Cassazione penale , sez. un. , 22 gennaio 2009- 29
maggio 2009 , n. 22676, sul principio di colpevolezza, aberratio art 83
c.p. ed art 586 c.p.
nell'ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell'assunzione di
sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore
ai sensi dell'art. 586 cod. pen. per l'evento morte non voluto richiede
che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e
morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la
morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia
accertata in capo allo stesso la presenza dell'elemento soggettivo della
colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale
(diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente
di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per
il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto
di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione
dell'agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto
conosciute o conoscibili dall'agente reale.
l'unica interpretazione conforme al principio costituzionale di
colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie dell'art.
586 c.p., una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata
ad una violazione di regole cautelari di condotta e ad un coefficiente
di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto,
del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della
vita e dell'incolumità personale, intrinseca alla consumazione del
reato doloso di base. Un diverso orientamento in ordine al collegamento
soggettivo necessario per l'imputazione dell'ulteriore evento non voluto
imporrebbe di sollevare questione di legittimità costituzionale
dell'istituto per contrasto con il principio di colpevolezza, secondo cui
deve necessariamente postularsi la colpa dell'agente almeno in relazione
agli "elementi più significativi della fattispecie", fra i quali
il "complessivo ultimo risultato vietato", se non si vuole incorrere nel
divieto, ex art. 27 Cost., commi 1 e 3, della responsabilità oggettiva
cd. pura o propria.
Questa interpretazione, del resto, non solo è l'unica conforme
ai principi costituzionali, ma è anche quella che si pone più
in armonia con il vigente sistema penale, dal momento che la configurazione
di un'ipotesi di responsabilità oggettiva per l'evento più
grave non voluto, in assenza di alcun coefficiente di prevedibilità
in concreto, sarebbe anche incoerente con il regime di imputazione soggettiva
delle circostanze aggravatrici di cui all'art. 59 c.p., comma 2, come innovato
dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 1
Fatto
1.1. Il (OMISSIS) i tre amici M.E., N. R. e B.B., di (OMISSIS), si
accordarono per acquistare eroina da consumare insieme. Il N., raccolto
il denaro, si recò nel vicino paese di (OMISSIS) rivolgendosi ad
uno spacciatore dal quale si era già in precedenza rifornito e che
incontrò in un bar. Acquistate due dosi e tornato a (OMISSIS), i
tre amici assunsero l'eroina. Subito dopo il M. accusò un malore,
al quale seguì il suo decesso.
Sulla base delle indicazioni fornite dal N. e dal B. ai Carabinieri,
lo spacciatore fu identificato in R.I., nei cui confronti venne emessa
ordinanza di custodia cautelare in carcere per i reati di cui al D.P.R.
n. 309 del 1990, art. 73, artt. 83 e 586 c.p.. Il (OMISSIS) fu anche perquisita
la sua abitazione, ove furono rinvenuti e sequestrati mg. 875 di eroina
pura, trovata suddivisa in due distinti involucri e frammista a sostanza
da taglio, nonchè un bilancino di precisione.
1.2. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 10.9.1996, escluse la destinazione
ad uso personale della sostanza stupefacente rinvenuta durante la perquisizione;
ravvisò in tale detenzione il reato di cui al D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73, commi 1 e 5, e, concesse le attenuanti generiche, condannò
l'imputato alla pena di dieci mesi di reclusione e L. quattro milioni di
multa. Assolse, invece, il R. dalle ulteriori imputazioni relative alla
cessione delle due dosi di eroina al N. e alla causazione del decesso del
M., e ciò per la mancata conferma da parte del N. delle indicazioni
fornite alla polizia giudiziaria nell'immediatezza dei fatti, atteso che
il medesimo al dibattimento aveva reso dichiarazioni confuse e contraddittorie
e, pur avendo confermato di conoscere il R., aveva escluso che fosse stato
questi a vendergli la sostanza stupefacente poi rivelatasi letale.
Proposero appello l'imputato (sostenendo che lo stupefacente sequestrato
era destinato ad uso personale) e il pubblico ministero.
1.3. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 17.12.2002, confermò
la responsabilità del R. per il reato di detenzione di sostanza
stupefacente (capo C) mentre, in riforma della precedente decisione, lo
dichiarò colpevole anche degli ulteriori reati sub A) (cessione
di sostanza stupefacente) e B) (reato di cui agli artt. 83 e 586 cod. pen.,
per avere determinato quale conseguenza non voluta la morte del M., deceduto
a seguito della assunzione di parte della sostanza stupefacente ceduta
al N.). Quindi, qualificato il delitto sub A) ai sensi del D.P.R. n. 309
del 1990, art. 73, comma 5, e riconosciuta la continuazione tra i reati
sub A) e C), determinò la pena in anni due di reclusione per il
reato di cui al capo B) (omicidio colposo ex art. 586 cod. pen.) e in anni
uno, mesi sei di reclusione ed Euro 750,00 di multa per i restanti reati.
In particolare, con riferimento al reato di cui al capo C) (detenzione
di sostanza stupefacente), la corte d'appello osservò che non vi
era la prova che lo stupefacente fosse detenuto ad uso esclusivamente personale.
Con riferimento ai reati di cui ai capi A) (cessione dell'eroina al N.)
e B) (art. 586 cod. pen.), la corte ritenne invece sussistente la prova
che era stato proprio il R. a cedere al N. la droga che aveva poi cagionato
la morte del M..
1.4. Avverso tale sentenza l'imputato, a mezzo del difensore di fiducia,
ha proposto ricorso per cassazione deducendo:
1) difetto di motivazione nella valutazione delle risultanze processuali,
in quanto la sua responsabilità è stata fondata sulle dichiarazioni
rese dal N. alla polizia giudiziaria, le quali non evidenziavano indizi
gravi, precisi e concordanti;
2) erronea applicazione degli artt. 83, 586 e 589 cod. pen. perchè
l'evento letale occorso al M. gli era stato addebitato sulla base del solo
nesso di causalità materiale, in quanto la morte si era verificata
indipendentemente da ogni criterio di prevedibilità soggettiva e
per circostanze atipiche;
3) violazione dell'art. 431 cod. proc. pen. perchè le sommarie
informazioni testimoniali rese dal N. alla polizia giudiziaria nell'immediatezza
dei fatti, costituendo atti ripetibili, non erano utilizzabili;
4) illogicità della motivazione nella parte in cui ha ritenuto
non dimostrata la condizione di "abituale assuntore di eroina" del R..
1.5. La quarta sezione penale - cui il ricorso era stato assegnato
-, con ordinanza del 24.9.2008, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione
oggetto del secondo motivo di ricorso, attinente i presupposti necessari
della responsabilità ex art. 586 cod. pen. per la morte o lesione
di una persona come conseguenza non voluta di altro delitto doloso.
Rileva l'ordinanza che, al riguardo, sussiste un consistente orientamento
giurisprudenziale che - proprio con specifico riferimento ad ipotesi collegate
alla vendita di sostanze stupefacenti - ritiene sufficiente per affermare
la responsabilità del venditore il solo nesso di causalità
non interrotto da eventi eccezionali, e, nel caso di successive cessioni
di sostanza stupefacente, considera non interrotto il nesso di causalità
per effetto delle cessioni intermedie. Altre decisioni invece precisano
che la colpa consiste specificamente nella violazione di legge commessa
con il delitto doloso presupposto.
Osserva quindi l'ordinanza che più di recente, però,
si è ritenuto (sempre in un caso di morte per overdose di un soggetto
che aveva acquistato eroina) che la responsabilità ex art. 586 cod.
pen., deve essere ravvisata non sulla base del mero rapporto di causalità
materiale... fra la precedente condotta e l'evento diverso ed ulteriore,
ma solo allorquando si accerti la sussistenza di un coefficiente di "prevedibilità"
della morte o delle lesioni, sì da potersene dedurre una forma di
"responsabilità per colpa". Tale orientamento è stato adottato
perchè in linea con la tendenza dell'ordinamento verso il superamento
delle forme di responsabilità oggettiva e con due pronunce che già
si erano espresse (con riferimento ai reati di maltrattamenti in famiglia
e di sequestro di persona) per la necessità di un accertamento della
colpa, come prevedibilità in concreto dell'evento morte o lesione.
Rilevato il contrasto di giurisprudenza, la quarta sezione ha disposto
la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite penali ai sensi dell'art.
618 cod. proc. pen., formulando il seguente quesito: "se ai fini dell'accertamento
della responsabilità penale dello spacciatore per la morte dell'acquirente,
in conseguenza della cessione o di cessioni intermedie della sostanza stupefacente
che risulti letale per il soggetto assuntore, sia sufficiente la prova
del nesso di causalità materiale fra la precedente condotta e l'evento
diverso ed ulteriore, purchè non interrotto da cause sopravvenute
di carattere eccezionale, ovvero debba essere dimostrata anche la sussistenza
di un profilo colposo per non aver preveduto l'evento".
Il Primo Presidente ha quindi assegnato il ricorso alle Sezioni Unite
penali per la trattazione alla pubblica udienza del 22 gennaio 2009.
Diritto
2.1. In ordine al reato di detenzione di eroina per uso non esclusivamente
personale (capo C), il ricorrente, con il quarto motivo di ricorso, deduce
manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui è
stata ritenuta non provata la sua qualità di assuntore abituale
di eroina, nonostante la documentazione prodotta dimostrasse il permanere
di uno stato di tossicodipendenza.
Il motivo si risolve in una censura in fatto della decisione impugnata,
con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze
processuali non consentita in questa sede di legittimità, ed è
comunque manifestamente infondato. La corte d'appello, infatti, ha fornito
congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle ragioni per le quali ha
ritenuto che la sostanza stupefacente in questione fosse detenuta dall'imputato
per uso non esclusivamente personale, e ciò in considerazione sia
del fatto che non era stata fornita la prova di un effettivo stato di tossicodipendenza
anche all'epoca del sequestro (dalla documentazione prodotta si evinceva
solo una frequentazione discontinua del SERT, almeno negli anni precedenti);
sia del fatto che, anche se sussistente, uno stato di tossicodipendenza
non avrebbe comunque giustificato il possesso di una scorta di droga per
il proprio bisogno personale, della cui necessità non erano stati
forniti accettabili motivi; sia inoltre delle modalità di conservazione
del quantitativo di eroina (trovato suddiviso in due distinti involucri
e già miscelato con sostanza da taglio) nonchè dell'accertato
possesso di un bilancino di precisione.
2.2. In ordine al reato di cui al capo A) (cessione al N. di eroina
in data (OMISSIS)) il ricorrente lamenta innanzitutto, con il terzo motivo,
violazione dell'art. 431 cod. proc. pen. perchè le sommarie informazioni
testimoniali rese dal N. alla polizia giudiziaria nell'immediatezza dei
fatti non erano utilizzabili, in quanto atti ripetibili.
Il motivo è infondato perchè la corte d'appello non ha
utilizzato le dichiarazioni rese dal N. ai carabinieri subito dopo la morte
del M., bensì le risultanze della istruttoria dibattimentale ed
in particolare le deposizioni degli ufficiali di polizia giudiziaria, i
quali avevano riferito non tanto sulle rivelazioni del N., quanto piuttosto
sugli esiti delle indagini immediatamente svolte sulla base delle informazioni
del N.. In particolare, la corte ha utilizzato le dichiarazioni del brig.
Bo., che aveva riferito di avere subito avvertito i carabinieri di Cave
e di avere appreso da essi che l'unico I. ivi residente era il R., conosciuto
come assuntore di sostanze stupefacenti; le dichiarazioni del mar. C.,
che aveva confermato il riferimento ad un " I." e la descrizione dei caratteri
somatici di costui;
nonchè le dichiarazioni rese in dibattimento dallo stesso imputato,
il quale aveva ammesso di abitare nei pressi del bar dove era stata ceduta
la droga e di portare in quel periodo la barba. Del resto, il N. aveva
ripetuto anche in dibattimento che lo spacciatore si chiamava I.. La corte
d'appello, pertanto, ha fondato il suo convincimento sulla complessiva
valutazione delle risultanze dibattimentali e non sulle prime informazioni
rese dal N. alla polizia giudiziaria.
2.3. Con il primo motivo il ricorrente lamenta che la corte d'appello
avrebbe ritenuto provata la sua responsabilità sulla base di indizi
che non sarebbero certi, precisi e concordanti perchè: era equivoca
la circostanza che egli abitasse vicino al bar (OMISSIS); non era concludente
il fatto che il N. avesse indicato lo spacciatore con il nome di I. (potendo
aver riferito un nome a caso); era irrilevante che egli portasse la barba;
la descrizione fisica offerta dal N. era molto generica; non era provato
che egli fosse l'unico abitante di (OMISSIS) a chiamarsi I.; non vi era
la prova che l'eroina trovata nella sua abitazione fosse la stessa che
aveva causato la morte del M..
Anche questo motivo si risolve in realtà in una censura in punto
di fatto con la quale ci si limita a chiedere, in questa sede di legittimità,
una lettura alternativa delle risultanze probatorie. Il motivo è
comunque infondato perchè la corte d'appello ha ritenuto provato
che fosse stato effettivamente il R. a cedere l'eroina al N. quando questi
si recò a (OMISSIS) per acquistarla il (OMISSIS), con una motivazione
del tutto congrua ed adeguata, fondata su una serie di elementi gravi,
precisi e concordanti, quali il fatto che il N. aveva nell'immediatezza
riferito prima al brigadiere Bo. e poi al maresciallo C. che il fornitore
si chiamava I., descrivendone i caratteri somatici;
che i carabinieri di Cave erano subito risaliti al R., conosciuto come
l'unico assuntore di sostanza stupefacente di nome I. residente nella cittadina,
già condannato per violazioni della legge sugli stupefacenti; che
il N. aveva confermato in dibattimento di conoscere il R. e di essersi
rifornito da un individuo di nome I. (pur rendendo dichiarazioni confuse
e contraddittorie, e dunque poco credibili, sulla identificazione dello
spacciatore, in contrasto con l'esplicita e diretta indicazione in tal
senso fatta immediatamente dopo la morte dell'amico); che il R. abitava
proprio nelle vicinanze del bar dove era stata ceduta l'eroina ed aveva
confermato alcune delle proprie caratteristiche somatiche descritte dal
N.. Il fatto poi che non sia stata fornita la prova che l'eroina che aveva
cagionato la morte del M. fosse la medesima trovata nella abitazione del
R. è palesemente irrilevante, dal momento che il sequestro della
sostanza stupefacente avvenne oltre tre mesi dopo l'episodio della vendita
dell'eroina al N..
In conclusione, il primo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso
devono essere rigettati con conseguente conferma della sentenza impugnata
relativamente alle condanne per i reati di cui ai capi A) e C).
3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge
perchè la morte del M. gli è stata addebitata sulla base
del solo nesso di causalità materiale, senza tener conto che egli,
al momento in cui aveva venduto un ridotto quantitativo di droga al N.,
non poteva prevedere che questi avrebbe organizzato con gli amici un festino
a base di alcol e sostanze stupefacenti, nè poteva conoscere il
precario stato di salute del M., il quale assumeva notevoli quantità
di medicinali ed era dedito all'alcol.
Effettivamente, la corte d'appello ha rilevato che la consulenza tecnica
aveva attribuito la morte a narcotismo, esaltato nei suoi effetti dalla
contemporanea assunzione di alcol etilico, anch'esso depressivo del sistema
nervoso centrale. La Corte ha quindi ritenuto che ai fini dell'art. 586
cod. pen. "il rapporto tra il fatto doloso (lo spaccio di sostanza stupefacente)
e l'evento non voluto (la morte del tossicodipendente) è di causalità
materiale, sicchè l'imputato, autore del delitto doloso, deve rispondere
a titolo di colpa dell'evento morte non voluto indipendentemente o anche
in assenza di qualsiasi errore o altro fatto colposo o accidentale: in
altri termini, l'azione dell'agente è considerata causa dell'evento,
ancorchè altre circostanze, a lui estranee e di qualsiasi genere,
abbiano concorso alla sua produzione, perchè il comportamento (doloso)
dell'agente costituisce pur sempre una delle condizioni dell'evento". La
corte ha anche precisato che chi cede la droga risponde della morte del
tossicodipendente essendo prevedibile che dalla cessione possa conseguire
un effetto letale, trattandosi di conseguenza non infrequente. Ha poi escluso
che vi sia stata una interruzione del rapporto di causalità a seguito
della successiva cessione dal N. al M., e "ciò perchè la
morte è pur sempre derivata dalla originaria sua abusiva cessione
dell'eroina".
Ed ha infine affermato che "il delitto di cui all'art. 586 cod. pen.
non è caratterizzato da mera responsabilità oggettiva, ma
da una responsabilità a titolo di colpa per avere l'agente, col
proprio comportamento doloso, posto una delle condizioni idonee a cagionare,
su un piano di concreta prevedibilità, l'evento dannoso o letale
per l'assuntore della sostanza stupefacente".
Nonostante queste precisazioni, è tuttavia evidente che la corte
d'appello ha in realtà ritenuto l'imputato responsabile del reato
di cui all'art. 586 cod. pen. per la morte del M., a puro titolo di responsabilità
oggettiva e sulla sola base del nesso di causalità materiale.
4. Sebbene il quesito sottoposto alle Sezioni Unite sia stato formulato
con specifico riferimento alla responsabilità penale dello spacciatore
in conseguenza della cessione o di cessioni intermedie della sostanza stupefacente
cui sia seguita la morte dell'assuntore, la questione deve essere esaminata
e risolta considerando, in via generale, la natura e l'ambito della responsabilità
prevista dall'art. 586 cod. pen..
Come è noto, l'art. 586 cod. pen. (Morte o lesioni come conseguenza
di altro delitto) dispone che "Quando da un fatto preveduto come delitto
doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la
lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell'art. 83 c.p.,
ma le pene stabilite negli artt. 589 e 590 sono aumentate". L'art. 83 cod.
pen. (Evento diverso da quello voluto dall'agente) a sua volta prevede
che "Fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, se per errore nell'uso
dei mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra causa, si cagiona un
evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa,
dell'evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge
come delitto colposo. Se il colpevole ha cagionato altresì l'evento
voluto si applicano le regole sul concorso dei reati". Secondo l'opinione
prevalente, condivisa dal Collegio, l'art. 586 c.p. è norma speciale
rispetto all'art. 83 c.p., comma 2 (aberratio delicti plurilesiva), avendo
in comune una condotta base dolosa ed una conseguente produzione non voluta
anche di un'altra e diversa offesa, e come elementi specializzanti la natura
del reato base che deve essere un delitto e la natura dell'offesa non voluta
che deve consistere nella morte o nelle lesioni (Sez. 1, 14.11.2002, n.
2595, Solazzo; Sez. 1, 2.4.1986, n. 11486, Navarino, m. 174058; Sez. 2,
6.11.1984, n. 1352, Frisina, m. 167810). Secondo altra opinione, invece,
dovrebbe escludersi un rapporto di genere a specie perchè l'art.
586 c.p., a differenza dell'art. 83 c.p., comma 2, non subordina la responsabilità
alla presenza di un "errore nell'uso dei mezzi di esecuzione" o di "un'altra
causa" (Sez. 4, 20.6.1985, n. 1673, Perinciolo, m. 171976; Sez. 1, 25.3.1985,
n. 6395, Di Maio, m.
169934).
Morte o lesioni devono comunque costituire una conseguenza non voluta,
e quindi non devono essere sorrette da alcun coefficiente di volontà,
nemmeno nel grado minimo del dolo eventuale, giacchè in tal caso
l'agente risponde anche dell'ulteriore delitto di omicidio volontario o
di lesioni volontarie in concorso con il delitto inizialmente voluto (Sez.
1, 19.6.2002, Persechino; Sez. 1, 21.12.1993, Rodaro, m. 197756; Sez. 1,
3.6.1993, Piga, m. 195270;
Sez. 1, 11.10.1988, Scavo, m. 182196; Sez. 1, 13.10.1097, Lollo, m.
178194; Sez. 3, 13.11.1985, Salvo, m. 171945; Sez. 2, 6.11.1984, Frisina,
m. 167810; Sez. 4, 20.12.1984, Boncristiano, m. 169186).
5.1. In ordine alla natura ed al criterio di imputazione della responsabilità
per la morte o le lesioni non volute ai sensi dell'art. 586 cod. pen.,
sono ravvisabili in giurisprudenza ed in dottrina diversi orientamenti.
Secondo un primo - e per lungo tempo assolutamente prevalente - orientamento
giurisprudenziale, morte e lesioni non volute devono essere imputate all'autore
del delitto base doloso in virtù del solo nesso di causalità
materiale. Sarebbe quindi superflua una indagine specifica sulla sussistenza,
in concreto, degli estremi della colpa in relazione all'evento non voluto,
essendo necessaria semplicemente l'indagine sulla condotta esecutiva del
delitto doloso e l'accertamento che il nesso eziologico non sia stato spezzato
da fattori eccezionali non ascrivibili all'agente ed al di fuori della
sua sfera di controllo, e cioè da cause sopravvenute che siano state
da sole sufficienti a determinare l'evento. L'art. 586 c.p., dunque, al
pari della norma "generale" sull'aberratio delicti plurilesiva di cui all'art.
83 c.p., comma 2, prevedrebbe una ipotesi di responsabilità oggettiva,
ispirata alla regola del qui in re illicita versatur respondit etiam pro
casu, in forza della quale l'autore di un delitto deve rispondere oggettivamente
per le conseguenze ulteriori non volute di tale delitto.
Questo indirizzo interpretativo risale a Cass. 17.4.1939, Rossi, ed
è stato seguito, tra l'altro, da Cass. 10.4.1945, Gatta; Sez. 1,
14.4.1982, Maccanti, m. 156067; Sez. 1, 25.3.1985, Di Maio, m.
169934; Sez. 6, 8.3.1988, Lucarelli, m. 179343; Sez. 2, 14.2.1990,
Bevilacqua, m. 184598 (secondo cui l'art. 586 cod. pen. stabilisce il rapporto
tra delitto voluto ed evento non voluto in termini di pura e semplice causalità
materiale; perchè se l'autore ha agito nonostante avesse previsto
l'evento mortale, ne risponde a titolo di dolo indiretto; mentre se quest'ultimo
manca e il nesso di causalità non sia interrotto ne risponde a titolo
colposo); Sez. 1, 28.5.1993, Cimare, m. 194773; Sez. 2; 15.2.1996, Caso,
m. 205374 (secondo cui si tratta di un caso in cui "l'evento è posto
altrimenti a carico dell'agente come conseguenza della sua azione o omissione"
ai sensi dell'art. 42 c.p., comma 3); Sez. 4, 25.1.2006, Bellino, m. 234187.
La teoria della responsabilità oggettiva e della sufficienza
del solo nesso di causalità è stata applicata soprattutto
in tema di morte conseguente alla cessione illecita di sostanze stupefacenti.
Secondo la giurisprudenza dominante, invero, l'art. 586 c.p. può
trovare applicazione nei confronti di colui che, a qualsiasi titolo illecito,
cede una sostanza stupefacente (così integrando il delitto di cui
al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73) in caso di morte del cessionario intervenuta
a seguito della assunzione della sostanza ceduta. In questa ipotesi, lo
spacciatore risponderebbe a titolo di responsabilità oggettiva,
e sarebbe quindi sufficiente la prova del nesso di causalità materiale
fra la precedente condotta e l'evento- morte, non interrotto da cause sopravvenute
di carattere eccezionale, mentre non occorrerebbe espletare alcuna indagine
sull'esistenza della colpa, la cui presenza non sarebbe necessaria. In
particolare, in caso di successive, plurime, cessioni dello stupefacente,
l'art. 586 c.p. sarebbe applicabile sia al cedente immediato (ossia a colui
che ha direttamente ceduto alla vittima la dose rivelatasi fatale) sia
anche al cedente mediato (ossia al fornitore del cedente immediato). E
ciò perchè il nesso di causalità tra la prima cessione
e la morte dell'ultimo cessionario, sopravvenuta quale conseguenza non
voluta dell'assunzione della sostanza, non sarebbe interrotto in conseguenza
delle successive cessioni, le quali vanno considerate come fattori concausali
non eccezionali ed anzi del tutto prevedibili. In questo senso, cfr., tra
le altre, Sez. 1, 3.5.1986, Volta, m. 174082; Sez. 6, 4.11.1988, Soloperto,
m, 179930 (per le cessioni successive); Sez. 6, 7.3.1989, Foianesi, m.
181546; Sez. 4, 19.10.1989, Angelelli, m. 183623; Sez. 6, 4.3.1989, Bodini,
m.
183885; Sez. 6, 22.3.1990, Pergolesi, m. 186020; Sez. 4, 28 giugno
1991, Greco, m. 188768 (secondo cui l'autore del delitto doloso risponde
a titolo di colpa dell'evento morte non voluto anche in assenza di qualsiasi
errore o altro fatto colposo o accidentale, mentre non esclude il nesso
di causalità il fatto che la dose venduta ed assunta fosse non eccessiva,
e che la morte fosse dovuta non ad overdose ma ad una assunzione di alcol,
ignota al cedente, che aveva accentuato l'effetto del narcotico); Sez.
4, 28.2.1994, Preto, m. 197762; Sez. 4, 31.10.1995, D'Aguanno, m. 203618;
Sez. 6, 19 novembre 1997, Paralupi, m. 210441; Sez. 6, 5.6.2003, Ciceri,
m.
226254 (secondo cui l'assunzione di alcol non è una concausa
sopravvenuta, non prevedibile, tale da interrompere il nesso causale).
5.2. La tesi secondo la quale nella fattispecie prevista dall'art.
586 cod. pen. (ed in quella più generale di cui all'art. 83 cod.
pen.), la responsabilità per l'evento non voluto (morte o lesioni)
si fonderebbe sul solo nesso causale ed avrebbe quindi natura oggettiva
è stata sostenuta anche da una parte della dottrina, principalmente
sulla base di tre argomenti.
Innanzitutto, si è osservato che la lettera della legge non
richiede esplicitamente che la produzione dell'evento sia determinata da
colpa; l'inciso "a titolo di colpa", contenuto nell'art. 83 c.p. (richiamato
dall'art. 586 c.p.), si riferirebbe, quindi, solo alle conseguenze sanzionatorie
(nel senso che l'evento non voluto viene punito come se fosse colposo),
e non al fondamento della responsabilità, che rimarrebbe oggettiva.
In secondo luogo, e soprattutto, si è fatto leva sulla considerazione
che altrimenti la norma sarebbe superflua, perchè sia l'art. 83
c.p. (nella parte in cui prevede la responsabilità dell'agente e
nella parte in cui richiama le regole sul concorso di reati) sia l'art.
586 c.p. sarebbero del tutto inutili qualora si limitassero a stabilire
l'imputabilità dell'evento non voluto solo in presenza dei requisiti
ordinari della colpa.
In terzo luogo, si è affermato che il criterio di imputazione
fondato sulla responsabilità oggettiva sarebbe conforme alla logica
di rigore, ispirata a ragioni repressive, che connoterebbe l'atteggiamento
del legislatore storico nei confronti del complessivo fenomeno del reato
aberrante.
Nessuno di questi argomenti è però decisivo, come ha
rilevato altra parte della dottrina.
Quanto al primo, si è invero osservato che non solo in dottrina
e in giurisprudenza, ma anche nello stesso linguaggio legislativo, l'espressione
"a titolo di colpa" è utilizzata per designare, insieme, sia il
titolo sia il fondamento della responsabilità. Il legislatore, ad
esempio, ha utilizzato tale formula per indicare fattispecie strutturalmente
colpose con le riforme che hanno novellato il testo dell'art. 57 cod. pen.
e dell'art. 1217 c.n. (rispettivamente L. 4 marzo 1958, n. 127 e L. 5 giugno
1962, n. 616).
Invero, pronunciandosi in ordine a queste ultime ipotesi criminose,
la Corte costituzionale (rispettivamente con la sent. n. 198 del 1982 e
la sent. n. 42 del 1966) ha riconosciuto il fondamento colposo della responsabilità;
ed anche questa Corte ha individuato nella colpa il fondamento della responsabilità
prevista dal nuovo testo dell'art. 57 cod. pen. (Sez. Un., 18 novembre
1958 n. 18, Clementi, m. 98038).
Quanto alla funzione delle previsioni normative, si è rilevato
- oltre al fatto che nella parte generale del codice penale del 1930 sono
numerose le norme superflue - che l'art. 586 cod. pen., non si limita a
ribadire i principi generali, ma sancisce anche un aggravamento della pena
irrogabile per l'omicidio e le lesioni colpose, mentre l'art. 83 c.p. fu
introdotto allo scopo di impedire una imputazione dolosa di ipotesi ordinarie
di fatti colposi.
Inoltre, nelle intenzioni del legislatore storico, l'art. 83 c.p.,
comma 2 aveva una finalità meramente dichiarativa, cioè quella
di "non lasciare alcun dubbio sull'applicabilità della regola sul
concorso di reati" (cfr. la Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo,
in Lav. Prep., vol. 5, parte 1, p. 138). In ogni caso, nella alternativa
tra una interpretazione che assegni ad una disposizione una funzione innovativa,
ma costituzionalmente inaccettabile, ed una diversa interpretazione che
le assegni una funzione meramente esplicativa di principi altrove affermati,
ma compatibile con il dettato costituzionale, si deve optare per la seconda,
tanto più se essa è in linea con l'intenzione del legislatore
e compatibile con la lettera della legge.
Quanto al terzo argomento, si è osservato che dall'analisi dei
lavori preparatori emerge che con il testo definitivo dell'art. 586 c.p.
si intese invece attenuare l'asprezza sanzionatoria originariamente introdotta
nel progetto preliminare per l'ipotesi di morte o lesioni quale conseguenza
non voluta di altro delitto, e che la previsione dell'aberratio delicti
venne inserita nel progetto definitivo allo scopo di evitare che "potesse
(...) giungersi ad un trattamento troppo severo, elevando a casi di responsabilità
dolosa ed obiettiva ipotesi ordinarie di fatti colposi" (cfr. la Relazione
del Guardasigilli sul progetto definitivo, in Lav. Prep., vol. 5, parte
1, p. 135). Del resto, anche durante i lavori della Commissione Parlamentare,
fu più volte sottolineata l'opportunità di riservare all'aberratio
delicti un trattamento sanzionatorio meno rigoroso di quello previsto per
l'aberratio ictus.
6.1. Un secondo orientamento ravvisa nella fattispecie prevista dall'art.
586 cod. pen. una responsabilità per colpa specifica, fondata sulla
inosservanza della norma penale incriminatrice del reato base doloso. Si
è affermato, in questo senso, che l'art. 586 c.p. "è norma
di chiusura e di rafforzamento del sistema di tutela della vita e della
incolumità fisica e trova applicazione ogni qual volta la morte
sia conseguenza non voluta di un delitto doloso qualunque ne sia la natura,
e, quindi, anche quando il fatto tipico, di per sè, non costituisca
pericolo per il bene giuridico protetto, sempre che tra l'illecito comportamento
del soggetto e l'evento non voluto (morte o lesione) sussista un rapporto
di causalità materiale. L'evento lesivo, conseguente dal delitto
doloso commesso, è imputato al colpevole, a titolo di colpa, per
violazione di legge, perchè l'art. 43 cod. pen. annovera tra i criteri
di qualificazione dei comportamenti colposi (in aggiunta alla imprudenza,
imperizia e negligenza), anche l'inosservanza della legge. Invero tale
espressione non limita questo modo di essere della colpa alla sola violazione
di legge a carattere squisitamente o esclusivamente cautelare, ma comprende
anche la violazione delle stesse norme penali incriminatrici, mentre l'art.
586 c.p. attribuisce alle disposizioni incriminatrici, che prevedono i
singoli delitti, oltre la funzione loro propria di tutela del singolo bene,
anche il carattere ulteriore ed accessorio di norme che mirano a prevenire,
attraverso la sanzione penale, l'eventuale lesione di beni giuridici, tutelati
mediante le ipotesi di reato colposo, che possono essere prodotte a causa
della commissione dei delitti dolosi" (così Sez. 1, 2.4.1986, Navarino,
m.
174058; nello stesso senso Sez. 4, 11.1.1995, Masser, m. 201242;
secondo cui la commissione stessa del reato doloso si pone come ipotesi
di colpa specifica, sicchè non è necessaria la presenza in
concreto di una colpa generica; Sez. 3, 6.12.1995, Sonderegger, m.
204469). Con particolare riguardo all'ipotesi di morte conseguente
all'assunzione di sostanze stupefacenti, si è sostenuto che l'evento
morte è addebitato al fornitore, anche non immediato, della sostanza,
a norma dell'art. 586 c.p., a titolo di colpa, consistita nella violazione
della legge sullo spaccio di stupefacenti e nella conseguente prevedibilità
dell'evento letale (Sez. 5, 9.11.1988, Montoli, m. 183396; Sez. 6, 27.10.1992,
Nicolace, m. 193239; Sez. 6, 11.3.1994, Melotto, m. 197848).
Alla base di questo indirizzo vi è quindi l'idea che la disciplina
legislativa sulle sostanze stupefacenti svolgerebbe anche un ruolo di prevenzione
delle offese all'integrità fisica dei cittadini.
6.2. Anche una parte della dottrina ha individuato nella colpa per
violazione di legge penale il criterio di imputazione dell'evento non voluto
di cui agli artt. 83 e 586 cod. pen., sostenendo che ogni norma penale
svolge, accanto alla funzione repressiva, anche una funzione preventiva,
contenendo il divieto di realizzare una determinata condotta che, per la
sua spiccata pericolosità, appare contraria alle esigenze di prevenzione
poste alla base dell'incriminazione di un reato colposo. Poichè,
nei casi di aberratio, la condotta costituisce violazione della legge penale
che punisce il reato doloso, ne discende che l'ulteriore evento non voluto,
cagionato da tale condotta, risulta colposo per inosservanza di legge,
ai sensi dell'art. 43 cod. pen.. Si tratterebbe di una colpa presunta.
che rende superflua qualsiasi indagine sulla prevedibilità dell'evento
o comunque sulla configurabilità di una effettiva imprudenza, negligenza
o imperizia.
6.3. E' bene mettere subito in rilievo che la tesi della colpa specifica
per violazione della legge penale, o della colpa presunta, nella sostanza
non si differenzia dalla tesi della responsabilità oggettiva, la
quale viene in realtà verbalmente camuffata sotto le vesti di una
colpa (sempre ed immancabilmente presente), consistente nella violazione
di quella stessa legge penale che incrimina il delitto base doloso. Le
due tesi invero portano a risultati sostanzialmente identici, ossia a ritenere
la sufficienza del solo nesso causale per fondare la responsabilità
rispetto all'evento non voluto. Ciò del resto è stato avvertito
anche dalla più accorta giurisprudenza, che ha evidenziato la sostanziale
identità dell'accollo dell'evento morte o lesioni a titolo di responsabilità
oggettiva o di "colpa presunta", pur se mascherata dietro il riferimento
alla colpa specifica da inosservanza della legge penale secondo la tradizionale
regola del "versari in re illicita" (Sez. 1, 19.10.1998, D'Agata, m. 211611).
La tesi è stata peraltro giustamente criticata da gran parte
della più moderna dottrina, che ha rilevato come essa comporta uno
stravolgimento dell'essenza dell'illecito colposo, costituita dalla violazione
di una determinata regola cautelare preventiva, ossia di precauzioni doverose
al fine di impedire il verificarsi di un determinato evento in pregiudizio
di terzi. Ed infatti, anche le leggi richiamate dall'art. 43 cod. pen.
(insieme ai regolamenti, ordini o discipline) per individuare il fondamento
di una colpa specifica, sono costituite solo da quelle fonti che pongono
regole e prescrizioni di carattere preventivo di un certo evento in danno
di terzi. Ora, se è vero che le norme penali hanno una finalità
genericamente preventiva, è altrettanto vero che non tutte le norme
penali sanzionano la violazione di regole specificamente cautelari, del
tipo di quelle necessarie ad integrare una responsabilità colposa.
Sono quindi, ad esempio, escluse dall'ambito delle leggi di cui all'art.
43 cod. pen. quelle con finalità direttamente repressiva, ossia
destinate a punire la lesione di determinati beni giuridici e non a prescrivere
cautele relativamente a fatti diversi, conseguenti alla loro violazione.
Più in generale si osserva che l'attribuzione alle norme penali
di una duplice funzione, repressiva e preventiva, sarebbe insostenibile
anche sotto il profilo logico. La medesima norma penale, invero, diventerebbe
in tal modo espressione di due significati confliggenti:
da un lato, il divieto di tenere una condotta dolosa; dall'altro, il
comando di eseguire tale condotta con cautela. L'obbligo di cautela, quindi,
non può scaturire dalla stessa norma penale repressiva della condotta
dolosa, ma esclusivamente da una diversa ed autonoma regola cautelare.
Del resto, le regole cautelari che si pretenderebbe di desumere dalle singole
norme incriminatrici non contengono solitamente l'indicazione di alcuna
specifica modalità di condotta diretta a prevenire l'evento morte
o lesioni. Tutt'al più si potrebbe individuare un obbligo di cautela
assolutamente generico ed indifferenziato, ma la colpa non consiste nella
violazione di una generica obbligazione di diligenza dal contenuto neutro
ed indeterminato, bensì nella violazione di una specifica regola
di diligenza, il cui contenuto va di volta in volta determinato in base
alle circostanze del caso concreto. La colpa è invero violazione
di una regola di condotta che prescrive le modalità di comportamento
da adottare in un caso concreto per evitare il verificarsi di uno specifico
evento offensivo.
Per quanto riguarda più in particolare l'assunto secondo cui
le norme penali sugli stupefacenti sarebbero poste a tutela della salute
pubblica, intesa come autonomo bene di sintesi rispetto alle offese alla
vita e alla incolumità personale dei singoli individui e quindi
svolgerebbero anche un ruolo di regole di prevenzione delle offese alla
integrità fisica dei cittadini, si è ricordato (anche sulla
base delle indicazioni contenute nella sent. n. 333 del 1991 della Corte
costituzionale) che lo scopo immediato e diretto della legislazione in
materia di stupefacenti è costituito dalla repressione del mercato
illegale della droga; mentre la tutela della salute pubblica rappresenta,
insieme alla tutela della sicurezza e dell'ordine pubblico, soltanto uno
scopo ulteriore della normativa oggettiva. Si è inoltre osservato
che, attribuendo alle incriminazioni speciali della normativa sugli stupefacenti
il ruolo di regole cautelari volte direttamente a prevenire i singoli eventi
di lesioni o di morte dei potenziali consumatori, si corre il rischio di
sfuocare il giudizio di colpa, che sorgerebbe anche in relazione ad eventi
cagionati con violazione delle norme con un fine non direttamente precauzionale
ma piuttosto di tutela anticipata dei beni giuridici. Un analogo ragionamento
dovrebbe valere per tutte le incriminazioni di offese a beni collettivi,
indipendentemente dalla verifica se esse codifichino o meno regole di diligenza,
prudenza, perizia nello svolgimento delle rispettive attività. In
tal modo però si finirebbe per ampliare enormemente il novero delle
leggi penali idonee a costituire la responsabilità per colpa.
7. Un terzo orientamento - sovente sostenuto dalla giurisprudenza unitamente
alla tesi della colpa presunta per violazione della legge penale - richiede,
per poter imputare l'evento morte o lesioni ex art. 586 cod. pen., oltre
al nesso causale, anche la prevedibilità dell'evento, facendo però
riferimento ad una prevedibilità in astratto. Questo indirizzo -
seguito soprattutto da decisioni in tema di morte da assunzione di sostanze
stupefacenti - si sostanzia nella quasi totalità dei casi, in un
richiamo ad un criterio di prevedibilità in re ipsa, meramente formale
e di stile, senza che sia condotta in realtà nessuna indagine, in
concreto, sul decorso causale e sull'evento finale, per ricostruire le
specifiche modalità di verificazione dell'evento che, nel caso di
specie, avrebbero reso prevedibili la morte o le lesioni. Solitamente si
parla di prevedibilità desunta dalla notorietà, dall'ordinarietà
o dalla frequenza del pericolo connesso ad un certo tipo di condotta, o
di prevedibilità secondo l'id quod plerumque accidit, o desunta
dal pericolo insito, in via presuntiva, nel delitto doloso di base. In
particolare, nel caso di violazioni della legge sugli stupefacenti, la
prevedibilità, sempre valutata in astratto, viene desunta dalla
notorietà della frequenza di casi letali dopo l'assunzione di determinate
sostanze stupefacenti (come l'eroina).
Possono, ad esempio, collocarsi in questo ambito: Sez. 6, 6.12.1988,
Coppola, m. 180420 (secondo cui è noto, e pertanto prevedibile,
che l'eroina provoca azione depressiva del sistema nervoso centrale, con
riflessi su quello circolatorio e che tale azione è, nei casi più
gravi, la causa ultima del decesso); Sez. 5, 9.11.1988, Montoli, m.
183396; Sez. 6, 14.11.1988, Buzzo, m. 179839; Sez. 6, 24.1.1989, Irritano,
m. 180747 (secondo cui l'evento morte è fatto non imprevedibile
e non eccezionale); Sez. 6, 27.10.1992, Nicolace, m.
193239; Sez. 6, 11.3.1994, Melotto, m. 197848.
In tutti questi casi la prevedibilità dell'evento è automaticamente
dedotta, in astratto, dalla indubbia destinazione della droga ceduta all'assunzione
e dalla constatazione che ciò, secondo la comune esperienza, può
cagionare la morte dell'assuntore. E' però evidente che il criterio
della prevedibilità in astratto è invocato come mero omaggio
formale al principio di colpevolezza, e che in realtà anche questa
tesi della prevedibilità in astratto si pone sullo stesso piano
di quella della responsabilità oggettiva e di quella della colpa
presunta per violazione della legge penale. In tutti e tre i casi, infatti,
in sostanza la responsabilità viene fondata sul solo nesso causale,
perchè l'evento morte non voluto viene sempre messo a carico del
soggetto che ha compiuto il delitto doloso sulla sola base del nesso di
causalità tra tale delitto e l'evento non voluto, indipendentemente
da una indagine sull'elemento psicologico ad esso relativo.
8. Un quarto orientamento - soprattutto dottrinario - è costituito
dalla tesi della cd. responsabilità da rischio totalmente illecito.
Secondo questa tesi, nella fattispecie di cui all'art. 586 cod. pen.
l'autore del reato base risponde dell'evento letale non voluto a titolo
di responsabilità oggetti va, ossia per una responsabilità
senza dolo nè colpa, fondata sul solo nesso causale, ma che tuttavia
non si porrebbe in contrasto con il principio di colpevolezza di cui all'art.
27 Cost.. E ciò perchè il principio di responsabilità
colpevole, o della personalità dell'illecito, non implicherebbe
necessariamente una responsabilità per dolo o per colpa, ma solo
che il soggetto sia eticamente rimproverabile per il fatto, ossia che vi
sia la possibilità di un suo dominio personale sul fatto. Questa
possibilità sarebbe assicurata dalla prevedibilità ed evitabilità
dell'evento nella situazione concreta, requisiti questi che risulterebbero
dal combinato disposto dell'art. 42 c.p., comma 3, con l'art. 45 cod. pen.,
che da rilevanza al caso fortuito (imprevedibilità dell'evento)
ed alla forza maggiore (inevitabilità dell'evento) in tutte le forme
di responsabilità. Questa teoria parte dal presupposto che la colpa
richiede la violazione di una regola cautelare nell'ambito di una attività
in se stessa lecita, ossia che il soggetto superi il limite di rischio,
che accompagna tutte le attività lecite e che gli è consentito
dall'ordinamento.
Sarebbe invece impossibile muovere un rimprovero per colpa a chi agisce
in un ambito illecito, poichè, quando è già vietata
l'attività di base, non è possibile configurare regole cautelari
e quindi non si può parlare di colpa. Quindi, responsabilità
per colpa e responsabilità da rischio totalmente illecito avrebbero
in comune il requisito della prevedibilità ed evitabilità
dell'evento, ma mentre nella prima ipotesi la colpa si connoterebbe, ulteriormente,
per la violazione di una regola cautelare con superamento del rischio consentito,
nella seconda ipotesi, poichè l'agente tiene una condotta base illecita,
non sarebbero necessari la violazione di regole cautelari o il superamento
del rischio consentito, ma l'assunzione del rischio totalmente illecito
giustificherebbe di per sè l'attribuzione della responsabilità
ed un trattamento sanzionatorio più rigoroso di quello previsto
per i reati colposi.
Non è questa la sede per esaminare criticamente questa teoria.
E' sufficiente rilevare che, nella pratica, l'ambito di applicazione di
una responsabilità da rischio totalmente illecito potrà essere
notevolmente diverso a seconda del concetto di prevedibilità ed
evitabilità dell'evento che poi si adotta ed in particolare a seconda
che si richieda una prevedibilità ed evitabilità da valutarsi
in astratto o in concreto, e, in questa seconda ipotesi, da valutarsi da
un punto di vista soggettivo (cioè del concreto soggetto agente)
ovvero oggettivo (cioè di un agente ideale, più o meno modellato
sulle caratteristiche dell'agente concreto). Ed invero, nella prima ipotesi
i risultati pratici saranno simili a quelli della teoria della responsabilità
oggettiva, mentre se si giunge ad adottare un criterio di valutazione della
prevedibilità ed evitabilità secondo gli stessi parametri
che si utilizzano ai fini del giudizio sulla colpa, la responsabilità
da rischio totalmente illecito viene a differenziarsi notevolmente dalla
responsabilità oggettiva finendo per avvicinarsi sempre più
a quella per colpa.
Si è peraltro ricordata qui questa teoria perchè generalmente
si ritiene che essa sia stata accolta, nel suo nucleo essenziale, da due
pronunce di questa Corte, e precisamente da Sez. 1, 28.5.1993, n. 7566,
Cimare, m. 194773, e da Sez. 1, 29.1.1997, n. 2955, Sambataro, m. 207274.
Con la prima decisione (relativa ad una condanna, ex art. 586 c.p.
per morte conseguente al delitto di violazione di domicilio, di un soggetto
che era entrato nel cortile dell'abitazione di un tizio che lo aveva rimproverato
e che successivamente era morto per fissurazione di un aneurisma da cui
era affetto), è stato affermato il principio che "nel reato di cui
all'art. 586 cod. pen. è solo il nesso di causalità materiale,
legato alla precedente condotta delittuosa dell'agente, che giustifica
il giudizio di responsabilità per l'evento non voluto", ma si è
peraltro escluso che si tratterebbe di una ipotesi di responsabilità
obiettiva essendo invece l'evento punito a titolo di colpa, perchè
è "già punita l'attività volontaria di base, di guisa
che se essa è rischiosa non v'è motivo per sollevare il colpevole
per una parte del rischio corso, collegata con nesso di causalità
materiale", aggiungendo che "dove manca l'area lecita di rischio ed il
soggetto affronta il rischio ugualmente, non c'è motivo di sostenere
che il principio di colpevolezza sarebbe incompatibile con questo tipo
di reato". Si può però constatare che nella motivazione non
vi è alcun accenno non solo sull'esistenza di una colpa ma nemmeno
sui requisiti di prevedibilità ed evitabilità dell'evento
ed anzi si afferma che è il solo nesso di causalità materiale
che giustifica la responsabilità.
Con la seconda decisione (relativa a morte conseguente al reato di
porto abusivo di arma, commesso da un soggetto che aveva una pistola nella
tasca del giubbotto ed aveva inavvertitamente premuto il grilletto, morte
che il giudice del merito aveva esattamente attribuito a colpa effettiva
ed in concreto per imprudenza ed imperizia), si è sostenuto esplicitamente
che la colpa effettiva è un elemento "non richiesto per l'affermazione
di responsabilità ai sensi dell'art. 586 cod. pen.", ma che tale
responsabilità "non si può considerare oggettiva, riguardando
casi in cui la condotta delittuosa di base ha in sè insito il rischio,
non imprevedibile nè eccezionale, di porsi come concausa di morte
o lesioni; per cui, se uno di questi eventi (ricollegabile psicologicamente,
per la non imprevedibilità del pericolo, all'agente) si verifica,
si giustifica l'ulteriore conseguenza sanzionatoria dalla suddetta norma
prevista.
Deve pertanto escludersi che la norma in questione sia in contrasto
con l'art. 27 Cost. che sancisce il principio di personalità della
responsabilità penale". Anche questa decisione nega la necessita
di una colpa effettiva, ed individua il criterio di imputazione dell'evento
morte nella non imprevedibilità e non eccezionalità del rischio,
sembrando però ritenere sufficiente una valutazione oggettiva ed
in astratto di questi due elementi.
Deve quindi convenirsi sull'osservazione di parte della dottrina che,
in realtà, anche queste due decisioni utilizzano solo formalmente
le nozioni di "rischio totalmente illecito" e di "non imprevedibilità
dell'evento", ma nella sostanza effettuano una imputazione dell'evento
basata sul mero nesso di causalità .
9.1. Un ultimo orientamento - sviluppatosi soprattutto negli ultimi
anni - infine ravvisa nell'art. 586 c.p. una ipotesi di responsabilità
per colpa in concreto. concepita ed accertata nei suoi requisiti ordinari,
imperniata quindi sulla violazione di regole cautelari di condotta e sulla
necessità di un accertamento della effettiva prevedibilità
ed evitabilità in concreto dell'evento non voluto da parte dell'agente.
Questo orientamento è stato affermato, tra l'altro, da Sez.
1, 19 ottobre 1998, n. 11055, D'Agata, m. 211611 (secondo cui nell'art.
586 c.p., "poichè l'accollo dell'evento ulteriore e più grave
rispetto a quello voluto appare incompatibile con il principio di colpevolezza,
secondo l'interpretazione dei principi costituzionali sulla personalità
della responsabilità penale e sulla necessaria imputazione soggettiva
degli elementi più significativi della fattispecie criminosa, l'affermazione
di responsabilità dell'agente per l'evento non voluto deve necessariamente
ancorarsi a un coefficiente di prevedibilità, concreta e non astratta,
del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della
vita e dell'incolumità personale, intrinseca alla consumazione del
reato doloso di base"); da Sez. 1, 14.11.2002, n. 2595, Solazzo, m. 223841;
e da Sez. 6, 29.11.2007, n. 12129, Passafiume, m. 239585 (secondo cui,
in tema di reato di maltrattamenti in famiglia, l'imputazione soggettiva
dell'evento aggravatore, non voluto, della morte della vittima per suicidio
ne richiede la prevedibilità in concreto come conseguenza della
condotta criminosa di base).
Nella specifica materia di morte derivante da assunzione di sostanze
stupefacenti, la tesi è stata seguita, tra l'altro, da Sez. 5, 7.2.2006,
n. 14302, Giancaterino, m. 234584 (secondo cui si deve ritenere sussistente
la responsabilità non sulla base del mero rapporto di causalità
materiale... fra la precedente condotta e l'evento diverso ed ulteriore,
ma solo allorquando si accerti la sussistenza di un coefficiente di "prevedibilità"
della morte o delle lesioni, sì da potersene dedurre una forma di
"responsabilità per colpa", rilevando che il giudice del merito
aveva accertato la prevedibilità in concreto, in capo al cedente,
del rischio connesso all'assunzione dello stupefacente, in ragione delle
"visibili menomate condizioni della parte offesa" alla ricerca "spasmodica"
della sostanza stupefacente, assunta immediatamente dopo l'acquisto, e
considerato, del resto, il fatto notorio del grave rischio per la salute
derivante dall'assunzione di "droga pesante").
9.2. La tesi della responsabilità da colpa in concreto è
sostenuta da quella parte della dottrina, secondo la quale nella fattispecie
dell'art. 586 cod. pen. la responsabilità si fonda sull'ordinario
parametro della colpa, il cui accertamento va condotto in concreto con
un criterio individualizzato, imperniato sulla violazione di una regola
cautelare di condotta, che mira a prevenire proprio quel determinato evento
verificatosi, nonchè sulla prevedibilità ed evitabilità
in concreto dell'evento.
Si afferma che la tesi è rispettosa dell'originaria intenzione
storica del legislatore del 1930, il cui intento, come emerge con chiarezza
dai lavori preparatori del codice penale, era quello di individuare nell'art.
586 c.p., e nella norma generale dell'art. 83 c.p., "ipotesi ordinarie
di fatti colposi" (cfr. la Relazione del Guardasigilli, in Lav. Prep.,
vol. 5, pt. 1, 135, a proposito dell'opinione espressa dalla maggioranza
dei Commissari durante la discussione del 27 aprile 1928). Nella Relazione
del Guardasigilli si osservava che "mentre l'art. 587 c.p. del progetto
preliminare puniva il fatto predetto a titolo di responsabilità
obiettiva, nel progetto definitivo la disposizione venne modificata in
correlazione con l'art. 86 c.p. (poi divenuto art. 83 c.p.) del progetto
medesimo, per il quale gli eventi diversi da quelli voluti dall'agente
sono punibili a titolo di colpa, se la legge li prevede tra i delitti colposi.
L'art. 586 c.p. non è, pertanto, che una conferma e una particolare
applicazione di questo principio generale, e trova la sua ragione nel fatto
che viene stabilito un aumento di pena per l'omicidio e le lesioni personali
colposi" (Relazione a S.M. il Re, vol. 1, p. 86).
La tesi, inoltre, valorizza adeguatamente il dato testuale del richiamo
alla colpa, contenuto sia nell'art. 83 c.p., sia anche nell'art. 586 c.p.,
che fa rinvio, oltre all'art. 83 c.p., anche alle fattispecie colpose degli
artt. 589 e 590 c.p.. Si rileva anche che l'art. 83 c.p., comma 2 prevede
l'applicazione delle regole sul concorso di reati, il quale può
sussistere solo se il reato non voluto di omicidio o lesioni è imputato
come reato colposo.
Ma soprattutto si sostiene che è il rispetto del principio di
colpevolezza e della sua portata liberal-garantistica (art. 27 Cost., comma
1, in combinato disposto col comma 3 e con l'art. 25 Cost., comma 2) ad
imporre che la fattispecie di cui all'art. 586 cod. pen. debba essere connotata
dal requisito della colpa in concreto.
10. Al fine di individuare la soluzione preferibile, non può
ovviamente prescindersi dal principio di colpevolezza e dalle sentenze
della Corte costituzionale che gli hanno esplicitamente riconosciuto rango
costituzionale.
E' noto che già con la fondamentale sentenza n. 364 del 1988,
la Corte costituzionale, sulla base di una approfondita esegesi dell'art.
27 Cost. (imperniata sul collegamento tra il principio di personalità
della responsabilità penale e la funzione rieducativa della pena,
nell'ambito di una generale visione liberal-garantistica dell'ordinamento
penale e dei rapporti tra Stato e cittadino), giunse ad identificare la
"responsabilità personale", richiesta da tale norma, con la "responsabilità
per fatto proprio colpevole" e ad affermare che lo Stato ha il dovere di
assicurare al cittadino che non lo punirà senza preventivamente
informarlo su ciò che è vietato o comandato e di assicurargli
che "sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui
controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano
conseguenze penalmente vietate". Il principio di colpevolezza, dunque,
"più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio,
garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto", e
pone "un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell'incriminazione
dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente
indicati i necessari requisiti subiettivi minimi d'imputazione senza la
previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto
a pena". E, secondo la Corte, tali requisiti subiettivi minimi richiedono
che "il fatto imputato, perchè sia legittimamente punibile, deve
necessariamente includere almeno la colpa dell'agente in relazione agli
elementi più significativi della fattispecie tipica". Invero, non
avrebbe senso la "rieducazione" di chi, non essendo almeno "in colpa" (rispetto
al fatto) non ha, certo, bisogno di essere "rieducato".
Ora, già queste affermazioni assumono una importanza decisiva
perchè è evidente che fra gli elementi più significativi
della fattispecie dell'art. 586 cod. pen. va compreso anche l'evento non
voluto, in quanto esso è significativo sia rispetto all'offesa (in
quanto offensivo di autonomi beni giuridici penalmente tutelati), sia rispetto
alla pena (in quanto determina l'inflizione di una pena ulteriore).
E' vero che la Corte affermò anche che l'art. 27 Cost., comma
1, non contiene un tassativo divieto di responsabilità oggettiva,
ma fin d'allora precisò che ciò vale solo per la cd. responsabilità
oggettiva spuria od impropria, ossia per quella ipotesi in cui non è
coperto da dolo o colpa un solo elemento del fatto, magari accidentale.
E specificò che invece diverso è il problema per la responsabilità
oggettiva pura o propria, perchè "è in relazione al complessivo,
ultimo risultato vietato che va posto il problema della violazione delle
regole preventive che, appunto in quanto collegate al medesimo, consentono
di riscontrare nell'agente la colpa per il fatto realizzato". Ora, poichè
il complessivo ultimo risultato vietato nell'art. 586 cod. pen. è
costituito dalla produzione dell'evento non voluto, è in relazione
a tale evento che deve essere accertata la violazione di regole preventive,
al fine di riscontrare nell'agente la colpa per il fatto realizzato.
Con la successiva sentenza n. 1085 del 1988, la Corte costituzionale
precisò che "perchè l'art. 27 Cost., comma 1, sia pienamente
rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale,
è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono
a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati
all'agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è
altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi
siano allo stesso agente rimproverabili". E ciò a prescindere dalla
circostanza che l'elemento in discussione si identifichi o meno con l'evento
del reato: rimanendo sottratti alla esigenza della "rimproverabilità"
unicamente "gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni
estrinseche di punibilità che, restringendo l'area del divieto,
condizionano, appunto, quest'ultimo o la sanzione alla presenza di determinati
elementi oggettivi)". La medesima pronuncia ha inoltre esplicitato in modo
chiaro che il principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro
casu "contrasta con l'art. 27 Cost., comma 1", affermando che da tale parametro
è richiesto quale essenziale requisito subiettivo d'imputazione,
oltre alla coscienza e volontà dell'azione od omissione, almeno
la colpa quale collegamento subiettivo tra l'autore del fatto ed il dato
significativo (sia esso evento oppur no) addebitato. (...) E' ben vero
che la massima: "qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu"
implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra
il reo ed un dato (di regola evento) senza del qual collegamento non si
avrebbe il "versali in re illicita" (...). Ma non per tal ragione è
costituzionalmente legittimo addebitare all'agente anche gli ulteriori
eventi (...) nella produzione dei quali la volontà del reo è
rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo
stesso reo.
Dall'art. 27 Cost., comma 1 (...) non soltanto risulta indispensabile,
ai fini dell'incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma
della colpa) tra soggetto agente e fatto (o ...
tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta
altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo
collegamento. E' interessante ricordare che la sentenza in esame riferì
il requisito della colpa anche ad attività illecite, come la sottrazione
e l'impossessamento di una cosa mobile altrui al fine di farne un uso momentaneo
(art. 626 c.p., comma 1, n. 1), osservando che "la mancata restituzione
(...) non è addebitabile al soggetto agente (...) se dovuta a caso
fortuito o a forza maggiore", ossia se non dovuta a colpa.
Successivamente, la sentenza n. 2 del 1991 confermò l'illegittimità
del principio "qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu", mentre
la sentenza n. 179 del 1991 ribadì che l'art. 27 Cost., comma 1,
richiede quale requisito subiettivo d'imputazione "almeno la colpa quale
collegamento subiettivo tra l'autore del fatto ed il dato significativo
(sia esso evento oppur no) addebitato"; principio questo ulteriormente
ribadito dalla sentenza n. 61 del 1995.
Da ultimo, con la sentenza n. 322 del 2007, la Corte costituzionale
ha confermato le sentenze nn. 364 e 1085 del 1988 in ordine alla costituzionalizzazione
ed al contenuto del principio di colpevolezza, osservando che questo partecipa,
in specie, di una finalità comune a quelli di legalità e
di irretroattività della legge penale (art. 25 Cost., comma 2):
esso mira, cioè, a garantire ai consociati libere scelte d'azione,
sulla base di una valutazione anticipata ("calcolabilità") delle
conseguenze giuridico-penali della propria condotta; "calcolabilità"
che verrebbe meno ove all'agente fossero addossati accadimenti estranei
alla sua sfera di consapevole dominio, perchè non solo non voluti
nè concretamente rappresentati, ma neppure prevedibili ed evitabili.
In pari tempo, il principio di colpevolezza svolge un ruolo "fondante"
rispetto alla funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost., comma 3),
non avendo senso rieducare chi non versi almeno in colpa rispetto al fatto
commesso.
La Corte ha altresì aggiunto che la finalità rieducativa
non potrebbe essere obliterata dal legislatore a vantaggio di altre e diverse
funzioni della pena, che siano astrattamente perseguibili, almeno in parte,
a prescindere dalla "rimproverabilità" dell'autore.
Punire in difetto di colpevolezza, al fine di "dissuadere" i consociati
dal porre in essere le condotte vietate (prevenzione generale "negativa")
o di "neutralizzare" il reo (prevenzione speciale "negativa"), implicherebbe,
infatti, una strumentalizzazione dell'essere umano per contingenti obiettivi
di politica criminale contrastante con il principio personalistico affermato
dall'art. 2 Cost.. Pertanto il legislatore ben può - nell'ambito
delle diverse forme di colpevolezza - "graduare" il coefficiente psicologico
di partecipazione dell'autore al fatto, in rapporto alla natura della fattispecie
e degli interessi che debbono essere preservati:
pretendendo dall'agente un particolare "impegno" nell'evitare la lesione
dei valori esposti a rischio da determinate attività. Ma in nessun
caso gli è consentito prescindere in toto dal predetto coefficiente.
Infine, la Corte ha evidenziato che "il principio di colpevolezza... si
pone non soltanto quale vincolo per il legislatore, nella conformazione
degli istituti penalistici e delle singole norme incriminatici; ma anche
come canone ermeneutico per il giudice, nella lettura e nell'applicazione
delle disposizioni vigenti", ribadendo l'esistenza nella tavola dei valori
costituzionali di un principio di necessaria colpevolezza, ragguagliato
quanto meno al "minimum" dell'ignoranza o dell'errore inevitabile: incida
esso sulla norma o sugli elementi normativi del fatto ... ovvero sugli
elementi del fatto stesso.
11. Orbene, alla luce dei principi costituzionali appena ricordati
per come affermati dalla Corte costituzionale, è evidente come una
interpretazione adeguatrice dell'art. 586 cod. pen. imponga di disattendere
sia il primo orientamento che formula una ipotesi di responsabilità
oggettiva pura e propria, fondata esclusivamente sul nesso di causalità
materiale, sia gli altri orientamenti che, come rilevato, nella sostanza
e negli effetti non si differenziano da una ipotesi di responsabilità
oggettiva (che viene in realtà camuffata, ma non superata), come
quello della colpa presunta per violazione di legge penale (immancabilmente
presente in tutti i casi), o come quello che richiede, oltre al nesso causale,
una prevedibilità in astratto dell'evento, ossia una prevedibilità
in re ipsa meramente formale e (sempre immancabilmente) presunta in tutti
i casi sulla base dalla notorietà della frequenza delle conseguenze
letali derivate dall'assunzione di certe sostanze stupefacenti. Le richiamate
sentenze costituzionali, invero, hanno esplicitamente affermato che si
pone in contrasto con l'art. 27 Cost. la previsione sia di una responsabilità
oggettiva pura o propria sia del principio qui in re illicita versatur
respondit etiam pro casu. Inoltre, l'evento non voluto rientra certamente
fra quelli più significativi della fattispecie dell'art. 586 cod.
pen. e quindi, per la legittima punibilità del fatto, deve essere
accertata la colpa dell'agente in relazione a tale evento. Ed il chiaro
riferimento fatto dalla sentenza n. 364 del 1988 alla colpa quale "violazione
di regole preventive", collegate "al complessivo risultato ultimo vietato",
esclude che possa ritenersi conforme al principio costituzionale qualsiasi
interpretazione che si basi sulla teoria della colpa presunta per violazione
di legge penale.
D'altra parte, la ricostruzione del principio di colpevolezza per come
operata dalla Corte costituzionale, non si concilia nemmeno con la tesi
della responsabilità da rischio totalmente illecito. Il principio
invero richiede, come requisito subiettivo minimo di imputazione, la colpa
dell'agente in relazione a tutti gli elementi che concorrono a contrassegnare
il disvalore della fattispecie, o quanto meno agli elementi più
significativi di essa, ed impedisce di addebitare all'agente anche gli
ulteriori eventi che a lui non sono rimproverabili. Inoltre, la sentenza
n. 364 del 1988 ha anche fatto esplicito riferimento alla colpa quale violazione
di regole preventive collegate al complessivo risultato ultimo vietato,
in tal modo non accogliendo la tesi di una colpa contrassegnata solo dalla
prevedibilità ed evitabilità e non anche dalla violazione
di una regola cautelare. La stessa sentenza ha anche precisato che "la
colpevolezza costituzionalmente richiesta ... non costituisce elemento
tale da poter essere, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato,
sostituito con altri o paradossalmente eliminato". In definitiva, secondo
la Corte costituzionale, non vi è posto nel nostro ordinamento per
una terza forma di responsabilità colpevole, diversa da quella dolosa
o colposa, e quindi la colpevolezza non potrebbe essere sostituita, a discrezione
del legislatore, da altri elementi, quale il rischio da attività
totalmente illecita.
Ne consegue che l'unica interpretazione conforme al principio costituzionale
di colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie dell'art.
586 c.p., una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata
ad una violazione di regole cautelari di condotta e ad un coefficiente
di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto,
del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della
vita e dell'incolumità personale, intrinseca alla consumazione del
reato doloso di base. Un diverso orientamento in ordine al collegamento
soggettivo necessario per l'imputazione dell'ulteriore evento non voluto
imporrebbe di sollevare questione di legittimità costituzionale
dell'istituto per contrasto con il principio di colpevolezza, secondo cui
deve necessariamente postularsi la colpa dell'agente almeno in relazione
agli "elementi più significativi della fattispecie", fra i quali
il "complessivo ultimo risultato vietato", se non si vuole incorrere nel
divieto, ex art. 27 Cost., commi 1 e 3, della responsabilità oggettiva
cd. pura o propria.
Questa interpretazione, del resto, non solo è l'unica conforme
ai principi costituzionali, ma è anche quella che si pone più
in armonia con il vigente sistema penale, dal momento che la configurazione
di un'ipotesi di responsabilità oggettiva per l'evento più
grave non voluto, in assenza di alcun coefficiente di prevedibilità
in concreto, sarebbe anche incoerente con il regime di imputazione soggettiva
delle circostanze aggravatrici di cui all'art. 59 c.p., comma 2, come innovato
dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 1 (Sez. 1, 19.10.1998, D'Agata, n.
11055).
12. Non sussistono poi ostacoli di ordine testuale o logico che impediscano
questa interpretazione, la quale anzi è anche più rispettosa
della originaria intenzione del legislatore storico e del dato testuale
del richiamo alla colpa contenuto nell'art. 83 cod. pen.. In particolare,
questa conclusione non è impedita da una presunta impossibilità
di muovere un rimprovero di colpa per un evento non voluto nei confronti
di un soggetto che ha volontariamente intrapreso un'attività illecita.
E' stato invero sostenuto da una parte della dottrina che sarebbe impossibile
configurare una combinazione di dolo (rispetto al delitto base) e di colpa
(rispetto alla conseguenza non voluta). E ciò soprattutto per l'argomento
che il legislatore sarebbe contraddittorio ed irragionevole se, da una
parte, vietasse di tenere una determinata condotta volontaria (attraverso
la previsione del delitto doloso) e, da un'altra parte, attraverso l'imputazione
per colpa dell'evento ulteriore non voluto, obbligasse ad eseguire tale
condotta con le cautele necessarie ad evitare la produzione di ulteriori
risultati non voluti. Tesi questa che sembra essere stata ripresa anche
da qualche decisione di questa Corte che, in riferimento all'omicidio preterintenzionale,
ha sostenuto che "sarebbe assurdo pretendere cautela (quanto alle conseguenze)
da parte di chi, comunque, mette in atto un'aggressione fisica nei confronti
di un terzo" (Sez. 5, 13.2.2002, n. 13114, Izzo).
Queste obiezioni non appaiono però decisive. A fronte della
presunta contraddizione, si è invero evidenziato che l'esclusione
della possibilità di configurare una colpa in chi versa in re illicita
comporterebbe una violazione del principio di uguaglianza, ponendo sullo
stesso piano chi cagioni l'evento ulteriore non voluto in circostanze che
rendevano agevole la previsione del suo verificarsi e chi lo cagioni in
circostanze eccezionali, tali da non renderlo prevedibile. Al contrario,
ammettendo la possibilità di un rimprovero per colpa in chi realizza
un evento non voluto mediante la commissione di un reato doloso, si avrà
anche la possibilità di trattare in modo diverso situazioni diverse,
quali quella in cui l'evento ulteriore era agevolmente prevedibile e quella
in cui era assolutamente imprevedibile e quindi nessun rimprovero può
muoversi al soggetto. Ed è stato altresì osservato che sarebbe
ancora maggiore la contraddizione del legislatore ipotizzando che lo stesso,
da un lato, con norma costituzionale (art. 27 Cost.) accoglie il principio
di colpevolezza e con norma ordinaria (art. 59 c.p., comma 2) prevede l'imputazione
almeno per colpa delle circostanze, e poi, da un altro lato, con altre
norme ordinarie nega il principio di colpevolezza e non richiede la colpa
in ordine agli ulteriori eventi non voluti.
Nè la configurabilità di una colpa in attività
illecita può essere negata sulla base delle argomentazioni che portano
ad escludere una colpa per inosservanza di leggi penali, ossia perchè
non avrebbe senso imporre a chi sta compiendo un illecito doloso di eseguirlo
con cautela. Ed infatti, il ritenere che non sia accettabile la tesi secondo
cui ogni norma penale, nel momento in cui punisce una condotta, porrebbe
anche una regola preventiva sulla pericolosità della condotta stessa,
non significa affatto negare la possibilità che, in occasione della
esecuzione dolosa di un reato, l'agente possa essere anche destinatario
di regole cautelari per la prevenzione di ulteriori eventi, purchè,
ovviamente, non si pretenda di ricavare tali regole cautelari, in modo
automatico e scontato, proprio dalla stessa disposizione penale incriminatrice
della fattispecie dolosa.
Si deve quindi ammettere la possibilità di concepire e praticare
una colpa in attività illecite, la quale non solo è riconosciuta
esplicitamente in numerosi ordinamenti positivi (che imputano per colpa
l'evento non voluto, aggravante o qualificante, derivante dalla commissione
di un delitto doloso), ma è anche ammessa da tempo dalla gran parte
della dottrina italiana, che ha evidenziato come le norme cautelari di
condotta valgano tanto per chi agisce legittimamente quanto per chi opera
illegittimamente.
D'altra parte, la citata sentenza n. 1085 del 1988 della Corte costituzionale,
oltre a dichiarare l'illegittimità delle forme di responsabilità
oggettiva, ha esplicitamente riferito il requisito della colpa anche ad
attività illecite, mentre la possibilità di una colpa ravvisabile
anche nell'ambito di una attività illecita è stata recepita
pure dal legislatore, il quale, con la riforma del regime di imputazione
delle circostanze aggravanti di cui all'art. 59 c.p., comma 2, (introdotta
con la L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 1) ha reso possibile una combinazione
di dolo (rispetto al reato semplice) e di colpa (rispetto alla circostanza
aggravante). Il nuovo testo dell'art. 59 c.p., comma 2, richiede, infatti,
che le circostanze aggravanti siano "ignorate per colpa o ritenute inesistenti
per errore determinato da colpa": si tratta quindi di una colpa che si
innesta su un fatto già di per sè costituente reato.
Il legislatore ha così espressamente riconosciuto la possibilità
di ambientare il rimprovero per colpa in un ambito di illiceità
dolosa.
Del resto, in riferimento alla disposizione dell'art. 59 c.p., comma
2, la giurisprudenza ha affermato che, attesa l'ampia formulazione di tale
disposizione, "non sussiste alcuna logica incompatibilità tra l'imputazione
a titolo di dolo della fattispecie criminosa base e quella, a titolo di
colpa, di un elemento accidentale come la circostanza in questione" (Sez.
6, 6.12.1994, n. 2164, Imerti, m.
200902; Sez. 1, 27.10.1997, Carelli, m. 208936).
13. Va dunque confermato che mentre, da un lato, una interpretazione
adeguatrice che rispetti il principio costituzionale di colpevolezza esige
che nella fattispecie dell'art. 586 cod. pen. la morte o le lesioni non
volute devono essere imputate per colpa, da un altro lato, non esistono
insuperabili ostacoli, normativi o logici, contro questa interpretazione.
Occorre però stabilire se si tratta della stessa colpa presente
nelle normali fattispecie colpose ovvero di una colpa che subisca delle
modificazioni nella sua struttura e nel suo contenuto in conseguenza del
fatto che l'agente, attraverso il delitto base doloso, si è collocato
in un'area di illiceità penale.
Ora, se si ritiene che in quest'ultima ipotesi la colpa possa avere
una fisionomia ed un contenuto particolari, si corre il rischio che si
possa poi giungere di fatto ad un impoverimento e ad uno svuotamento del
contenuto della colpa, con risultati pratici sostanzialmente identici a
quelli della responsabilità oggettiva, o della colpa presunta per
violazione di legge penale, o della colpa da prevedibilità in astratto
dell'evento non voluto, ossia ad applicazioni pratiche solo formalmente
rispettose del principio di colpevolezza, ma sostanzialmente non conformi
allo stesso. Rischio questo non meramente ipotetico, come risulta da alcune
decisioni che, pur affermando formalmente la necessità, attesa la
"indefettibilità del principio di colpevolezza", della "sussistenza
di un coefficiente di riferibilità psicologica, a titolo di colpa,
dell'evento non investito dal dolo del reato di base", tuttavia poi di
fatto non hanno svolto alcuna indagine sulla effettiva presenza degli elementi
costitutivi di una imputazione realmente colposa, in relazione alle circostanze
oggettive e soggettive della concreta situazione (cfr.
Sez. 1, 14.11.2002, n. 2595, Solazzo).
D'altra parte, non sembrano sussistere valide e decisive ragioni per
le quali, allorchè si manifesti nell'ambito di una diversa condotta
illecita, la colpa debba subire delle modificazioni nella sua struttura
o nel suo contenuto.
Ora, secondo l'opinione più diffusa, la colpa "normale" consiste
nella realizzazione di un fatto non voluto, rimproverabile al soggetto
per la violazione di una regola di diligenza (di prudenza, di imperizia),
che discende da una valutazione positiva di prevedibilità e di evitabilità
della verificazione dell'evento.
Tale valutazione, sempre secondo la tesi più diffusa, deve essere
compiuta con un giudizio di prognosi postuma, collocandosi in una prospettiva
ex ante, cioè riferita al momento in cui è avvenuto il fatto,
da svolgersi in concreto, secondo il punto di vista di un omologo agente
modello, ossia di un agente ideato mentalmente come coscienzioso ed avveduto
che si trovi nella concreta situazione e nel concreto ruolo sociale dell'agente
reale. Occorre, infatti, da un lato, evitare di soggettivizzare la colpa
fino a renderla inattuabile; da un altro lato, mantenere alla qualificazione
di negligenza, imprudenza, imperizia quel minimo di aderenza alla situazione
concreta, che permetta di considerarla criterio di imputazione soggettiva;
e da un altro lato ancora, differenziare il punto di vista, dal quale valutare
prevedibilità ed evitabilità, a seconda della situazione
concreta in cui, di volta in volta, viene e trovarsi il singolo agente.
Una volta ideato mentalmente l'omologo agente modello, deve valutarsi,
sulla base di tutte le circostanze di fatto della concreta situazione in
cui si trovava l'agente reale - tenendo peraltro conto anche di tutte le
particolari conoscenze della realtà di fatto e le particolari capacità
o abilità eventualmente possedute dall'agente concreto in misura
superiore al normale - la prevedibilità e l'evitabilità dell'evento,
per individuare la condotta che l'agente modello avrebbe tenuto a seguito
di tale valutazione. In caso di divergenza, potrà affermarsi che
la condotta dell'agente concreto è colposa.
14. La circostanza che l'agente reale versi in un ambito di illiceità,
dunque, non influenza la fisionomia della colpa ed il procedimento di individuazione
dell'omologo agente modello.
Ovviamente, si dovrà fare riferimento non già alla condotta
di un ipotetico "delinquente modello", bensì alla condotta che ci
si poteva ragionevolmente attendere, in relazione all'evento non voluto,
da un individuo medio e razionale, posto nella medesima situazione in cui
si è trovato l'agente reale.
Anche in ambito illecito, pertanto, occorre pur sempre che il fatto
costitutivo del reato colposo sia una conseguenza in concreto prevedibile
ed evitabile dell'inosservanza di una regola cautelare.
In particolare, è opportuno ribadire che, ai fini della imputazione
della conseguenza ulteriore non voluta di un reato-base doloso, la colpa
non può essere presunta in forza della sola violazione della legge
incriminatrice del reato doloso. Per quanto riguarda più specificamente
l'ipotesi di morte o lesioni personali conseguenti alla cessione illecita
di sostanze stupefacenti, la regola cautelare, la cui inosservanza può
costituire base della colpa, non può individuarsi nella stessa norma
penale che incrimina la cessione dello stupefacente. La legislazione in
materia di sostanze stupefacenti, invero, non svolge in via diretta un
ruolo di prevenzione delle offese alla integrità fisica dei cittadini,
ma, come già rilevato, ha come scopo diretto ed immediato delle
sue norme incriminatrici la repressione del mercato illegale della droga
e soltanto come scopo ulteriore, collocato sullo sfondo, la tutela della
salute pubblica, accanto alla tutela della sicurezza e dell'ordine pubblico.
Del resto, a conferma che l'attuale legislazione in materia non ha una
destinazione diretta ed immediata alla tutela dell'integrità fisica
dei cittadini, sta la scelta del legislatore a favore della non punibilità
del consumo personale di stupefacenti.
E' stato inoltre esattamente osservato che lo scopo ulteriore ed indiretto
di tutelare la vita dei possibili consumatori riguarda solo un rischio
ed un pericolo generali e generici per l'incolumità e la salute
della massa dei consumatori, pericolo che è già incluso nel
disvalore complessivo, severamente sanzionato dalle disposizioni sulla
produzione e sullo spaccio degli stupefacenti. In altri termini, anche
riconoscendo che lo scopo "ultimo" della sfera di protezione delle norme
che vietano lo spaccio di sostanze stupefacenti sia la tutela della vita
dei possibili consumatori, il disvalore di questo rischio generico si esaurisce
nell'imputazione per il reato presupposto. Il pericolo "iniziale" per l'incolumità
insito nel commercio di sostanze stupefacenti, che è di tipo "generico",
è già ampiamente previsto e punito per una efficace difesa
prodromica della vita, dalle norme speciali sugli stupefacenti. Tale disvalore
e tale rischio non possono quindi essere replicati in un altro reato per
il tramite di una applicazione dell'art. 586 cod. pen. del tutto sganciata
dalla sussistenza di un profilo soggettivo di colpa e fondata esclusivamente
su una responsabilità oggettiva o su una colpa presunta per violazione
della legge penale, perchè in tal modo si verrebbe a sanzionare
nuovamente un fatto già incluso per il suo carico di disvalore nella
condanna per lo spaccio di droga. In altre parole, con le incriminazioni
sul divieto dello spaccio viene sanzionata la creazione di un rischio generico
per la salute della potenziale platea dei consumatori della sostanza, e
non anche il rischio specifico del singolo assuntore, il quale viene invece
sanzionato con le incriminazioni per morte o lesioni (dolose o colpose)
sempre però che sussista una connessione diretta di rischio tra
spaccio e morte del tossicodipendente e sempre che questo rischio specifico
sia in concreto rimproverabile allo spacciatore perchè da lui prevedibile
ed evitabile. E questa relazione non può - a meno di non ricadere
appunto in una ipotesi di responsabilità oggettiva - essere automaticamente
ed immancabilmente riconosciuta in tutti i casi ipotizzando fittiziamente
che l'art. 586 cod. pen. attribuisca alle norme incriminatrici sullo spaccio
di stupefacenti anche il valore di specifiche regole di cautela dirette
a prevenire la morte o le lesioni del singolo assuntore.
15.1. Anche nel caso di morte o lesioni conseguenti all'assunzione
di sostanze stupefacenti, dunque, la responsabilità per questi ulteriori
eventi a carico di colui che le abbia illecitamente cedute potrà
essere ravvisabile quando sia accertata la sussistenza, da un lato, di
un nesso di causalità fra la cessione e l'evento morte o lesioni,
non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, e, da un altro lato,
che l'evento non voluto sia comunque soggettivamente collegabile all'agente,
ovvero sia a lui rimproverabile a titolo di colpa in concreto, valutata
secondo i normali criteri di valutazione della colpa nei reati colposi.
Occorrerà quindi che l'agente abbia violato una regola cautelare
diversa dalla norma (della legge sugli stupefacenti) che incrimina il delitto
base e che sia specificamente diretta a prevenire la morte o le lesioni
personali. Occorrerà poi una valutazione positiva di prevedibilità
ed evitabilità in concreto dell'evento, compiuta ex ante, sulla
base del comportamento che sarebbe stato tenuto da un omologo agente modello,
tendendo peraltro conto di tutte le circostanze della concreta e reale
situazione di fatto. Si dovrà pertanto verificare se dal punto di
vista di un agente modello, nella situazione concreta, risultava prevedibile
l'evento morte come conseguenza dell'assunzione, da parte di uno specifico
soggetto, di una determinata dose di droga. E' poi evidente che per agente
modello non si deve intendere uno "spacciatore modello", ma una persona
ragionevole, fornita, al pari dell'agente reale, di esperienza nel campo
della cessione ed assunzione di sostanze stupefacenti e consapevole della
natura e dei normali effetti della sostanza che cede.
Deve peraltro farsi una ulteriore precisazione. La Corte costituzionale,
con la sentenza n. 322 del 2007, ha ribadito che il principio di colpevolezza
postula un coefficiente di partecipazione psichica del soggetto al fatto,
ed implica quindi che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a
contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati
all'agente ed a questi rimproverabili, siano cioè investiti dal
dolo o dalla colpa.
La Corte ha confermato che il principio di colpevolezza non può
essere "sacrificato" dal legislatore ordinario in nome di una più
efficace tutela penale di altri valori, ancorchè essi pure di rango
costituzionale. Ma ha anche chiarito che, nell'ambito delle diverse forme
di colpevolezza, il legislatore ben può "graduare" "il coefficiente
psicologico di partecipazione dell'autore al fatto, in rapporto alla natura
della fattispecie e degli interessi che debbono essere preservati: pretendendo
dall'agente un particolare "impegno" nell'evitare la lesione dei valori
esposti a rischio da determinate attività". Ed ha poi specificato
che la soglia minima di compatibilità con l'art. 27 Cost., comma
1, è rappresentata "dall'attribuzione di valenza scusante all'ignoranza
(o all'errore) che presenti caratteri di inevitabilità: giacchè
deve poter essere mosso all'agente almeno il rimprovero di non aver evitato,
pur potendolo, di trovarsi nella situazione soggettiva di manchevole o
difettosa conoscenza del dato rilevante".
Ciò significa che, qualora si tratti della tutela di interessi
costituzionalmente rilevanti, il legislatore non solo può prevedere
che sia sufficiente la sola colpa, invece del dolo, ma può anche
richiedere un grado di attenzione ed un obbligo di conoscenza maggiori
di quelli normalmente richiesti. Nell'ipotesi in esame ricorre una di queste
situazioni, sia per la rilevanza costituzionale dei beni (vita ed incolumità
fisica) tutelati, sia perchè la natura astrattamente e genericamente
pericolosa dell'attività è legislativamente segnalata dal
D.P.R. n. 309 del 1990, art. 81, il quale prevede la possibilità
che l'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope possa cagionare la morte
o lesioni personali dell'assuntore e che in tal caso possano essere configuratoli
i reati di cui agli artt. 586, 589 o 590 c.p. per chi abbia determinato
o agevolato tale uso, disponendo altresì una notevole riduzione
delle pene previste dalle norme sugli stupefacenti se il colpevole presti
assistenza alla persona offesa ed informi tempestivamente l'autorità
sanitaria o di polizia. Ciò significa che il legislatore ha voluto
che l'agente sia tenuto a prendere in considerazione tutte le eventuali
circostanze del caso concreto ed a desistere dall'azione (ossia dalla cessione
dello stupefacente) sia quando taluna di queste circostanze evidenzi un
concreto pericolo per l'incolumità dell'assuntore, e sia anche quando
rimanga in concreto un dubbio in ordine alla effettiva pericolosità
della stessa.
Lo spacciatore pertanto potrà ritenersi esente da colpa quando
una attenta e prudente valutazione di tutte le circostanze del caso concreto
non faccia prevedere l'evento morte o lesioni. La colpa potrà invece
essere ravvisabile quando la morte sia prevedibile, ed anche quando non
sia prevista perchè una circostanza pericolosa sia stata ignorata
per colpa o sia stata erroneamente valutata sempre per colpa.
In sintesi, la colpa non potrà essere ravvisata nella prevedibilità
in astratto dell'evento morte, desunta dalla presunta frequenza, o dalla
notorietà, o dalla ordinarietà di tale evento in seguito
alla assunzione di sostanza stupefacente, o in un pericolo che sarebbe
presuntivamente insito in qualsiasi cessione della sostanza, ovvero nella
natura di talune sostanze più pericolose di altre. La colpa andrà
accertata sempre e soltanto in concreto, sulla base delle circostanze di
fatto di cui il soggetto era o poteva essere a conoscenza e che dimostravano
il concreto pericolo di un evento letale a seguito dell'assunzione di una
determinata dose di droga da parte dello specifico soggetto. All'agente
è peraltro richiesto un particolare livello di attenzione e di prudenza,
sicchè lo stesso potrà essere ritenuto in colpa qualora non
si sia astenuto dal cedere lo stupefacente dinanzi ad una circostanza dal
significato equivoco o comunque quando abbia ignorato una circostanza pericolosa
o sia caduto in errore sul suo significato e l'ignoranza o l'errore siano
determinati da colpa, e siano quindi a lui rimproverabili perchè
non inevitabili.
15.2. In via generale dovrà dunque escludersi la responsabilità
del cedente per la morte del cessionario in tutte le ipotesi in cui la
morte risulti in concreto imprevedibile, in quanto intervenuta per effetto
di fattori non noti o non rappresentabili dal cedente, come potrebbe verificarsi,
ad esempio, nel caso di cessione di una sostanza "normale" per qualità
e quantità e di morte dovuta alla contemporanea assunzione di alcol
che abbia accentuato gli effetti della droga (a meno che lo spacciatore
sapesse che la vittima era dedita all'uso di alcol o intendesse farne uso
in quella occasione);
o nel caso di consumo dello stupefacente congiunto all'uso di psicofarmaci,
o di consumo da parte di soggetto apparentemente giovane e in buono stato
di salute, ma in realtà con gravi difetti fisici, o in precario
stato di salute, o con grave vizio cardiaco; o anche nel caso in cui l'agente
abbia ceduto un normale quantitativo di droga ad un soggetto presentatosi
come consumatore diretto senza che fosse prevedibile l'ulteriore cessione
ad un terzo con un ridotto grado di tolleranza (e quindi altamente a rischio
di overdose) e ciò quand'anche fosse prevedibile l'ulteriore cessione
ad altri.
Così, ad esempio, la colpa è stata esattamente esclusa
(o avrebbe dovuto essere esclusa) perchè il rischio non era prevedibile
in concreto nel caso di cessione di un rilevante quantitativo di eroina
alla vittima, la quale, accortasi della presenza della polizia, aveva repentinamente
ingoiato la bustina di plastica, che però si era aperta nello stomaco
(Trib. Palermo, 4.2.2005, C.R.); o di cessione di una dose non eccessiva
in cui la morte era stata causata da assunzione di alcol che aveva accentuato
gli effetti della droga, senza che il cedente potesse prevedere l'evento
morte per effetto congiunto di droga ed alcol (contro Sez. 4, 28.6.1991,
n. 11965, Greco, m. 188768, che ritenne sufficiente il solo nesso causale);
o di ulteriore cessione da parte dell'acquirente ad un terzo, poi deceduto
per il suo ridotto grado di tolleranza agli stupefacenti, conseguente ad
un precedente tentativo di disassuefazione, senza che lo spacciatore potesse
prevedere l'ulteriore cessione e comunque la cessione ad un soggetto altamente
a rischio (contro Trib. Rimini, 3.11.1987, Zaouali, sulla base di un giudizio
di prevedibilità in astratto); o di assunzione di una normale dose
di stupefacente che abbia provocato la morte ad uno solo dei due cessionari,
abituale assuntore di droga, per un meccanismo allergico o idiosincrasico,
ignoto allo spacciatore e di cui non vi erano manifestazioni esteriori
(Trib. Roma, 12.2.1985, Trombetti).
Potrà, invece, nei singoli casi concreti, ravvisarsi una responsabilità
del cedente quando questi sia stato a conoscenza che il cessionario o il
soggetto che di fatto avrebbe assunto lo stupefacente ceduto era dedito
all'alcol o al consumo di psicofarmaci o aveva, al di là dell'apparenza,
gravi difetti fisici ovvero anche quando la mancata conoscenza di uno di
questi fattori sia derivata da errore o da ignoranza evitabili, e quindi
inescusabili, come ad esempio nel caso in cui il soggetto abbia ceduto
la sostanza ad un acquirente che denotava un alito vinoso, o che presentava
caratteristiche esteriori di fragilità fisica o di consumatore di
medicinali, o abbia ceduto la droga all'interno di una discoteca o di altro
locale in cui solitamente si fa uso di sostanze alcoliche (essendo quindi
altamente probabile una assunzione congiunta di droga e alcol), ovvero
l'abbia ceduta a soggetti minorenni di cui poteva essere conoscibile la
minore resistenza a quella determinata sostanza. Analogamente, la colpa
in concreto potrebbe essere configurabile quando lo spacciatore abbia ceduto
eroina ad un soggetto di cui conosceva i precedenti tentativi di disintossicazione
e quindi la maggiore esposizione al rischio di overdose; o quando abbia
ceduto sostanza micidiale come l'eroina a persona di giovanissima età,
di esile costituzione fisica e che evidenziava la precedente assunzione
di tranquillanti.
E così, ad esempio, correttamente è stata ravvisata la
colpa nel fatto che il tossicodipendente era in evidente stato di ebbrezza
ed in condizione di sofferenza e precarietà fisica per ingestione
di medicinali (Sez. 6, 9.12.1989, n. 5348, Virdis, m. 184003 e 184004);
o nel caso in cui il rischio di morte per overdose era prevedibile
in concreto a causa delle visibili menomate condizioni della parte offesa,
alla ricerca spasmodica di una droga pesante (Sez. 5, 7.2.2006, n. 14302,
Giancaterino, m. 234584); o nel caso in cui il cedente era a conoscenza
che il cessionario nei mesi precedenti aveva ridotto il consumo di stupefacente,
esponendosi così al rischio di morte per overdose (Trib. Velletri,
11.3.1986, Mattiazzo); o in cui il soggetto aveva iniettato eroina ad una
giovane pur sapendo che non era dedita all'uso di tale droga e che era
particolarmente affaticata per un lungo viaggio (Trib. Firenze, 6.11.1978,
Poulopoulos); o di cessione di droga pesante (eroina) a persona di giovanissima
età e di assai esile costituzione fisica, che aveva assunto tranquillanti
(Trib. Busto Arsizio, 26.3.1985, Irritano).
La colpa potrà poi essere rinvenuta in particolari circostanze
attinenti alla quantità, natura e qualità della sostanza
ceduta, come ad esempio nel caso in cui lo spacciatore predisponga dosi
a composizione diversa da quelle usuali o miscelate con sostanze diverse,
con consapevolezza della probabilità di particolari maggiori rischi
per la vita del consumatore.
Va peraltro anche tenuto presente che il D.P.R. n. 309 del 1990, art.
80 prevede un cospicuo aumento di pena, da un terzo alla metà, quando
le sostanze stupefacenti siano consegnate o destinate a minori, o siano
adulterate o commiste ad altre in modo che ne risulti accentuata la potenzialità
lesiva, o se la cessione sia effettuata all'interno o in prossimità
di scuole, comunità giovanili, strutture per la cura e la riabilitazione
dei tossicodipendenti; un aumento dalla metà a due terzi se la cessione
riguardi quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope;
e prevede addirittura la pena di trenta anni di reclusione nel caso di
cessione di ingenti quantità delle sostanze stupefacenti più
pesanti adulterate o commiste ad altre in modo che ne risulti accentuata
la potenzialità lesiva. Anche questi aggravamenti di pena, peraltro,
non sono finalizzati in via diretta ed immediata alla tutela della integrità
fisica pur avendo indubbiamente come scopo ulteriore ed indiretto anche
il contrasto ad un più elevato rischio generico per la salute della
massa dei consumatori. Anche in questi casi il carico di disvalore derivante
di per sè da tale maggior rischio generico è già compreso
nella maggior pena comminata per la violazione delle norme speciali sugli
stupefacenti in presenza di dette circostanze.
Ciò non significa tuttavia che non possa eventualmente essere
ravvisata, sempre in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto
e non in astratto, anche una ulteriore violazione (oltre a quella della
legge speciale) di una regola cautelare specificamente preventiva dell'evento
dannoso morte nel caso concreto, quando un maggior pericolo concreto ed
effettivo per la vita dell'assuntore fosse in concreto prevedibile in considerazione
della quantità e qualità della sostanza spacciata (eventualmente
anche adulterata o "tagliata" in modo pericoloso) o della conoscibile minore
resistenza fisica dell'assuntore o del maggior pericolo di overdose, dovuti
alla sua minore età o allo stato di tossicodipendente in riabilitazione.
Nel caso poi in cui siano intervenute plurime, successive cessioni,
la necessità che la responsabilità sia fondata su una colpa
da accertarsi in concreto comporta che in tanto la colpa potrà ritenersi
esistente in quanto la morte sia intervenuta per un fattore che era in
concreto prevedibile dal cedente. Così, ad esempio, potrebbe non
ravvisarsi la colpa nella ipotesi in cui la morte del terzo assuntore (non
conosciuto e non conoscibile dal cedente) sia stata determinata da fattori
non noti o non conoscibili dallo spacciatore, come nel caso che l'assuntore
finale abbia consumato la droga insieme ad alcol, o a psicofarmaci, o sia
affetto da vizi cardiaci o da gravi difetti fisici. In via generale, quindi,
nel caso di plurime cessioni non potrà ravvisarsi una responsabilità
dell'originario cedente quando questi non conosceva o non era in grado
di conoscere l'identità dei successivi cessionari e soprattutto
la presenza di particolari fattori che abbiano aumentato il rischio di
decesso. Peraltro, anche in caso di plurime successive cessioni potrà
ravvisarsi una colpa del cedente qualora questi particolari fattori relativi
ai successivi cessionari non siano stati nel caso concreto conosciuti dal
cedente per errore o ignoranza evitabili, e quindi colpevoli, come ad esempio
nel caso che l'agente abbia ceduto la droga sapendo o potendo sapere che
il cedente l'avrebbe a sua volta venduta in una discoteca o in un simile
locale (e che quindi vi era in concreto una elevata probabilità
che fosse assunta insieme ad alcol), o l'avrebbe venduta in una scuola
o a minorenni.
Analogamente, anche nel caso di plurime cessioni, potrà ravvisarsi
la colpa in capo al cedente indiretto quando il maggior rischio non dipende
dalla identità e dalle caratteristiche personali dell'assuntore
ma è riconducibile alla quantità, natura e qualità
dello stupefacente, ed in particolare alle modalità con cui esso
sia stato nel caso concreto eventualmente miscelato con altre sostanze
tali da accentuarne in concreto la potenzialità lesiva (a meno che,
in tali specifici casi di maggiore rischio per la vita di qualsiasi potenziale
consumatore, non sia addirittura ravvisabile il dolo eventuale).
16. In conclusione, va dunque affermato il principio che, nell'ipotesi
di morte verificatasi in conseguenza dell'assunzione di sostanza stupefacente,
la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell'art. 586
cod. pen. per l'evento morte non voluto richiede che sia accertato non
solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto
da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto
rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo
stesso la presenza dell'elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata
alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale
che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità
ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del
soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale
agente modello che si trovi nella concreta situazione dell'agente reale
ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o
conoscibili dall'agente reale.
Venendo al caso in esame, si è già rilevato come la sentenza
impugnata non si sia conformata al suddetto principio di diritto, avendo
affermato la responsabilità dell'imputato per il reato di cui all'art.
586 cod. pen. a puro titolo di responsabilità oggettiva e sulla
sola base del nesso di causalità materiale, pur avendo accertato
che la morte del terzo cessionario (non conosciuto dall'imputato) era stata
causata, o quanto meno favorita, dalla contemporanea assunzione di alcol
etilico e pur essendo stato dedotto che la vittima si trovava in un precario
stato di salute per l'assunzione di notevoli quantità di medicinali.
La corte d'appello ha osservato che l'effetto letale era prevedibile, ma
ha fatto riferimento esclusivamente ad una prevedibilità in astratto
derivante dalla stessa cessione della sostanza stupefacente senza esaminare
nè indicare se vi fossero nel caso concreto specifiche circostanze,
conosciute o conoscibili dal cedente, che rendevano probabile in concreto,
e non solo astrattamente possibile, un maggior rischio di esito letale.
In particolare, non ha accertato se l'imputato sapesse o potesse sapere
che il N. avrebbe a sua volta ceduto parte dello stupefacente a terzi e
che uno di costoro era consumatore di notevoli quantità di medicinali,
si trovava in precario stato di salute e avrebbe ingerito alcol etilico
contemporaneamente all'assunzione dello stupefacente. La corte ha anche
parlato di colpa dell'agente e di concreta prevedibilità dell'evento
letale per l'assuntore della sostanza stupefacente, ma si tratta di affermazioni
apodittiche e di motivazione di stile, non essendo stata indicata nessuna
circostanza di fatto che dimostrasse una prevedibilità della morte
in concreto ed una colpa in concreto dell'agente.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata limitatamente al
reato di cui agli artt. 83 e 586 cod. pen. per totale mancanza di motivazione
sull'esistenza in concreto di una colpa dell'imputato rispetto all'evento
morte non voluto, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della
corte d'appello di Roma, che si uniformerà al principio di diritto
dianzi affermato.
Per il resto il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Annulla la sentenza impugnata limitatamente
al reato di cui agli artt. 83 e 586 cod. pen. e rinvia per nuovo giudizio
ad altra sezione della corte d'appello di Roma.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2009
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