Cassazione
penale, Sezioni Unite, sentenza 14
febbraio 2008, n. 7208, sulla natura di scriminante dell’art. 384,
primo comma,
c. p. e sul regime della falsa testimonianza del prossimo congiunto.
la causa di
esclusione
della punibilità per il delitto di falsa testimonianza, prevista
per chi ha
commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di
salvare sé o un
prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella
libertà o
nell’onore, non opera nell’ipotesi in cui il testimone abbia deposto il
falso
pur essendo stato avvertito della facoltà di astenersi.
Ritenuto
in
fatto
Il
giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Rieti, con sentenza del 18
aprile 2005, in seguito a
un giudizio abbreviato, ha assolto P. G.– ritenendo
applicabile nei suoi confronti la causa di non punibilità
prevista dall’art.
384, primo comma, cp – dal delitto di cui agli artt. 81, 372 cp.
Ha, invero, reputato la deposizione del G. oggettivamente falsa, ma
nondimeno
non punibile, in quanto resa “al fine di salvare il fratello da una,
altrimenti, inevitabile condanna”, così aderendo
all’orientamento
giurisprudenziale favorevole alla configurabilità dell’esimente
ex art. 384 cp
anche nel caso di testimone non avvalsosi della facoltà di
astensione.
Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica rilevando che la
sentenza impugnata, pur uniformandosi ad un recente orientamento della
Sesta
Sezione della Corte di cassazione, appare in contrasto con altre
decisioni di
questa Corte e con il testo e la ratio dell’art. 384 cp che contempla,
come
presupposto inderogabile della causa di non punibilità
l’esistenza di un dovere
di testimoniare e non è applicabile in assenza di tale dovere.
Resiste il difensore dell’imputato con articolata memoria, di adesione
alla tesi
accolta dal Gup reatino.
La Sesta sezione di
questa Corte,
assegnataria del ricorso “ratione materiae”, ha denunciato un contrasto
giurisprudenziale sulle condizioni di applicabilità della causa
di non
punibilità prevista dall’art. 384 cp in tema di reati di falsa
testimonianza
del teste-prossimo congiunto.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite,
fissando per la
trattazione l’odierna pubblica udienza.
Considerato in diritto
1.
Si discute
dunque “ se la causa di esclusione della punibilità per il
delitto di falsa
testimonianza, prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato
costretto
dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da
un grave e invitabile
nocumento nella libertà e nell’onore, operi anche nell’ipotesi
in cui il
testimone abbia deposto il falso pur essendo stato avvertito della
facoltà di
astenersi ”.
In relazione a tale questione esiste effettivamente un notevole
contrasto nella
giurisprudenza di legittimità.
Per lungo tempo si è ritenuto, senza oscillazioni degne di
rilievo, che, stante
la natura obbligatoria della deposizione quale presupposto
dell’operatività
della esimente dell’art. 384 cp, detta esimente è applicabile
soltanto se la
situazione di pericolo non sia stata “volontariamente causata”
dall’autore del
reato. La situazione descritta nel comma I dell’art. 384 costituisce
una
ipotesi speciale della causa di giustificazione dello stato di
necessità (art.
54 cp), sicché si configura pienamente la punibilità del
prossimo congiunto
che, ritualmente avvertito della facoltà di astenersi, scelga di
deporre: non
può invero “chiamarsi necessità quella cui un individuo
volontariamente si
espone, mentre era in sua facoltà astenersi”.
In questo contesto vanno segnatamente ricordate, tra le prime pronunce,
Sez.
III, 30.06.1951, Donghi; Sez. III, 16.03.1954, Michellino; Sez. III.
03.06.1957, Lipari; per le successive, fra le tante, Sez. I,
18.02.1972,
Marinero; rv 121392; Sez. VI, 02.05.1972, Ciolfi, rv. 122558; Sez. VI,
05.041979, Caruso, rv 1455595; Sez. VI, 25.10.1989, Milito, rv. 164367;
e, da
ultimo, Sez. VI, 24.10.2000, Re, rv. 217385; Sez. VI, 20.06.2006,
Martinelli,
rv. 235067.
L’orientamento giurisprudenziale che si era così consolidato,
sottoposto
peraltro, da subito, a forti critiche della dottrina prevalente, che
ritiene
applicabile la esimente in esame anche quando la testimonianza sia
facoltativa,
è stato messo radicalmente in discussione dalla Sez. VI penale
del 04.10.2001,
Mariotti, rv. 220326, sostanzialmente ripropositiva degli assunti
dottrinali.
Tale decisione muove dalla premessa della conclamata autonomia della
previsione
dell’art.384 cp: si afferma infatti, in primo luogo, che “l’obbligo
legale di
testimoniare o anche la libera scelta di farlo nell’ipotesi in cui non
si
eserciti, ove prevista, la facoltà di astenersi, non incidono
sulla operatività
della esimente in questione; questa, che “ha una sua autonomia e trova
la sua
giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria
libertà e del
proprio onore.. e nell’esigenza di tenere conto, agli stessi fini, dei
vincoli
di solidarietà familiare …, richiama solo genericamente lo stato
di necessità,
perché identica è la situazione psicologica presa in
considerazione, ma
differisce nettamente dall’ipotesi tipica di cui all’art. 54 cp., in
quanto non
presuppone che il pericolo non sia stato causato dall’agente, e si
applica,
quindi, anche quando è stato lo stesso agente a determinare la
relativa
situazione”.
Di ciò sarebbe anzitutto prova l’assetto “letterale” della
disposizione giacché
“la necessità di cui all’art. 384 I comma cp, non si riferisce
all’obbligo di
rendere la testimonianza, bensì all’inevitabilità del
nocumento che, senza di
essa, si sarebbe verificato. Il pericolo del detto nocumento, infatti,
si
concretizza allorché il soggetto sia obbligato comunque a
deporre … o rinuncia
alla facoltà concessagli di astenersi dal deporre; non
sussistono, in questi
casi, in base al diritto positivo, ragioni per rifiutare
l’applicabilità della
scriminante in esame”.
Ulteriore argomento è poi dato dal raffronto tra la previsione
del primo comma
e quella del secondo dell’art. 384 cp, “la quale è circoscritta
a situazioni
connesse alla posizione soggettiva di chi fornisce informazioni, del
testimone,
del perito, del consulente tecnico o dell’interprete e prescinde dalla
finalità
ispiratrice della condotta da costoro tenuta”, in particolare a nulla
rilevando
“che la condotta possa o non arrecare grave nocumento all’agente o a un
suo
congiunto”.
Sicché, in conclusione, “non può fondatamente sostenersi
che la norma di cui al
primo comma dell’art. 384 cp ha il suo fulcro nel dovere di
testimonianza, per
inferirne che non è applicabile a chi abbia deposto il falso
dopo essere stato
avvertito, a norma dell’art. 199 II comma cpp, della facoltà di
astenersi dal
rendere la testimonianza. Tale tesi non ha alcun aggancio nel diritto
positivo,
riduce irragionevolmente il campo di operatività della norma,
non considera
soprattutto che l’esimente in parola non è limitata alla falsa
testimonianza,
ma opera anche in relazione ad altri reati, quali la frode processuale
o il
favoreggiamento personale, per i quali, evidentemente, la
“necessità” non può
essere collegata in alcun modo alla violazione di un dovere”.
Le suddette argomentazioni vengono, anche letteralmente, riportate da
successive decisioni della Sesta Sezione (08.10.02, Miazza, rv 223521;
08.01.2003, Accardo, rv 223420; 15.01.03, Masciari, rv 224095), ove
peraltro si
aggiunge che “l’esercizio della facoltà di astensione non
è, di per sé, rimedio
sufficiente per allontanare la prospettiva del grave e inevitabile
nocumento
nella libertà o nell’onore incombente sul prossimo congiunto. Se
il teste, in
quanto prossimo congiunto dell’imputato, si astiene dal deporre,
può
determinare la condanna del congiunto (pregiudicandone, appunto, la
libertà o
l’onore), forse evitabile in forza di una testimonianza risolutivamente
favorevole, anche se non conforme a verità”; e ulteriormente, si
specifica che,
“ in base al secondo comma, la punibilità della falsa
testimonianza è, tra
l’altro, esclusa se il fatto è commesso da chi avrebbe dovuto
essere avvertito
della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza. Ne deriva
che, se tale
avvertimento è dato e la facoltà di astenersi non
è esercitata , non
residuerebbe alcuna concreta possibilità applicativa della causa
di non
punibilità di cui al primo comma. In altri termini, non si
comprenderebbe
perché quest’ultima disposizione si riferisca
all’eventualità di un prossimo
congiunto che commetta falsa testimonianza, posto che il medesimo,
secondo la
tesi qui avversata, sarebbe scriminato, alla luce del secondo comma,
soltanto
in caso di omesso avvertimento della facoltà di astenersi,
mentre sarebbe
sempre punibile in caso di scelta di non astenersi”.
2. Le Sezioni Unite ritengono di riaffermare la soluzione negativa,
offerta al
quesito interpretativo in esame dal primo indirizzo giurisprudenziale,
anche se
necessitano di essere rivisitate e puntualizzate le ragioni d’ordine
logico-giuridico che la giustificano, alla stregua dei rilievi
prospettati a
sostegno dell’orientamento di segno opposto.
2.1. Quest’ultimo coglie certamente nel segno quando afferma,
concordemente con
la dottrina (v.sentenza Mariotti), che l’art. 384 cp trova la sua
giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria
libertà e del
proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener
conto, agli
stessi fini, dei vincoli di solidarietà familiare.
Ma, a ben vedere, la stessa giustificazione fonda il disposto dell’art.
199
cpp, relativo alla facoltà di astensione dal rendere
testimonianza in capo ai
prossimi congiunti dell’imputato.
La ratio di tale facoltà, invero, è unanimemente
ravvisata proprio nella tutela
del sentimento familiare (latamente inteso) e nel riconoscimento del
conflitto
che può determinare, in colui che è chiamato a rendere
testimonianza, tra il
dovere di deporre e dire la verità, e il desiderio o la
volontà di non
danneggiare il prossimo congiunto (C. Cost., sent. n. 6 del 1977 e n.
179 del
1994; Cass. Sez. I, 29.03.1999, Femia, rv 213464; Sez. I, 15.12.1998,
Mocerino,
rv 214756).
Deve dunque darsi atto della sussistenza di una strettissima
connessione tra
l’istituto, di natura sostanziale, dell’art. 384 cp e la prescrizione
processuale contenuta nell’art. 199 cpp.
Ne discende che, ai fini di un corretto inquadramento del tema in
questione,
appare pregiudiziale prendere le mosse proprio dalla disciplina
processuale,
essendo noto, del resto, che non di rado il diritto penale sostanziale
riveste
una funzione strumentale rispetto a quello processuale.
E in questa ottica, va subito rilevato come, nel riconoscere prevalenti
e
quindi tutelare i richiamati motivi di ordine affettivo, il legislatore
non ha
stabilito un criterio assoluto – quale sarebbe stato, ad esempio, il
divieto di
testimoniare (quale era previsto, nel processo civile dal non
più vigente art.
247) – ma ha accordato la facoltà di astenersi dal deporre solo
se, ed in
quanto, l’interessato reputi di non dovere, o non potere, superare il
conflitto
di cui si è detto.
Ora, la soluzione legislativa adottata, che già aveva trovato
collocazione nel
codice previgente all’art. 350, implica un chiaro effetto, di
fondamentale
importanza ai fini che ne occupano, peraltro già colto dal
Giudice delle Leggi,
vale a dire quello che ove il prossimo congiunto accetti di deporre,
egli
assume la qualità di teste al pari di qualsiasi soggetto, con
tutti gli
obblighi che a tale qualità l’art. 198 cpp ricollega, essendo
cessate, per
scelta dello stesso interessato, come tiene a precisare la sentenza n.
174/94
cit., le ragioni che giustificavano la tutela della sua particolare
posizione.
Tra detti obblighi, vi è, in primo luogo, quello di rispondere
secondo verità
alle domande che gli sono rivolte.
Così stando le cose, non è dato comprendere come la sua
violazione non debba
comportare, anche nel caso in esame, ineluttabilmente, l’applicazione
della
norma che punisce la falsa testimonianza.
Affermare il contrario, e cioè escludere la punibilità
del prossimo congiunto
che volutamente non si è astenuto dal testimoniare darebbe luogo
ad una figura
di testimone con facoltà di mentire incompatibile con il sistema
processuale.
E’ il caso di ricordare che il codice di procedura penale ha avuto cura
di
distinguere le figure dei vari dichiaranti, disciplinando le
modalità di
assunzione e il valore probatorio delle dichiarazioni, in una
graduazione che
va dalla testimonianza, alla c.d. testimonianza assistita dell’art. 197
bis
cpp, all’esame di persona imputata in un procedimento connesso (art.
210 cpp),
e ha riconosciuto alla sola testimonianza il valore di prova piena,
cioè non
bisognosa di corroborazione. Sicché la testimonianza resa dal
prossimo
congiunto avvisato e non astenuto, ben può essere assunta da
sola quale fonte
di prova, alla stessa stregua di quella del terzo estraneo o della
persona
offesa.
Sarebbe, pertanto, fuori del sistema una testimonianza dotata del suo
valore
probatorio tipico benché resa da una persona che per la sua
particolare e nota
situazione processuale potrebbe impunemente dichiarare il falso.
Una interpretazione diversa finirebbe col costituire, come si è
efficacemente
osservato, “una sorta di grimaldello capace di scardinare l’obbligo di
verità
imposto dalla norma processuale”, con il pericolo di una totale
deresponsabilizzazione del dichiarante, a totale scapito dell’interesse
alla
corretta amministrazione della giustizia.
2.2. Non è perciò condivisibile, perché non ha
base testuale e diverge dai
supporti sistematici testé ricordati, la tesi secondo cui
l’obbligo legale di
testimoniare o anche la libera scelta di farlo nell’ipotesi in cui non
si
eserciti, ove prevista, la facoltà di astenersi, non inciderebbe
sulla esimente
di cui all’art. 384 cp.
Non vale osservare in contrario che la necessità di cui all’art.
384 I c. cp
non si riferisce all’obbligo di rendere testimonianza, bensì
all’inevitabilità
del nocumento che senza di essa si sarebbe verificato,
inevitabilità che la
facoltà di astenersi non fa venir meno.
Ciò è vero, come pure esatta, sotto il profilo logico,
è l’affermazione che
l’avvertimento del giudice non annulla quel “tormentoso contrasto in
cui il
testimone si trova a dover dire la verità a servizio della
giustizia e
l’insopprimibile istinto della difesa propria o del prossimo congiunto,
contrasto
che la legge non poteva superare esigendo eroismo di eccezione da parte
dei
testimoni”, e non è dunque rimedio sufficiente per allontanare
la prospettiva
del “grave e inevitabile pregiudizio nella libertà o nell’onore
incombente sul
prossimo congiunto”, potendo anzi accadere che l’avvertimento, lungi
dall’escludere lo stato di necessità, al contrario, lo determini
o lo rafforzi
e ne ponga la condizione più angosciosa.
Senonché siffatte considerazioni nulla apportano alla soluzione
del problema.
Mettono sì in luce l’aspetto psicologico del dichiarante e le
sue esigenze
personali determinate dalla peculiare situazione in cui versa, e quindi
la
delicatezza del conflitto di interessi che la regolamentazione
legislativa ha
dovuto affrontare a riguardo, ma sono da ritenere di nessun effetto ai
fini
ermeneutici, restando al di qua e al di fuori del quadro normativo, che
è
quello dianzi delineato.
Non è qui il caso di prendere posizioni in ordine alle ben note
divergenze
ermeneutiche, sia in dottrina che negli indirizzi giurisprudenziali,
circa la
valenza da attribuire, ai fini dell’applicabilità dell’esimente
dell’art. 384
cp., al requisito della non volontaria causazione della situazione di
pericolo,
contrapponendosi alla lettura della norma in chiave (soggettiva) di
inesigibilità, e quindi alla configurazione della esimente come
causa di
esclusione della colpevolezza, l’interpretazione della stessa in
termini
oggettivi, quale ipotesi speciale dello stato di necessità, come
tale
riconducibile alla categoria delle cause di esclusione
dell’antigiuridicità del
fatto.
Basta infatti, per negare ogni efficace incidenza critica alle
argomentazioni
di cui si avvale l’opposta soluzione, appena innanzi riportate, il
rilievo che
esse pretermettono di considerare che, come già in precedenza
chiarito, il
problema relativo al conflitto motivazionale tra l’adempimento del
dover
testimoniare e la tutela contro il rischio di ledere l’onore o la
libertà del
prossimo congiunto è stato già e in radice risolto dal
legislatore nel momento
in cui, tutelando il diritto al silenzio, ha riconosciuto al
dichiarante la
facoltà di astenersi. Sicché, se l’agente non si avvale
di tale facoltà ed
accetta di deporre con obbligo di verità, pur indiscutibilmente
persistendo,
com’è naturale che sia, nell’intimo del suo animo, al momento
della
deposizione, quel “tormentoso contrasto” di cui si è detto,
sicuramente non
annullato dall’avvertimento del giudice, e con esso la consapevolezza
dell’inevitabilità del nocumento derivante da una testimonianza
veritiera, ciò
nondimeno non può egli tornare ad invocare “ancora” una volta a
sua discolpa la
situazione di necessità prevista dall’art. 384 cp: questa
situazione è stata
già anticipatamente valutata, tutelata e regolamentata dal
legislatore.
Deve aggiungersi che il conflitto motivazionale più volte
richiamato può essere
addirittura superato, autonomamente, dallo stesso dichiarante.
Ciò accade
quando questo si costituisca come fonte attiva di denuncia (o querela)
a carico
del familiare (è il caso del prossimo congiunto “accusatore”).
Se depone
successivamente il falso per salvare il familiare dal pericolo
derivante dalla
condanna, nell’ambito del processo scaturito dalla sua denuncia, non
può
contare sull’applicazione della scriminante in questione, proprio
perché con il
comportamento dato dalla proposizione della denuncia ha dimostrato di
aver già
risolto quel conflitto di coscienza che la facoltà di astensione
intende
tutelare e che fonda l’esimente (v. sentenza Mocerino cit.; Cass. VI,
03.03.1983, Gentile, rv 158577).
Né giova appellarsi al dato che tale esimente è estesa ad
altri reati, nei
quali la necessità non può essere collegata in alcun modo
alla violazione di un
dovere, stante la evidente peculiarità del reato di falsa
testimonianza a
ragione del suo intimo intreccio con disposizioni di natura
processuale.
2.3. Da ultimo, va preso in considerazione l’ulteriore rilievo, su cui
l’opposto indirizzo insiste particolarmente, secondo il quale se il
primo comma
non si applicasse al prossimo congiunto che si è avvalso della
facoltà di non
rispondere la norma sarebbe sostanzialmente privata di contenuto.
L’argomento è assolutamente infondato.
Il primo e il secondo comma 384 cp regolano situazioni diverse.
Il primo comma, per quanto riguarda la testimonianza, si riferisce
chiaramente
ai casi in cui il dichiarante non ha facoltà di astenersi, come
si desume dalla
considerazione che la causa di non punibilità riguarda in primo
luogo chi ha
commesso il fatto per salvare sé medesimo da “un grave e
inevitabile nocumento”
nella libertà o nell’onore. In questo caso la norma si riferisce
al testimone
che sarebbe altrimenti costretto ad autoaccusarsi e non ha nulla a che
vedere
con il prossimo congiunto dell’imputato al quale invece si riferisce la
testimonianza del secondo comma.
E’ da aggiungere che la tutela accordata dal primo comma riguarda non
solo le
dichiarazioni previste dall’art. 63 cpp ma anche tutte le altre
dichiarazioni
dalle quali potrebbero emergere fatti disonorevoli (un rapporto
incestuoso; un rapporto
omosessuale) per il testimone (richiesto ad esempio di indicare le
ragioni per
le quali era presente in un certo posto a una certa ora).
Analoghi potrebbero essere i motivi di una falsa testimonianza per
“salvare” il
prossimo congiunto. In un processo penale, o anche in un processo
civile, le
domande potrebbero mettere il testimone di fronte all’alternativa di
mentire o
di riferire fatti che potrebbero dar luogo all’incriminazione o alla
lesione
dell’onore del congiunto. E in questi casi l’art. 384 comma 1 cp
esclude la
punibilità per le false dichiarazioni.
L’ambito di applicazione del secondo comma dell’art. 384 cp è
diverso e
riguarda le persone che non avrebbero dovuto essere assunte come
testimoni.
Esse non sono punibili, quale che sia la dichiarazione falsa e la
ragione che
l’ha determinata.
Il coimputato che viene sentito come testimone, invece che nelle forme
dell’art. 210 cpp, non è punibile indipendentemente della
ragione per la quale
ha dichiarato il falso, anche cioè se ha commesso la falsa
testimonianza “per
salvare se medesimo o un prossimo congiunto” o addirittura l’ha
commessa per
danneggiare il prossimo congiunto, come ad esempio potrebbe avvenire se
(ipotesi tutt’altro che improbabile) un collaboratore di giustizia
facesse
dichiarazioni false a danno, anziché a favore di un coimputato
prossimo
congiunto.
Per l’art. 384 comma 2 cp non sono punibili i prossimi congiunti
dell’imputato
che avrebbero dovuto essere avvertiti della facoltà di
testimoniare, e non lo
sono stati.
La situazione è assai diversa da quella del primo comma
dell’art. 384 cp, sia
perché il processo nel quale viene resa la testimonianza,
diversamente da
quello del primo comma, è necessariamente nei confronti del
prossimo congiunto,
sia perché la falsa testimonianza è non punibile tanto se
è stata resa per
salvare il congiunto quanto se è stata resa per danneggiarlo.
Il testimone non è punibile per il solo fatto che non è
stato avvertito della
facoltà di non testimoniare, e, a contrario, deve ritenersi che
sia punibile
nel caso in cui invece, essendo stato avvertito, non si è
avvalso della facoltà
di astenersi dal testimoniare e ha dichiarato il falso.
Le due diverse sfere di applicazione del primo e del secondo comma
dell’art.
384 cp inducono a ritenere che le due norme sono alternative e non si
possono
combinare. Perciò quando ci si trova nella situazione regolata
dal secondo
comma il testimone che non si è astenuto e ha dichiarato il
falso non può
avvalersi della causa di non punibilità del primo comma
dell’art. 384 cp
sostenendo di essere stato costretto dalla necessità di salvare
il prossimo
congiunto, anche perché non c’è stata alcuna costrizione.
3. In conclusione deve ritenersi che “la
causa di esclusione della punibilità per il delitto di falsa
testimonianza,
prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla
necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un
grave e inevitabile
nocumento nella libertà o nell’onore, non opera nell’ipotesi in
cui il
testimone abbia deposto il falso pur essendo stato avvertito della
facoltà di
astenersi”.
E poiché la ratio decidendi della sentenza impugnata
risulta in contrasto
con il principio di diritto suindicato, tale decisione deve essere
annullata
con rinvio alla Corte di Appello di Roma per il relativo giudizio.
P.Q.M.
La Corte di
cassazione annulla la
sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Roma per il
giudizio di
appello.
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