Aggiornamento - Penale

Corte Costituzionale n. 283 del 14 luglio 2000, in materia di ricusazione del giudice penale

SENTENZA
                                
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell'art. 37, comma 1, del codice di procedura
penale, promossi, nell'ambito di procedimenti di
ricusazione proposti da alcuni imputati, con
ordinanze emesse il 22 aprile 1999 dalla Corte di
appello di Torino e il 23 febbraio 1999 dalla
Corte di appello di Napoli, iscritte al n. 396 del
registro ordinanze 1999 e al n. 94 del registro
ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie
speciale, dell'anno 1999 e n. 11, prima serie
speciale, dell'anno 2000.
 Visti gli atti di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
 udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2000
il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
 
                     Ritenuto in fatto
                                
1. - Con ordinanza in data 22 aprile 1999 (r.o. n.
396 del 1999), la Corte di appello di Torino,
investita della decisione in merito alla
dichiarazione di ricusazione dei componenti
l’intero collegio di altra sezione della medesima
Corte, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
primo comma, e 24 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 37 del codice
di procedura penale, «nella parte in cui non
prevede quale causa di ricusazione il fatto che il
giudice abbia già manifestato il proprio parere
sull’oggetto del processo nell’esercizio di
funzioni giudiziarie nel corso di un diverso
procedimento». 
La Corte rimettente premette che i giudici
componenti il collegio ricusato si erano già
occupati, in sede di impugnazione avverso decreti
di applicazione di misure di prevenzione, della
stessa vicenda (concernente attività delittuose, a
sfondo mafioso, svolte in relazione a pratiche di
acquisti di terreni, rilascio di concessioni e
attività edilizie in un’area del Comune di
Bardonecchia) della quale erano attualmente
investiti quali giudici di appello in un
procedimento penale, ed avevano, nell’ambito di
quelle precedenti funzioni, espresso valutazioni e
giudizi di merito «inerenti agli stessi fatti ed
agli stessi soggetti che avrebbero dovuto essere
da loro giudicati» nel procedimento penale. 
Stante tale situazione, i componenti del collegio,
allora in composizione parzialmente diversa,
avevano presentato dichiarazione di astensione,
ritenendo che ricorresse l’ipotesi di cui all’art.
36, comma 1, lettera g), in relazione all’art. 34
cod. proc. pen.: la dichiarazione era stata però
respinta dal presidente della Corte di appello, in
base al rilievo che non erano nella specie
ravvisabili i presupposti di cui alla disposizione
evocata. In una successiva udienza era stata poi
presentata dichiarazione di ricusazione da parte
degli imputati, ai sensi dell’art. 37, comma 1,
lettera a), in relazione all’art. 36, comma 1,
lettera c), cod. proc. pen., e, in subordine,
eccezione di illegittimità costituzionale
dell’art. 37 cod. proc. pen. in riferimento agli
artt. 3 e 24 Cost.
Nel merito, la Corte rimettente osserva che la
dichiarazione di ricusazione è da considerare
inammissibile, in quanto proposta al di fuori dei
casi tassativamente previsti dall’art. 37 cod.
proc. pen.
Infatti, non può venire in questione l’ipotesi di
cui all’art. 36, comma 1, lettera g), cod. proc.
pen. (a suo tempo addotta come causa di
astensione), poiché non ricorre alcuna delle cause
di incompatibilità previste dall’art. 34 cod.
proc. pen., nemmeno considerando quanto statuito
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 371
del 1996, dato che le precedenti valutazioni
espresse sullo stesso fatto nel procedimento di
prevenzione non sono contenute in una sentenza, ma
in un provvedimento avente natura di decreto; né
alcuna delle cause contemplate dalle lettere a),
b), d), e), f) del medesimo art. 36, comma 1,
perché concernenti situazioni del tutto diverse da
quella in esame; né la causa di cui all’art. 37,
comma 1, lettera b), cod. proc. pen., perché non
si è verificata nella specie una manifestazione
"indebita" del proprio convincimento da parte dei
giudici ricusati; né quella, infine, di cui alla
lettera c) del menzionato comma 1 dell’art. 36, su
cui si fonda la dichiarazione di ricusazione,
atteso che nel caso di specie il convincimento
pregiudicante non è stato espresso "fuori
dell’esercizio delle funzioni giudiziarie", ma
nell’ambito di un diverso procedimento, e quindi
nell’esercizio di tali funzioni.
Potrebbe sostenersi, prosegue la rimettente, che
l’avere il giudice, nell’esercizio delle proprie
funzioni, in precedenza manifestato legittimamente
il proprio convincimento sull’oggetto del
procedimento integri una "grave ragione di
convenienza", tale da legittimarlo alla astensione
ex art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen.;
ma questa ipotesi non è richiamata dall’art. 37
cod. proc. pen., e non è quindi idonea a fondare
una dichiarazione di ricusazione.
1.1. - Ciò posto, ad avviso del giudice a quo la
questione di costituzionalità dedotta dagli
imputati appare rilevante e non manifestamente
infondata.
Quanto al primo aspetto, la Corte di appello
sottolinea che ove la questione fosse accolta, si
determinerebbe una nuova ipotesi di ricusazione
perfettamente aderente al caso di specie, avendo
tutti i componenti del collegio ricusato già
manifestato il proprio convincimento sui fatti
oggetto delle imputazioni sottoposte al loro
giudizio in sede di appello.
Quanto alla non manifesta infondatezza, la
rimettente preliminarmente osserva che sia dalle
sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997 della Corte
costituzionale, sia dalla successiva sentenza n.
351 del 1997, paiono ricavarsi, per chi debba
vagliare questioni di costituzionalità attinenti
al principio di imparzialità del giudice, due
indicazioni: la prima è che si deve abbandonare la
via di una richiesta di intervento sull’art. 34
cod. proc. pen. qualora il pregiudizio alla
imparzialità venga ravvisato in ipotesi nelle
quali il parere del giudice sia stato manifestato
in un diverso procedimento; la seconda è che, in
tali ipotesi, ove la fattispecie in esame non sia
riconducibile ad alcuno dei casi in cui si
articola la disciplina della astensione e della
ricusazione, tali istituti, e non quello della
incompatibilità, devono essere sottoposti al
giudizio di costituzionalità. 
Nel caso in esame, prosegue il giudice a quo, si
verifica una possibile violazione del principio
del giusto processo, sotto il profilo della
imparzialità del giudice, «in quanto tutti i
componenti del Collegio giudicante potrebbero
apparire condizionati dalle precedenti valutazioni
che essi hanno legittimamente espresso, nei
confronti dei fatti oggetto del processo e degli
attuali imputati, in occasione della loro
partecipazione ad altri collegi che ebbero a
pronunciarsi, in differenti procedimenti in
materia di applicazione di misure di prevenzione».
Poiché la situazione in esame non è contemplata
tra i casi tassativi di cui all’art. 37 cod. proc.
pen., è configurabile una violazione dell’art. 24
Cost., in quanto il diritto di difesa degli
imputati è in primo luogo diritto ad avere un
processo giusto, da parte di un giudice terzo e
imparziale.
D’altro canto, l’omessa previsione quale causa di
ricusazione dell’ipotesi in cui il giudice abbia
manifestato il proprio convincimento sui fatti
oggetto dell’imputazione nell’esercizio delle
proprie funzioni e nel corso di un diverso
procedimento integra anche una violazione del
principio di eguaglianza di cui all’art. 3, primo
comma, Cost., data la «ingiustificata ed
irragionevole disparità di trattamento rispetto
all’imputato nei cui confronti il giudice abbia
manifestato, con riferimento ai fatti oggetto
dell’imputazione, il proprio parere come privato
ovvero ciò abbia fatto, indebitamente,
nell’esercizio delle proprie funzioni»; tale
rilievo, ad avviso della Corte rimettente, appare
pienamente confortato dalle affermazioni contenute
nella sentenza della Corte costituzionale n. 308
del 1997, ove si sottolinea che la precedente
manifestazione del convincimento del giudice
sull'oggetto del procedimento determina un
identico pregiudizio della imparzialità sia che si
tratti di manifestazione indebita, sia che sia
stata legittimamente resa in un diverso
procedimento, anche non penale.
1.2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
che la questione sia dichiarata inammissibile o
infondata.
Si osserva al riguardo che la diversità
dell’oggetto del procedimento di prevenzione e di
quello penale, riconosciuta anche dalla Corte
rimettente, implica la mancanza, nella situazione
prospettata, del presupposto della identità della
valutazione sugli stessi fatti, il che esclude un
pericolo per la imparzialità del giudice anche nel
quadro degli istituti della astensione e
ricusazione.
2. - Con ordinanza in data 8 marzo 2000 (r.o n. 94
del 2000), la Corte di appello di Napoli,
investita della decisione in merito alla
dichiarazione di ricusazione del presidente e del
giudice a latere della Corte di assise di S. Maria
Capua Vetere, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3 e 24 della Costituzione, analoga questione
di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma
1, cod. proc. pen., «nella parte in cui non
prevede, tra le ipotesi di ricusazione, anche
quella di situazioni pregiudicanti riferite a
rapporti processuali che non investono lo stesso
procedimento».
La Corte di appello premette che i magistrati
togati della Corte di assise, ricusati ai sensi
dell'art. 37, comma 1, lettera a), in relazione
agli artt. 36, comma 1, lettera g), e 34 cod.
proc. pen., da vari imputati del delitto di cui
all’art. 416-bis cod. pen., si erano già occupati,
in altri procedimenti di prevenzione o penali,
della stessa vicenda - concernente l'esistenza di
una associazione di tipo mafioso operante nella
zona di Caserta e le attività delittuose ad essa
connesse - della quale si trovano attualmente
investiti in sede di giudizio di assise, ed
avevano, nell’ambito di quelle precedenti
funzioni, espresso valutazioni, sia pure in alcuni
casi solo in via incidentale, sui fatti divenuti
poi oggetto del procedimento penale e sulla
specifica posizione, nell’ambito del sodalizio di
tipo mafioso, di alcuni degli imputati che avevano
proposto dichiarazione di ricusazione.
In particolare, con riferimento alle dichiarazioni
di ricusazione motivate in relazione alle funzioni
giudicanti esercitate da uno dei magistrati
ricusati in altro procedimento penale, la Corte di
appello ritiene che la circostanza che questi
aveva concorso a pronunciare la sentenza di
condanna di uno dei ricusanti per il reato di
tentato omicidio, aggravato dall’essere il fatto
commesso «al fine di agevolare l’associazione
camorristica facente capo a S.F. nel controllo del
territorio e delle illecite attività», non
consente dubbi sulla «configurabilità di
un’ipotesi di prevenzione per quel che concerne il
[ricusante] dal momento che nella sentenza non
solo si riconosce la sua responsabilità nella
commissione del reato ascrittogli, ma si
considera, sia pure incidentalmente ed ai soli
fini dell’aggravante contestata, ma comunque alla
stregua di un rigoroso ragionamento probatorio
[...] come esistente l’associazione camorristica
"clan dei casalesi", quella stessa che sarà
oggetto di valutazione (ai fini della conseguente
decisione) nel giudizio in corso dinanzi al
Tribunale di S. Maria Capua Vetere.»
Quanto all’esercizio da parte dei giudici ricusati
di funzioni di giudizio nell’ambito di
procedimenti di prevenzione a carico di soggetti
indiziati di appartenere ad associazioni mafiose,
il giudice a quo osserva, in via preliminare, che
in tali procedimenti, se è consentito, per quanto
attiene all’aspetto dell’appartenenza alla
associazione, una valutazione meno rigorosa sul
terreno probatorio rispetto a quella richiesta nel
procedimento penale, non altrettanto può dirsi con
riferimento all’accertamento dell’esistenza
dell’associazione, che va, invece, compiutamente
provata. Sicché si verifica una situazione di
pregiudizio per l’imparzialità quando lo stesso
giudice, che in tali procedimenti ha affermato,
sia pure incidentalmente, l’esistenza di
un’associazione di tipo mafioso e ha nel contempo
valutato la posizione di determinati destinatari
della misura di prevenzione, ritenendone
l'appartenenza a detta associazione, sia
successivamente chiamato a giudicare in un
procedimento penale della responsabilità di quegli
stessi soggetti per il reato di cui all’art.
416-bis cod. pen. 
 Tuttavia, prosegue la Corte rimettente, la
situazione in esame, in cui la ragione del
pregiudizio alla imparzialità del giudice si
collega a funzioni esercitate in altri
procedimenti, non rientra tra i casi di
incompatibilità ex art. 34 cod. proc. pen.
(neppure in forza della sentenza n. 371 del 1996
della Corte costituzionale, non ricorrendo nella
specie il presupposto della endoprocessualità così
detta sostanziale). D’altra parte, non può farsi
applicazione dell’istituto della ricusazione,
posto che l’invocato art. 36, comma 1, lettera g),
richiamato dall’art. 37, comma 1, lettera a), cod.
proc. pen., rinvia a sua volta ai casi di
incompatibilità. Infine, in base alla previsione
dell’art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc.
pen., la ricusazione può operare solo in caso di
manifestazione indebita del convincimento da parte
del giudice in relazione a un procedimento in
corso alla decisione del quale sia chiamato a
partecipare, circostanza questa che non ricorre
nel caso in esame.
2.1. - In siffatta situazione la mancata
considerazione tra i casi di ricusazione di
«situazioni pregiudicanti riferite a rapporti
processuali che non investono lo stesso
procedimento» appare, alla rimettente, in
contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.
 Da un lato, infatti, l’imputato, in presenza di
identica condizione di prevenzione del giudicante
(per avere questi anticipato legittimamente il suo
convincimento) riceve tutela solo attraverso
l’istituto dell’astensione, a norma dell’art. 36,
comma 1, lettera h), cod. proc. pen., mentre,
qualora il giudice non ritenga di astenersi,
rimane precluso il ricorso alla ricusazione, dato
che l’art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc.
pen. prende in considerazione solo la indebita
manifestazione del proprio convincimento.
 Dall’altro, tale preclusione si pone in contrasto
con l’art. 24 Cost., risultando menomato il
diritto di difesa, «di cui l’esercizio del diritto
alla ricusazione costituisce senza dubbio una
delle multiformi manifestazioni». 
 2.2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, riportandosi
integralmente al contenuto dell’atto di intervento
depositato con riferimento al giudizio di
costituzionalità promosso con l’ordinanza iscritta
al n. 396 del r.o. del 1999. 
 
                  Considerato in diritto
                                
1. - La questione di legittimità costituzionale,
sollevata dalle Corti di appello di Torino (r.o.
n. 396 del 1999) e di Napoli (r.o. n. 94 del
2000), chiamate a decidere sulla dichiarazione di
ricusazione nei confronti, rispettivamente, di
alcuni giudici di una diversa sezione della Corte
di appello e dei giudici togati di una Corte di
assise, concerne l'art. 37 del codice di procedura
penale, nella parte in cui non prevede che possa
essere ricusato il giudice che abbia già
manifestato il proprio parere sull'oggetto del
processo nell'esercizio di funzioni giudiziarie
svolte in un diverso procedimento. 
In entrambe le ordinanze l'attività pregiudicante
viene individuata nella partecipazione del giudice
al procedimento di prevenzione, quella
pregiudicata nell'essere il medesimo giudice
investito delle funzioni di giudizio in un
procedimento penale avente ad oggetto i medesimi
fatti. 
In particolare, con riferimento all'ordinanza
iscritta al n. 396 del r.o. del 1999, i giudici
ricusati, ora chiamati alle funzioni di giudizio
di appello, in precedenza, nella qualità di
componenti del collegio chiamato a decidere sui
ricorsi avverso decreti di applicazione di misure
di prevenzione, avevano espresso giudizi e
valutazioni di merito «sulla posizione» degli
attuali imputati circa i «fatti ai medesimi
attribuiti in imputazione»; in relazione
all'ordinanza iscritta al n. 94 del r.o. del 2000,
i giudici ricusati, ora chiamati alle funzioni di
giudizio quali componenti togati di una Corte di
assise, in precedenza, nella qualità di componenti
di diversi collegi del tribunale in procedimenti
per l'applicazione di misure di prevenzione,
avevano accertato l'esistenza di una associazione
di tipo mafioso e preso in esame, sia pure in via
incidentale, la posizione di alcuni destinatari
delle misure, che ora figurano come imputati per
il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. e per
reati connessi.
Nell'ordinanza n. 94 del r.o. del 2000 la Corte di
appello rimettente rileva inoltre che un giudice è
stato ricusato anche per aver esercitato funzioni
giudicanti in altro procedimento penale; in
particolare per avere, nella sentenza conclusiva
di tale procedimento, affermato la responsabilità
dell'imputato per il reato di tentato omicidio
aggravato dall'essere il fatto commesso al fine di
agevolare un'associazione camorrista, accertando,
sia pure incidentalmente e ai soli fini
dell’aggravante contestata, l'esistenza della
associazione criminosa oggetto di valutazione a
carico del medesimo soggetto nel successivo
giudizio penale.
Con argomentazioni sostanzialmente analoghe, le
Corti di appello rimettenti denunciano il
contrasto della norma censurata con gli artt. 3,
primo comma, e 24 della Costituzione. In ordine al
primo parametro, viene dedotta l'ingiustificata e
irragionevole disparità del trattamento riservato
all'imputato nel caso in cui il giudice abbia
legittimamente espresso il suo convincimento in un
diverso procedimento - situazione in cui il
diritto dell'imputato ad un giudice terzo e
imparziale riceve tutela solo in quanto il giudice
ritenga di astenersi - rispetto alle identiche
situazioni di pregiudizio per il principio di
imparzialità, previste dalla legge come casi di
ricusazione, nelle ipotesi in cui il giudice abbia
manifestato il suo parere sull'oggetto del
procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni
giudiziarie ovvero abbia indebitamente manifestato
il proprio convincimento sui fatti oggetto
dell'imputazione nell'esercizio delle funzioni.
Sotto il profilo della violazione dell'art. 24
Cost., i rimettenti rilevano che l'omessa
previsione di una causa di ricusazione nei casi in
cui la valutazione pregiudicante sia stata
espressa nell'esercizio di funzioni giudiziarie
svolte in un diverso procedimento lede il diritto
di difesa degli imputati ad avere un giusto
processo da parte di un giudice terzo e
imparziale.
Poiché le ordinanze sollevano identica questione,
deve essere disposta la riunione dei relativi
giudizi di costituzionalità.
2. - La questione è fondata.
3. - Nel prospettare la questione di legittimità
costituzionale, i rimettenti menzionano le
sentenze di questa Corte nn. 306, 307 e 308 del
1997, e le successive sentenze nn. 331 e 351 dello
stesso anno che ad esse si richiamano, facendo
propria la ricostruzione delineata da questa Corte
circa le sfere di applicazione degli istituti
della incompatibilità e della
astensione-ricusazione e la funzione da essi
svolta per assicurare una esaustiva tutela del
principio del giusto processo, di cui la garanzia
dell'imparzialità e della neutralità del giudice
costituisce uno dei più rilevanti aspetti. 
In quelle decisioni, ed in numerose altre
successive, sino alla recente sentenza n. 113 del
2000, la Corte - nel ribadire che la disciplina in
materia deve essere comunque idonea ad evitare che
il giudice chiamato a svolgere funzioni di
giudizio possa essere, o anche solo apparire,
condizionato da precedenti valutazioni espresse
sulla medesima res iudicanda, tali da esporlo alla
forza della prevenzione derivante dalle attività
giudiziarie precedentemente svolte - ebbe in
particolare a rilevare che la «scelta del
legislatore di qualificare una situazione come
causa di incompatibilità, ovvero di astensione e
di ricusazione, discende [...] dalla possibilità o
dalla impossibilità di valutarne preventivamente e
in astratto l'effetto pregiudicante per
l'imparzialità del giudice penale» (sentenza n.
308 del 1997).
Le situazioni pregiudizievoli per l'imparzialità
del giudice riconducibili all'istituto
dell'incompatibilità operano infatti all'interno
del medesimo procedimento in cui interviene la
funzione pregiudicata e si riferiscono ad atti o
funzioni che hanno «di per sé effetto
pregiudicante, a prescindere dallo specifico
contenuto dell'atto stesso o dalle modalità con
cui la funzione è stata esercitata» (sentenza n.
308 del 1997); le incompatibilità trovano, dunque,
la loro ratio nell'esigenza obiettiva, attinente
alla stessa logica del processo, «di preservare
l'autonomia e la distinzione della funzione
giudicante, in evidente relazione all'esigenza di
garanzia dell'imparzialità di quest'ultima,
rispetto ad attività compiute in gradi e fasi
anteriori del medesimo processo» (sentenza n. 306
del 1997). Ne deriva che le situazioni di
incompatibilità, essendo astrattamente tipicizzate
dal legislatore, sono prevedibili e quindi
prevenibili e, in quanto tali, postulano un onere
di organizzare preventivamente la terzietà del
giudice, che viene così a «manifestarsi, prima
ancora che come diritto delle parti ad un giudice
terzo, come modo di essere della giurisdizione
nella sua oggettività» (sentenza n. 307 del 1997).
 Il carattere di fondo delle situazioni di
incompatibilità - di essere, cioè, sempre riferite
a rapporti che interessano il medesimo
procedimento - non è contraddetto, come prendono
atto gli stessi rimettenti, dalla sentenza n. 371
del 1996: tale decisione si riferisce, infatti,
alla specifica ipotesi in cui la valutazione
pregiudicante, pur essendo stata espressa in un
procedimento penale formalmente diverso, riguarda
una vicenda processuale sostanzialmente unitaria,
che avrebbe potuto, ed anzi normalmente avrebbe
dovuto essere giudicata nel medesimo contesto
processuale (v. in tale senso sentenze nn. 306,
307 e 308 del 1997, nonché, per un'ipotesi
analoga, in cui la precedente valutazione
pregiudicante è stata espressa in diverso
procedimento avente per oggetto il medesimo fatto
storico successivamente addebitato allo stesso
imputato, sentenza n. 241 del 1999).  
Gli istituti della astensione-ricusazione sono
invece caratterizzati dal riferirsi a situazioni
pregiudizievoli per l'imparzialità della funzione
giudicante - ad eccezione, evidentemente, di
quelle che hanno come presupposto i casi di
incompatibilità - che normalmente preesistono al
procedimento (art. 36, comma 1, lettere a, b, d,
e, f, cod. proc. pen.), ovvero si collocano
comunque al di fuori di esso (art. 36, comma 1,
lettera c, cod. proc. pen.). Anche l'ipotesi di
ricusazione descritta dall'art. 37, comma 1,
lettera b), cod. proc. pen. non si sottrae a
questo criterio di massima: il giudice che
nell'esercizio delle funzioni ha manifestato
indebitamente il proprio convincimento sui fatti
oggetto dell'imputazione opera - per usare le
espressioni della prevalente giurisprudenza di
legittimità - fuori della sede processuale e dei
compiti che gli sono propri.
Risultano pertanto evidenti le ragioni per cui le
situazioni che danno luogo alla
astensione-ricusazione debbono essere sempre
oggetto di una puntuale valutazione di merito, che
consenta, previa verifica in concreto
dell'eventuale effetto pregiudicante, di rendere
operante la tutela del principio del giusto
processo: sarebbe infatti «impossibile pretendere
dal legislatore uno sforzo di astrazione e di
tipicizzazione idoneo a individuare a priori tutte
le situazioni in cui il giudice, avendo esercitato
funzioni giudiziarie in un diverso procedimento,
potrebbe poi venire a trovarsi in una situazione
di incompatibilità nel successivo procedimento
penale» (sentenza n. 308 del 1997). Ove tale onere
venisse imposto al legislatore, «l'intera materia
delle incompatibilità, dispersa in una casistica
senza fine, diverrebbe refrattaria a qualsiasi
tentativo di amministrazione mediante atti di
organizzazione preventiva» (sentenza n. 307 del
1997). 
Ne emerge un sistema che si propone di apprestare
la necessaria tutela del principio del giusto
processo in tutti i casi in cui può risultare
compromessa l'imparzialità del giudice: le ragioni
del pregiudizio sono infatti oggettivamente
identiche sia quando il giudice ha manifestato il
proprio convincimento all'interno del medesimo
procedimento mediante un atto o l'esercizio di una
funzione a cui il legislatore attribuisce
astrattamente e preventivamente effetti
pregiudicanti, sia quando la valutazione di merito
è stata espressa in un diverso procedimento
(ovvero nel medesimo procedimento, ma mediante un
atto che non presuppone una tale valutazione) e
gli effetti pregiudicanti debbano quindi essere
accertati in concreto, grazie agli istituti
dell'astensione e della ricusazione.
L'esigenza di attuare in forma esaustiva la
garanzia, inerente al principio del giusto
processo, di un giudizio affidato a un giudice non
condizionato da precedenti valutazioni, ha trovato
riscontro nelle già menzionate sentenze nn. 306,
307 e 308 del 1997: nel dichiarare inammissibili
le questioni di legittimità costituzionale allora
sollevate, in riferimento all'art. 34 cod. proc.
pen., in relazione a valutazioni pregiudicanti a
vario titolo espresse in un diverso procedimento,
la Corte ebbe a segnalare che, ove il pregiudizio
per l'imparzialità del giudice non fosse
riconducibile ad alcuna delle ipotesi di
astensione o di ricusazione già previste
dall'ordinamento, la tutela del giusto processo
avrebbe potuto essere assicurata sollecitando un
intervento volto ad ampliare l'ambito di
applicazione di tali istituti. 
Un intervento di tale natura forma appunto
l'oggetto della questione di legittimità
costituzionale sottoposta al giudizio di questa
Corte.
4. - Nelle situazioni di fatto prospettate dai
rimettenti sono indubbiamente riscontrabili
profili di pregiudizio per l'imparzialità e la
neutralità della funzione giudicante.
Da entrambe le ordinanze di rimessione emerge,
infatti, che i giudici sono stati ricusati - ed in
alcuni casi hanno presentato senza esito
dichiarazione di astensione - per avere in
precedenza espresso, nell'ambito di un diverso
procedimento relativo all'applicazione della
misura di prevenzione della sorveglianza speciale
della pubblica sicurezza, valutazioni e giudizi di
merito sulla posizione dei destinatari delle
misure di prevenzione, in relazione ai medesimi
fatti loro attribuiti nel giudizio penale, ovvero
per avere accertato, nell'ambito del procedimento
di prevenzione, l'esistenza dell'associazione di
stampo mafioso e la partecipazione ad essa dei
medesimi soggetti ora sottoposti a giudizio penale
per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen.
Al riguardo, questa Corte ha già avuto occasione
di affermare che il pregiudizio per
l'imparzialità-neutralità del giudicante può
verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento
penale e quello di prevenzione, sia quando la
valutazione pregiudicante sia stata espressa nel
primo in sede di accertamento dei gravi indizi di
colpevolezza, quale condizione di applicabilità
delle misure cautelari (sentenza n. 306 del 1997),
sia quando il rapporto di successione temporale
tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata
sia invertito, per avere il giudice, chiamato a
pronunciarsi sulla responsabilità penale di un
imputato del delitto di associazione di stampo
mafioso, già espresso nell'ambito del procedimento
di prevenzione una valutazione sull'esistenza
dell'associazione e sull'appartenenza ad essa
della persona imputata nel successivo processo
penale (ordinanza n. 178 del 1999).
Le questioni, allora sollevate con riferimento
all'art. 34 cod. proc. pen., vennero ritenute
inammissibili perché la situazione di pregiudizio
avrebbe dovuto essere inquadrata nell'area di
applicazione degli istituti dell'astensione e
della ricusazione. In questa direzione si muovono,
appunto, gli attuali rimettenti, i quali lamentano
che la situazione di pregiudizio prospettata non
rientra in alcune delle cause di ricusazione
contemplate dall'art. 37 cod. proc. pen.
In effetti, nel caso di specie il pregiudizio per
l'imparzialità-neutralità del giudice non è
riconducibile, per le ragioni sinora esposte, ai
casi di incompatibilità (cui fa riferimento, quali
altrettante cause di astensione, la lettera g del
comma 1 dell'art. 36 cod. proc. pen., richiamata
dall'art. 37, comma 1, lettera a, cod. proc.
pen.), ma neppure rientra nelle cause di
astensione e di ricusazione riferite a precedenti
manifestazioni del convincimento del giudice
sull'oggetto del procedimento o sui fatti oggetto
dell'imputazione: non nella causa di astensione di
cui alla lettera c) del comma 1 dell'art. 36 cod.
proc. pen. (richiamata quale causa di ricusazione
dall'art. 37, comma 1, lettera a, cod. proc.
pen.), in quanto relativa a consigli o pareri
sull'oggetto del procedimento espressi fuori
dell'esercizio delle funzioni giudiziarie; non
nella causa di ricusazione di cui all'art. 37,
comma 1, lettera b), cod. proc. pen., che
presuppone una manifestazione del convincimento
sui fatti oggetto dell'imputazione espressa
indebitamente nell'esercizio delle funzioni
giudiziarie, mentre nelle situazioni sottoposte al
giudizio di questa Corte le valutazioni
pregiudicanti rientrano nelle funzioni proprie dei
giudici poi ricusati. 
Le esigenze di tutela del principio del giusto
processo non possono d'altro canto essere
assicurate soltanto dall'obbligo del giudice di
astenersi ove ricorrano "altre gravi ragioni di
convenienza", per la ragione che tale causa di
astensione, prevista dall'art. 36, comma 1,
lettera h), cod. proc. pen., non rientra tra
quelle che l'art. 37, comma 1, lettera a), cod.
proc. pen. indica tra i motivi di ricusazione.
Anche dopo che questa Corte ha affermato che le
"altre gravi ragioni di convenienza" si
riferiscono non solo a situazioni di pregiudizio
per l'imparzialità del giudice derivanti da
ragioni extraprocessuali, cioè di carattere
personale e collegate alla posizione del giudice
uti privatus, ma si estendono, in attuazione del
principio del giusto processo, ai casi in cui
l'imparzialità del giudice risulti compromessa
dallo svolgimento di precedenti attività
giudiziarie (sentenza n. 113 del 2000), la tutela
del principio non sarebbe comunque esaustiva, in
quanto subordinata all'iniziativa del giudice. 
Sussistono quindi i presupposti che la Corte aveva
a suo tempo indicato quali condizioni per un
eventuale intervento volto ad estendere l'area di
applicazione degli istituti dell'astensione e
della ricusazione a situazioni non espressamente
previste dal codice di rito, ma tuttavia capaci di
esprimere analoghi effetti pregiudicanti per
l'imparzialità-neutralità del giudice. In
particolare, l'intervento è imposto dai parametri
costituzionali a cui la giurisprudenza di questa
Corte si è richiamata nell'affermare l'operatività
del principio del giusto processo in tema di
garanzia dell'imparzialità del giudice (v., ad
esempio, sentenze nn. 113 del 2000, 241 del 1999,
290 del 1998, 346 e 311 del 1997, 155 e 131 del
1996, 432 del 1995); principio che ha trovato
esplicita menzione nell'art. 111, secondo comma,
Cost. (come modificato dall'art. 1, comma 1, della
legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), là
dove viene enunciata la regola che ogni processo
si svolge davanti a un giudice terzo e imparziale.
5. - Le medesime considerazioni valgono per la
situazione prospettata nell'ordinanza di
rimessione della Corte di appello di Napoli,
relativa al pregiudizio che deriverebbe dall'avere
uno dei giudici ricusati esercitato funzioni
giudicanti in altro procedimento penale per il
reato di tentato omicidio aggravato dal fine di
agevolare l'attività dell'associazione di cui
all'art. 416-bis cod. pen., conclusosi con la
condanna della persona ora imputata del delitto di
partecipazione a quella medesima associazione di
stampo mafioso la cui esistenza è stata già
valutata sub specie di circostanza aggravante.
Non vi è dubbio, infatti, che il giudizio sulla
sussistenza dell'aggravante può in concreto
presupporre una valutazione sul merito non solo
dell'esistenza dell'associazione criminosa, ma
anche della partecipazione dell'imputato a tale
associazione.
6. - In linea con la prospettazione dei giudici
rimettenti, la sede più appropriata per colmare,
mediante una disposizione di chiusura del sistema
delle incompatibilità e
dell'astensione-ricusazione, la denunciata carenza
di tutela del principio del giusto processo, è
l'art. 37 cod. proc. pen., specie dopo che, come
sopra ricordato, la sentenza n. 113 del 2000 ha
affermato che le gravi ragioni di convenienza di
cui all'art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc.
pen. non possono non estendersi al pregiudizio che
discende da attività processuali svolte in
precedenza, così imponendo anche in tali
situazioni l'obbligo del giudice di astenersi. 
Il confronto con le due cause di ricusazione e di
astensione disciplinate dagli artt. 37, comma 1,
lettera b), e 36, comma 1, lettera c), cod. proc.
pen., che all'apparenza presentano maggiori
affinità con le fattispecie dedotte in giudizio,
induce a formulare l'intervento di questa Corte in
maniera del tutto autonoma, anche per evitare che
le esigenze di tutela del giusto processo possano
in qualche modo essere condizionate dalla
stratificazione giurisprudenziale e dottrinale in
materia. In particolare, è necessario tenere
presente che nelle ipotesi oggetto del presente
giudizio di costituzionalità le precedenti
valutazioni pregiudicanti espresse dal giudice in
un diverso procedimento rientrano legittimamente e
doverosamente nell'esercizio delle funzioni
giudiziarie. 
Sulla base di queste premesse, deve essere
dichiarata l'illegittimità costituzionale
dell'art. 37 cod. proc. pen., nella parte in cui
non riconosce alle parti la facoltà di ricusare il
giudice che in un diverso procedimento, anche non
penale, abbia espresso una valutazione di merito
sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo
soggetto.
Al riguardo, va rilevato che non è sufficiente, ai
fini della individuazione dell'attività
pregiudicante, che il giudice abbia in precedenza
avuto mera cognizione dei fatti di causa, raccolto
prove, ovvero si sia espresso solo incidentalmente
e occasionalmente su particolari aspetti della
vicenda processuale sottoposta al suo giudizio (v.
la costante giurisprudenza costituzionale in
materia e, in particolare, le sentenze nn. 131 e
155 del 1996 e le decisioni in queste richiamate,
nonché, da ultimo, le ordinanze nn. 444, 153, 152,
135 e 29 del 1999, 206 e 203 del 1998 e la
sentenza n. 364 del 1997).
L'effetto pregiudicante non può, inoltre, essere
limitato ai soli casi in cui la valutazione di
merito sia contenuta in una sentenza, in quanto il
giudice può esprimersi nella forma del decreto,
come nella ipotesi - oggetto del presente giudizio
- del procedimento di prevenzione, ovvero nelle
altre forme eventualmente previste dal diverso
procedimento in cui sia intervenuta la valutazione
pregiudicante.
La funzione pregiudicata va a sua volta
individuata in una decisione attinente alla
responsabilità penale, essendo necessario, perché
si verifichi un pregiudizio per l'imparzialità,
che il giudice sia chiamato ad esprimere una
valutazione di merito collegata alla decisione
finale della causa. 
Si deve comunque precisare che, alla stregua dei
rapporti sistematici tra incompatibilità e cause
di astensione-ricusazione, queste ultime, ove si
sostanzino nella manifestazione di un
convincimento espresso in un diverso procedimento,
sono caratterizzate dalla loro non idoneità ad
essere tipicizzate preventivamente dal
legislatore, in quanto la loro stessa natura
impone che sia il giudice, nell'ambito della
cornice generale delineata dalla legge, ad
accertare in concreto e caso per caso l'effetto
pregiudicante per l'imparzialità. Sarà dunque
l'elaborazione giurisprudenziale, così come è
avvenuto per le cause di astensione e di
ricusazione già previste nel codice, a definire i
vari casi di applicazione di questa causa di
ricusazione.
 
                     PER QUESTI MOTIVI
                  LA CORTE COSTITUZIONALE
 
riuniti i giudizi, 
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.
37, comma 1, del codice di procedura penale, nella
parte in cui non prevede che possa essere ricusato
dalle parti il giudice che, chiamato a decidere
sulla responsabilità di un imputato, abbia
espresso in altro procedimento, anche non penale,
una valutazione di merito sullo stesso fatto nei
confronti del medesimo soggetto.
 
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6
luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Guido NEPPI MODONA, Redattore
Depositata in cancelleria il 14 luglio 2000
 

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