interesse da perseguire sulla base di canoni di mera opportunità politico-amministrativa.

Conseguentemente, secondo questi più recenti orientamenti (Cons. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601; Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2001, n. 1247) va distinto il concetto di opportunità, che attiene alla cura degli interessi pubblici coinvolti dall’azione amministrativa, da quello di discrezionalità tecnica che attiene alla valutazione dei presupposti delle scelte ancorchè effettuate alla luce di criteri tecnici e scientifici opinabili.

Conseguentemente, vanno valorizzati gli orientamenti che ritengono che il controllo del giudice amministrativo sul giudizio tecnico dell'organo amministrativo sia divenuto intrinseco, nel senso della possibilità di accertare direttamente i fatti e di controllare la ragionevolezza delle relative analisi.

Ciò avviene comunemente nel diritto privato da parte del giudice ordinario, salvo in tali ipotesi il contenuto delle scelte di autonomia privata proprie della parte.

Se necessario, il giudice amministrativo può, a tal fine, ricorrere alla consulenza tecnica ed, attraverso questa, giungere ad individuare le regole specialistiche utilizzate dalla pubblica amministrazione. E’ tuttavia chiaro che il giudice non può surrogare la propria opinione a quella, non condivisa ma non risultante erronea, formulata dagli organi pubblici.

La tendenza evolutiva che può ad oggi cogliersi nella giurisprudenza e nella dottrina più recenti ammette, in sostanza, che le conclusioni raggiunte dalla p.a. in sede di esercizio della c.d. discrezionalità tecnica siano censurabili davanti al giudice amministrativo, trattandosi di profili di legittimità e non di merito questi ultimi “riservati” all’Amministrazione.

Tali impostazioni, che consentono il sindacato sulla discrezionalità tecnica, si fondano sull’art. 16 della legge 21 luglio 2000 n. 205, che - integrando l'art. 44, comma 1°, r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 - ha introdotto espressamente, anche nel giudizio ordinario di legittimità, l'esperimento della consulenza tecnica d'ufficio. L’innovazione legislativa ha l’evidente fine proprio di consentire al giudice amministrativo di avere cognizione piena in ordine a questioni non giuridiche (rientranti in discipline specifiche), ma pur sempre dotate di rilievo giuridico, in quanto richiamate proprio dalle norme di diritto che il giudice deve applicare.

Naturalmente resta escluso per il giudice amministrativo ogni sindacato di merito, caratterizzato dalla eventualità della verifica dell’opportunità della scelta e dalla sostituzione del giudice all’Amministrazione nella valutazione della soluzione migliore, è possibile solo nei casi particolari in cui la legge affida all’organo giurisdizionale tale potere(Cons. Stato, sez. V, 29 agosto 2005, n. 4406).

Valorizzando gli orientamenti che consentono, nei limiti suddetti, il sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica potrà essere assicurata, nel rispetto dei diversi principi che disciplinano l’attività autoritativa e non autoritativa, una sostanziale parità del controllo giurisdizionale, preservando, in entrambi i casi, l’insindacabilità delle scelte di discrezionalità amministrativa che vanno, comunque, riservate all’amministrazione. Diversamente nei confronti dell’attività non autoritativa, disciplinata dai principi civilistici sarà assicurata una maggior tutela senza che ciò sia giustificato trattandosi, come si è detto, di uno strumento alternativo all’attività provvedimentale per la cura del medesimo pubblico interesse.

 



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