Cassazione
penale, Sezioni Unite, sentenza 15 maggio 2008, n.19601, il sindacato
del giudice penale sulla sentenza dichiarativa di fallimento
le Sezioni
unite sono dell'avviso che i nuovi
contenuti dell'art. 1 1. fall, non incidono su un dato strutturale del
paradigma della bancarotta (semplice o fraudolenta) ma sulle condizioni
di
fatto per la dichiarazione di fallimento, sicché non possono
dirsi norme
extrapenali che interferiscono sulla fattispecie penale. E il giudice
penale,
che non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento
sulla base della
normativa all'epoca vigente, allo stesso modo non può escluderne
gli effetti
sulla base di una normativa sopravvenuta.
Il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta
ex
artt. 216 e seguenti della legge fallimentare non può sindacare
la sentenza
dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo
dello stato
di insolvenza della impresa ma anche guanto ai presupposti soggettivi
inerenti
alle condizioni previste dall'art. 1 1. fall, per la fallibilità
dell'imprenditore, sicché le modifiche apportate all'art. 1 1.
fall., ad opera
del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e poi del decreto
legislativo 12
settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell'art 2
c.p. sui
procedimenti penali in corso.
Fatto
1. Con
decreto in
data 23 ottobre 2003 il Giudice della udienza preliminare del Tribunale
di
Firenze disponeva il giudizio dinnanzi al Tribunale di Firenze nei
confronti di
L. N. in relazione a due imputazioni di bancarotta:
a)
art. 217 comma primo, n. 4, r.d. 16 marzo 1942,
n. 267, perché nella qualità di legale
rappresentante della s.r.l. G. P.
si asteneva dal chiederne il fallimento, aggravando il dissesto della
impresa,
dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Firenze in data 19
gennaio
2000;
b)
artt. 110 c.p., 216 comma primo, n. 1 e 2, e 223 r.d. 16 marzo 1942, n.
267,
per avere tenuto i libri e le scritture contabili prescritte dalla
legge in modo
tale da non permettere al curatore la idonea ricostruzione del
patrimonio e del
movimento degli affari della società di cui al capo precedente,
e rendendosi
successivamente irreperìbile;
con l'aggravante di cui all'art. 219 commi primo e secondo del predetto
regio
decreto.
in Firenze, dalla fine del 1997 alla data del fallimento.
2. Con sentenza in data 27 marzo 2006 il Tribunale di Firenze
dichiarava
il N. colpevole del reato di cui all'art. 217 comma secondo, 1. fall.,
così
modificata l'imputazione sub b), e, riconosciute le attenuanti
generiche, lo
condannava, con entrambi i benefici di legge, alla pena di mesi sei di
reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, dichiarandolo
inabilitato all'esercizio di un'impresa commerciale e incapace di
esercitare uffici
direttivi presso qualsiasi impresa per un tempo corrispondente alla
pena
inflitta; assolveva inoltre l'imputato dal reato ascrittogli sub
a.) per insussistenza del fatto.
Il Tribunale rilevava che le scritture contabili erano state tenute
regolarmente
fino al 1997, con bilanci tempestivamente depositati, e che da allora
l'attività era praticamente cessata. Peraltro, considerati i
debiti modesti -
tanto che il fallimento era stato richiesto per un credito pari a lire
4.500.000 - non si erano verificate circostanze tali da imporre una
richiesta
di fallimento in proprio, e comunque, se ciò fosse anche
avvenuto, non ne
sarebbe derivata una diminuzione del passivo, accertato in lire 50
milioni.
Residuava dunque solo la responsabilità penale dell'imputato per
l'omessa
tenuta delle scritture contabili nell'ultimo periodo di formale
esistenza
dell'azienda.
3. Nell'atto di appello proposto dal difensore dell'imputato, si
denunciava, con un primo motivo, il vizio di motivazione in punto di
affermazione della responsabilità penale, dato che era
stato riconosciuto
che le scritture contabili erano state regolarmente tenute sino a
quando la
società amministrata dal N. aveva di fatto operato; con un
secondo, il vizio di
motivazione circa il trattamento sanzionatorio, non ragguagliato al
minimo
edittale; con un terzo, la mancata sostituzione della pena detentiva in
quella
pecuniaria, in luogo della sospensione condizionale della pena.
4. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello
di Firenze,
in parziale riforma della sentenza impugnata, riduceva la pena inflitta
al N. a
mesi due e giorni venti di reclusione, convertendola nella
corrispondente pena
pecuniaria e dichiarandola interamente condonata, previa esclusione
della
sospensione condizionale; confermando nel resto la sentenza del
Tribunale.
La Corte territoriale osservava tra l'altro che non era accoglibile la
tesi
difensiva, prospettata nel corso del dibattimento di appello, secondo
cui, in
forza delle disposizioni attualmente vigenti, la società del N.
non avrebbe
potuto essere sottoposta a fallimento, con la conseguenza che i fatti
in
contestazione, in tesi, non costituivano più reato; e ciò
in quanto, ad avviso
della Corte di appello, a norma dell'art. 150 d. lgs. 9 gennaio 2006,
n. 5, la
posizione di detta società e la procedura di fallimento della
stessa erano
regolate dalla legge anteriore alle ultime modifiche apportate alla
legge
fallimentare.
5. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il
difensore
del N., avv. Michele Ducei, che con un unico motivo denuncia la
violazione
dell'art. 2 comma terzo (recte, quarto) c.p..
Secondo il ricorrente, pur essendo pacifico che, in forza "dell'art.
242
Legge Fallimentare" permangono gli effetti delle sentenze dichiarative
di
fallimento pronunciate prima della entrata in vigore del d. lgs. 9
gennaio
2006, n. 5, tale previsione non può estendersi al processo
penale, pena la
violazione dell'art. 2 c.p.
Infatti, a seguire l'argomentare della Corte di appello, casi identici
troverebbero soluzioni totalmente diverse, in contrasto con il
principio della
successione nel tempo della legge penale più favorevole.
Si osserva ancora nel ricorso che, come risulta dalla relazione ex art.
33 1.
fall., dalla stessa sentenza dichiarativa di fallimento e dall'esame
testimoniale
del curatore, attualmente non ricorrerebbero più, alla luce
dell'art. 1 1.
fall., come modificato dal d. lgs. n. 5 del 2006, i presupposti per
dichiarare
il fallimento della società di cui il N. era legale
rappresentante,
dovendosi alla stregua della nuova normativa ritenere
l'imputato un piccolo imprenditore, come
tale non assoggettabile alle disposizioni sul fallimento.
Era stato infatti accertato che nell'esercizio dell'attività
commerciale della
società dichiarata fallita non erano stati effettuati
investimenti per un
capitale superiore a 300.000 euro, né l'azienda aveva realizzato
ricavi lordi,
calcolati sulla media degli ultimi tre anni, per un ammontare
complessivo annuo
superiore a 200.000 euro.
Ad avviso del ricorrente, poiché l'art. 1 1. fall., integrativo
delle norme
penali contenute negli artt. 216 e 217 1. fall., era stato modificato
in senso
più favorevole all'imputato, non rendendo più soggetta a
fallimento la società
nella quale egli aveva agito, in applicazione del disposto dell'art. 2
comma
terzo (recte, quarto) c.p., si sarebbe dovuto pronunciare sentenza di
assoluzione, perché il fatto come contestato al N. non è
oggi più previsto
dalla legge come reato.
6. La Quinta sezione
della Corte di
cassazione, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza resa alla
udienza
del 13 novembre 2007, ha rimesso il
ricorso alle
Sezioni unite, a norma dell'art. 618 e.p.p.
Nell'ordinanza si osserva che il motivo di ricorso pone all'attenzione
della
Corte di cassazione la questione se, in relazione ai reati di
bancarotta, in
seguito all'entrata in vigore del d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che ha
modificato la nozione di piccolo imprenditore non assoggettabile a
procedura
fallimentare, debba trovare applicazione il disposto di cui all'art. 2
comma
quarto c.p., "con la conseguenza di escludere la sussistenza del reato
in
ipotesi di condotta realizzata nella vigenza della precedente normativa
fallimentare da persona la quale, in forza del novum legislativo,
attualmente
non sarebbe sottoposto a fallimento, e questo pur in presenza del
portato della
norma transitoria di cui al citato D. L.vo, che fa salvi gli effetti
delle
procedure concorsuali pendenti al momento dell'entrata in vigore della
legge di
riforma".
L'ordinanza di rimessione segnala al riguardo il contrasto di
giurisprudenza
insorto in seno alla stessa Quinta sezione a seguito della sentenza 20
marzo
2007, rie. Celotti, e della successiva sentenza 18 ottobre 2007, rie.
Rizzo;
evidenziando, quanto alla prima, che in essa si richiama la disciplina
transitoria di cui al citato art. 150 d. lgs. n. 5 del 2006, che regola
secondo
la legge anteriore le procedure fallimentari pendenti alla data di
entrata in
vigore del predetto decreto, e quindi anche la individuazione
dell'imprenditore
assoggettabile a fallimento, per farne derivare la conseguenza della
irrilevanza del nuovo regime ai fini dell'applicabilità delle
norme in materia
di successione di leggi penali; e, quanto alla seconda, che, nella
stessa, in
senso contrario, si afferma che il novum legislativo integra il
precetto
penale, giacché la dichiarazione di fallimento, e quindi la
"fallibilità" dell'imprenditore, è elemento costitutivo
dei reati di
bancarotta, con la conseguente applicabilità dell'art. 2 c.p. in
un caso in
cui, come nella specie, secondo la nuova disciplina il titolare della
impresa
dichiarata fallita debba considerarsi piccolo imprenditore e quindi,
come tale,
non assoggettabile a fallimento.
Diritto
1.
La questione
rimessa alle Sezioni Unite.
1.1. La questione rimessa alle
Sezioni unite è la seguente: "se i fatti di bancarotta
commessi dal 'piccolo imprenditore' prima
dell'entrata in vigore del d. Igs. n. 5 del 2006, che ha modificato la
nozione
di imprenditore assoggettabile a fallimento, integrino, o non, la
relativa
fattispecie di reato, alla luce della disciplina transitoria dettata
dall'art.
150 del medesimo d. Lgs.".
1.2. L'ordinanza di rimessione ha preso in
considerazione la novella
recata dal d. Igs. 9 gennaio 2006, n. 5 (in G.u. 16 gennaio 2006, n.
12, suppl.
ord., recante "Riforma organica della disciplina delle procedure
concorsuali, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005,
n.
80"), emanato sulla base della legge-delega 14 maggio 2005, n. 80, ed
entrato in vigore, fatta eccezione per alcune disposizioni, alla
scadenza del
sesto mese dalla sua pubblicazione, che ha integralmente sostituito,
tra
l'altro, l'art. 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, e il cui art. 150
contiene
una disciplina transitoria.
In particolare, per quel che qui interessa, l'art. 1, comma 6, lett.
a), n. 1,
della citata legge-delega, ha, con riguardo alla "disciplina del
fallimento", stabilito (tra l'altro) il principio direttivo, di
contenuto
indubitabilmente molto ampio, così formulato: "semplificare la
disciplina
attraverso l'estensione dei
soggetti
esonerati
dall'applicabilità
dell'
istituto"
(ove l'"istituto" sembrerebbe avere come termine di
riferimento la "disciplina del fallimento").
1.3. Tuttavia, successivamente a detto decreto legislativo,
è stato
emanato (sulla base della stessa legge-delega, come modificata, con
l'inserimento nell'art. 1, del comma 5-bis, ad opera dell'art. 1 comma
3 della
legge 12 luglio 2006, n. 228) il d. Igs. 12 settembre 2007, n. 169 (in
G.u. 16
ottobre 2007, n. 241, recante "Disposizioni integrative e correttive al
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto
legislativo 9 gennaio
2006, n. 5, in materia di
disciplina
del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta
amministrativa, ai sensi
dell'articolo 1, commi
5, 5-bis e 6, della
legge 14 maggio 2005, n. 80"), entrato in vigore il 1°
gennaio
2008, che ha, tra l'altro, all'art. 1, nuovamente sostituito l'art. 1
legge
fall., in tema di imprese soggette al fallimento e al concordato
preventivo, in
particolare prescindendo dalla nozione di "piccolo imprenditore", e, all'art. 22, introdotto una nuova
disciplina transitoria.
1.4. Ora, considerato che i presupposti per l'applicabilità
dell'art. 2 c.p.,
in tema di successioni di leggi penali, devono essere apprezzati
d'ufficio
anche nell'ambito del giudizio di cassazione (v. art. 609 e.p.p.), a
prescindere dallo stato della legislazione in vigore al momento della
proposizione del ricorso e dal contenuto dei motivi di impugnazione, il
quesito
sottoposto all'esame delle Sezioni unite, tenuto conto anche del
successivo
decreto "correttivo", deve essere riformulato nei seguenti termini :
"se i fatti di bancarotta commessi
prima dell'entrata in vigore del d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e del
successivo
d. lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che hanno modificato i requisiti
perché
l'imprenditore sia assoggettabile a fallimento, continuano a essere
previsti
come reato, anche se in base alla nuova normativa l'imprenditore non
potrebbe
più essere dichiarato fallito".
2. Il decorso dei termini di prescrizione del reato.
2.1. Dalla data di consumazione del reato, che va individuata nella
sentenza
dichiarativa di fallimento, in data 19 gennaio 2000, è decorso,
al 19 luglio
2007, il termine previsto dalla legge, in relazione ai livelli di pena
edittali
stabiliti dall'art. 217 1. fall., per la prescrizione del reato, che
è quello
di sette anni e sei mesi, in base sia alla previgente sia all'attuale
formulazione degli artt. 157, 160 e 161 c.p. (novellati dalla legge 5
dicembre
2005, n. 251).
Nella specie è comunque la nuova normativa a rendersi
applicabile, in quanto
alla data dì entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (8
dicembre 2005)
non era stata ancora pronunciata la sentenza di condanna di primo grado
(27
marzo 2006) ; e ciò in relazione a quanto derivante dalla
dichiarazione di
incostituzionalità parziale dell'art. 10 comma 3 della legge
citata (Corte
cost., sent. n. 393 del 2006).
Alla udienza dibattimentale di primo grado del 14 marzo 2005 era stato
accertato un impedimento dell'imputato, derivante da infermità
fisica, tanto
che il dibattimento venne rinviato all'udienza del 10 ottobre 2005, con
dilazione pari dunque a 209 giorni. In base alla nuova formulazione
dell'art.
159 c.p., al termine di sette anni e sei mesi vanno aggiunti non
più di 65
giorni (5 giorni di impedimento più 60 giorni di sospensione
massima), con la
conseguenza che il termine di prescrizione viene a cadere alla fine del
giorno
22 settembre 2007 (19 luglio 2007 più 65 giorni), quindi
antecedentemente ad
oggi.
Ove anche si ritenesse che ai soli fini della durata della sospensione
debba
tenersi conto della disciplina vigente al momento in cui si è
verificato
l'impedimento dell'imputato, il reato sarebbe comunque prescritto,
perché,
aggiungendo il periodo di sospensione pari a 209 giorni al termine di
legge,
risulterebbe che il termine di prescrizione sarebbe maturato allo
spirare del
giorno 13 febbraio 2008 (19 luglio 2007 più 209 giorni) , quindi
sempre
antecedentemente ad oggi.
2.2. Tuttavia, non rinvenendosi cause di inammissibilità del
ricorso, rispetto
al tema della prescrizione è pregiudiziale, a norma dell'art.
129 comma 2
e.p.p., quello, proposto con l'unico motivo, relativo
all'applicabilità
dell'art. 2 c.p., da inquadrare giuridicamente nella disciplina
specificamente
recata dal comma secondo di tale articolo, malgrado l'improprio
richiamo fatto
dal ricorrente al comma "terzo" (recte, quarto) del predetto
articolo; motivo che, se accolto, comporterebbe la declaratoria di
assoluzione
dell'imputato perché il fatto non è (più) previsto
dalla legge come reato.
3. Gli effetti delle modifiche dell'art. 1 della legge fallimentare,
secondo la
tesi del ricorrente.
3.1. La Corte di appello
mostra di
riconoscere che, in base al dettato dell'art. 1 del r.d. 16 marzo 1942,
n. 267,
come modificato dal d. lgs. n. 5 del 2006, un'impresa avente
caratteristiche
quali quelle accertate nel caso di specie non potrebbe essere
più assoggettata
a fallimento. Assume però che la nuova disciplina non si estende
alle
dichiarazioni di fallimento pronunciate nel vigore del precedente
regime, in
quanto in forza della disposizione transitoria di cui all'art. 150 del
citato
decreto, "la posizione di detta società e la procedura di
fallimento della
stessa sono regolate dalla legge anteriore".
3.2. Replica il ricorrente, richiamando
anche
l'art. 242 1. fall., essere pacifico che permangano gli effetti delle
sentenze
dichiarative di fallimento pronunciate prima della entrata in vigore
del d.
lgs. n. 5 del 2006; essendo però altra cosa, ai fini penali,
l'effetto
derivante, ex art. 2 c.p., dalla "successione nel tempo della legge
penale
più favorevole", che nella specie deriverebbe dal nuovo dettato
dell'art 1
1. fall., da considerare "norma integrativa" delle fattispecie penali
di cui agli artt. 216 ("Bancarotta fraudolenta") e 217
("Bancarotta semplice") della 1. fall.; in forza del quale l'impresa
di cui era titolare l'imputato, stante l'ammontare degli investimenti e
dei
ricavi nel periodo di riferimento, non sarebbe ora più soggetta
a fallimento.
A sostegno del suo assunto, il ricorrente invoca il precetto secondo
cui, in
caso di successione di leggi penali, deve farsi applicazione di quella
contenente le disposizioni più favorevoli all'imputato,
richiamando il comma
terzo dell'art. 2 c.p., da intendersi come fatto al comma quarto di
detto
articolo, a seguito dell'inserimento di un comma nell'art. 2 ad opera
della
legge 24 febbraio 2006, n. 85.
3.3. In realtà, come anticipato, gli argomenti addotti nel
ricorso non
attengono alla ipotesi in cui la successione di leggi produca effetti
solo
modificativi delle fattispecie incriminatrici, onde debba essere
stabilito,
nella comparazione tra la vecchia e la nuova, quale sia la legge
più favorevole
da applicare. Essi evocano piuttosto il diverso precetto della non
ultrattività
della legge penale, di cui all'art. 2 comma secondo c.p., dato che,
secondo la
tesi sostenuta, i presupposti in base ai quali un imprenditore
può essere
dichiarato fallito, indicati dal nuovo art. 1 1. fall., da considerare
norma
integratrice delle fattispecie di bancarotta, non sarebbero rinvenibili
nella
impresa dell'imputato, in relazione agli accertati dati economici della
sua
gestione; con la conseguenza che "il fatto" ascritto al medesimo non
"costituirebbe [più] reato" e che chi lo ha commesso non sarebbe
dunque punibile.
4. Il contrasto di giurisprudenza.
Come si è sopra dato atto, sulla questione rimessa all'esame
delle Sezioni
unite si registra un contrasto di giurisprudenza, tutto interno alla
Quinta
sezione penale.
La sentenza 20 marzo 2007, Celotti - che pure afferma rientrare
nell'ambito di
cognizione del giudice penale, in presenza di una sentenza dichiarativa
di
fallimento, l'accertamento della qualità di imprenditore
assoggettabile a
fallimento, ex art. 1 1. fall., quale "indefettibile requisito" del
reato di bancarotta propria, e che assegna alla disciplina sul
fallimento una
funzione in varie parti integratrice della fattispecie penale -
è dell'avviso
che, in forza della norma transitoria di cui all'art. 150 d. lgs. n. 5
del
2006, "gli eventi processuali (concorsuali e penali) avviati prima
della
data di entrata in vigore [del decreto] " sono regolati dalle norme
previgenti "anche per quanto attiene alla identificazione del soggetto
assoggettabile a fallimento ed alla nozione di "piccolo
imprenditore'", ancorata a indici monetari di per sé indicativi
di una
cesura temporale con eventi passati.
Per contro, la sentenza 18 ottobre 2007, Rizzo - ribadito che la
sentenza
dichiarativa di fallimento non fa stato nel procedimento per
bancarotta,
essendo preciso compito del giudice penale accertare se sussistevano i
requisiti soggettivi di fallibilità - osserva che se per
volontà del
legislatore tali requisiti vengono a mutare, è sulla base della
nuova
disciplina che va parametrato l'accertamento degli elementi costitutivi
del
reato. Non sarebbe poi corretto desumere la perdurante
applicabilità della
precedente disciplina sui requisiti di fallibilità
dell'imprenditore dalla
norma transitoria di cui all'art. 150 d. lgs. n. 5 del 2006,
perché questa ha
riguardo alla procedura fallimentare, ma non esplica incidenza sul
fondamentale
canone della "retroattività della legge più favorevole"
di cui
all'art. 2 c.p. che, pur non essendo costituzionalizzato, deve in sede
penale
trovare applicazione in mancanza di una esplicita volontà in
senso contrario
del legislatore.
In termini simili a quest'ultima pronuncia si è poi espressa la
sentenza,
sempre della Quinta sezione, 30 ottobre 2007, Cremona.
5. La sindacabilità della sentenza dichiarativa di fallimento ai
fini della
punibilità per fatti di bancarotta, secondo la giurisprudenza.
5.1. Prima dell'entrata in vigore dell'attuale codice di rito, era
consolidata,
nella giurisprudenza di legittimità, la tesi, basata sugli artt.
19 e 21 e.p.p.
1930, secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento, divenuta
irrevocabile, non era sindacabile dal giudice penale.
Si affermava dunque che "la sentenza dichiarativa di fallimento, la cui
pronuncia è di competenza esclusiva del tribunale fallimentare,
fa stato, in
sede penale, se passata in giudicato, sull'esistenza degli estremi per
l'apertura del procedimento" (così, fra molte, Sez. V, 12 aprile
1967,
Moretti).
Con particolare riferimento al presupposto soggettivo della pronuncia
dichiarativa di fallimento del giudice civile l'orientamento era
ribadito in
relazione alle questioni poste, in sede penale, dal fallito che
assumeva di
rivestire la qualità di "piccolo imprenditore", osservandosi che
"la qualità di imprenditore commerciale, riconosciuta con la
sentenza
civile dichiarativa di fallimento divenuta irrevocabile, non può
essere rimessa
in discussione nel giudizio penale per reati fallimentari, [e che il]
giudice
penale non può, pertanto, in contrasto con quanto accertato
definitivamente in
sede civile, qualificare l'imputato piccolo imprenditore" (così,
ex
plurimis, Sez. V, 11 ottobre 1977, Michelani).
Da ciò due corollari.
Da un lato, atteso che per il principio di unità della
giurisdizione la
sentenza dichiarativa di fallimento faceva stato nel processo penale
per
bancarotta, in tale processo avevano valore le sentenze passate in
giudicato;
sicché un'opposizione del fallito alla sentenza dichiarativa di
fallimento, ove
avesse avuto il carattere della serietà, avrebbe determinato
necessariamente la
sospensione dell'esercizio dell'azione penale ai sensi dell'art. 19
e.p.p.
1930 (v. in tal senso Sez. un., 29 novembre 1958, Amantini).
Per altro verso, atteso che la questione relativa alla qualità
di fallito
rivestiva natura pregiudiziale di stato personale, la sentenza di
revoca di
quella dichiarativa di fallimento poteva costituire motivo per attivare
la
procedura di revisione (Sez. V, 15 dicembre 1980, Ruggiero).
5.2. Anche la Corte
costituzionale aveva
affermato, avallando questa linea interpretativa, che "la dichiarazione
di
fallimento ha natura pregiudiziale rispetto al processo penale
concernente
reati fallimentari; [sicché] sorgendo controversia sullo stato
di imprenditore
fallito, il giudice penale non può conoscere di essa, ma deve
limitarsi, previa
verifica delle condizioni di legge, a sospendere il procedimento
pendente
davanti a lui, sino al passaggio in giudicato della relativa pronunzia"
(sent. n. 141 del 1970; cui adde ord. n. 59 del 1971).
E si era avuto cura di puntualizzare che l'imprenditore aveva a propria
disposizione i mezzi e i modi più adeguati per dimostrare, sia
nella fase
anteriore alla dichiarazione di fallimento sia in quella conseguente
all'opposizione avverso la relativa sentenza e sino all'eventuale
passaggio in
giudicato di essa, l'inesistenza o la non sufficienza delle condizioni
oggettive e soggettive necessarie e sufficienti per la dichiarazione di
fallimento (sent. n. 110 del 1972).
Nella stessa linea, la giurisprudenza costituzionale si era espressa
con le
sentenze n. 190 del 1972, n. 275 del 1974 e con l'ordinanza n. 636 del
1987.
5.3. Con l'avvento del nuovo codice di rito, pur considerando la
ridefinizione della portata della cognizione del giudice penale e della
disciplina delle questioni pregiudiziali (artt. 2 e 3 e.p.p.),
l'orientamento
precedente era stato ribadito da alcune decisioni della Suprema Corte,
osservandosi in esse che la nuova disciplina processual-penalistica in
materia
di questioni pregiudiziali non incideva sulla validità della
consolidata
qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento
costitutivo dei reati di bancarotta: da questa premessa discendeva la
perdurante validità del "principio per cui la
dichiarazione di
fallimento, una volta che abbia acquisito il carattere della
irrevocabilità,
viene a costituire un dato definitivo e vincolante sul quale non
possono più
sorgere questioni che non siano collegate alla produzione formale della
prova
della sua giuridica esistenza" (così Sez. V, maggio 1993,
Berzanti). Nella
stessa linea, Sez. V, 24 febbraio 1998, Bertoni; Sez. V, 29 marzo 2001,
Barni.
5.4. A questo tradizionale orientamento si è venuto
a contrapporre
nella giurisprudenza di legittimità l'indirizzo che disconosce
alla sentenza
dichiarativa di fallimento efficacia vincolante in sede penale.
Ad esempio, Sez. V, 29 aprile 1998, Marcimino, ha affermato che "la
sentenza dichiarativa di fallimento, pur se irrevocabile, non ha
efficacia di
giudicato nel processo penale, in virtù della disciplina delle
questioni
pregiudiziali dettata dagli artt. 2 e 3 e. p. p. " .
Nella stessa prospettiva, Sez. V, 26 settembre 2002, Veruschi, ha
ritenuto che
poiché con l'avvento del nuovo codice di rito la sentenza
dichiarativa di
fallimento non fa più stato nel processo penale, essa è
"di per sé
insufficiente ad integrare la prova della qualità di
imprenditore [...] se tale
qualità è controversa ai fini dell'art. 2221 ce. e 1,
primo comma, legge
fallimentare per emergenze che inducano ad attribuire all'imputato lo
svolgimento dell'attività di piccolo imprenditore prevista
dall'art. 2083
ce". In senso conforme: Sez. V, 21 marzo 2003, Severino e Sez. V, 30
luglio 2003, Tissi.
L'indirizzo in esame, come si ricava dalle sentenze da ultimo citate,
si è in
effetti affermato con particolare riferimento ai profili attinenti lo
status
dell'imprenditore fallito ovvero, più specificamente, alla
qualità di
"imprenditore" del fallito (v. ad es. Sez. V, 9 aprile 1999, Leo).
Su questa linea, Sez. V, 15 marzo 2007, Decorosi, ha osservato che per
effetto
della disciplina delle questioni pregiudiziali introdotta dagli artt. 2
e 3
e.p.p., la sentenza dichiarativa di fallimento, pur se irrevocabile,
non ha
efficacia di giudicato nel processo penale, sicché, per un
verso, gli
accertamenti risultanti dalla sentenza stessa devono essere valutati
nel
processo penale alla stregua di ogni altro materiale utile sul piano
probatorio
e, per altro verso, la valutazione del giudice di merito in ordine alla
ricorrenza dei requisiti per ottenere o escludere la qualifica di
piccolo
imprenditore di cui all'art. 2083 ce. si risolve in un apprezzamento di
fatto
incensurabile in sede di legittimità se motivato.
Più puntualmente, Sez. V, 1° dicembre 1990, Milazzo, ha
distinto tra lo status
di "fallito", non sindacabile dal giudice penale e quello di
"imprenditore", invece sindacabile; distinzione peraltro criticata da
Sez. V, 16 febbraio 1995, Bertoldo, che ha affermato perentoriamente
"che
sulla base della nuova disciplina introdotta dagli artt. 2 e 3 e.p.p.
la
sentenza dichiarativa di fallimento, anche se divenuta irrevocabile,
non ha
efficacia di giudicato nel processo penale", sicché il sindacato
del
giudice penale si eserciterebbe non solo in relazione allo status
dell'imprenditore fallito, ma anche su tutti ì presupposti di
fatto e di
diritto che l'acquisizione di quello status comporta e che hanno
formato
oggetto della valutazione e della decisione del giudice civile.
6. La dichiarazione di fallimento nella struttura dei reati di
bancarotta.
6.1. Se fosse vero che la definizione normativa dei
presupposti per
la dichiarazione di fallimento di un'impresa costituisce una norma
extrapenale
integratrice della fattispecie penale, dovrebbe essere verificato se,
in virtù
di abolitio criminis (parziale), il fatto ascritto all'imputato non sia
più
previsto dalla legge come reato.
Infatti, alla stregua dei nuovi parametri normativi di cui all'art. 1
1. fall.,
sia ex d. lgs. n. 5 del 2006 sia ex d. lgs. n. 169 del 2007, l'impresa
dell'imputato, come implicitamente riconosciuto dalla
Corte di appello, non sarebbe più soggetta a fallimento.
6.2. Per
stabilire se nella vicenda in esame si verta in tema di aJbolitio
criminis,
rilevante ex art. 2 comma secondo c.p., occorre verificare se la norma
extrapenale incida su un elemento della fattispecie astratta, non
essendo di
per sé rilevante una mutata situazione di fatto che da quella
norma derivi
(v. in questo senso la recente sentenza Sez. un., 27 settembre 2007,
Magera,
che richiama in particolare sul punto Sez. un., 26 marzo 2003,
Giordano).
6.3. Ora, nella struttura delle
fattispecie di
bancarotta di cui agli artt. 216 e s. della 1. fall., il presupposto
formale
perché possano essere prese in considerazione, ai fini della
responsabilità
penale, le condotte specificamente contemplate dalle norme non richiama
le
condizioni di fatto richieste per il fallimento (o l'ammissione alle
altre
procedure concorsuali) di un'impresa, consistendo
invece nella esistenza di una sentenza dichiarativa di fallimento.
6.4. In altri termini, come osservato da
autorevole Dottrina, che le Sezioni Unite condividono, nella struttura
dei
reati di bancarotta "la
dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di
provvedimento
giurisdizionale", e non per i fatti con essa accertati.
Sicché, in quanto atto della giurisdizione richiamato
dalla fattispecie
penale, la sentenza dichiarativa di fallimento è insindacabile
in sede penale;
né la disciplina delle questioni pregiudiziali prevista dal
codice di rito agli
artt. 2 e 3 "vale a spostare le premesse di diritto sostanziale",
perché i presupposti di fatto accertati nella sentenza
richiamata dalla
fattispecie penale non sono una "questione pregiudiziale" della quale
possa ritenersi investito il giudice penale, dato che essi sono stati
appunto
accertati da detta sentenza, "la quale vincola il giudice penale
(purché
esistente e non revocata) come elemento della fattispecie criminosa, e
non
quale decisione di una questione pregiudiziale" implicata dalla
fattispecie.
6.5. In generale, va rilevato che l'atto giuridico richiamato in una
fattispecie penale conta per gli effetti giuridici che esso produce e
non per i
fatti con esso definiti, sicché, se muta, per jus superveniens,
la definizione
legale dei presupposti (che possono a loro volta consistere in dati di
fatto o
anche in atti giuridici) perché un certo atto giuridico possa
essere
legittimamente adottato, non può dirsi che le norme
sopravvenute, che quei
presupposti mutino, incidano sulla struttura del reato.
E' il caso poi di precisare che quando un atto giuridico è
assunto quale dato
della fattispecie penale (non importa se come elemento costitutivo del
reato o
come condizione di punibilità), esso è sindacabile dal
giudice penale nei soli
limiti e con gli specifici mezzi previsti dalla legge.
Così, se l'atto giuridico è un
provvedimento legislativo, richiamato, come spesso accade, in una
fattispecie
penale, non potendo il giudice disapplicare la legge (art. 101 secondo
comma Cost.),
esso può essere sindacato solo in quanto se ne ravvisi un
possibile contrasto
con parametri costituzionali, abilitandosi in tal caso il giudice
(salva la
percorribilità di una interpretazione costituzionalmente
orientata) a sollevare
incidente di costituzionalità (art. 1 1. cost. 9 febbraio 1948,
n. 1; art. 23
1. 11 marzo 1953, n. 87).
Se si tratta di un provvedimento amministrativo, esso può essere
incidentalmente sindacato dal giudice penale, in quanto
illegittimo, come
quando è la sua inosservanza a costituire reato, come si
è più volte affermato
in giurisprudenza ad esempio con riferimento alla fattispecie
dell'art.
650 c.p., in tema di inosservanza dei
provvedimenti
dell'autorità per ragione di giustizia o di
sicurezza
pubblica o d'ordine pubblico o d'igiene, o a quella dell'art. 14 comma
5-ter d.
lgs. 25 luglio 1998, n. 286, in tema di
inosservanza dell'ordine del questore di lasciare
il territorio dello Stato, esclusa
ogni
rivalutazione dei presupposti di fatto assunti a base del
provvedimento (v., in tal
senso,
proprio a proposito dell'art. 650 c.p, Cass., Sez. I, 24 giugno 1992,
Beltrami;
Id., 1° giugno 1990, Beltramo; Cass., sez. Ili, 2 febbraio
1967,
Capra; nonché, a proposito dell'art. 14 comma 5-ter
d. lgs. 25 luglio
1998, n. 286, fra le tante, Cass., sez. I, 28 marzo 2006, Hado), i
quali,
beninteso, devono essere correttamente individuati nel
provvedimento
amministrativo (v. Cass., sez. I, 22 giugno 2004, Conti).
Se elemento della fattispecie è un atto
negoziale privato (come nella ipotesi dell'art. 641 c.p.), il giudice
penale
può escludere l'illiceità del fatto solo in presenza di
un negozio nullo, ad
esempio perché avente causa illecita, dato che in tal caso la
relativa
obbligazione non è idonea, in assoluto, a produrre effetti
giuridici, e quindi
nemmeno una condotta incriminabile, non bastando che esso sia solo
annullabile,
dovendo il negozio ritenersi produttivo di effetti giuridici fino a che
esso
non sia annullato dal giudice civile (v., a proposito dell'art. 641
c.p.,
Cass., sez. I, 29 marzo 1972, Da Ponte; Cass., sez. Ili, 29 gennaio
1964,
Sanzone).
Nel caso, poi, che, come nella specie, si
tratti di un provvedimento giudiziale, il giudice penale non ha alcun
potere di
sindacato, dovendo limitarsi a verificare l'esistenza dell'atto e la
sua
validità formale.
Così, a titolo di esempio, certamente non può
essere sindacata la
"sentenza di condanna" o il "provvedimento del giudice
civile" evocati, con i contenuti ivi precisati, rispettivamente, dai
commi
primo e secondo dell'art. 388 c.p., o la sentenza di separazione legale
con
addebito (art. 151 comma secondo ce.) agli effetti di quanto previsto
dall'art.
570 cpv. , n. 2, c.p. (v. tra le altre Cass., sez. VI, 13 luglio 2005,
Gabutti;
Id. , 7 gennaio 1999, Bianchini), o quella che pronuncia la cessazione
degli
effetti civili del matrimonio di cui agli artt. 5 e 6 della legge
1° dicembre
1970, n. 898, richiamati dalla fattispecie penale contemplata dall'art.
12-sexies della medesima legge.
Diversamente dagli altri casi sopra indicati, in cui pure nel paradigma
normativo entra a fare parte un atto giuridico, quando elemento della
fattispecie è una sentenza, il giudice penale non è
abilitato a compiere alcuna
valutazione, neppure incidentale, sulla legittimità di essa,
perché le
sentenze, a prescindere dalla loro definitività, hanno un valore
erga omnes che
può essere messo in discussione solo in via principale, con i
rimedi previsti
dall'ordinamento per gli errori giudiziari (e cioè con i mezzi
ordinari o
straordinari di impugnazione previsti dalla disciplina processuale).
6.6. Non può dunque essere condiviso l'orientamento prevalso
nella più recente
giurisprudenza di legittimità, a seguito della modifica
apportata dagli artt. 2
e 3 e.p.p. alla disciplina delle questioni pregiudiziali, secondo cui
la
sentenza dichiarativa di fallimento non ha efficacia di giudicato nel
processo
penale e lo status di "imprenditore" (fallibile), in quanto
richiamato dalle fattispecie di bancarotta, andrebbe accertato
autonomamente
dal giudice penale.
A ben leggere gli artt. 216 e 217 1. fall., appare chiaro che in essi
il
termine "imprenditore" non rileva di per sé ma solo in quanto
individua il soggetto "dichiarato fallito": esso compone cioè
un'endiadi che ha lo stesso valore connotativo del più breve
riferimento al
"fallito" contenuto nell'art. 220 1. fall., del tutto analogo alla
espressione "società dichiarate fallite" usata negli artt. 223 e
224
1. fall, per il caso dei "reati commessi da persone diverse dal
fallito";
e nessun indizio logico-giuridico può desumersi da dette
fattispecie acche
possa a ragione ritenersi che al giudice penale sia demandato il
compito di
accertare in capo all'imputato la veste di "imprenditore" ovvero, per
la ipotesi di bancarotta impropria, di sindacare la veste societaria
assunta
dalla fallita.
D'altro canto, anche se ciò fosse, il giudice penale avrebbe, in
tesi, solo il
compito di accertare una generica qualità di "imprenditore", ma
non
quella di verificare se, in base alla legge fallimentare, un
"imprenditore",
quale che sia, "possa essere dichiarato fallito", posto che le norme
penali qui considerate non si esprimono in questi termini, ma ancorano
la
operatività della fattispecie a una dichiarazione di fallimento
e non a un
accertamento del giudice penale sulla esistenza delle condizioni per le
quali
quell'imprenditore poteva essere dichiarato fallito.
L'"imprenditore" evocato dalle fattispecie in questione altri non
è,
dunque, che il "soggetto dichiarato fallito", giacché nel nostro
ordinamento la dichiarazione di fallimento è inscindibilmente
legata
all'esercizio di una impresa, e la norma penale, ponendo a dato
strutturale
della fattispecie l'esistenza di una dichiarazione di fallimento, non
può che
richiamarsi a quella condizione soggettiva ("imprenditore") che la
dichiarazione di fallimento implica necessariamente.
6.7. Le modifiche apportate dal vigente codice alla materia delle
questioni
pregiudiziali al processo penale non hanno, a ben vedere, una incidenza
determinante sulla questione qui esaminata.
Lo status di fallito non rappresenta, infatti, una "questione
pregiudiziale" da cui dipende la decisione sui reati di bancarotta,
perché
questo status è diretto effetto della sentenza dichiarativa di
fallimento, che,
come osservato, non è sindacabile dal giudice penale.
Appare quindi non del tutto proprio il richiamo alla tematica delle
questioni
pregiudiziali fatto nella Relazione al
Progetto
preliminare del e.p.p., nel punto in cui si osservava (p. 9) che,
in
presenza delle due concorrenti esigenze rappresentate, l'una,
dalla
"celerità del processo" e,
l'altra,
dalla "genuinità dell'accertamento incidentale", fosse la
prima
a dover prevalere, così da "evitare che
il
procedimento penale possa venire
sospeso
[...] in caso di controversia
sulla qualità di
fallito, in
pendenza di opposizione alla sentenza dichiarativa di
fallimento".
Di ciò mostrava rendersi conto lo stesso legislatore delegato,
tanto che, nella
Relazione al testo definitivo si dava atto di una "consolidata tendenza
giurisprudenziale, resistita in dottrina, all'inclusione nell'ambito
delle
pregiudiziali di stato della questione concernente lo status di fallito
ai fini
della ipotizzabilità dei reati di
bancarotta"
{ivi, p. 165).
D'altro canto, la possibilità di sospensione del procedimento
penale in
pendenza di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento,
risponde a
una esigenza per la quale, a prescindere dalla disciplina codicistica
sulle
"questioni pregiudiziali" e tenuto conto di quanto specificamente
previsto dall'art. 238 1. fall, (secondo cui per i reati di bancarotta
"l'azione penale è esercitata dopo la comunicazione della
sentenza
dichiarativa di fallimento"), rimane ancora valida l'affermazione
secondo
cui "sorgendo controversia sullo stato di imprenditore fallito, il
giudice
penale non può conoscere di essa, ma deve limitarsi, previa
verifica delle
condizioni di legge, a sospendere il procedimento pendente davanti a
lui, sino
al passaggio in giudicato della relativa pronunzia" (Corte cost. ,
sent.
n. 141 del 1970, che al riguardo mostra di prescindere dalla concreta
disciplina delle questioni pregiudiziali di cui agli allora vigenti
artt. 19-21
e.p.p. 1930).
Ed è proprio in considerazione di tale esigenza che nel testo
definitivo del codice,
in accoglimento di un rilievo della Commissione parlamentare, venne
reintrodotto l'art. 479 (previsto nel Progetto preliminare e soppresso
nel
Progetto definitivo) , suscettibile di applicazione proprio ai casi di
"opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento", che, si
notava, nla giurisprudenza" riteneva rientrare "nella disciplina
dell'art. 19 [e.p.p. 1930]" (Relazione al testo
definitivo, p. 165).
Ne discende che se anche è stata soppressa la previsione della
sospensione
obbligatoria del procedimento penale in pendenza di un'opposizione (ora
"reclamo": ex art. 18 1. fall., come da ultimo modificato) avverso la
sentenza dichiarativa di fallimento, quando lo "status di fallito"
sia sub judice resta tuttavia la facoltà del giudice penale, pur
non
trattandosi propriamente di una questione pregiudiziale, di disporre,
ex art.
479 e.p.p., la sospensione del dibattimento, alle condizioni ivi
previste (v.
Cass., sez. V, 5 aprile 2001, Crudo; Id., 5 febbraio 1992, Carzedda);
ferma
restando, ove sia già intervenuto irrevocabilmente il giudicato
penale di
condanna, la facoltà del condannato di attivare la procedura di
revisione, ex
art. 630 comma 1, lett. b), e.p.p. (Cass., sez. V, ric.
Carzedda,
cit.).
6.8. In conclusione, le Sezioni
unite sono dell'avviso che i nuovi contenuti dell'art. 1 1. fall, non
incidono
su un dato strutturale del paradigma della bancarotta (semplice o
fraudolenta)
ma sulle condizioni di fatto per la dichiarazione di fallimento,
sicché non
possono dirsi norme extrapenali che interferiscono sulla fattispecie
penale. E
il giudice penale, che non può sindacare la sentenza
dichiarativa di fallimento
sulla base della normativa all'epoca vigente, allo stesso modo non
può
escluderne gli effetti sulla base di una normativa sopravvenuta.
6.9. Resta quindi assorbito il profilo
della non
retroattività, per gli aspetti che rilevano in questa sede,
della disciplina
recata dai due provvedimenti legislativi sopra indicati, in forza delle
relative disposizioni transitorie, che pure avrebbe potuto legittimare,
nel
caso specifico (ove anche si fosse potuta assumere una incidenza nelle
fattispecie di bancarotta delle modifiche recate all'art. 1 1. fall.),
una
conclusione di non operatività di un fenomeno di abolitio
criminis, dato che,
come condivisibilmente affermato dalla citata sentenza delle Sez. un.,
rie.
Magera, sarebbe ingiustificata l'applicazione dell'art. 2 c.p. rispetto
a norme
extrapenali prive di effetti retroattivi.
7. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto:
Il giudice penale investito del giudizio
relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti della legge
fallimentare
non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non
solo quanto al
presupposto oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche
guanto
ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall'art. 1
1.
fall, per la fallibilità dell'imprenditore, sicché le
modifiche apportate
all'art. 1 1. fall., ad opera del decreto legislativo 9 gennaio 2006,
n. 5 e
poi del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano
influenza
ai sensi dell'art 2 c.p. sui procedimenti penali in corso.
8. Per quanto sopra osservato circa la
intervenuta prescrizione
del reato, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio.
P.Q.M.
Annulla
senza
rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto
per prescrizione.
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