Tribunale Militare di Torino, ordinanza 14 giugno 2001 (dep. 31
agosto 2001), solleva la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 500 C. p. p. sulle le dichiarazioni lette per le contestazioni
TRIBUNALE MILITARE DI TORINO
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Militare, composto dai Signori:
1. Dott. Stanislao SAELI Presidente
2. Dott. Alessandro BENIGNI Giudice
3. Gen. Brig. Giuseppe QUARANTA Giudice militare
con l’intervento del P.M. in persona del dott.
e con l’assistenza del
SU ISTANZA di entrambe le parti, associatesi nella richiesta, ha pronunciato
in pubblica udienza la seguente
ORDINANZA
nel procedimento penale a carico di:
ZUIN Paolo, nato il 25.03.1938 a Roma - Atto di nascita nr. 1554 P.I.S.A.
– e residente a Monza (MI) in Via Adrigat n° 12 – censurato – D.M.
di Milano
IMPUTATO
del reato p.p. dall' "art.3 della LEGGE 9/12/1941 n.1383" perchè
Uff. della G.d.F. all'epoca dei fatti in servizio presso il Nucleo di Polizia
Tributaria di Milano, in concorso con M.M.GILARDINO Umberto e M.M. SPAZZOLI
Marco, DEZI Pasqualino e Brig. VENA Antonio, colludeva con estranei per
frodare la finanza ricevendo la somma di L.20.000.000 quale quota della
somma di L.100.000.000 da BRUGHERA Mario commercialista della BARCLAYS
FINANCIAL SERVICES S.p.a., durante la verifica fiscale cui la società
era sottoposta, in cambio della constatazione in atti di situazioni favorevoli
alla società e di omissioni di verbalizzazione di rilievi fiscali;
in Milano nel 1987.
Con l'aggravante del concorso nel reato con inferiori (art.58 c.p.m.p.).
1. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – LE RICHIESTE DELLE PARTI
Nel corso dell’udienza dibattimentale del processo n. 1870/94 nei confronti
di Paolo ZUIN, imputato di vari episodi di collusione per frodare la Finanza,
la Pubblica Accusa, nello svolgimento dell’esame testimoniale a carico
del Sig. Umberto GILARDINO, coimputato nel medesimo procedimento che aveva
già definito la propria posizione processuale, ha proceduto a contestare
ex Art. 500 c.p.p. dichiarazioni rese dallo stesso nel corso di interrogatori
tenuti in data 21 luglio 1994 e 21 novembre 1994, e riguardanti eventuali
responsabilità dell’imputato ZUIN. Il GILARDINO non ha smentito
tali dichiarazioni, ma non é stato neppure in grado di confermarle
facendo rilevare, non senza qualche ragione, che dall’epoca delle dichiarazioni
contestate erano passati sette anni, che non poteva più ricordarsi
i fatti specifici e che, se all’epoca aveva dichiarato determinati fatti,
gli stessi fatti dovevano reputarsi come veri (pagg. 14-16 verb. ud. dibatt.
14.6.2001). Su specifiche domande del P.M. il teste continuava a rispondere
che non poteva ricordare i fatti trascorsi da oltre un decennio, ma che
le dichiarazioni fornite durante le indagini corrispondevano sicuramente
a realtà.
A questo punto il P.M. ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’Art. 500 c.p.p. per contrasto con gli Artt. 2, 3, 24,
25 e 101 Cost. nella parte in cui preclude al giudice di utilizzare le
dichiarazioni rese dai testi nelle indagini preliminari e utilizzate per
le contestazioni dibattimentali come prova dell’accertamento dei fatti.
Il P.M. ha richiamato sul punto l’ordinanza con cui il Tribunale di Firenze
aveva appena sollevato analoga questione (Trib. Firenze 6.4.2001 con nota
di P. FERRUA “Giusto processo: i primi dubbi” in Diritto e giustizia 2001,
16, 66).
La difesa di ZUIN si é associata alla richiesta del P.M..
Il Tribunale, con questa ordinanza, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’Art. 500 c.p.p. per contrasto con gli Artt. 3 e 101
Cost..
2. Contrasto dell’Art. 500 c.p.p. come modificato dalla L. 63/2001 con
l’Art. 3 Cost.
La nuova formulazione dell’Art. 500 c.p.p. prevede che “le dichiarazioni
lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità
del teste”: E’ stato così ripristinato l’originario contenuto di
tale disposizione che, nella mente dei compilatori del codice, avrebbe
dovuto costituire uno dei pilastri posti a sostegno della formazione orale
e dibattimentale della prova che aveva cagionato una irragionevole disuguaglianza
di trattamento a seconda del tipo di processo scelto dall’accusato facendo
emergere una paradossale parziale doppia verità processuale.
Si ipotizzi il caso che due imputati per lo stesso reato, ad esempio
un omicidio, scelgano due diverse strade processuali chiedendo uno il giudizio
abbreviato e l’altro il giudizio ordinario. Potrebbe avvenire che la scelta
del giudizio abbreviato possa rivelarsi infausta in quanto rende utilizzabili
tutte le dichiarazioni rese dalle persone sentite durante le indagini le
quali, invece, non possono essere valutate dal giudice del dibattimento
anche in caso di deposizioni difensive.
Si avrebbero due conseguenze ugualmente aberranti:
a) abbandonare nelle mani della parti l’esito del giudizio svuotando
il significato stesso del processo penale;
b) incentivare l’abbandono del rito abbreviato la cui massiccia adozione
continua a costituire presupposto indefettibile per il successo del sistema
accusatorio e per il perseguimento del valore costituzionale della ragionevole
durata del processo.
Questi aspetti già rilevati dall’Alta Corte nella celebre sentenza
255/1992, che ebbe ad oggetto la formulazione originaria dell’Art. 500,
mantengono ancora oggi tutta la loro attualità, in quanto, ora come
allora, “la diversità di rito non può ragionevolmente mutare
né i fini della giurisdizione penale (con la necessità di
cognizione piena del fatto reato) né la garanzia costituzionale
del diritto di azione” (Corte Cost. 255/1992).
Occorre allora, ad avviso di questo giudice, ripristinare un unico
ragionevole regime probatorio che possa subire delle deroghe e delle riduzioni
di garanzie in virtù del riconoscimento dell’abbuono di un terzo
della pena, ma che non possa portare ad uno stravolgimento dell’accertamento
giudiziale all’emissione di decisioni giudiziali opposte, in presenza degli
stessi elementi di fatti conosciuti dal giudice (sia pure solo incidentalmente,
per quanto riguarda il dibattimento).
3. Contrasto dell’Art. 500 c.p.p. con il combinato disposto degli Artt.
3/101 Cost.
La nuova formulazione dell’Art. 500 c.p.p. preclude al giudice dibattimentale
qualunque valutazione sostanziale, se non ai limitati fini della credibilità,
di tutte le dichiarazioni rese dai testi nel corso delle indagini, anche
nel caso vengano a sua diretta conoscenza mediante lo strumento delle contestazioni.
Questa, senza dubbio, é stata la volontà del Legislatore
come emerge chiaramente dall’esame dei lavori parlamentari (si leggano
gli atti della seduta n. 681 svoltasi al Senato della Repubblica e, più
in particolare, la discussione sull’emendamento 16.2, respinto dall’aula,
proposto dal Sen. Elvio FASSONE il quale richiamava proprio le affermazioni
di Corte Cost. 255/1992). Occorre però valutare se tale volontà
sia in linea con i parametri costituzionali, che regolano il libero convincimento
del giudice nella formazione della sua decisione.
L’Art. 101 Cost. afferma che “La giustizia é amministrata in
nome del popolo” e che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Questa
disposizione non deve essere interpretata separatamente ma in stretta connessione
con il principio di ragionevolezza enucleato nell’Art. 3 Cost..
Dal combinato disposto di queste due norme si desume la costituzionalizzazione
del principio del libero convincimento del giudice nella formazione delle
sue decisioni: egli deve ragionevolmente e liberamente ricercare la verità
nei limiti stabiliti dalla legge la quale, però, deve garantire,
ai sensi dell’Art. 24 Cost., la piena esplicazione del diritto alla difesa.
Tale impostazione é comunemente accettata dagli interpreti.
La finalità di accertamento della verità sostanziale ha,
infatti, sempre costituito la finalità ultima del processo penale.
Ciò in passato emergeva dall’Art. 299 c.p.p. che imponeva al giudice
istruttore “l’obbligo di compiere prontamente tutti gli atti che appaiono
necessari per l’accertamento della verità”, e oggi si ricava dall’Art.
2 n. 73 L. 16.2.1987 n. 81 che si é poi tradotto nella previsione
degli Artt. 506 e 507 c.p.p..
In questa prospettiva, il mancato raggiungimento della verità
tradirebbe “la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio
di legalità e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio
di obbligatorietà dell’azione penale” (così espressamente
Corte Cost. 111/1993; in precedenza, nello stesso senso, Cass. Sez. Un.
6.11.1992 in Cass. pen. 1993, 1370 con note di F.M. IACOVIELLO e di A.
BASSI; in Giur. it. 1994, II, 17 con nota di F. ROMANO BAROCCI).
Il principio di accertamento della verità viene irreparabilmente
leso in circostanze tali quale quella in oggetto: il giudice viene a conoscenza
di dichiarazioni rilasciate in passato dal testimone il quale, é
importante processarlo, non le smentisce, dicendo di non essere più
in grado di ricordare i fatti in esse descritti per suo difetto di memoria,
ma afferma più volte che le dichiarazioni rese all’epoca sono sicuramente
autentiche. Conseguentemente il Collegio si convince dell’autenticità
di tali dichiarazioni ma, non potendole utilizzare, si vedrebbe costretto
a redigere in una sentenza affermazioni del tutto contrarie al proprio
convincimento motivatamente raggiunto. La libertà di convincimento
dei giudici che pronunciano le loro sentenze in nome del popolo italiano,
e a questo devono rendere conto con la motivazione della razionalità
delle loro decisioni, subisce in questo modo una compressione irragionevole.
Tali principi, peraltro, sono già stati affermati dall’Alta
Corte nella già citata sentenza n. 255/1992 in cui si é giustamente
sottolineato che “la norma in questione” (e cioè l’Art. 500 c.p.p.)
“impone al giudice di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto
della stessa decisione in quanto, se la precedente dichiarazione é
ritenuta veritiera, e per ciò stesso sufficiente a stabilire l’inattendibilità
del teste nella diversa deposizione resa in dibattimento, risulta chiaramente
irrazionale che essa, una volta introdotta nel giudizio, entrata quindi
nel patrimonio di conoscenze del giudice, ed esaminate nel contraddittorio
delle parti (con la presenza del teste che rimane comunque sottoposto
all’esame incrociato), non possa essere utilmente acquisita al fine della
prova dei fatti in essa affermati ”. Ciò in quanto “fine primario
e ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della
ricerca della verità” mentre il divieto di utilizzare le dichiarazioni
usate per le contestazioni “appare privo di giustificazione ponendo in
essere una irragionevole preclusione alla ricerca della verità”.
Occorre rilevare, peraltro, che il fenomeno sottoposto oggi all’attenzione
di questo giudice, e, in un secondo momento, all’Alta Corte, é alquanto
frequente nella prassi giudiziaria. Ad ogni udienza, infatti, capita almeno
un testimone, se non più di uno, il quale, richiesto di dichiarare
quanto era avvenuto all’epoca dei fatti, candidamente dichiara “non ricordo,
ma se ho detto qualcosa prima é la verità”, ovvero più
comunemente “non ricordo e basta!”, aggiungendo, anche un po’ piccato,
“sono anche passati dieci anni!!”
Sotto questi profili si ritiene che l’attuale formulazione dell’Art.
500 c.p.p. si trovi in un insanabile contrasto con i principi desumibili
dal combinato disposto degli Artt. 101/3 Cost.
4. La compatibilità dell’utilizzabilità delle dichiarazioni
rese dai testimoni nelle indagini preliminari con i principi del c.d. “giusto
processo”.
La L. Cost. 2/1999, modificando l’Art. 111 Cost., ha introdotto nella
Corte Costituzionale il principio del contraddittorio nella formazione
della prova.
Si potrebbe ritenere che la costituzionalizzazione di tale principio,
a lungo auspicata dalla dottrina, imponga l’irrilevanza probatoria delle
contestazioni. In realtà, una lettura più attenta del quarto
comma dell’Art. 111 induce a una diversa conclusione.
Il precetto costituzionale, infatti, dopo avere scolpito il principio
generale del contraddittorio specifica come “La colpevolezza dell’imputato
non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi,
per libera scelta, si é sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio
da parte dell’imputato o del suo difensore”, intende l’utilizzabilità
delle dichiarazioni di chi, in dibattimento, si avvalga della facoltà
di non rispondere.
Una interpretazione rigida del contraddittorio viene ad essere logicamente
incompatibile rispetto alla lettura della norma appena richiamata, oltre
ad entrare in palese contrasto con il combinato disposto degli Artt. 101/3
Cost. precedentemente analizzato. Tale interpretazione, come é stato
rilevato, tutelerebbe il metodo astratto del contraddittorio a prescindere
dalla sua idoneità concreta a perseguire la finalità ultima
del processo penale e cioè l’accertamento dei fatti (P. TONINI,
Riforma del sistema probatorio: un’attuazione parziale del “giusto processo”
in Dir. pen. e processo 2001, 272; C. CONTI, “Principio del contraddittorio
e utilizzabilità delle precedenti decisioni”, ivi, 2001, 593).
Occorre chiedersi però se in tale interesse sia effettivamente
leso il principio del contraddittorio. Tale principio consiste nel diritto
di controesaminare il teste sulle circostanze emerse durante l’esame. Non
sembra peraltro che il diritto di difesa possa in alcun modo essere leso
o violato dall’acquisizione e utilizzazione delle deposizioni rese in precedenza
dal testimone. La difesa, infatti, nel corso del suo controesame può
chiedere conto delle difformità delle dichiarazioni rese, dell’attuale
mancato ricordo, delle ragioni della sua sicurezza nell’affermare che le
dichiarazioni rese durante le indagini siano quelle più veritiere.
In tal modo le dichiarazioni raccolte nel corso delle indagini, e richiamate
in dibattimento mediante la contestazione, diverrebbero parte integrante
di una prova complessiva formata nel contraddittorio dibattimentale, di
cui si potrebbe servire il giudice per la decisione valutando congiuntamente
le dichiarazioni contestate e quelle rese nel giudizio. Né l’utilizzazione
di questa prova altererebbe il rapporto di parità tra le parti dal
momento che le stesse possibilità di acquisizione si presenterebbero
per le dichiarazioni inserite nel fascicolo del difensore ex Art. 391 decies
c.p.p..
La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’Art. 500
c.p.p., nella parte in cui preclude la valutazione delle dichiarazioni
utilizzate per le contestazioni, pertanto, mentre non lede il diritto di
controesaminare il testimone, richiedendo i necessari chiarimenti, salvaguarda
l’ulteriore interesse di pari rilevanza costituzionale, consistente nell’accertamento
dei fatti di reato, alquanto tralasciato dal Legislatore.
Nel corso del dibattimento, sino ad oggi, sono stati esaminati sette
coimputati nello stesso reato o di reato connesso, per sei di loro sono
state acquisite le dichiarazioni rese nelle indagini preliminari, antecedentemente
alla recente modifica dell’Art. 500 c.p.p., ed é stata acquisita
la sentenza della Corte di Appello di Milano 17.3.1997 n. 1269 che ha riconosciuto
la responsabilità dell’imputato ZUIN per il reato concorrente di
corruzione.
L’Art. 238 bis c.p.p. prevede che le sentenze irrevocabili possano
essere acquisite ai fini della prova del fatto in esso accertato, e debbano
essere valutate a norma dell’Art. 192 c.p.p. e cioè “unitamente
agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”.
L’unico elemento di riscontro accertato nel corso dclla complessa istruzione
dibattimentale, durata oltre due anni, é costituito dalle dichiarazioni
rese durante le indagini dal M.llo GILARDINO che, in quella circostanza,
aveva confessato di avere consegnato circa ventiquattro milioni all’imputato
come provento illecito derivante dalla verifica Barclays (deposizione GILARDINO
verb. ud. dibatt. 14.6.2001 pag. 14).
Qualora l’Alta Corte, nella sua superiore valutazione ritenesse corrispondente
a Costituzione l’attuale disposizione dell’Art. 500 c.p.p., che esclude
l’acquisizione delle dichiarazioni sopra ricordate, il Tribunale si vedrebbe
privato giuridicamente della disponibilità degli elementi probatori
oggettivamente sussistenti per comprovare la penale responsabilità
di ZUIN Paolo.
P.Q.M.
Il Tribunale Militare di Torino, visti gli Artt. 23 ss L. 827/1953
SOLLEVA
questione di legittimità costituzionale dell’Art. 500 2° c.p.p.,
con riferimento agli Artt. 101/3 Cost, nella parte in cui non prevede che
“le dichiarazioni lette per la contestazione possano essere valutate ai
fini della credibilità del teste e come prova dei fatti in
esse affermati, se sussistono altri elementi di prova che ne confermano
la attendibilità”.
SOSPENDE
il giudizio in corso
DISPONE
l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale
ORDINA
la notifica della presente ordinanza alle parti costituite, al Pubblico
Ministero e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e la comunicazione
della stessa al Presidente della Camera dei Deputati e al Presidente del
Senato della Repubblica.
Deposito in 90 giorni.
Torino, 14.6.2001
|