Corte
costituzionale – sentenza 11 – 24 luglio 2007, n. 322, sull’ignoranza o
errore
inevitabile in diritto penale
L’ignoranza e l’errore inevitabile –
per come sono stati evocati dalla
sentenza n. 364 del 1988, quale coefficiente minimo indispensabile e
limite
estremo di rimproverabilità, e quindi di compatibilità
con il principio di
personalità della responsabilità penale, di cui all’art.
27, primo comma, Cost.
– non possono fondarsi soltanto, od essenzialmente, sulla dichiarazione
della
vittima di avere un’età superiore a quella effettiva.
Il giudizio di inevitabilità postula, infatti, in chi si accinga
al compimento
di atti sessuali con un soggetto che appare di giovane età, un
“impegno”
conoscitivo proporzionale alla pregnanza dei valori in giuoco, il quale
non può
certo esaurirsi nel mero affidamento nelle dichiarazioni del minore:
dichiarazioni che, secondo la comune esperienza, possono bene risultare
mendaci, specie nel particolare contesto considerato. E ciò
fermo restando,
ovviamente, che qualora gli strumenti conoscitivi e di apprezzamento di
cui il
soggetto attivo dispone lascino residuare il dubbio circa l’effettiva
età –
maggiore o minore dei quattordici anni – del partner, detto soggetto,
al fine
di non incorrere in responsabilità penali, deve necessariamente
astenersi dal
rapporto sessuale: giacché operare in situazione di dubbio circa
un elemento
costitutivo dell’illecito (o un presupposto del fatto) – lungi
dall’integrare
una ipotesi di ignoranza inevitabile – equivale ad un atteggiamento
psicologico
di colpa, se non, addirittura, di cosiddetto dolo eventuale.
Ritenuto
in fatto
1. –
Con l’ordinanza indicata in epigrafe – emessa nell’ambito di un
processo penale
nei confronti di persona imputata del delitto di cui all’art. 609-quater del codice penale (atti sessuali
con minorenne) – il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di
Modena ha
sollevato, in riferimento all’art. 27, primo e terzo comma, della
Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 609-sexies
del codice penale, inserito dall’art. 7 della legge 15
febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale), in forza del
quale
«quando i delitti previsti negli articoli 609-bis,
609-ter, 609-quater e 609-octies
sono commessi in danno di persona minore degli anni
quattordici, nonché nel caso del delitto di cui all’articolo 609-quinquies, il colpevole non può
invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona
offesa».
Il giudice a quo premette che, nel
corso dell’udienza preliminare, il difensore dell’imputato aveva
eccepito
l’illegittimità costituzionale della norma de
qua, assumendo che, nel caso di specie, l’imputato era stato
indotto in
errore dalla persona offesa, dichiaratasi, contro il vero, maggiore
degli anni
quattordici al momento del fatto: circostanza, questa, confermata dallo
stesso
minore in sede di assunzione di informazioni testimoniali.
Al riguardo, il rimettente osserva come la disposizione denunciata –
riproducendo «quasi tralatiziamente» il previgente art. 539
cod. pen. –
introduca, a fini di più stringente protezione dei minori, una
evidente deroga
ai principi generali in materia di dolo. Essa sancisce, infatti, una
sorta di
presunzione iuris et de iure di
conoscenza dell’età della persona offesa da parte dell’agente,
impedendo conseguentemente
a quest’ultimo di provare l’incolpevole ignoranza di detta età o
l’erroneo
convincimento di una età superiore.
Il giudice a quo ricorda, altresì,
come questa Corte sia stata chiamata a verificare in più
occasioni la
legittimità costituzionale del citato art. 539 cod. pen.,
negando tuttavia
fondamento alle censure. In particolare, la sentenza n. 107 del 1957 –
confermata dall’ordinanza n. 22 del 1962 e dalla sentenza n. 20 del
1973 (recte: n. 20 del 1971) – ha
escluso che la disposizione
ledesse il principio di personalità della responsabilità
penale, sancito
dall’art. 27, primo comma, Cost.: e ciò in base al duplice
rilievo che detto
principio vieterebbe unicamente la responsabilità per fatto
altrui, nella
specie non riscontrabile, essendo richiesto, per la punibilità
dell’agente, un
nesso di causalità materiale tra la sua condotta e l’evento; e
che, comunque,
anche qualora si ritenesse necessario un concorrente nesso psichico, la
conclusione non muterebbe, in quanto l’età del soggetto passivo
non atterrebbe
all’evento del reato – rappresentato dal «congiungimento carnale
abusivo», che
deve essere investito «dalla coscienza e dalla volontà
intenzionale» – ma
costituirebbe «un presupposto del reato e più propriamente
una condizione (non
obiettiva) di punibilità la cui consapevolezza è estranea
al nesso tra azione
ed evento».
La sentenza n. 209 del 1983 (l’ultima sul tema) – ricorda ancora il
rimettente
– oltre a ribadire la pregressa interpretazione dell’art. 27, primo
comma,
Cost., ha escluso anche la configurabilità di una lesione del
principio di
eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost. (ventilata sotto vari profili),
rimarcando
come l’art. 539 cod. pen. mirasse a realizzare «un’accentuata
tutela del minore
degli anni quattordici, ritenuto incapace di consenso valido alla
congiunzione
carnale».
Posteriormente a tali decisioni – prosegue il giudice a quo
– si è tuttavia affermata e consolidata, nella giurisprudenza
costituzionale, una diversa lettura del principio di personalità
della
responsabilità penale. Alla stregua della
«fondamentale» sentenza n. 364 del
1988, infatti, per «fatto proprio» – del quale soltanto si
è chiamati a
rispondere – «non si intende il fatto collegato al soggetto,
all’azione
dell’autore, dal mero nesso di causalità materiale […] ma anche,
e soprattutto,
dal momento subiettivo, il quale deve investire – almeno nella forma
della
colpa – gli elementi più significativi della fattispecie
tipica».
Ancora più esplicito risulterebbe, peraltro, il dictum
della successiva sentenza n. 1085 del 1988, secondo la quale
«perché l’art. 27, primo comma, Cost. sia pienamente
rispettato e la
responsabilità penale sia autenticamente personale, è
indispensabile che tutti
e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore
della
fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano
cioè investiti
dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che
tutti e ciascuno dei
predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè
anche
soggettivamente disapprovati». Alla «regola della
rimproverabilità» si
sottrarrebbero «soltanto gli elementi estranei alla materia del
divieto (come
le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l’area
del divieto,
condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla presenza di
determinati
elementi oggettivi)».
In sostanza, alla luce di tali sentenze, il principio di
personalità della
responsabilità penale potrebbe ritenersi rispettato solo quando
il precetto
penale sia formulato in termini tali da garantire il collegamento
psichico tra
l’agente e il «nucleo significativo o fondante della
fattispecie», nel quale si
risolve il disvalore del fatto incriminato, giustificando così
la funzione
rieducativa della pena, che ne consegue.
In tale nuova prospettiva, sarebbe peraltro indubbio – con riguardo ai
reati
che offendono la libertà sessuale dei minori; e in particolare a
quello di cui
all’art. 609-quater cod. pen., che
punisce il compimento di atti sessuali con un minore degli anni
quattordici –
che l’età del soggetto passivo non possa essere imputata in via
oggettiva
all’autore del fatto, senza compromettere il parametro costituzionale
evocato.
Al riguardo, non potrebbe essere infatti condivisa la soluzione
prospettata
nella remota sentenza n. 107 del 1957, stando alla quale l’età
della vittima
integrerebbe una «condizione non obiettiva di
punibilità»: istituto, questo,
ignoto all’ordinamento penale italiano, che contempla solo le
condizioni
obiettive di punibilità (art. 44 cod. pen.), le quali –
accedendo ad un fatto
tipico completo nei suoi elementi costitutivi – delimitano l’area della
punibilità, rimanendo soggette, proprio in tale ottica, ad una
regola di
imputazione oggettiva.
Nell’ipotesi prevista dall’art. 609-quater
cod. pen., per contro, il dato anagrafico risulterebbe decisivo al fine
di
attrarre nell’area di rilevanza penalistica un atto – quello sessuale –
altrimenti lecito: onde il predetto dato andrebbe qualificato come
presupposto
della condotta, o addirittura – conformemente alle indicazioni
contenute nella
stessa relazione del Ministro guardasigilli al progetto definitivo del
codice
penale – come elemento costitutivo del reato, che incentra su di
sé «la ratio essendi
dell’incriminazione». Con
l’ulteriore conseguenza che, ai fini del rispetto dell’art. 27, primo
comma, Cost.,
l’età del soggetto passivo dovrebbe risultare riferibile
soggettivamente
all’autore del fatto, «quanto meno sotto il profilo della
rappresentazione».
È ben vero, d’altro canto – soggiunge il rimettente – che la
norma sottoposta a
scrutinio è volta ad assicurare una più energica
protezione di soggetti, quali
i minori infraquattordicenni, non solo considerati incapaci di prestare
un
valido consenso all’atto sessuale, ma altresì esposti in modo
crescente ad
abusi: trovando, quindi, «un solido radicamento in interessi
costituzionalmente
protetti». Il bilanciamento degli interessi in potenziale
conflitto non
dovrebbe, tuttavia, necessariamente risolversi con il sacrificio del
principio
di colpevolezza. L’esigenza di rafforzamento della tutela del minore
non
varrebbe difatti a giustificare, di per sé,
una deroga a tale principio: giacché, al contrario,
quanto maggiore è il
disvalore del fatto nella valutazione del legislatore e più
severo il relativo
trattamento sanzionatorio, tanto più effettivo dovrebbe
risultare il giudizio
di «rimproverabilità» dell’agente; giudizio che
implica la prova della piena
conoscenza di tutti gli elementi della fattispecie.
Lo stesso legislatore ordinario – ad avviso del giudice a
quo – avrebbe fornito, del resto, una puntuale dimostrazione di
come una politica criminale ispirata alla rigorosa tutela dell’infanzia
contro
ogni forma di abuso possa percorrere strade «rispettose
dell’ortodossia dei
principi in materia di imputazione soggettiva». Nessuna
disposizione analoga a
quella censurata è infatti contenuta nella legge 3 agosto 1998,
n. 269 (Norme
contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del
turismo
sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in
schiavitù):
legge che pure disciplina una materia sotto più profili affine a
quella
regolata dalla legge n. 66 del 1996, introducendo norme incriminatrici
addirittura più severe di quella dell’art. 609-quater
cod. pen..
Ciò comporta che rispetto ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, e 600-ter,
primo comma, cod. pen. (aggiunti dagli artt. 2 e 3 della citata legge
n. 269
del 1998) – i quali puniscono con la reclusione da sei a dodici anni
(oltre la
multa), rispettivamente, l’induzione o il favoreggiamento della
prostituzione
di minori degli anni diciotto e l’utilizzazione di questi ultimi per
realizzare
esibizioni pornografiche o per produrre materiale pornografico – la
minore età
della vittima, secondo il rimettente, deve necessariamente rientrare
«nello
spettro del dolo»: con conseguente non punibilità
dell’autore del fatto, il
quale dimostri l’ignoranza o l’errore su tale elemento, ancorché
colposo (non
essendo dette fattispecie punibili a titolo di colpa). L’errore
incolpevole
sull’età potrebbe rilevare, d’altro canto – alla stregua della
regola generale
in tema di imputazione soggettiva delle circostanze, dettata dall’art.
59,
secondo comma, cod. pen. – anche nell’ipotesi circostanziata di cui
all’art.
600-sexies cod. pen. (inserito
dall’art. 6 della medesima legge), il quale prevede un aumento di pena
da un
terzo alla metà qualora i fatti di cui agli artt. 600-bis,
primo comma, 600-ter,
primo comma, e 600-quinquies cod.
pen. siano commessi in danno di minori degli anni quattordici.
La questione risulterebbe infine rilevante nel giudizio a
quo, giacché – una volta rimossa la presunzione iuris
et de iure di conoscenza dell’età
della vittima – l’imputato «potrebbe essere ammesso a provare
l’ignoranza della
stessa, argomentando dalle dichiarazioni rese dalla stessa parte
offesa, che ha
ammesso di aver riferito al proprio partner
di essere ultraquattordicenne».
2. – Nel giudizio di
costituzionalità è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
che la
questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Rimarcato come analoga questione di legittimità costituzionale,
relativa al
previgente art. 539 cod. pen., sia stata dichiarata più volte
infondata, o
manifestamente infondata, tanto da questa Corte che dalla Corte di
cassazione;
e sottolineato, altresì, come – alla stregua delle indicazioni
di questa Corte
– l’art. 27 Cost. non contenga «un tassativo divieto di
responsabilità
oggettiva» (sentenza n. 364 del 1988), la difesa erariale assume
che l’art.
609-sexies cod. pen. contemplerebbe
un caso di responsabilità oggettiva costituzionalmente legittimo.
Al riguardo, basterebbe infatti osservare come, ai fini della
configurabilità
del reato di cui all’art. 609-quater
cod. pen., il nucleo centrale della condotta tipica – ossia l’atto di
natura
sessuale – debba essere realizzato volontariamente: circostanza,
questa, che –
secondo quanto rilevato dalla stessa sentenza n. 364 del 1988 –
varrebbe a
rendere l’atto «proprio» dell’agente.
L’irrilevanza dell’ignoranza o dell’errore sull’età del soggetto
passivo,
d’altro canto, risponderebbe all’esigenza – radicata nella cultura
giuridica
italiana – di rendere più energica la tutela di persone che si
trovano in
determinate condizioni di immaturità dai pericoli derivanti da
rapporti sessuali
abusivi: impedendo, in pari tempo, che trovino ingresso nel processo
penale
temi di indagine che possono risultare lesivi della dignità del
minore o
ulteriormente traumatizzanti per quest’ultimo (quale, ad esempio,
quello
relativo ad un suo contegno sessualmente troppo spregiudicato).
Non si potrebbe trascurare, inoltre, la considerazione che l’età
inferiore agli
anni quattordici è, il più delle volte, agevolmente
valutabile – o quantomeno
percepibile in via dubitativa – dai terzi; e che, in ogni caso,
potrebbe
rimproverarsi all’agente di aver proceduto all’atto sessuale senza
l’assoluta
certezza del compimento del quattordicesimo anno di età da parte
dell’altro
soggetto.
La maggiore severità, rispetto all’ordinario, della valutazione
della volontà
colpevole si giustificherebbe peraltro agevolmente – ad avviso
dell’Avvocatura
– con la particolare rilevanza del bene tutelato dalla norma,
ricollegabile
alla previsione di protezione dell’infanzia e della gioventù da
parte della
Repubblica, di cui all’art. 22 (recte:
31, secondo comma) Cost. Né avrebbe pregio l’assunto del giudice
a quo, secondo cui l’esigenza di tutela
in parola potrebbe essere soddisfatta senza sacrificare il principio di
colpevolezza: giacché, per un verso, il principio di
colpevolezza non verrebbe
nella specie sacrificato, ma, semmai, solo attenuato; e, per un altro
verso, il
legislatore ben potrebbe, in ogni caso, sacrificare – «per
fondate ragioni» –
un determinato valore costituzionale a vantaggio di altro valore di
pari rango:
prospettiva nella quale la notazione del giudice a quo
si risolverebbe non in una censura di costituzionalità, ma in
una mera critica all’apprezzamento discrezionale del legislatore.
Neppure, da ultimo, coglierebbe nel segno l’argomentazione con la quale
il
rimettente tenta di corroborare il proprio assunto: e, cioè, che
la legge n.
269 del 1998, contro lo sfruttamento della prostituzione, della
pornografia e
del turismo sessuale in danno dei minori, non reca alcuna norma omologa
a
quella denunciata. I reati in materia di pedofilia, introdotti da tale
legge,
realizzerebbero, infatti, una tutela anticipata della libertà
sessuale dei
minori, punendo comportamenti diversi e «prodromici»
rispetto a quelli
incriminati dagli artt. 609-bis, 609-ter,
609-quater e 609-octies cod.
pen.: onde sarebbe comprensibile che, rispetto a lesioni «meno
immediate» del
suddetto valore, i profili attinenti all’elemento psicologico del reato
vengano
regolati dal legislatore in modo meno severo (ancorché, poi, i
fatti – per il
particolare allarme sociale e la riprovazione che destano – siano
puniti, a
volte, con pena edittale più elevata).
3. – Si è costituito, altresì, T.
P., imputato nel giudizio a quo, il
quale – riportandosi integralmente alla memoria difensiva con la quale
era
stata sollevata l’eccezione di legittimità costituzionale
recepita dal giudice
rimettente – ha concluso per l’accoglimento della questione.
Nella predetta memoria, riprodotta nell’atto di costituzione, la difesa
della
parte privata aveva preliminarmente evidenziato, in punto di rilevanza,
gli
elementi di fatto – in assunto univoci – dai quali si desumerebbe che
l’imputato, a seguito di induzione in errore ad opera della stessa
persona
offesa, aveva ritenuto di compiere atti sessuali con soggetto
ultraquattordicenne consenziente, nella certezza che il fatto fosse
penalmente
irrilevante.
Su tale premessa, la difesa aveva quindi prospettato la
possibilità di
interpretare la previsione di inescusabilità, contenuta
nell’art. 609-sexies cod. pen., come riferita –
conformemente al suo tenore testuale – esclusivamente alla mera
ignoranza
dell’età dell’offeso, e non pure all’errore (il quale rimarrebbe
pertanto
regolato dalla norma generale dell’art. 47 cod. pen.): soluzione che
rifletterebbe l’asserita maggiore «riprovevolezza»
dell’ignoranza rispetto
all’errore, in quanto indice – diversamente da questo – «di
assoluta
indifferenza verso i valori tutelati dall’ordinamento».
Nel caso di mancata adesione a tale tesi, la difesa aveva rilevato come
le
decisioni di questa Corte, che avevano respinto le questioni di
costituzionalità relative al previgente art. 539 cod. pen.,
dovessero
considerarsi superate alla luce del successivo mutamento della
giurisprudenza
costituzionale, avutosi con la sentenza n. 364 del 1988. Quest’ultima
ha infatti
affermato che l’art. 27, primo comma, Cost. non si limita a sancire il
divieto
della responsabilità per fatto altrui, ma attribuisce
dignità costituzionale al
principio di colpevolezza, intesa come
«rimproverabilità» dell’autore del
fatto: «rimproverabilità» che presuppone che tutti
gli elementi significativi
della fattispecie tipica siano coperti quantomeno dalla colpa. Tale
condizione
dovrebbe ritenersi, quindi, senz’altro richiesta in rapporto
all’età della
vittima del reato di atti sessuali con minorenne, trattandosi di
elemento che –
lungi dal restare estraneo all’offesa – concentra «l’intera
dimensione lesiva
del fatto», determinando la punibilità di una condotta
altrimenti lecita. Né,
d’altro canto, sarebbe consentito al legislatore privilegiare –
rispetto a
«dogmi di rango costituzionale», quale appunto il principio
di colpevolezza –
«impulsi di politica criminale», collegati alla pur
accentuata riprovazione
sociale del fenomeno della pedofilia.
Considerato
in diritto
1. –
Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Modena dubita, in
riferimento all’art. 27, primo e terzo comma, della Costituzione, della
legittimità costituzionale dell’art. 609-sexies
del codice penale – inserito dall’art. 7 della legge 15 febbraio 1996,
n. 66
(Norme contro la violenza sessuale) – il quale stabilisce che
«quando i delitti
previsti negli articoli 609-bis, 609-ter,
609-quater e 609-octies sono
commessi in danno di persona minore degli anni quattordici,
nonché nel caso del
delitto di cui all’articolo 609-quinquies,
il colpevole non può invocare, a propria scusa, l’ignoranza
dell’età della
persona offesa».
Il rimettente rileva come la norma denunciata introduca – in deroga ai
principi
generali in materia di dolo – una sorta di presunzione iuris
et de iure di conoscenza dell’età della persona offesa da
parte dell’agente, impedendo conseguentemente a quest’ultimo di provare
l’incolpevole ignoranza di detta età o l’erroneo convincimento
di una età
superiore.
Tale presunzione si porrebbe in irrimediabile contrasto con il
principio di
personalità della responsabilità penale, sancito
dall’art. 27, primo comma,
Cost.. Quest’ultimo – secondo quanto chiarito dalle sentenze n. 364 e
n. 1085
del 1988 di questa Corte – non si limita a vietare la
responsabilità per fatto altrui,
ma esige, altresì, un collegamento psichico – almeno nella forma
della colpa –
tra l’agente e il «nucleo significativo o fondante della
fattispecie», nel
quale si risolve il disvalore del fatto incriminato, giustificando
così la
funzione rieducativa della pena che ne consegue.
Con riguardo ai reati che offendono la libertà sessuale dei
minori – e
segnatamente a quello di cui all’art. 609-quater
cod. pen., oggetto del giudizio a quo, che
punisce il compimento di atti
sessuali con un minore degli anni quattordici – sarebbe di conseguenza
indubbio
che, ai fini del rispetto del parametro costituzionale evocato,
l’età della
persona offesa debba risultare riferibile soggettivamente all’autore
del fatto,
«quanto meno sotto il profilo della rappresentazione»:
trattandosi di elemento
che incentra il disvalore dell’incriminazione, segnando il confine tra
i fatti
delittuosi e i rapporti sessuali leciti tra soggetti consenzienti.
Né, d’altra parte, le accentuate esigenze di tutela dei minori
di anni
quattordici da ogni forma di abuso, cui intende rispondere la norma
denunciata
– esigenze pure ricollegabili ad interessi costituzionalmente protetti
–
potrebbero giustificare deroghe al principio di colpevolezza:
giacché, al
contrario, la «rimproverabilità» dell’agente
dovrebbe risultare tanto più
effettiva, quanto maggiore è il disvalore del fatto
nell’apprezzamento del
legislatore. Il “sacrificio” del principio di colpevolezza, peraltro,
non
sarebbe affatto coessenziale al conseguimento del predetto obiettivo di
tutela,
come attesterebbe puntualmente la circostanza che la legge 3 agosto
1998, n.
269 – concernente una materia strettamente affine a quella regolata
dalla legge
n. 66 del 1966 (ossia la lotta contro lo sfruttamento della
prostituzione, la
pornografia e il turismo sessuale in danno di minori) e recante
previsioni
punitive addirittura più energiche di quella dell’art. 609-quater cod. pen. – non contenga alcuna norma
corrispondente a
quella censurata.
2. – La questione è inammissibile.
2.1. – Il giudice rimettente muove
dall’assunto che gli argomenti, sulla cui base questa Corte ritenne il
previgente art. 539 cod. pen. rispettoso del principio di
personalità della
responsabilità penale (sentenze n. 209 del 1983, n. 20 del 1971
e n. 107 del
1957; ordinanze n. 70 del 1973 e n. 22 del 1962), debbano essere
necessariamente riconsiderati alla luce della successiva evoluzione
della
giurisprudenza costituzionale riguardo alla valenza del parametro
evocato.
Si tratta di premessa in sé corretta. Le citate decisioni
sull’art. 539 cod.
pen. – costituente l’immediato precedente legislativo della
disposizione oggi
denunciata – si basavano, difatti, su un duplice rilievo: e cioè
che, da un
lato, l’art. 27, primo comma, Cost. si sarebbe limitato a vietare la
responsabilità penale per fatto altrui, richiedendo, pertanto,
solo un nesso di
causalità materiale tra la condotta del soggetto e l’evento; e
che, dall’altro
lato – ove pure fosse stato necessario un concorrente nesso psichico –
la
conclusione non sarebbe mutata, in quanto l’età dell’offeso non
atteneva
all’evento del reato (nella specie, la congiunzione carnale, che doveva
essere
comunque voluta), ma costituiva un presupposto del fatto e, più
propriamente,
«una condizione (non obiettiva) di punibilità»
(così, in particolare, la
sentenza n. 107 del 1957).
Con la sentenza n. 364 del 1988 – posteriore a tutte le pronunce dianzi
ricordate – questa Corte, innovando l’indirizzo interpretativo sino ad
allora
seguito, ha tuttavia riconosciuto che il principio di
personalità della responsabilità
penale, sancito dall’art. 27, primo comma, Cost., non si esaurisce nel
mero
divieto della responsabilità per fatto altrui, ma va inteso, amplius, come principio della
responsabilità per fatto proprio colpevole: postulando, quindi,
un “coefficiente
di partecipazione psichica” del soggetto al fatto, rappresentato quanto
meno
dalla colpa «in relazione agli elementi più significativi
della fattispecie
tipica».
Tale enunciato è stato ulteriormente puntualizzato dalla
sentenza n. 1085 del
1988. Secondo quest’ultima pronuncia – ai fini del rispetto dell’art.
27, primo
comma, Cost. – «è indispensabile che tutti e ciascuno
degli elementi che
concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano
soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal
dolo o dalla
colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno
dei predetti elementi
siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche
soggettivamente
disapprovati». E ciò a prescindere dalla circostanza che
l’elemento in discussione
si identifichi o meno con l’evento del reato: rimanendo sottratti alla
esigenza
della «rimproverabilità» unicamente «gli
elementi estranei alla materia del
divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che,
restringendo l’area
del divieto, condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla
presenza di
determinati elementi oggettivi)».
2.2. – Egualmente corretto appare il
successivo rilievo dell’ordinanza di rimessione, per cui nel reato di
atti
sessuali con minorenne (art. 609-quater
cod. pen.) – oggetto del giudizio a quo –
l’età infraquattordicenne dell’offeso rappresenta l’elemento su
cui gravita
l’intero disvalore della fattispecie tipica. In effetti, è
proprio e soltanto
il dato anagrafico che – facendo scattare la presunzione iuris
et de iure di incapacità della vittima a prestare un valido
consenso agli atti sessuali – segna il confine tra il fatto delittuoso
ed un
rapporto sessuale lecito tra soggetti consenzienti. Con la necessaria
conseguenza che, ai fini del rispetto dell’art. 27, primo comma, Cost.,
l’elemento dell’età – quale che ne sia il ruolo nella struttura
della
fattispecie (elemento costitutivo, presupposto del fatto,
«condizione non
obiettiva di punibilità») – deve poter essere collegato
all’agente anche dal
punto di vista soggettivo, così da rendere la sua condotta, alla
stregua delle
indicazioni proposte dalla sentenza n. 364 del 1988, espressiva di un
«rimproverabile» contrasto o indifferenza rispetto ai
valori sanciti dalla
norma incriminatrice.
2.3. – Appare condivisibile, infine,
anche l’ulteriore considerazione del giudice a quo,
secondo cui – contrariamente a quanto sostiene l’Avvocatura
dello Stato – il principio di colpevolezza non può essere
«sacrificato» dal
legislatore ordinario in nome di una più efficace tutela penale
di altri
valori, ancorché essi pure di rango costituzionale.
I principi fondamentali di garanzia in materia penale, difatti, in
tanto si
connotano come tali, in quanto “resistono” ad ogni sollecitazione di
segno
inverso (si veda, con riguardo al principio di irretroattività
della norma
penale sfavorevole, la sentenza n. 394 del 2006). Il principio di
colpevolezza
partecipa, in specie, di una finalità comune a quelli di
legalità e di
irretroattività della legge penale (art. 25, secondo comma,
Cost.): esso mira,
cioè, a garantire ai consociati libere scelte d’azione (sentenza
n. 364 del
1988), sulla base di una valutazione anticipata
(“calcolabilità”) delle
conseguenze giuridico-penali della propria condotta;
“calcolabilità” che
verrebbe meno ove all’agente fossero addossati accadimenti estranei
alla sua
sfera di consapevole dominio, perché non solo non voluti
né concretamente
rappresentati, ma neppure prevedibili ed evitabili. In pari tempo, il
principio
di colpevolezza svolge un ruolo “fondante” rispetto alla funzione
rieducativa
della pena (art. 27, terzo comma, Cost.): non avrebbe senso, infatti,
“rieducare” chi non ha bisogno di essere “rieducato”, non versando
almeno in
colpa rispetto al fatto commesso (sentenza n. 364 del 1988).
D’altronde, la finalità
rieducativa non potrebbe essere obliterata dal legislatore a vantaggio
di altre
e diverse funzioni della pena, che siano astrattamente perseguibili,
almeno in
parte, a prescindere dalla «rimproverabilità»
dell’autore (al riguardo,
sentenze n. 78 del 2007, n. 257 del 2006, n. 306 del 1993 e n. 313 del
1990).
Punire in difetto di colpevolezza, al fine di “dissuadere” i consociati
dal
porre in essere le condotte vietate (prevenzione generale “negativa”) o
di
“neutralizzare” il reo (prevenzione speciale “negativa”),
implicherebbe,
infatti, una strumentalizzazione dell’essere umano per contingenti
obiettivi di
politica criminale (sentenza n. 364 del 1988), contrastante con il
principio
personalistico affermato dall’art. 2 Cost..
In tale ottica, dunque, il legislatore ben può – nell’ambito
delle diverse
forme di colpevolezza – “graduare” il coefficiente psicologico di
partecipazione dell’autore al fatto, in rapporto alla natura della
fattispecie
e degli interessi che debbono essere preservati: pretendendo
dall’agente un
particolare “impegno” nell’evitare la lesione dei valori esposti a
rischio da
determinate attività. Ma in nessun caso gli è consentito
prescindere in toto dal predetto coefficiente;
altrimenti, stabilire quando ricorrano esigenze repressive atte a
giustificare
una “rinuncia” al requisito della colpevolezza – in vista della tutela
di altri
interessi di rango costituzionale, come, di norma, quelli protetti in
sede
penale – diverrebbe un apprezzamento rimesso alla mera
discrezionalità
legislativa: con conseguente svuotamento delle accennate funzioni,
“garantistica” e “fondante”, del principio di colpevolezza.
3. – Se le premesse argomentative
svolte dal rimettente risultano dunque corrette, il petitum
che egli formula si presenta, tuttavia, privo della
necessaria conseguenzialità logico-giuridica rispetto ad esse.
3.1. – Il giudice a quo,
infatti, denuncia
l’incostituzionalità dell’art. 609-sexies
cod. pen. nella sua globalità, chiedendone quindi
l’eliminazione. Una simile
pronuncia – relativamente al delitto di atti sessuali con minorenne
(nonché a
quello di corruzione di minorenne, di cui all’art. 609-quinquies
cod. pen.) – avrebbe l’effetto di rendere applicabili
all’età infraquattordicenne dell’offeso le disposizioni generali
in tema di
imputazione dolosa e di errore, di cui agli artt. 43 e 47 cod. pen.;
con la
conseguenza che l’età infraquattordicenne dovrebbe rientrare
nella componente
rappresentativa del dolo, mentre l’errore su di essa scuserebbe anche
se
colposo, non essendo prevista, per i delitti sessuali dianzi indicati,
la
punibilità a titolo di colpa.
Tale richiesta contrasta, peraltro, sul piano logico-giuridico, sia con
l’affermazione generale – contenuta nelle sentenze n. 364 e n. 1085 del
1988,
evocate dallo stesso rimettente – in forza della quale, ai fini del
rispetto
dell’art. 27, primo comma, Cost., non è indispensabile il dolo,
ma è
sufficiente la colpa; sia con lo specifico decisum
di dette sentenze e delle successive pronunce di questa Corte sul
medesimo
tema.
Nello scrutinare il disposto dell’art. 5 cod. pen., che negava
efficacia
scusante all’ignoranza della legge penale, la sentenza n. 364 del 1988
non ha,
infatti, rimosso la norma denunciata nella sua globalità; ma –
riconoscendone
per il resto il fondamento razionale – l’ha dichiarata
costituzionalmente
illegittima soltanto nella parte in cui «esclude(va)
dall’inescusabilità …
l’ignoranza inevitabile». E ciò sul presupposto che,
riguardo alle componenti
di tipo rappresentativo (quale, nella specie, la conoscenza del
divieto), la
soglia minima di compatibilità con l’art. 27, primo comma, Cost.
– cui debbono
essere allineate le norme ordinarie contrastanti con il principio da
esso
affermato – è rappresentata, per l’appunto, dall’attribuzione di
valenza
scusante all’ignoranza (o all’errore) che presenti caratteri di
inevitabilità:
giacché deve poter essere mosso all’agente almeno il rimprovero
di non aver
evitato, pur potendolo, di trovarsi nella situazione soggettiva di
manchevole o
difettosa conoscenza del dato rilevante. Soluzione, questa, che
è stata quindi
estesa dalla sentenza n. 61 del 1995 – dichiarativa della parziale
incostituzionalità dell’art. 39 del codice penale militare di
pace, in tema di
inescusabilità dell’ignoranza dei doveri inerenti allo stato
militare – anche alle
ipotesi in cui l’ignoranza verta sull’eventuale presupposto normativo
della
fattispecie incriminatrice (nella specie, norma regolamentare che
faceva
obbligo alle reclute di presentarsi nei giorni stabiliti dal manifesto
di
chiamata).
Analogamente – rispetto alle componenti di tipo volitivo della
fattispecie – la
sentenza n. 1085 del 1988 ha dichiarato costituzionalmente illegittima
la norma
incriminatrice del cosiddetto furto d’uso (art. 626, primo comma,
numero 1,
cod. pen.), nella parte in cui poneva a carico dell’agente la mancata
restituzione della cosa sottratta, quando la stessa fosse dipesa da
caso
fortuito o da forza maggiore: mentre si è escluso – con riguardo
alla omologa
figura criminosa prevista dal codice penale militare (art. 233, primo
comma,
numero 1) – che il principio di colpevolezza imponesse di riconoscere
rilievo,
a vantaggio del reo, anche alla diversa ipotesi in cui la mancata
restituzione
fosse dovuta a colpa, anziché a dolo, dell’agente stesso
(sentenza n. 179 del
1991).
3.2. – La disposizione dell’art.
609-sexies cod. pen., oggi impugnata,
è in effetti espressiva di una precisa scelta del legislatore:
quella, cioè, di
accordare una protezione particolarmente energica – in deroga alla
disciplina
generale in tema di imputazione soggettiva – ad un bene di indubbia
pregnanza,
anche nel quadro delle garanzie costituzionali (art. 31, secondo comma,
Cost.)
e di quelle previste da atti internazionali (tra cui, in particolare,
la
Dichiarazione dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea
generale delle
Nazioni Unite con risoluzione del 20 novembre 1959; la Convenzione sui
diritti
del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989; e, con specifico
riguardo
alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, da ultimo, la
Decisione
quadro 2004/68/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 22 dicembre
2003).
Tale è, in specie, la “intangibilità sessuale” di
soggetti – quali i minori
infraquattordicenni – che, in ragione della loro immaturità
fisio-psichica, per
un verso, sono considerati incapaci di una consapevole
autodeterminazione agli
atti di natura sessuale (sulla legittimità costituzionale della
relativa
presunzione, sentenza n. 151 del 1973); e, per un altro verso,
risultano
particolarmente esposti ad abusi (con riferimento al previgente art.
539 cod.
pen., sentenze n. 209 del 1983 e n. 107 del 1957).
La scelta derogatoria tiene conto segnatamente della facilità
con la quale –
non essendo, in molti casi, l’età infraquattrordicenne
dell’offeso riflessa in
modo certo nel suo aspetto esteriore – potrebbero essere allegate,
dall’autore
del fatto, vere o supposte situazioni di ignoranza o di errore, anche
colposo,
sull’età del minore: donde il timore che l’applicazione delle
regole comuni
possa determinare aree di impunità, ritenute pregiudizievoli per
una efficace
salvaguardia dell’interesse in questione. Siffatta ratio
legis vale, per
incidens, anche a dimostrare l’impraticabilità
dell’interpretazione
“correttiva” ventilata dalla parte privata nelle sue difese –
interpretazione
peraltro contraria al costante orientamento della giurisprudenza di
legittimità
circa l’originario art. 539 cod. pen. e già sostanzialmente
disattesa da questa
Corte, con riguardo alla medesima norma (sentenza n. 209 del 1983) –
stando
alla quale la disposizione censurata dovrebbe ritenersi riferita
soltanto
all’ignoranza in senso stretto (difetto di conoscenza), e non anche
all’errore
(conoscenza inesatta).
Ciò posto – essendo l’indicata scelta di politica criminale, in
sé, pienamente
razionale – la norma censurata potrebbe ritenersi lesiva del principio
di
colpevolezza non certo per il mero fatto che essa deroga agli ordinari
criteri
in tema di imputazione dolosa; ma, semmai, unicamente nella parte in
cui neghi
rilievo all’ignoranza o all’errore inevitabile sull’età.
4. – Il salto logico tra premesse e petitum
che inficia l’ordinanza di
rimessione, nel senso dianzi indicato, si riverbera negativamente sul
tessuto
argomentativo di essa, sotto un duplice profilo.
4.1. – Per un verso, il giudice
rimettente non si pone neppure il problema di verificare la
praticabilità di
una interpretazione secundum
constitutionem della disposizione denunciata: acclarando, in
specie, se sia
o meno possibile ritenere che l’ipotesi dell’ignoranza inevitabile
resti
estranea alla regola dell’inescusabilità sancita dalla
disposizione stessa. E
ciò perché il principio di colpevolezza – quale delineato
dalle sentenze n. 364
e n. 1085 del 1988 di questa Corte – si pone non soltanto quale vincolo
per il
legislatore, nella conformazione degli istituti penalistici e delle
singole
norme incriminatici; ma anche come canone ermeneutico per il giudice,
nella
lettura e nell’applicazione delle disposizioni vigenti. Aspetto,
quest’ultimo,
che viene in particolare rilievo nel caso di specie, in quanto si
tratta di
norma reiterata, nel passaggio dall’art. 539 cod. pen. all’art. 609-sexies cod. pen., dopo che già questa
Corte aveva, con le richiamate pronunce, affermato – con riferimento al
principio di personalità della responsabilità penale, di
cui all’art. 27, primo
comma, Cost. – l’esistenza nella tavola dei valori costituzionali di un
principio di necessaria colpevolezza, ragguagliato quanto meno al “minimum” dell’ignoranza o dell’errore
inevitabile: incida esso sulla norma o sugli elementi normativi del
fatto, come
nei casi esaminati dalle sentenze n. 364 del 1988 e n. 61 del 1995;
ovvero
sugli elementi del fatto stesso, come nell’ipotesi di specie.
4.2. – Per un altro verso, e
comunque, la non corretta formulazione del petitum
inficia anche l’adeguatezza della motivazione circa la
rilevanza della
questione nel giudizio a quo.
A tal riguardo, infatti, il rimettente – dopo aver riferito che
l’imputato si
era difeso asserendo di essere stato indotto in errore dalla vittima,
dichiaratasi ultraquattordicenne al momento del fatto (circostanza,
questa,
confermata anche dal minore) – assume che la questione sarebbe
rilevante in
quanto, una volta rimosso l’art. 609-sexies
cod. pen., l’imputato «potrebbe essere ammesso a provare
l’ignoranza
(dell’età), argomentando dalle dichiarazioni rese dalla stessa
parte offesa».
Tale motivazione appare chiaramente articolata sulla prospettiva di una
pronuncia in toto ablatoria della
norma denunciata, così da attribuire efficacia scusante anche
all’errore
colposo. Essa è, peraltro, certamente inidonea – nei termini in
cui è stata
formulata – a pervenire ad un’affermazione di inevitabilità
dell’ignoranza o
dell’errore sull’età: unica ipotesi nella quale, per quanto
dianzi rilevato,
questi ultimi potrebbero avere efficacia scusante.
L’ignoranza e l’errore inevitabile – per
come sono stati evocati dalla sentenza n. 364 del 1988, quale
coefficiente
minimo indispensabile e limite estremo di rimproverabilità, e
quindi di
compatibilità con il principio di personalità della
responsabilità penale, di
cui all’art. 27, primo comma, Cost. – non possono fondarsi soltanto, od
essenzialmente, sulla dichiarazione della vittima di avere
un’età superiore a
quella effettiva.
Il giudizio di inevitabilità postula, infatti, in chi si accinga
al compimento
di atti sessuali con un soggetto che appare di giovane età, un
“impegno”
conoscitivo proporzionale alla pregnanza dei valori in giuoco, il quale
non può
certo esaurirsi nel mero affidamento nelle dichiarazioni del minore:
dichiarazioni che, secondo la comune esperienza, possono bene risultare
mendaci, specie nel particolare contesto considerato. E ciò
fermo restando,
ovviamente, che qualora gli strumenti conoscitivi e di apprezzamento di
cui il
soggetto attivo dispone lascino residuare il dubbio circa l’effettiva
età –
maggiore o minore dei quattordici anni – del partner,
detto soggetto, al fine di non incorrere in responsabilità
penali, deve necessariamente astenersi dal rapporto sessuale:
giacché operare
in situazione di dubbio circa un elemento costitutivo dell’illecito (o
un
presupposto del fatto) – lungi dall’integrare una ipotesi di ignoranza
inevitabile – equivale ad un atteggiamento psicologico di colpa, se
non,
addirittura, di cosiddetto dolo eventuale.
5. – Le incongruenze e le manchevolezze dell’ordinanza di
rimessione dianzi
evidenziate impongono, conclusivamente, la declaratoria di
inammissibilità
della questione.
PQM
La
Corte costituzionale
dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art.
609-sexies del codice penale,
inserito dall’art. 7 della legge 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro
la
violenza sessuale), sollevata, in riferimento all’art. 27, primo e
terzo comma,
della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale
di
Modena con l’ordinanza indicata in epigrafe.
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