Cassazione
penale , sez. un. , 26 marzo 2003 , n. 25887,sulla
successione delle
leggi penali nel tempo in materia di reati societari
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Fatto
1. Il Tribunale di Benevento ha giudicato
con il rito
abbreviato <A. G.>, <M. G. M.> e <A. O.> e, con
riferimento
al fallimento di una società di fatto, ha condannato <G.>
e la <M.>
per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo A),
<G.> anche
per i reati di omesso deposito dei bilanci e delle altre scritture
contabili
(art. 220 l.
fall.) e di false comunicazioni sociali (capi B e C) e <O.> per
il reato
di bancarotta fraudolenta patrimoniale in concorso con i primi due, per
aver
acquistato simulatamente l'impresa di <G.> (capo E); ha inoltre
condannato <O.>, con riferimento al fallimento di un'altra
società, per
il reato di bancarotta fraudolenta impropria (artt. 223, comma 2, n. 1 l. fall. e 2621 c.c.) per
l'esposizione
di un debito inesistente relativo all'acquisto dell'impresa di
<G.> (capo
F).
La Corte di
appello di
Napoli con sentenza del 7 maggio 2001 ha confermato
integralmente la decisione del tribunale.
Gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione con due atti di
impugnazione: uno relativo a tutti e tre i ricorrenti e un altro,
presentato da
un diverso difensore, relativo al solo <O.>.
Il ricorso comune si articola in numerosi motivi: con il primo è
stato dedotto
che, con sentenza n. 753-2001, il Tribunale di Benevento, accogliendo
l'opposizione proposta da <G.> e dalla <M.>, ha revocato il
fallimento della società di fatto e con esso il fallimento dei
singoli soci e
che ciò comporta l'assoluzione per l'insussistenza del fatto
dalle imputazioni
collegate con tale fallimento; con il secondo è stata denunciata
la mancanza di
motivazione relativamente alle ipotesi di bancarotta, perché
secondo i
ricorrenti la corte di appello non ha preso in specificamente in esame
i
rilievi critici mossi alla sentenza di primo grado; con il terzo,
riguardante
solo <G.>, è stato dedotto il vizio di motivazione
relativo al reato di
false comunicazioni sociali, con riferimento alla ricostruzione del
fatto; con
il quarto e il quinto motivo è stato ulteriormente dedotto il
vizio di motivazione
relativo al reato di false comunicazioni sociali, unitamente alla
violazione
dell'art. 2621 c.c., con riferimento all'elemento psicologico. Gli
altri motivi
riguardano specificatamente la posizione di <O.>: con il sesto
è stato
dedotto il vizio di motivazione sul carattere fittizio dell'operazione
negoziale intercorsa con <G.> e con il settimo e l'ottavo
è stato dedotto
il vizio di motivazione relativo alla ritenuta inapplicabilità
delle attenuanti
generiche.
Anche il ricorso del solo <O.> si articola in numerosi motivi:
con il
primo è stato dedotto che in seguito alla revoca del fallimento
il ricorrente
deve essere assolto per l'insussistenza del fatto dall'imputazione
relativa al
reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in concorso con gli altri
due
imputati; con il secondo è stato dedotto il vizio di motivazione
relativamente
all'accertamento della simulazione dell'acquisto dell'impresa di
<G.> da
parte di <O.>; con il terzo è stata dedotta l'erronea
applicazione
dell'art. 223 l.
fall. in relazione all'art. 2621 c.c., affermando che i giudici di
primo grado
avevano riconosciuto il vincolo della continuazione tra il reato di
bancarotta
e le false comunicazioni sociali mentre avrebbero dovuto ritenere il
solo reato
di bancarotta fraudolenta impropria, e che è ingiustificato il
diniego delle
attenuanti generiche, infondatamente motivato sulla base di precedenti
penali
in realtà ormai depenalizzati.
<G.> ha presentato anche motivi aggiunti, con i quali, dopo avere
ribadito l'insussistenza delle contestate irregolarità nella
redazione del
bilancio, ha dedotto che, in seguito dell'entrata in vigore della nuova
disciplina dei reati societari (d. lg. 11 aprile 2002, n. 61) e alla
modificazione della normativa relativa alle false comunicazioni
sociali, il
fatto a lui addebitato rientrerebbe nella nuova ipotesi
contravvenzionale ma
non ha determinato un'alterazione sensibile della situazione economica,
patrimoniale e finanziaria della società e non ha dato luogo al
superamento
delle soglie introdotte dal nuovo art. 2621 c.c.; il reato in ogni caso
sarebbe
prescritto.
Con una successiva memoria <G.> ha ribadito che nel fatto a lui
addebitato non sono ravvisabili gli elementi previsti dalle nuove
fattispecie
di false comunicazioni sociali, che perciò dovrebbe pronunciarsi
un
proscioglimento perché il fatto non è più previsto
dalla legge come reato e che
comunque il reato è prescritto.
2. La quinta sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite
per una
pronuncia sulle questioni sorte in seguito alla successione di leggi
relative
ai reati societari e soprattutto sugli effetti della sostituzione del
n. 1 del
secondo comma dell'art. 223 l.
fall., che ha dato origine a un contrasto giurisprudenziale.
L'ordinanza di rimessione è diffusamente motivata:
- rispetto alle false comunicazioni ha preso atto che l'interpretazione
giurisprudenziale, espressa in numerose pronunce di legittimità,
è univocamente
orientata nel senso della continuità normativa, e non
dell'abolizione del reato
previsto dalla disposizione sostituita, e ha aderito a questo
orientamento,
ritenendo che la nuova formulazione normativa si ponga in rapporto di
continuità e sia sostanzialmente omogenea rispetto alla
precedente, anche se ha
ridotto l'area di punibilità della disposizione abrogata;
- ha poi rilevato che si è invece manifestato un contrasto
giurisprudenziale
con riferimento alla bancarotta fraudolenta impropria da reato
societario
prevista dall'art. 223, comma 2, n. 1, l.
fall., in quanto alcune pronunce si sono espresse in favore della
continuità
normativa, ancorché il nuovo testo di legge abbia introdotto
nella struttura
del reato un elemento totalmente nuovo, rappresentato dal nesso causale
tra
reato societario e dissesto, mentre altre hanno sostenuto la tesi
diametralmente opposta dell'abolitio criminis, per la considerazione
che il
collegamento causale introdotto dalla nuova disciplina si pone come
elemento di
rottura della pretesa continuità, poiché è tale da
conferire alla nuova
fattispecie un significato lesivo diverso da quello che caratterizzava
la
precedente formulazione, indipendentemente dalla valutazione del bene
giuridico;
- ha ancora sottolineato che, nell'ambito delle pronunce che si sono
espresse
in favore dell'abolizione, si coglie l'univoco riconoscimento che, una
volta
abolito il precedente reato di bancarotta impropria, può
residuare il meno
grave reato di false comunicazioni sociali, rispetto al quale rimane da
stabilire se ricorrono i nuovi elementi e se è o meno
prescritto;
- infine ha osservato che nell'ambito dell'orientamento interpretativo
in
favore della continuità si riscontra una divergenza sulla
questione se alla
verifica dell'esistenza in concreto dei nuovi elementi specializzanti
debba
provvedere il giudice di rinvio ovvero se un siffatto accertamento sia
esperibile in sede di legittimità, sulla base del capo
d'imputazione e della
sentenza di appello (integrata, per quanto di ragione, da quella di
primo
grado);
- e che nella prima ipotesi si prospetta la questione se, davanti al
giudice
del rinvio, possa effettuarsi la contestazione degli elementi
specializzanti,
senza il rispetto del doppio grado di giurisdizione.
Così individuate le questioni, la sezione quinta, ai sensi
dell'art. 618
c.p.p., ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni unite.
Inizio documento
Diritto
1. In
seguito all'opposizione dei coniugi <G.> e <M.> è
stato revocato il
fallimento della società di fatto e dei singoli soci,
perciò occorre dichiarare
che i fatti dei capi A, B ed E non sussistono.
Restano da considerare il reato di false comunicazioni sociali, per il
quale è
stato condannato <G.>, e quello di bancarotta impropria, per il
quale è
stato condannato <O.>.
I ricorsi, come si è visto, sono stati rimessi alle Sezioni
unite per le
questioni relative alla successione di leggi in materia di reati
societari e
soprattutto per il contrasto che si è manifestato in
giurisprudenza sul
trattamento che, in seguito alla sostituzione del n. 1 del secondo
comma
dell'art. 223 l.
fall., devono ricevere i fatti commessi prima dell'entrata in vigore
della
nuova legge.
2. Rispetto al reato di false comunicazioni sociali nella
giurisprudenza della
Corte di cassazione si riscontra una piena convergenza interpretativa
in favore
della continuità normativa
La prima sentenza pubblicata, Sez. V, 8 maggio 2002, <T.> (in
Cass. pen.,
2002, p. 251), si è espressa nel senso che, nel rapporto tra
vecchia e nuova
formulazione delle false comunicazioni sociali è ravvisabile un
fenomeno di
successione di norme nell'ambito del quale la nuova disciplina si pone
in
rapporto di specialità, in quanto "la fattispecie astratta
originariamente
delineata risulta ricompresa in quella ora incriminata, con l'aggiunta
di
elementi specializzanti; in tal modo, mentre i fatti attualmente
punibili già
lo erano in precedenza, non tutti quelli rilevanti penalmente in
passato lo
sono ancora". Secondo questa decisione, poiché "il novellato
art.
2621 c.c. ha un ambito di applicazione più ristretto ne consegue
che, ai fini
dell'affermazione di responsabilità per fatti commessi prima
dell'entrata in
vigore del d. lg. n. 61 del 2002, è necessario che la violazione
sia stata
contestata al completo dei predetti dati, in modo da rendere possibile
la
difesa". Di qui la necessità di esaminare il capo d'imputazione
per
verificare se, in concreto, risultino enunciati i nuovi elementi
caratterizzanti il reato di false comunicazioni sociali; indagine che,
nel caso
di specie, ha avuto esito negativo con il conseguente annullamento
della
sentenza impugnata in quanto il fatto non è più previsto
dalla legge come
reato.
Nel senso della continuità si è espressa anche Sez. V, 21
maggio 2002,
<F.> (in Cass. pen., 2002, p. 3384), considerando che "le
differenze
fra le due fattispecie (la vecchia e la nuova) non sono strutturali, ma
attengono a modalità parzialmente diverse di difesa dello stesso
interesse
tutelato, che derivano da politiche criminali diverse, ed in parte
frutto
dell'evoluzione nel tempo degli istituti giuridici". La sentenza ha poi
ritenuto che il fatto contestato potesse integrare la nuova fattispecie
e ha
dichiarato il reato estinto per prescrizione.
Questo orientamento giurisprudenziale è stato condiviso da
numerose altre decisioni,
che da un lato hanno ritenuto la continuità e, dall'altro, per
diverse ragioni,
prendendo in considerazione il fatto accertato dal giudice di merito,
hanno
pronunciato l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio: si
possono
ricordare Sez. I, 15 maggio 2002, <M.>; Sez. V, 30 settembre
2002,
<O.>; Sez. V, 8 ottobre 2002, <T.>; Sez. V, 29 ottobre
2002,
<S.>. Quest'ultima decisione, dopo aver richiamata le sentenze
<T.>
e <F.>, ha rilevato che rispetto al nuovo art. 2622 c.c. una
conferma
della continuità è rinvenibile nell'art. 5 d. lg. n. 61
del 2002, il quale, con
una norma transitoria, stabilisce che per i reati perseguibili a
querela
previsti dal decreto legislativo "commessi prima dell'entrata in vigore
dello stesso, il termine per la proposizione della querela decorre
dalla data
predetta".
Altre decisioni invece, dopo aver riconosciuto la continuità tra
la
disposizione del vecchio art. 2621 c.c. e quelle che lo hanno
sostituito, sono
state dell'opinione che la Corte
di cassazione non potesse limitarsi a riscontrare la mancanza dei nuovi
elementi nel fatto che le veniva sottoposto attraverso la sentenza
oggetto del
ricorso ma dovesse procedere a un annullamento con rinvio, per
consentire nel
giudizio di rinvio l'accertamento circa l'esistenza dei nuovi elementi
e la
loro eventuale contestazione: in questo senso si sono pronunciate Sez.
V, 9
maggio 2002, <P.>; Sez. V, 25 giugno 2002, <S.>; Sez. V, 8
luglio
2002, <B.>; Sez. V, 25 settembre 2002, <B.>.
3. Sul rapporto tra vecchia e nuova disposizione dell'art. 223, comma
2, n. 1 l.
fall. si riscontrano invece nella
giurisprudenza della Corte di cassazione opinioni diverse,
perché mentre alcune
decisioni hanno ravvisato una continuità normativa altre l'hanno
decisamente
esclusa.
La prima sentenza relativa alla nuova formulazione dell'art. 223, comma
2, n. 1 l.
fall. è Sez. V, 8 maggio 2002,
<K.> (in Cass. pen., 2003, p. 70), che ha ravvisato
nell'introduzione di
un nesso causale tra la commissione dei fatti previsti dagli artt. 2621
e 2622
c.c. (e dagli altri articoli specificamente indicati e in parte non
coincidenti
con quelli indicati nella precedente disposizione) e il dissesto della
società
un elemento di forte caratterizzazione e di radicale diversità
rispetto al
passato e ha riconosciuto particolare rilevanza alla differenza tra la
vecchia
formulazione e le nuove del reato di false comunicazioni sociali (artt.
2621 e
2622 c.c.), escludendo che il fatto oggetto del giudizio, per come era
stato
contestato, potesse rientrare nella nuova fattispecie. Questa decisione
non ha
preso chiaramente posizione sulla questione della continuità,
dal momento che
ha pronunciato l'annullamento della sentenza impugnata non
perché ha ritenuto
in generale abolito il reato, ma solo perché ha rilevato che
nell'imputazione
mancava ogni accenno al rapporto di causalità tra le false
comunicazioni
sociali e il dissesto.
Successivamente è intervenuta Sez. I, 15 maggio 2002, <M.>
(in Cass.
pen., 2003, p. 73), che ha preso decisamente posizione per la
continuità e ha
escluso l'annullamento della sentenza impugnata ritenendo che fossero
stati
sostanzialmente contestati e accertati tutti gli elementi che integrano
la
nuova fattispecie, cioè sia il nesso di causalità tra il
reato di false
comunicazioni sociali e il dissesto, sia gli elementi costitutivi della
nuova
figura di false comunicazioni sociali.
Nello stesso senso si sono espresse Sez. V, 25 settembre 2002,
<B.> e
Sez. V, 8 ottobre 2002, <T.> (rispettivamente in Cass. pen.,
2003, p. 76
e p. 79). Quest'ultima decisione, dopo aver tratteggiato le differenze
intercorrenti tra le nuove ipotesi di reato e quelle precedenti ha
espresso
l'opinione che la scelta in favore della successione o dell'abolizione
debba
restare affidata all'analisi strutturale delle fattispecie astratte, al
fine di
accertare se gli elementi che concorrono a disegnarne la
tipicità siano,
secondo le regole proprie del concorso apparente di norme, omogenei
oppure
eterogenei: nel primo caso sarebbe riscontrabile una successione, nel
secondo
un'abolizione. Secondo questa decisione l'analisi degli elementi tipici
delle
nuove fattispecie di false comunicazioni sociali e della precedente
formulazione induce a ritenere che vi sia una situazione di
continuità e che le
nuove norme incriminatrici non abbiano comportato una totale abolizione
del
reato precedentemente previsto, ponendosi, invece, in rapporto di
specialità
rispetto a questo. Identico fenomeno di continuità è dato
ravvisare rispetto
all'art. 223, comma 2, n. 1, l.
fall., posto che la continuità normativa in materia di false
comunicazioni
sociali non può che riflettersi sul citato art. 223, comma 2, n.
1, che
richiama la condotta di falsificazione e, d'altra parte, l'ulteriore
elemento
postulato dalla nuova disposizione (il nesso causale tra condotta e
dissesto)
si presenta, a sua volta, come un elemento specializzante rispetto ad
una
fattispecie, quella precedente, nella quale il fallimento, pur essendo
elemento
costitutivo della medesima, non doveva necessariamente porsi come
conseguenza
della condotta.
L'opposto orientamento è espresso in modo particolarmente
argomentato da Sez.
V, 8 ottobre 2002, <T.> (in Cass. pen., 2003, p. 82), che opera
un
inquadramento generale del tema della successione di leggi penali e
ritiene che
il criterio strutturale debba integrarsi con il riferimento
all'interesse
tutelato e che "un'abolizione parziale, che va riscontrata già a
livello
di fattispecie astratte, può aversi solo nel caso di
specialità per
specificazione. Nel caso di specialità per aggiunta o non si ha
alcuna abolitio
criminis o si ha un'abolitio totale, quando l'elemento aggiuntivo abbia
un
"peso" tale da ascrivere alla nuova fattispecie un significato lesivo
diverso da quello della fattispecie abrogata". Ciò premesso
secondo la
sentenza <T.> "la fattispecie inserita nell'art. 223 l. fall. dall'art. 4 d.
lg. n. 61
del 2002 è certamente speciale rispetto a quella sostituita,
perché include
come elemento ulteriore dell'illecito un rapporto di causalità
tra il delitto
di false comunicazioni sociali e il dissesto della società
fallita. Tuttavia,
trattandosi di specialità per aggiunta, deve ritenersi che essa
comporti una
totale abolizione della fattispecie abrogata, perché l'elemento
aggiuntivo, il
rapporto di causalità con il dissesto, è tale da
ascrivere alla nuova
fattispecie un significato lesivo del tutto diverso da quello della
fattispecie
abrogata". In conclusione, secondo questa sentenza, la nuova
formulazione
dell'art. 223, comma 2, n. 1, c.p. comporta la totale abolizione della
fattispecie abrogata; il reato di false comunicazioni sociali
può eventualmente
residuare all'abolizione della bancarotta impropria, in quanto la norma
che lo
prevede è generale rispetto a quella contenuta nell'art. 223
cit.; la nuova
fattispecie di false comunicazioni sociali è, poi, speciale, per
specificazione, rispetto alla precedente, sicché può
trovare senz'altro
applicazione se, nel caso concreto, si riscontrano i nuovi elementi
specializzanti; altrimenti, anche per la fattispecie residua, vi
è abolitio
criminis.
Identica è la soluzione (abolizione per la bancarotta impropria
e continuità
per le false comunicazioni sociali) adottata da Sez. V, 3 ottobre 2002,
<D.
M.> e Sez. I, 16 ottobre 2002, <B.>.
Anche tra le pronunce sulla bancarotta impropria da reato societario
che hanno
optato per la tesi della continuità normativa, si riscontra una
diversità di
soluzioni applicative, a fronte del quesito se la Corte di cassazione debba
decidere
sull'esistenza dei nuovi elementi del reato (e in particolare del
rapporto di
causalità tra reato societario e dissesto) e sulla loro
contestazione in base a
quanto risulta dalla sentenza impugnata e dagli altri atti conoscibili
nel
giudizio di legittimità o possa demandare ulteriori accertamenti
al giudice di
rinvio.
4. Sulla vicenda legislativa relativa all'art. 2621 c.c. la
giurisprudenza,
come si è visto, è orientata senza contrasti nel senso
della continuità; la
dottrina invece è divisa, anche perché nell'affrontare il
tema generale della
successione di leggi penali non è concorde e muove da posizioni
di principio
diverse, che si sono andate delineando nella ricerca di criteri capaci
di
regolare tutte le varie situazioni possibili. I diversi criteri
adottati hanno
giustificato, anche sulla base delle scelte operate di volta in volta
dall'interprete,
soluzioni contrapposte e originato nei tempi più recenti
contrasti
giurisprudenziali, che hanno dato causa a numerosi interventi delle
Sezioni
unite.
Secondo una teoria tradizionale per stabilire se c'è o meno
continuità
normativa occorre verificare se esiste la doppia punibilità in
concreto e
dunque se il fatto punito dalla legge anteriore è punito anche
da quella
posteriore ("prima punibile, dopo punibile, quindi punibile"). Si
è
però giustamente obiettato che è possibile che un fatto
concreto rientri per
aspetti diversi nella previsione di due norme incriminatici che si
succedono,
in una situazione cioè in cui in realtà tra le due leggi
penali c'è un rapporto
di contiguità temporale ma non una coincidenza contenutistica,
di modo che
debba concludersi che il fatto previsto dalla norma successiva prima
non
costituiva reato, anche se la nuova legge è diretta a regolare
una situazione
che in precedenza, ma per aspetti diversi, era regolata dalla norma
incriminatrice abrogata. Se si optasse per la continuità quando
un fatto
concreto commesso sotto il vigore della legge abrogata rientra, per
aspetti
diversi, nella previsione della nuova legge si farebbe di questa
un'applicazione retroattiva, in quanto quel fatto verrebbe punito solo
per
aspetti che prima erano privi di rilevanza penale. Esempi di una
situazione del
genere possono rinvenirsi nel reato dell'art. 2 d. lg. 10 marzo 2000,
n. 74, in
rapporto a quello dell'art. 4,
lett. d), d. l. 10 luglio 1982, n. 429, perché, come hanno
chiarito Sezioni
unite (sent. 25 ottobre 2000, <Di M.>, in Cass. pen., 2001, p.
448), il
fatto previsto dalla legge successiva non era punibile in base alla
legge
precedente, la quale prevedeva invece solo un antefatto "meramente
strumentale e prodromico", e nel reato dell'art. 22, comma 10, d. lg.
25
luglio 1998, n. 286, in
rapporto a quello dell'art. 12, comma 2, l. 30 dicembre 1986, n. 943,
perché, come anche in
questo caso hanno chiarito le Sezioni unite (sent. 9 maggio 2001,
<D.>,
in Cass. pen., 2002, p. 502), il fatto previsto dalla legge successiva
(occupazione di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno)
è
radicalmente diverso da quello previsto dalla legge precedente abrogata
(occupazione di lavoratori immigrati extracomunitari sprovvisti
dell'autorizzazione al lavoro).
Esclusa così la teoria della doppia punibilità in
concreto le tesi elaborate
muovono da due approcci diversi: quello di tipo strutturale e quello di
tipo
valutativo. Il primo si svolge su un piano essenzialmente formale,
richiedendo
che la fattispecie della legge successiva comprenda in tutto o in parte
fatti
rientranti nella previsione della legge sostituita o abrogata, ossia
che tra le
fattispecie incriminatrici che si susseguono esista un rapporto logico
-
strutturale di genere a specie (o viceversa), mentre il secondo ricerca
una
continuità tra le leggi attraverso valutazioni concernenti il
bene giuridico e
le modalità dell'offesa e può essere considerato sia
alternativo al primo, sia
cumulativo, cioè tale da operare attraverso una verifica
ulteriore, dopo il
superamento del vaglio logico - strutturale, aggiungendo così
all'impiego dei
criteri formali quello di criteri di tipo sostanziale o valutativo.
La questione circa i rapporti tra le norme e l'individuazione di una
situazione
di continuità o discontinuità si intreccia, complicandosi
ulteriormente, con le
regole processuali della cognizione o dell'esecuzione, e ha indotto
talvolta
alla ricerca di soluzioni complessive o a conclusioni totalmente
abolitrici,
giustificate con la considerazione che le regole processuali comunque
impedirebbero l'accertamento degli elementi del fatto previsti dalla
legge
incriminatrice successiva. Il groviglio tra le norme dell'art. 2 c.p. e
quelle
processuali però va districato tenendo distinti i due campi,
sicché il nodo
dell'alternativa continuità o abolizione va sciolto prescindendo
dai profili
processuali, vale a dire senza pensare ai processi in corso o alle
condanne
irrevocabili, come se la questione riguardasse un fatto per il quale il
procedimento penale non è ancora iniziato, un fatto, in ipotesi,
commesso il
giorno prima dell'intervento legislativo, e si dovesse stabilire se
quel fatto,
per il quale il processo deve ancora iniziare, rimanga o meno punibile.
I criteri elaborati dalla dottrina hanno talvolta messo in ombra quelli
fissati
legislativamente, di modo che la soluzione delle questioni ha finito
con
l'essere ricercata in tali criteri piuttosto che nelle disposizioni
dell'art. 2
c.p., dalle quali invece occorre muovere.
L'art. 2 c.p. pone nei commi che lo costituiscono una sequenza di
regole tra
loro collegate in modo che si chiariscono a vicenda: perché
operi la regola del
terzo comma deve essere esclusa l'applicabilità sia del primo,
sia del secondo
comma. Ciò significa, da un lato, che in una vicenda di
successione di leggi
penali, perché un fatto rimanga punibile, occorre non solo che
sia tale in base
alla nuova legge ma anche che la nuova fattispecie costituisse reato
già in
base alla legge precedente (altrimenti, come si è detto, si
avrebbe un'applicazione
retroattiva della nuova legge, in contrasto, oltre che con l'art. 2,
comma 1,
c.p., anche con l'art. 25, comma 2, Cost.) e, dall'altro, che i fatti
commessi
in precedenza e rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie non
sono
più punibili "e se vi è stata condanna ne cessano
l'esecuzione egli
effetti penali" (art. 2, comma 2, c.p.).
Il primo e il secondo comma dell'art. 2 c.p. individuano un rapporto
diretto
tra norma e fatto, rimanendo da stabilire quali siano gli aspetti di
questo rilevanti,
se solo quelli descritti dalla fattispecie incriminatrice o anche
quelli che
siano frutto di qualificazioni esterne, cioè se rilevi o meno
una successione
di leggi richiamate da elementi normativi. Esempio ricorrente in
giurisprudenza
è quello della calunnia, per la quale si pone la questione se
è o meno
applicabile la regola dell'art. 2, comma 2, c.p. nel caso in cui sia
abrogata
la disposizione che prevedeva come reato il fatto oggetto
dell'incolpazione
(v., da ultimo, Sez. VI, 21 maggio 1999, <Z.>, in Cass. pen.,
2000, p
2254). Il terzo comma invece, che non a caso parla di reato e non di
fatto,
individua un rapporto prima tra le norme e solo dopo tra queste e il
commesso
reato.
Perché dunque non vi sia una totale abolizione del reato
previsto dalla
disposizione formalmente sostituita (oppure abrogata con la contestuale
introduzione di una nuova disposizione collegata alla prima) occorre
che la
fattispecie prevista dalla legge successiva fosse punibile anche in
base alla
legge precedente, rientrasse cioè nell'ambito della previsione
di questa, il
che accade normalmente quando tra le due norme esiste un rapporto di
specialità, tanto nel caso in cui sia speciale la norma
successiva quanto in
quello in cui speciale sia la prima. Però se è la norma
successiva ad essere
speciale ci si trova in presenza di un'abolizione parziale,
perché l'area della
punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta,
rimanendone
espunti tutti quei fatti che pur rientrando nella norma generale venuta
meno sono
privi degli elementi specializzanti. Si tratta di fatti che per la
legge
posteriore non costituiscono reato e quindi restano assoggettati alla
regola
del secondo comma dell'art. 2 c.p., anche se tra la disposizione
sostituita e
quella sostitutiva può ravvisarsi una parziale
continuità. Perciò per questi
fatti non opera il limite stabilito dall'ultima parte del terzo comma
dell'art.
2 c.p. e quando è stata pronunciata una condanna irrevocabile il
giudice
dell'esecuzione deve provvedere a revocarla a norma dell'art. 673
c.p.p.
Risponde al senso comune, oltre che al disposto dell'art. 2 c.p., la
regola che
mantiene la punibilità di un fatto se questo, astrattamente
considerato,
rientra nell'ambito normativo di due disposizioni che si sono succedute
nel
tempo. Quando avviene ciò infatti, e nei limiti in cui avviene,
di regola non
opera, e non avrebbe ragione di operare, l'effetto abolitivo
retroattivo della
disposizione successiva.
Si è obiettato che l'applicazione della legge successiva
speciale a fatti commessi
prima si risolve in ogni caso in un'applicazione retroattiva di questa,
in
quanto dà rilevanza a elementi specializzanti che in precedenza
non l'avevano,
ma l'obiezione non coglie nel segno, non solo perché, come
è stato rilevato,
condurrebbe a conclusioni assurde e inaccettabili (e
nell'interpretazione
l'argumentum ab absurdo non è da sottovalutare), ma anche e
soprattutto perché
in un caso del genere si è puniti per un fatto previsto come
reato anche dalla
legge precedente, sicché la punibilità non è
determinata da un'applicazione
retroattiva della legge successiva. Questa, a ben vedere, quando
risulta
speciale rispetto alla precedente, si limita a ritagliare una porzione
della
vecchia, ad individuare una sottofattispecie, di cui conserva la
punibilità
impedendo che rispetto ad essa l'abrogazione abbia un effetto
retroattivo
abolitivo.
Insomma, mantenere la punibilità di un fatto commesso nel vigore
di una norma
generale quando essa è stata sostituita con una norma speciale
non significa
fare un'applicazione retroattiva di questa ma piuttosto escluderne
l'efficacia
abolitrice per la porzione della fattispecie prevista dalla norma
generale che
viene a coincidere con quella della norma speciale successiva.
C'è da
chiedersi, anche con riferimento all'art. 3 Cost, quale
razionalità potrebbe
avere una regola, diversa da quella indicata, in base alla quale
verrebbe
esclusa la punibilità di un fatto costituente reato, commesso
prima
dell'entrata in vigore di una nuova legge che ne conferma il carattere
di illecito
penale.
Un'evenienza del genere non può essere esclusa in modo assoluto,
ma deve
trovare una sicura fonte nella nuova legge. Le regole dell'art. 2 c.p.
infatti
sono derogabili sia nel senso della c.d. ultrattività o meglio
della perdurante
attività (art. 2, comma 4, c.p.), quando manca la
continuità, sia nel senso
della esclusione della continuità, quando ne ricorrerebbero le
condizioni. È
quindi possibile che nella legge successiva vi siano elementi
indicativi della
volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei
reati commessi in
precedenza, benché esistano le condizioni per
l'applicabilità della regola
dell'art. 2, comma 3, c.p.
Si pensi per esempio a reati collegati con una particolare situazione
politica,
economica, sociale o giudiziaria e a una legge, diretta al tempo stesso
a
modificare tale situazione e la disciplina penale, la quale, pur
stabilendo che
alcuni fatti continuano a costituire reato, intenda escluderne per il
passato
la punibilità: chiudere con il passato senza indulgenze per il
futuro, nel
presupposto che la situazione politica, economica, sociale o anche
giudiziaria
che quei reati aveva originato, e in qualche modo giustificato, o che
ne ha
reso comunque problematico e discutibile il perseguimento richieda un
cambiamento che si proietti verso il passato fino al punto della totale
abolizione dei reati precedentemente commessi.
Dunque un'evenienza che non può essere esclusa, ma che
nell'ambito della
disciplina della successione di leggi penali non costituisce certo la
regola.
Perciò il criterio normale deve essere quello che porta a
ricercare un'area di
coincidenza tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel
tempo,
senza che sia necessario rinvenire conferme della continuità
attraverso criteri
valutativi, come quelli relativi ai beni tutelati e alle
modalità di offesa,
assai spesso incapaci di condurre ad approdi interpretativi sicuri,
come
dimostrano i numerosi contrasti che si sono manifestati tanto nella
giurisprudenza quanto nella dottrina quando si è trattato di
farne applicazione
in numerose recenti vicende legislative in materia penale.
È vero che le sentenze delle Sezioni unite 25 ottobre 2000,
<Di M.>,
cit., 9 maggio 2001, <D.>, cit. e 13 dicembre 2000, <S.>
hanno
fatto riferimento, oltre che ai criteri strutturali, a quelli
valutativi, ma è
da ritenere che il passaggio ai secondi non sia di regola necessario e
debba
avvenire solo se vi sono elementi univocamente indicativi di una
volontà
legislativa totalmente abolitrice, che nei casi esaminati dalle prime
due
sentenze citate era già desumibile, come si è visto,
dall'esame logico -
strutturale delle norme in successione.
È da considerare che chi di recente in dottrina ha sostenuto la
necessità di un
controllo bifasico, nell'idea che andrebbe sempre ricercata la conferma
della
punibilità facendo seguire alla verifica strutturale una
verifica valutativa,
ha riconosciuto che nel caso in cui dovesse giungersi all'esclusione
della
punibilità di fatti che continuano ad essere previsti come reato
ci si
troverebbe in presenza di un esito assimilabile a quello tipico
dell'amnistia,
e questa ricostruzione convince che l'abolizione senza una formale
discontinuità costituisce una situazione, eccezionale o quanto
meno anomala,
che richiede sicuri indici di una volontà legislativa in tal
senso, in mancanza
dei quali debba, senza necessità di ulteriori conferme, trovare
applicazione la
regola del terzo comma dell'art. 2 c.p.
È da aggiungere che la conclusione cui si è pervenuti in
tema di successione di
leggi incriminatrici non riguarda anche la diversa ipotesi in cui
l'abrogazione
di una disposizione rende applicabile un'altra disposizione
preesistente, come
è avvenuto nel caso dell'abrogazione della disposizione relativa
al reato di
oltraggio, sulla quale sono intervenute le Sezioni unite con la
sentenza 27
giugno 2001 <A.> (in Cass. pen., 2002, p. 483) affermando che "la
detta vicenda legislativa... non configura una ipotesi di successione
intertemporale di leggi penali, di cui al comma 3 dell'art. 2 c.p.",
perché "quest'ultima disposizione ha per presupposto una
diversità di
norme incriminatrici, di cui una cronologicamente precedente
all'altra".
Affermazione che non esclude concettualmente l'esistenza di un'ipotesi
di
successione di leggi ma più semplicemente nega che si tratti di
un'ipotesi
regolata dall'art. 2, comma 3, c.p., e soprattutto dall'ultima parte
della
disposizione, relativa alle condanne irrevocabili, dato che secondo le
Sezioni
unite, nel caso considerato, resta ferma, nel giudizio, la
possibilità di "applicazione
degli artt. 594 e 61 n. 10 c.p., sempre che ricorra in concreto la
condizione
di procedibilità della querela, specificamente richiesta in
relazione
all'ingiuria".
Nell'ipotesi di sostituzione, formale o sostanziale, di una
disposizione
incriminatrice la nuova disposizione esprime di per sè un
giudizio di disvalore
che giustifica, nei limiti già detti, una conclusione di
continuità; invece
nell'ipotesi di abrogazione di una disposizione speciale, con possibile
espansione applicativa della disposizione preesistente generale, ci si
trova in
presenza di una valutazione legislativa meramente negativa della
disposizione
abrogata, sicché non ci si può non interrogare sul
significato dell'abrogazione
e, a ben vedere, può anche prospettarsi la possibilità
che l'abrogazione si
risolva in un'abolizione del reato previsto dalla disposizione
abrogata, non
solo per il passato ma anche per il futuro, come una parte della
giurisprudenza
e della dottrina ha ritenuto in seguito all'abrogazione dell'art. 552
c.p. (procurata
impotenza alla procreazione), che risultava speciale rispetto all'art.
583,
comma 2, n. 3, c.p. (lesioni da cui sia derivata la perdita della
capacità di
procreare).
In ogni caso si tratta di un'ipotesi in cui, anche ove si ritenesse
applicabile
il terzo comma dell'art. 2 c.p., le determinazioni sulla
continuità normativa e
soprattutto quelle più specifiche sulla conservazione o sulla
revoca di
un'eventuale sentenza di condanna irrevocabile (si pensi al caso
dell'oltraggio) dovrebbero normalmente, attingere, oltre che a criteri
strutturali, anche a criteri valutativi.
5. Ciò stabilito occorre prendere più specificamente in
considerazione la
vicenda legislativa relativa all'art. 2621 c.c. e all'art. 223, comma
2, n. 1, l.
fall., mettendo a confronto vecchie
e nuove disposizioni.
Per quanto riguarda le false comunicazioni sociali il dato che
più
immediatamente viene in evidenza è rappresentato dalla
suddivisione
dell'originaria unica fattispecie nelle due, oggetto dei nuovi artt.
2621 e
2622 c.c., oltre che dall'enucleazione dalla precedente struttura di
autonome
fattispecie di reato, come la contravvenzione prevista dell'art. 2627
c.c.
(Illegale ripartizione degli utili e delle riserve).
Il residuo reato di false comunicazioni sociali è oggi
articolato in due
distinte ipotesi, disegnate una (quella del nuovo art. 2621 c.c.) come
figura
contravvenzionale, l'altra (quella del nuovo art. 2622 c.c.) come
figura
delittuosa. La condotta e l'elemento psicologico sono identiche; la
differenza
è costituita dal danno patrimoniale in pregiudizio dei soci e
dei creditori,
richiesto solo nella previsione delittuosa, che però è
punibile solo a querela
della persona offesa.
Per quanto riguarda l'oggettività della fattispecie, elementi
differenziali
rispetto alla formulazione del precedente art. 2621 c.c. sono:
a) l'esclusione dei promotori e dei soci fondatori dal novero dei
soggetti
attivi;
b) la riduzione delle comunicazioni sociali rilevanti ai fini del
reato: alla
formula "nelle relazioni sociali, nei bilanci o in altre comunicazioni
sociali" è sostituita quella "nei bilanci, nelle relazioni o
nelle
altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al
pubblico";
c) l'esposizione deve riguardare fatti "materiali non rispondenti al
vero,
ancorché oggetto di valutazioni", e non più semplicemente
"fatti non
rispondenti al vero";
d) alla condotta positiva del mendacio è accomunata quella
dell'omissione di
informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge, in
luogo di quella del
nascondimento in tutto o in parte di fatti concernenti le condizioni
economiche
della società;
e) l'oggetto del mendacio o dell'omissione è costituito dalla
situazione
economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo
al quale essa
appartiene anziché dalla costituzione ovvero dalle condizioni
economiche della
società; vi è, poi, un'estensione della punibilità
al caso in cui le
informazioni riguardino beni posseduti od amministrati dalla
società per conto
di terzi;
f) la condotta deve essere anche decettiva, ossia idonea ad indurre in
errore i
destinatari sulla predetta situazione, requisito non espressamente
previsto dal
vecchio dettato normativo;
g) quanto alla componente soggettiva, la locuzione avverbiale
"fraudolentemente" è sostituita dalla previsione della
"intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire
per
sè o per altri un ingiusto profitto". Dunque, una doppia
previsione di
dolo: al dolo specifico, ritenuto implicito nella vecchia fisionomia di
reato e
oggi esplicitato e tipizzato, se ne aggiunge uno intenzionale o
rafforzato.
Infine deve ricordarsi la differenza dipendente dall'introduzione delle
soglie
di punibilità, che sono configurate in modo assai articolato
(artt. 2621, commi
3 e 4, e 2622 commi 5 e 6 c.c.) e segnano l'aspetto maggiormente
caratterizzante della nuova normativa. L'area della punibilità
del vecchio art.
2621 c.c. risulta, da un lato, fortemente circoscritta, attraverso le
novità
indicate, e, dall'altro, articolata nelle disposizioni degli artt. 2621
c.c. e
2622 c.c. Nell'ambito di una fattispecie alquanto ampia, specie
nell'interpretazione che ne aveva dato la giurisprudenza, sono state
ritagliate
fattispecie molto più circoscritte e assai più
blandamente punite, ma deve
riconoscersi che i fatti rientranti nelle nuove previsioni erano
punibili anche
in base al precedente testo dell'art. 2621 c.c., e deve perciò
concludersi, in
applicazione dei criteri precedentemente indicati, che i fatti commessi
sotto
il vigore della precedente legge, nei limiti in cui rientrano nelle
previsioni
della nuova legge, rimangono punibili, a norma dell'art. 2 comma 3
c.p., mentre
gli altri non costituiscono più reato, per un effetto abolitivo
delle nuove
disposizioni che a norma dell'art. 2, comma 2, c.p. travolge anche il
giudicato
di condanna.
Il traguardo della limitata continuità, raggiunto con la
comparazione delle
fattispecie, non trova smentita in particolari indici legislativi che,
come si
è precedentemente detto, nonostante le valutazioni strutturali
potrebbero in
casi particolari giustificare la conclusione dell'abolizione anche
rispetto a
fatti che continuano a costituire reato. Si può anzi dire che un
significativo
indice in senso contrario è costituito, come hanno rilevato
alcune pronunce,
dall'art. 5 d. lg. n. 61 del 2002, il quale effettivamente presuppone
la
continuità normativa. In mancanza di questa infatti non ci
sarebbe stato motivo
di dare un termine per proporre la querela rispetto a reati
precedentemente
commessi, resi dal decreto legislativo procedibili a querela.
Ciò significa che
il legislatore ha ritenuto sufficiente per il conseguimento degli
obbiettivi
perseguiti il complesso e fortemente limitativo intervento svolto sulla
fattispecie dell'art. 2621 c.c., senza operare per il passato
un'abolizione anche
rispetto ai fatti che continuano a costituire reato.
6. A uguali conclusioni deve pervenirsi per la vicenda legislativa
relativa
all'art. 223, comma 2, n. 1 l.
fall.
Il raffronto testuale tra la vecchia e la nuova formulazione segnala
due
significative modifiche:
a) la prima è costituita dal diverso elenco dei reati societari
che possono
costituire la bancarotta impropria: non figurano più i reati
degli artt. 2623 e
2630 c.c.; l'art. 2622 c.c., relativo alle false comunicazioni sociali
in danno
dei soci e dei creditori, nel testo precedente riguardava la
divulgazione di
notizie sociali riservate; l'art. 2628 c.c. relativo alle illecite
operazioni
sulle azioni o quote sociali o della società controllante, nel
testo precedente
riguardava le manovre fraudolente sui titoli della società; sono
stati aggiunti
i reati degli artt. 2626, 2627, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c..
b) la più rilevante innovazione riguarda tuttavia l'introduzione
del
collegamento causale tra il reato societario e il dissesto della
società, che
mancava nel testo precedente, a tenore del quale era sufficiente la
commissione
di alcuno dei fatti preveduti dagli articoli richiamati ("2621, 2622,
2623, 2628, 2630, comma primo, del codice civile"), cui avesse, poi,
fatto
seguito la dichiarazione del fallimento; risulta così modificato
anche
l'elemento psicologico che ora non può non investire anche tale
collegamento.
Come si è già detto, diversamente da quanto è
avvenuto per l'art. 2621 c.c.,
rispetto al quale nella giurisprudenza della Corte di cassazione la
continuità
normativa è stata ritenuta senza contrasto, per l'art. 223,
comma 2, n. 1 l.
fall. si sono registrate opinioni
diverse, ma queste Sezioni unite ritengono che in applicazione dei
criteri
precedentemente indicati sia da condividere quella che si è
espressa nel senso
della continuità.
Nel caso in esame viene specificamente in questione la bancarotta
societaria
dipendente dalla commissione dei reati degli artt. 2621 e 2622 c.c. e
la
differenza tra la vecchia e la nuova norma è data sia dalla
differenza tra
vecchie e nuove false comunicazioni sociali, sia dal rapporto richiesto
tra il
reato e il dissesto. Mentre è certo che i fatti precedentemente
commessi che
non integrano le nuove false comunicazioni sociali o che non hanno
cagionato o concorso
a cagionare il dissesto non costituiscono più reato e rientrano
nella sfera
operativa dell'art. 2, comma 2, c.p., la questione della
continuità si pone per
quei fatti che invece presentano puntualmente gli elementi richiesti
dalla
nuova norma e deve avere una soluzione affermativa, perché da un
lato esiste la
continuità tra le vecchie e le nuove false comunicazioni sociali
e dall'altro
il collegamento causale, se non era richiesto (ma non sono mancate voci
che
anche rispetto alla disposizione del vecchio art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. hanno cercato di
individuare
un nesso normativo tra il reato societario e il fallimento), certo non
era
escluso, e qualche volta formava oggetto di accertamento (com'è
avvenuto nel
caso deciso dalla sentenza Sez. l, 15 maggio 2002, <M.>, cit.).
Anche in dottrina si ritiene che tra la vecchia e la nuova norma, per
la parte
che interessa, esista un rapporto di specialità e questo
rapporto, in mancanza
di specifiche indicazioni in senso contrario (che nel caso in esame non
sono
ravvisabili), giustifica la conclusione che, nei limiti della norma
speciale,
ci si trova in presenza di una continuità normativa.
Secondo Sez. V, 8 ottobre 2002, <T.>, cit. però
occorrerebbe distinguere
tra specialità "per specificazione" e specialità "per
aggiunta", perché mentre nel primo caso si riscontrerebbero
sempre
un'abolizione parziale unita a una parziale continuità, nel
secondo caso
occorrerebbe valutare il "peso" dell'elemento aggiuntivo
specializzante. Questa sentenza poi rileva che la nuova disposizione
dell'art.
223, comma 2, n. 1, l.
fall. ha dato luogo ad una fattispecie speciale "per aggiunta" e
sostiene che l'elemento aggiunto, la determinazione del dissesto, segna
una
discontinuità rispetto alla norma precedente in quanto "è
tale da
ascrivere alla nuova fattispecie un significato lesivo del tutto
diverso da
quello della fattispecie abrogata". In realtà però alla
luce dei criteri
indicati non c'è ragione di differenziare ai fini della
successione di leggi
penali i casi della specialità "per aggiunta" da quelli della
specialità "per specificazione", perché tanto negli uni
quanto negli
altri è riscontrabile quella situazione di doppia
punibilità in astratto cui si
ricollega la relazione di continuità. Il criterio adottato dalla
sentenza
<T.> per più aspetti metterebbe capo a conclusioni
inaccettabili perché
muove dall'idea che "un'abolizione parziale... può aversi solo
nel caso di
specialità per specificazione" mentre "nel caso di
specialità per
aggiunta o non si ha alcuna abolitio criminis o si ha un'abolitio
totale,
quando l'elemento aggiuntivo abbia un "peso" tale da ascrivere alla
nuova fattispecie un significato lesivo diverso da quello della
fattispecie
abrogata". Ciò infatti significa che un'applicazione,
inevitabilmente
opinabile, del criterio valutativo può, da un lato, quando il
"peso"
viene ritenuto consistente, far escludere la continuità e,
dall'altro, quando
il "peso" è ritenuto scarso, far escludere l'abolizione
parziale,
mantenendo la punibilità anche dei fatti privi dell'elemento
specializzante
aggiuntivo, in contrasto con la regola secondo la quale nessuno
può essere
punito per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisce
reato (art.
2, comma 2, c.p.). Senza considerare che nel caso dell'art. 223, comma
2, n. 1, l.
fall. la totale abolizione è
giustificata con l'affermazione, immotivata, che "l'elemento
aggiuntivo,
il rapporto di causalità con il dissesto, è tale da
ascrivere alla nuova
fattispecie un significato lesivo del tutto diverso da quello della
fattispecie
abrogata" e che qualora si aderisse alla tesi della sentenza <T.>
rimarrebbe da verificare se la punibilità debba permanere (come
ha ritenuto
Sez. I, 16 ottobre 2002, <B.>) nel caso in cui comunque risulti
applicabile l'art. 223, comma 2, n. 2, l.
fall.
La sentenza <T.> merita invece di essere condivisa quando afferma
che una
volta ritenuta l'inapplicabilità del nuovo art. 223, comma 2, n.
1, l.
fall. ai fatti commessi prima
della riforma rimane da stabilire se sia o meno applicabile la norma
incriminatrice
sulle false comunicazioni sociali (nello stesso senso si è
espressa Sez. V, 3
ottobre 2002, <D. M.>), ma va precisato che nella ricostruzione
operata
dalle Sezioni unite la questione si pone solo se, nel caso concreto,
non
risulta il collegamento causale tra il reato societario e il dissesto.
7. Rimane da affrontare l'ultima questione, relativa ai poteri di
cognizione e
di decisione della Corte di cassazione quando, dopo la pronuncia della
sentenza
impugnata, si sia verificata una successione di leggi penali, per
effetto della
quale sia rimasto parzialmente abolito il reato al quale si riferisce
la
condanna.
È stato affermato che, in caso di abolizione parziale, in tanto
può
pronunciarsi una condanna per un fatto precedentemente commesso, che
presenti
tutti gli elementi richiesti dalla nuova fattispecie, in quanto questi
elementi
siano stati contestati e abbiano formato oggetto di un accertamento
rispetto al
quale la parte abbia avuto modo di difendersi (v. Sez. un., 26 giugno
1990,
<M.>, in Cass. pen., 1990, p. 1896; Sez. un., 25 ottobre 2000,
<Di
M.>, cit.), ma occorre precisare che il principio affermato deve
trovare
applicazione adattandosi al fenomeno della successione di leggi penali
e al
rapporto in cui esso nel caso concreto si pone rispetto al giudizio,
cioè
tenendo conto del momento in cui interviene la successione (nella fase
delle
indagini preliminari, nel giudizio di primo grado, in quello di
appello, in
quello di cassazione o in quello di rinvio), perché a seconda
del momento
processuale le regole della contestazione e dell'accertamento possono
avere
applicazioni diverse. Non può pretendersi che esse vengano
applicate come se la
nuova legge fosse già in vigore al momento della prima
contestazione, perché al
processo può chiedersi solo di registrare correttamente la
vicenda, nel modo
compatibile con lo stadio processuale nel quale esso si trova quando la
vicenda
interviene, considerato che nel caso di abolizione parziale la nuova
fattispecie risulta confermativa della precedente nel perimetro ideale
in cui
tra le due c'è coincidenza: è nell'ambito di questo
perimetro che viene
impedito l'effetto retroattivo dell'abrogazione della precedente
disposizione e
si rende necessario un accertamento, rispetto al quale la parte abbia
modo di
difendersi, che il fatto commesso presenta tutti i nuovi elementi
richiesti.
Un accertamento del genere nel giudizio di cassazione non è
possibile: la Corte
di cassazione è chiamata a
decidere sulla base dell'accertamento compiuto dal giudice di merito e
contenuto
nella sua sentenza. Se nelle more tra la pronuncia della decisione
impugnata e
la trattazione del ricorso è intervenuta un'abolizione parziale
è alla
decisione impugnata che la Corte
di cassazione deve fare riferimento per stabilire se gli elementi
richiesti
dalla nuova legge avevano o meno formato oggetto dell'accertamento
giudiziale,
e in caso affermativo su di essi deve esercitare il suo giudizio; ma se
quegli
elementi non hanno formato oggetto di accertamento e la Corte di cassazione si trova
in presenza
di un fatto che, per come è stato accertato dal giudice di
merito, rientra
nell'ambito dell'abolizione, e dunque non è più previsto
come reato, non può
che trarne le conseguenze imposte dagli artt. 129 e 620 comma 1 lett.
a) c.p.p.
Un annullamento con rinvio in funzione meramente esplorativa non
può ritenersi
consentito. È vero che il sistema processuale deve adattarsi per
fare fronte
alle sopravvenienze legislative e che specifiche regole di adattamento
nel
giudizio di cassazione possono essere ravvisate negli artt. 609 comma 2
e 619
comma 3 c.p.p., ma è anche vero che la Corte di cassazione, posta di
fronte a una sentenza di
condanna per un fatto che nei termini in cui è stato accertato
viene a
risultare non più previsto come reato, non può sottrarsi
alla regola dell'art.
129 c.p.p. adducendo il dubbio che ulteriori accertamenti da parte del
giudice
di rinvio potrebbero condurre a conclusioni diverse.
8. Posti questi principi diventa agevole la decisione relativa al reato
di
false comunicazioni sociali, per il quale è stato condannato
<G.>, e al
reato di bancarotta impropria, per il quale è stato condannato
<O.>.
L'accertamento operato dalla sentenza impugnata non presenta elementi
dai quali
possa desumersi che le false comunicazioni sociali commesse da
<G.>
abbiano comportato il superamento delle soglie previste dalla nuova
disposizione (il reato inoltre sarebbe prescritto), perciò deve
pronunciarsi
l'annullamento senza rinvio perché il fatto non è
più previsto come reato.
Il fatto di bancarotta impropria addebitato a <O.> non risulta
abbia
cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società, anzi
questo effetto
è da escludere perché secondo l'accertamento dei giudici
di merito il dissesto
già esisteva interamente e le falsità oggetto
dell'addebito riguardavano
un'operazione (l'acquisto simulato dell'impresa di <G.>) priva di
effettiva rilevanza.
Esclusa la bancarotta societaria potrebbe residuare, come si è
visto, il reato
dell'art. 2621 c.c., ma anche questo è da escludere
perché non risulta il
superamento delle soglie. Perciò anche rispetto al fatto per il
quale è stato
condannato <O.> deve pronunciarsi l'annullamento senza rinvio
perché lo
stesso non è più previsto come reato.
P.Q.M.
La Corte
di cassazione annulla senza rinvio l'impugnata sentenza perché:
1) i fatti
oggetto delle imputazioni di bancarotta fraudolenta patrimoniale (capi
A ed E)
nei confronti di <A. G.>, di <M. G. M.> e di <A. O.>
e il
fatto oggetto dell'imputazione di inosservanza degli obblighi da parte
del
fallito di cui all'art. 220 l.
fall. (capo B) nei confronti del <G.> non sussistono; 2) il fatto
oggetto
dell'imputazione di false comunicazioni sociali (capo C) nei confronti
del
<G.> e il fatto oggetto dell'imputazione di bancarotta
fraudolenta
impropria (capo F) nei confronti dell'<O.> non sono più
previsti dalla
legge come reato.
Roma 26 marzo 2003
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 GIU. 2003.
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