Dottrina

 
La discrezionalità della pubblica Amministrazione

di Andrea cremona Avvocato del Foro di Piacenza

 

sommario

1) Principio di legalità ed attività amministrativa discrezionale; 2) Attività discrezionale ed attività vincolata; 3) La definizione tradizionale di discrezionalità; 4) La discrezionalità alla luce della legge n°241 del 1990: la scelta comparativa di interessi; 5) Discrezionalità amministrativa, tecnica e mista; 6) Il merito amministrativo e l’eccesso di potere; 7) La tutela giurisdizionale nei casi di discrezionalità tecnica; 8) Discrezionalità e neminem laedere.

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1. Principio di legalità ed attività amministrativa discrezionale

      Quando l’attività dei pubblici poteri si risolve nella cura e gestione dell’interesse pubblico, attraverso atti dotati di autoritatività, e cioè del regime proprio degli atti amministrativi, il principio di legalità esige che ciò avvenga nel pieno rispetto della legge. In altri termini, il legislatore pone dei limiti all’attività in questione, i quali sono distinti dalla dottrina a seconda del tipo di imposizione in cui essi stessi si risolvono. Da un lato vi sono limiti negativi, che sono volti a contenere l’attività della PA entro gli ambiti della liceità e che in nulla differiscono rispetto a quelli cui sono sottoposti i vari soggetti dell’ordinamento giuridico. Dall’altro lato, invece, si annoverano limiti positivi, che sono volti a fissare gli interessi che la PA deve perseguire, contenendo la sua attività entro questi ultimi.

      A prescindere dai limiti negativi, che connotano sempre ed immancabilmente l’attività di ogni soggetto, va approfondito lo studio del rapporto attività amministrativa-norma giuridica, nell’ambito dei limiti positivi.

2. Attività discrezionale ed attività vincolata.

      La teoria tradizionale ha osservato che i limiti positivi possono risolversi in un comando preciso e puntuale, che indica in modo compiuto e determinato quale sia la soluzione che la PA deve adottare in un dato caso concreto. Ma nella maggioranza dei casi ciò non avviene. In primo luogo il legislatore non è quasi mai in grado di prevedere e regolare dettagliatamente una serie innumerevole di ipotesi applicative ed, in secondo luogo, anche laddove è possibile tale modus procedendi, l’opportunità di evitare un eccesso casistico nella produzione legislativa e l’esigenza di rendere l’attività amministrativa elastica e duttile rispetto alla realtà del caso singolo, consigliano altro tipo di soluzione. In particolare accade spesso che le norme che regolano l’agire amministrativo si limitino a fissare  in linea generale i criteri cui questo deve uniformarsi, lasciando alla PA la potestà di scelta, fra più comportamenti legittimi, di quello maggiormente idoneo a regolare il caso concreto, in funzione del raggiungimento dell’interesse pubblico affidato alle sue cure.

      Da tali osservazioni si è dedotto che quando il legislatore prevede precisamente e dettagliatamente il tipo di soluzione che la PA deve adottare, l’attività di questa è vincolata. Quando invece le norme giuridiche lasciano alla PA la potestà di individuare, fra più comportamenti, quello più idoneo a garantire il raggiungimento dell’interesse pubblico, l’attività di quest’ultima è discrezionale.

3. La definizione tradizionale di discrezionalità.

      Per lungo tempo un importante traguardo nello studio del diritto amministrativo fu rappresentato dalla definizione tradizionale della discrezionalità amministrativa, concepita come potestà di scelta, fra più comportamenti legittimi, di quello più idoneo a raggiungere l’interesse pubblico. Tale conclusione conserva anche oggi un peso rilevante, anche se necessita di alcune precisazioni.

      Occorre preliminarmente osservare, infatti, che l’attività della PA, pur connotata da questo più o meno ampio margine di scelta, si differenzia dall’autonomia negoziale dei privati. Quest’ultima è attività di scelta e di perseguimento di interessi:  in campo negoziale, infatti, ognuno può sia fissare il tipo di interesse da raggiungere, sia individuare i modi ed i tempi entro cui perseguirlo, nel rispetto dei limiti che il legislatore pone all’autonomia privata, nell’interesse generale: artt. 1322, 1343, 1344, 1345 cod. civ.

      Analogamente deve sottolinearsi la differenza fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità politica del Governo. Quest’ultima appare come un’attività di scelta degli interessi da perseguire in piena libertà di azione, cui consegue  una responsabilità di natura esclusivamente politica, innanzi al Parlamento.

      Da tali considerazioni discende che la discrezionalità si differenzia notevolmente dalla libertà, in quanto, pur essendo la prima connotata da un certo margine di variabilità nelle valutazioni e nelle scelte, essa deve sempre orientare il comportamento di un soggetto al raggiungimento di un dato interesse imposto dall’esterno. La libertà, invece, si caratterizza per la facoltà non solo di agire discrezionalmente, ma di individuare altresì gli scopi da perseguire, nell’ambito di limiti di ordine negativo, posti a tutela di valori di portata per lo più collettiva.

      Il potere discrezionale può investire differenti aspetti dell’azione amministrativa: riguarda l’an, allorchè è lasciata alla PA la scelta se agire o meno; riguarda il quid, laddove la PA è in grado di scegliere il contenuto dei provvedimenti amministrativi; riguarda il quomodo nei casi in cui la stessa è in grado di scegliere la procedure da seguire per addivenire ad un dato risultato; riguarda infine il quando allorchè l’amministrazione ha facoltà di scegliere i tempi del suo agire.

       Ulteriori precisazioni intorno al concetto di discrezionalità possono trarsi dal principio di tipicità degli atti amministrativi: dato che esistono provvedimenti tipici e nominati, per il raggiungimento di interessi altrettanto tipici e nominati, si evince che la scelta discrezionale, intesa come ricerca della soluzione più idonea al perseguimento dell’interesse pubblico, non deve tendere ad un qualsiasi interesse di tale natura, ma a quello in vista del raggiungimento del quale la legge attribuisce il potere alla PA. In altri termini, l’interesse cui il provvedimento deve tendere è quello corrispondente alla causa del potere esercitato.

4. La discrezionalità alla luce della legge n° 241 del 1990: la scelta comparativa di interessi.

      La recente legge n° 241 del 1990, in tema di procedimento amministrativo, ha contribuito a ridefinire il concetto di discrezionalità, in quanto il primo appare la sede naturale in cui la seconda è esercitata. La teoria tradizionale era giunta ai risultati sopra evidenziati, studiando il rapporto fra norma attributiva del potere ed esercizio del potere stesso. L’analisi degli istituti introdotti dalla legge in questione consente, invece, di studiare la discrezionalità sotto altro angolo prospettico, e cioè tenendo presente il modo di esercizio del potere stesso.

      L’osservazione preliminare deve tener conto che la PA, quando persegue l’interesse pubblico o primario, si trova ad interferire con altri interessi secondari, privati o pubblici, compresenti nella medesima fattispecie. E’ stato dunque evidenziato che la scelta della PA procedente viene condotta acquisendo al procedimento, in primo luogo,  tali interessi secondari. In secondo luogo questi ultimi vengono raffrontati e comparati all’interesse pubblico da perseguire ed, in terzo luogo, la PA opera la sua scelta, che potrà deporre nel senso della prevalenza dell’interesse primario. Nell’operare il sacrificio degli interessi secondari, tuttavia, la PA è vincolata al fondamentale canone di efficienza ed imparzialità, nonchè di buona amministrazione: ciò esige che il sacrificio stesso debba contenersi nella misura in cui sia necessario alla cura dell’interesse primario.

      Tali risultati sono confermati dai principi che governano il procedimento amministrativo: quello della partecipazione dei soggetti persona fisica o persona giuridica, portatori di interessi collettivi o diffusi, quello della massima acquisizione di interessi in sede istruttoria, quello dell’obbligo per la PA procedente di considerare e valutare le voci di coloro che sono ammessi ad interloquire nel procedimento, nonchè quello dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti.

      Può quindi agevolmente affermarsi che la discrezionalità amministrativa consiste nella possibilità di scelta, fra più comportamenti tutti ugualmente legittimi, di quello più idoneo al raggiungimento dell’interesse pubblico o primario, alla luce delle necessarie comparazioni che, in sede procedimentale, la PA è tenuta ad effettuare, sacrificando gli interessi secondari solo nella misura utile alla cura dell’interesse primario.

      La definizione da ultima considerata ha prospettato alcuni problemi di difficile soluzione. In particolare occorre stabilire quali siano gli interessi secondari da comparare. Secondo la giurisprudenza amministrativa occorrerebbe accertare e valutare non solo quelli già normativamente individuati, ma anche quelli di più immediata evidenza (C.d.S. sez. IV 21/10/75 n°922). Pertanto il novero degli interessi che la PA deve comparare sembra più ampio di quelli la cui valutazione è imposta dal legislatore, in considerazione del fatto che  questi sono investiti direttamente dall’agire amministrativo, e dovrebbe estendersi a ricomprendere anche posizioni giuridiche suscettibili di essere riguardate indirettamente o di rimbalzo. Di conseguenza è stato precisato che, pur non dovendo essere presi in considerazione, dall’autorità procedente, tutti gli interessi comunque presenti in una data fattispecie, deve tuttavia tenersi conto di quelli che appaiano meritevoli di tutela in un certo contesto politico-giuridico e socio-economico, privati o pubblici (C.d.S. Ad. pl. 6/2/93).

5. Discrezionalità amministrativa, tecnica e mista.

      Come si evince da quanto sopra rilevato, la discrezionalità si risolve in una sfera di potere di autodeterminazione che l’ordinamento lascia alla PA, affinchè questa possa adeguare le sue decisioni alle peculiarità delle situazioni nelle quali opera. Tuttavia bisogna evidenziare che l’esercizio di tale potestà non è privo di criteri di orientamento.

      Alcuni sono stati oggetto di previsione da parte della citata legge n° 241 del 1990, la quale ha sancito che l’attività amministrativa deve perseguire gli scopi dettati dalla legge con efficacia, efficienza ed economicità ed attraverso procedimenti soggetti a pubblicità. Il responsabile del procedimento non deve inoltre aggravare quest’ultimo con adempimenti inutili ed ha l’onere di concluderlo in tempi congrui, ammettendo la partecipazione degli interessati. L’attribuzione di vantaggi economici deve svolgersi secondo criteri predeterminati e pubblicizzati e, infine, i provvedimenti devono essere motivati a pena di illegittimità.

      Altri criteri derivano, seppure in misura non ancora molto incisiva, dall’appartenenza del nostro Paese alla C.E.E., il cui ordinamento esige che l’attività amministrativa tenda al miglior soddisfacimento della cosa pubblica, osservando la parità di trattamento fra gli amministrati.

      Al di fuori delle direttive di carattere legislativo, che costituiscono i criteri giuridici che governano l’azione della PA, questa dispone di un potere di scelta della soluzione per il caso concreto che può essere esercitato in funzione di canoni amministrativi, tecnici, oppure di entrambi: si tratta di criteri non giuridici, in quanto, di regola, privi di riscontro giurizdizionale.

      Si definisce discrezionalità amministrativa quella sfera di potere di autodeterminazione che deve orientarsi a canoni di opportunità, convenienza ed equità nell’individuazione della scelta amministrativa. In altri termini, quando la PA gode di siffatto potere, essa sceglie, fra più soluzioni legittime, quella che, a suo giudizio, si presenti più opportuna ed idonea alla cura dell’interesse pubblico che la stessa deve perseguire. Classico esempio è costituito dal caso di un edificio di interesse storico od artistico, che si presenti pericolante: nell’esercizio dei suoi poteri di intervento d’urgenza, l’autorità dovrà tener conto di interessi, quali quello alla conservazione dell’edificio, quale valore culturale o turistico, quello all’abbattimento dello stesso per la tutela della pubblica incolumità, quello alla chiusura della zona al traffico cittadino. Essa opererà la scelta in funzione dell’interesse ritenuto prevalente.

      Assai diverso invece è il concetto di discrezionalità tecnica, che di recente è stato al centro di un vivacissimo ed ancora non sopito dibattito.

Tradizionalmente si è sempre sostenuto che la discrezionalità tecnica ricorre nei casi in cui la legge prevede, in termini puntuali e precisi, la scelta che la PA è tenuta ad effettuare, qualora ricorra una data situazione di fatto, suscettibile di valutazione alla stregua di norme tecniche, derivanti dalla medicina, dall’ingegneria, dalla fisica, dall’economia, dall’arte, dall’agraria. Più precisamente, in simili casi, la PA ha un potere di valutazione della situazione di fatto, cui si ricollega la scelta che il legislatore impone all’autorità, proprio facendo applicazione delle regole sopra citate. Una volta accertata la situazione nel senso voluto dalla norma, la PA è tenuta al comportamento previsto.

      Sulla scorta di tale premessa si è ulteriormente precisato che si ha discrezionalità tecnica solo nei casi in cui la PA è chiamata ad accertare o valutare una data situazione, facendo applicazione di norme elastiche, le quali, cioè, siano potenzialmente idonee a portare a più risultati astrattamente corretti sul piano tecnico-scientifico, di modo che la scelta finale, in ordine all’interpretazione e valutazione della situazione di fatto, spetti all’organo procedente, che eserciterà il potere in questione, applicando le cognizioni tecniche in suo possesso. Esempi di discrezionalità tecnica sono costituiti dalla verifica del grado di preparazione di un candidato ad un concorso, oppure dall’accertamento del grado epidemico di una malattia, oppure, ancora, dalla valutazione del pregio artistico di un monumento o di un’opera cinematografica.

      Quando, invece, l’accertamento di una situazione di fatto, cui la legge ricollega determinate conseguenze, richiede l’applicazione di norme rigide, le quali  non consentano di ravvisare soluzioni differenti o margini di variabilità nelle relative valutazioni, la PA pone in essere un semplice accertamento tecnico. Esempi di tale tipo di valutazioni sono dati dalle verifica del grado alcolico di un liquore, dall’accertamento della composizione chimica di una data sostanza o dalle misurazioni.

      Con la terminologia di discrezionalità mista, infine, la dottrina tradizionale indica quei casi in cui il legislatore affidi, in un primo tempo, alla PA il potere di accertare una data situazione di fatto, alla stregua di norme tecniche, ed, in un secondo tempo, attribuisca alla stessa un potere discrezionale di natura amministrativa, consentendo l’adozione della scelta più congrua alla cura dell’interesse pubblico. In altri termini, l’accertamento della situazione di fatto in funzione di norme tecniche di carattere elastico, nel senso sopra precisato, viene a costituire il presupposto per l’esercizio di una scelta comparativa di interessi, in funzione della cura di un interesse pubblico. Costituiscono esempi di tale potere l’accertamento del pericolo di crollo di un edificio, che è presupposto per l’adozione di vari provvedimenti di edilità, oppure l’accertamento del grado epidemico di un’infezione bovina, sulla base del quale possono essere ordinati l’abbattimento o l’isolamento dei capi infetti.

6. Il merito amministrativo e l’eccesso di potere.

      I criteri che orientano le scelte discrezionali della PA, siano essi amministrativi o tecnici, e cioè dominati da valutazioni di opportunità o di convenienza oppure da regole tecniche, vengono a costituire il merito amministrativo. Si tratta cioè di criteri non giuridici, che non trovano riscontro in sede giurisdizionale, salvo i casi di giurisdizione estesa anche a questo aspetto. Ciò significa che il giudice non può sindacare la valutazione effettuata dalla PA, spingendosi a considerare che cosa sia più idoneo o conveniente per l’interesse pubblico (C.d.S. sez.IV 1/7/92 n°654), oppure emettendo un giudizio tecnico differente da quello effettuato dalla PA (C.d.S.sez. VI 4/7/88 n°889). Giudizi e scelte di questo tipo costituiscono infatti tipica espressione del potere di amministrare la cosa pubblica, riservato dal legislatore esclusivamente all’amministrazione. Solo quest’ultima può, di fronte ad un vizio di merito, effettuare una nuova scelta che renda l’atto maggiormente conveniente ed opportuno in relazione all’interesse pubblico

      Il controllo giurisdizionale sull’attività amministrativa avviene, dunque, considerando altri aspetti, ed in particolare quelli afferenti alla legittimità della stessa. Come abbiamo già evidenziato, infatti, l’amministrazione, nell’esercizio dei suoi insindacabili poteri discrezionali e nell’adozione delle scelte che ne costituiscono espressione, è tenuta al rispetto dei criteri giuridici che governano l’agire amministrativo. Pertanto dovranno, in primo luogo, essere rispettate le norme che disciplinano la competenza all’adozione di determinati atti, pena la configurabilità del vizio di incompetenza, di cui all’art. 26 T.U. C.d.S. In secondo luogo la PA deve osservare le regole attinenti alle forme, ai presupposti, ai tempi , alle modalità delle procedure per addivenire all’adozione di determinati atti, pena la configurabilità del vizio di violazione di legge, di cui all’articolo citato. In terzo luogo, infine, le scelte di merito dell’amministrazione devono essere tali da garantire il raggiungimento dello specifico scopo in vista del quale il legislatore ha attribuito il potere alla PA. Il rispetto del fine pubblico, per il cui raggiungimento la legge attribuisce un dato potere funzionale, costituisce anch’esso requisito di legittimità, poichè la finalità in questione si ricava esplicitamente od implicitamente dalla norma stessa, e la scelta amministrativa che contrasti con essa è viziata da eccesso di potere, ai sensi dell’articolo citato.

      E’ possibile, a questo punto, trarre una prima conclusione, concernente la tutela del privato di fronte all’attività discrezionale della PA. In linea generale i criteri che orientano le scelte di quest’ultima possono attenere al merito od alla legittimità. Nel caso di violazione dei criteri afferenti al primo aspetto, e cioè nei casi di atti legittimi, ma inopportuni, il privato non può ricorrere all’autorità giudiziaria, salvo ipotesi eccezionali di giurisdizione estesa  anche al merito, e può rivolgersi alla PA stessa, affinchè questa, nell’esercizio dei suoi poteri di autotutela, rimouva o modifichi la scelta ritenuta inopportuna o sconveniente. Nel caso di violazione dei criteri afferenti la legittimità dell’agire amministrativo, invece, e cioè in presenza di atti illegittimi, viziati o meno nel merito, il privato può rivolgersi all’autorità giudiziaria, la quale può annullare o disapplicare il provvedimento che risulti affetto da uno dei vizi di cui all’art. 26 T.U. C.d.S.

      Questi ultimi presentano una diversa natura. L’incompetenza e la violazione di legge, infatti, attengono ad aspetti vincolati dell’agire amministrativo, nel senso che ricorrono ogni volta che la PA non abbia rispettato le regole poste a disciplina dell’esercizio del potere funzionale. L’eccesso di potere, invece, attiene specificamente agli aspetti discrezionali dell’atto amministrativo in quanto viene a costituire il limite alle scelte di merito della PA. Approfondendo quanto sopra enunziato, infatti, si deve considerare che quest’ultima può sicuramente scegliere  il comportamento che, a suo insindacabile giudizio, appaia più idoneo alla cura dell’interesse pubblico, rispettando le norme sulla competenza, sui presupposti, sulle forme e sulla procedura da seguirsi, ma non può scegliere una soluzione talmente inopportuna da impedire la realizzazione della finalità perseguita dalla norma attributiva del potere, nè può adottare un atto amministrativo per raggiungere uno scopo diverso (Cass. S.U. 9/6/89 n°2773). In questi casi, infatti, il vizio di merito, di regola insindacabile da parte del giudice, trasmoda in eccesso di potere, che è un tipico vizio di legittimità ed, in quanto tale, risulta sottoposto a sindacato giurisdizionale.

      Può quindi addivenirsi ad una seconda conclusione, in base alla quale si deve affermare che l’esercizio di un potere discrezionale da parte della PA non ricade unicamente nel merito amministrativo, dovendosi tener conto del vizio di eccesso di potere, costituente il limite ai poteri discrezionali stessi.

      L’accertamento del vizio in questione  ha dato luogo a notevoli difficoltà sul piano applicativo, in quanto, spesso, la deviazione dell’atto amministrativo dallo scopo della norma attributiva del potere non appare in modo evidente, ma può essere desunta in via indiziaria, attraverso alcune figure sintomatiche elaborate dalla giurisprudenza nel corso del tempo. La caratteristica dei cd. vizi sintomatici di eccesso di potere consiste nella presenza  nell’atto di anomalie che lascino supporre una deviazione dallo scopo attribuito dalla legge all’autorità emanante (C.d.S. sez. IV 2/1/87 n°69; C. cost. 7/4/88 n°409). Autorevole dottrina (Gasparri) ha proposto la seguente classificazione dei vizi sintomatici in questione:

  a) vizi intrinseci all’atto: contraddittorietà della motivazione (C.d.S. sez. IV 5/11/87 n°873), travisamento dei fatti (C.d.S. sez. IV 28/5/86 n°375);

  b) vizi estrinseci all’atto ma intrinseci al relativo procedimento: contraddittorietà fra i diversi atti del procedimento (C.d.S. sez.IV 28/5/87 n°310);

  c) vizi estrinseci all’atto ed al relativo procedimento: disparità di trattamento fra casi identici (C.d.S. sez. IV 4/4/91 n°231).

7. La tutela giurisdizionale nei casi di discrezionalità tecnica.

      Tradizionalmente il merito amministrativo è sempre stato identificato con tutti i criteri non giuridici che orientano le scelte della PA, e la relativa nozione era in grado di ricomprendere tanto i canoni amministrativi di convenienza e di opportunità quanto le regole tecniche volte all’apprezzamento della realtà. Secondo tale impostazione discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica coinciderebbero con il merito amministrativo e le scelte che ne costituiscono espressione incontrano il limite dell’eccesso di potere, allorchè non paiano in grado di garantire il soddisfacimento dell’interesse pubblico.

Per lungo tempo l’ambito di tutela del cittadino era rappresentato dal sindacato del giudice amministrativo sotto il profilo dell’eccesso di potere, e si sosteneva che il controllo del giudice circa la ricorrenza di questo vizio deve essere condotto diversamente, a seconda che riguardi la discrezionalità tecnica, oppure quella amministrativa: nel primo caso infatti il giudice deve arrestarsi ad accertare la ricorrenza dell’eccesso di potere nelle forme dell’errore manifesto e macroscopico, percepibile anche dall’uomo medio (T.A.R. Lazio 11/5/91 n° 849). Secondo altra corrente di pensiero, invece, l’esercizio della discrezionalità tecnica da parte della PA è sindacabile, in sede giurisdizionale, sotto il profilo dell’eccesso di potere, al pari di quella amministrativa: non vengono quindi ravvisate differenze in ordine all’ampiezza dell’apprezzamento  di tale vizio, da parte del giudice (C.d.S. Ad. pl. 24/11/89 n°16).

      Per quanto concerne la posizione di parte della dottrina più recente, invece, occorrerebbe tracciare una netta differenza fra i due tipi di discrezionalità: quella amministrativa, infatti, attraverso l’acquisizione e valutazione di interessi si compone di una fase di giudizio ed, attraverso la scelta comparativa degli stessi, presenta anche profili di volontà. La discrezionalità tecnica, invece, risulta priva di quest’ultimo elemento, dato che si risolve in un’attività di giudizio, condotta attraverso la sola acquisizione e valutazione di dati della realtà (si tratterebbe, in altri termini, di una mera attività di acquisizione di scienza o di manifestazione di giudizio, da contrapporsi alla manifestazione di volontà che, invece, contraddistingue la discrezionalità amministrativa).

Ne conseguirebbe che, a stretto rigore, solo la prima  dovrebbe riguardare propriamente il merito amministrativo, dato che solo essa rappresenta la vera e propria manifestazione del potere di cura e gestione dell’interese pubblico, sottratto al controllo del giudice.

 

7.1. Il sindacato giurisdizionale cd. “forte” e quello cd. “debole”.

 

Nell’ambito di tale discussione, occorre notare il sempre più consolidato orientamento della giurisprudenza, emerso nell’ambito della tematica riguardante la valutazione delle offerte dei partecipanti al procedimento ad evidenza pubblica. Si è in proposito sostenuto che, in sede di valutazione comparativa delle offerte, il giudizio di discrezionalità tecnica, caratterizzato dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall'opinabilità dell'esito della valutazione, sfugge al sindacato del giudice amministrativo in sede di legittimità, solo laddove non vengano in rilievo indici sintomatici del non corretto esercizio del potere, quali il difetto di motivazione, l’illogicità manifesta, l’erroneità dei presupposti di fatto e l’incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti. L’orientamento in discorso, che sembra a prima vista non discostarsi dall’opinione più restrittiva, ha però il pregio di sottolineare, altresì, che il potenziamento dei mezzi istruttori utilizzabili dal giudice amministrativo ai fini del sindacato sulle valutazioni di stampo tecnico-specialistico, sancito dall'innesto della consulenza tecnica ai sensi dell'art. 16 l. 21 luglio 2000 n. 205, consente certo il pieno e diretto accertamento dei fatti presi in esame dall'amministrazione, ma non la sostituzione del giudice amministrativo, per il tramite del consulente tecnico, ai giudizi di tipo tecnico formulati dall'amministrazione (Cons. Stato, Sez.VI, 4 novembre 2002, n.6004 in Foro Amm. 2002, 2945).

Conseguentemente può ammettersi che il controllo del giudice amministrativo sul giudizio tecnico dell'organo amministrativo sia divenuto intrinseco, nel senso della possibilità di accertare direttamente i fatti e di controllare la ragionevolezza delle relative analisi. Se necessario, il giudice amministrativo può, a tal fine, ricorrere alla consulenza tecnica ed, attraverso questa, giungere ad individuare le regole specialistiche utilizzate dalla pubblica amministrazione. E’ tuttavia chiaro che il giudice non può surrogare la propria opinione a quella, non condivisa ma non risultante erronea, formulata dagli organi pubblici.

In tal senso si è recentemente sostenuto che la discrezionalità tecnica ricorre quando la pubblica amministrazione, per provvedere su un determinato oggetto, deve applicare una norma tecnica cui una norma giuridica conferisce rilevanza diretta o indiretta. Tale discrezionalità, qualora si sia manifestata attraverso apprezzamenti tecnici, è sindacabile in sede giurisdizionale sia in base al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall'autorità amministrativa sia mediante verifica diretta dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo (Cons. Stato, Sez.VI, 29 novembre 2002, n.6575 in Foro Amm. 2002, 2981; Cons. Stato, Sez.IV, 17/07/2002, n.4000 in Foro Amm.2002, 1658; conf. Cons. Stato Sez.IV, 30 luglio 2002 n. 4071, ibidem). Alcune voci sostengono, inoltre, che il controllo di cui si discute sia esperibile solo allorché l'atto impugnato appaia già "prima facie" affetto da vizi logici o di travisamento dei fatti (Cons. Stato, Sez.VI, 05 settembre 2002, n. 4485 in Foro Amm. 2002, 887).

La tendenza evolutiva che può ad oggi cogliersi nella giurisprudenza e nella dottrina più recenti ammette, in sostanza, che le conclusioni raggiunte dalla p.a. in sede di esercizio della c.d. discrezionalità tecnica siano censurabili davanti al giudice amministrativo. Alcune tesi riconoscono l’esistenza di un controllo giurisdizionale di tipo “forte”, che  consentirebbe al giudice di sostituire il proprio accertamento della realtà a quello effettuato dall'amministrazione. Altre opinioni, oggi ritenute più corrette, tendono ad ammettere un controllo di tipo di “debole”, nel cui ambito il giudice può utilizzare le cognizioni tecniche fornite dal consulente solo per controllare la ragionevolezza e la coerenza tecnica della decisione amministrativa. In ogni caso tali impostazioni si fondano sull’art. 16 della legge 21 luglio 2000 n. 205, che - integrando l'art. 44, comma 1°, r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 - ha introdotto espressamente, anche nel giudizio ordinario di legittimità, l'esperimento della consulenza tecnica d'ufficio. L’innovazione legislativa ha l’evidente fine proprio di consentire al giudice amministrativo di avere cognizione piena in ordine a questioni non giuridiche (rientranti in discipline specifiche), ma pur sempre dotate di rilievo giuridico, in quanto richiamate proprio dalle norme di diritto che il giudice deve applicare.

 

7.2. L’accertamento tecnico.

 

In linea conclusiva, un discorso a parte merita l’accertamento tecnico. Esso si risolve in una valutazione della realtà, condotta in base ad indici e criteri univoci e certi, pertanto va equiparato all’attività di verifica della ricorrenza di presupposti e condizioni per l’esercizio di un dato potere: l’opinione prevalente ricomprende tale aspetto fra i profili di legittimità dell’agire amministrativo, innanzi al quale si profilerebbero diritti soggettivi.

8. Discrezionalità e neminem laedere.

      Altro limite esterno che circoscrive la scelta discrezionale è costituito dal neminem laedere. Ciò comporta che la PA, nell’esercizio del suo potere di scelta e di valutazione, è tenuta a non sacrificare, al di fuori dei casi in cui sia consentito, le posizioni guridiche altrui.

      Se, in linea teorica, non sono mai sorti problemi nell’affermazione di tale principio, sul piano pratico la giurisprudenza ha incontrato notevoli difficoltà ad ammettere il sindacato giurisdizionale sulla scelta amministrativa, finalizzato al controllo del rispetto della clausola generale di cui all’art. 2043 cod. civ. Secondo l’opinione che in passato era prevalente, infatti, tale sindacato si risolverebbe in un’inammissibile ingerenza del potere giudiziario nella sfera di potere amministrativo: il giudice si troverebbe ad apprezzare la scelta dell’amministrazione ed a sindacarne la correttezza, effettuando valutazioni attinenti al merito dell’azione della PA. Per queste ragioni la giurisprudenza  non si spingeva a valutare la scelta in sè stessa, ma  si limitava a controllare che le modalità di attuazione di quest’ultima avessero regolarmente funzionato, in relazione alla loro specie e natura, oppure che gli operatori materiali cui ne era affidata l’esecuzione, avessero osservato i precetti di diligenza, perizia e prudenza, nonchè le norme regolamentari, tecniche e le leges artis.

      Tali posizioni risultano oggi superate. Sia la dottrina dominante sia la giurisprudenza unanime, ritengono che il sindacato tramite il quale il giudice controlla il rispetto del principio del neminem laedere, da parte delle scelte discrezionali della PA, non comporti valutazioni attinenti al merito amministrativo. In simili fattispecie, infatti, l’autorità giudiziaria tende più semplicemente ad accertare che l’esercizio del potere discrezionale amministrativo sia contenuto entro il limite di carattere esterno, costituito dalla clausola generale del neminem laedere, la quale si riferisce ad ogni soggetto dell’ordinamento. In altri termini, la discrezionalità di cui gode l’amministrazione circa i criteri di apprezzamento degli interessi pubblici e dei mezzi idonei a soddisfarli, non esclude che anch’essa sia tenuta ad osservare, oltre alle norme giuridiche che regolano l’esplicazione della sua attività, le comuni norme di diligenza e di prudenza, a tutela dell’incolumità dei cittadini e del loro patrimonio (Cass. 20/7/70 n°1187; Cass. 6/10/79 n°5172; Cass. 14/4/83 n°2602; Cass. 6/12/88 n°6635).

Bibliografia essenziale

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Giurisprudenza

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Cass. S.U. 9/6/89 n°2773 in C.d.S. 1989, II, 1391;

Cass. S.U. 6/12/88 n°6635 in Foro it. 1989, I, 76;

Cass. 20/7/70 n°1187 in Foro it. 1970, I, 2080;

Cass. 14/4/83 n°2602 in C.d.S. 1983, II, 1160;

C.d.S. Ad.  pl. 6/2/93 n°   in C.d.S. 1993, I, 153;

C.d.S. sez. IV 21/10/75 n°922 in Foro amm. 1975, I, 1314;

C.d.S. sez. IV 2/1/87 n°69 in C.d.S. 1987, I, 93;

C.d.S. sez. IV  5/11/87 n°873 in C.d.S. 1987, I, 1634;

C.d.S. sez. IV 4/7/88 n°889 in C.d.S. 1988, I, 867;

C.d.S. sez. V 28/5/86 n°375 in C.d.S. 1986, I, 667;

C.d.S. sez. V 28/5/87 n°310 in Foro amm. 1987, I, 988;

C.d.S. sez. VI 4/4/91 n°231 in Foro amm. 1991, I,1007;

C.d.S. sez. VI 1/7/92 n°659 in Foro amm. 1992, I, 1621;

Cons. Stato, Sez.VI, 29 novembre 2002, n.6575 in Foro Amm. 2002, 2981;

Cons. Stato, Sez.IV, 17/07/2002, n.4000 in Foro Amm.2002, 1658;

Cons. Stato Sez.IV, 30 luglio 2002 n. 4071, ibidem;

 

T.a.r. Lazio 11/5/91 n°849 in Giur. it. 1992, 1, III, 209

 

 

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