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Cassazione penale,- Sez. VI, - Sent. n. 6778/2000, sul reato di omissione d’atti d’ufficio in caso di mancata riammissione in servizio quale assistente medico presso l'ospedale SVOLGIMENTO DEL PROCESSO città che condannava M. P. e D. S. alla pena di lire 1.000.000 di multa ciascuno per il reato di cui all'art. 328, c. 2, c.p., applicava ad entrambi gli imputati la pena accessoria della interdizione dai pubblici per il periodo di un anno. Gli imputati, amministratori straordinari della USL-….. succedutisi nel tempo, erano stati dichiarati responsabili del reato loro ascritto per avere omesso di provvedere e di rispondere alla dott.ssa C. che, essendosi dimessa dall'incarico di assistente medico presso l'ospedale ………, aveva richiesto e sollecitato per iscritto la propria riassunzione. Essi si erano giustificati assumendo di non avere alcun obbligo di rispondere all'istanza. Ricorre la difesa del M. per violazione di legge e mancanza di motivazione in quanto: a) avendo il giudice d'appello ignorato che l'ipotesi di riassunzione della C. era venuta meno con l'assunzione nel posto da lei lasciato vacante dalla dott.ssa S., seconda nella graduatoria del concorso; b) avendo il giudice d'appello disatteso le ragioni difensive in punto elemento soggettivo del reato. assistente medico presso l'ospedale ……… dopo le volontarie dimissioni, fosse atto dovuto da parte dell'amministrazione e, conseguentemente, che sussistesse l'obbligo di rispondere alla richiedente. Al proposito invoca in particolare il disposto dell'art. 59 d.p.r. 20.12.1979, n. 761, rubricato "riammissione in servizio", laddove stabilisce che "il dipendente cessato dall'impiego per dimissioni..... può essere riammesso in servizio con provvedimento motivato" e subordina la riammissione stessa a vari requisiti, tra cui "la vacanza del posto". La vacanza non si sarebbe verificata in quanto il posto reso vacante dalle dimissioni della dott.ssa C. spettava di diritto a chi la seguiva immediatamente nella graduatoria ( la dott.ssa S.), a norma dell'art. 9 l. 20.5.1985, n. 207. La situazione normativa, se pur vincolante l'amministrazione della USL in linea astratta, non è tale da escludere l'obbligo dell'amministrazione stessa di dare risposta alla richiesta di riammissione in servizio e di esporre le ragioni dell'eventuale ritardo. Infatti, sulla base di una risposta negativa (quale, secondo l'amministrazione, avrebbe dovuto essere la risposta stessa), l'interessata ben poteva agire in via amministrativa o in via giudiziaria per far valere le sue eventuali ragioni alla riammissione. Non appare logico, come pretende la difesa del M., affermare che, non essendo l'atto (la riammissione in servizio dovuto, non occorreva neppure l'esposizione delle ragioni del ritardo, non essendo l'amministrazione tenuta a rispondere a tutte le richieste, anche se "strane o infondate". Nella specie non si è in presenza di una richiesta incongrua, posto che la riammissione in servizio del dipendente che si è dimesso è espressamente prevista dalla legge a determinate condizioni e che in ordine alla sussistenza di tali condizioni ben può sorgere controversia. In ogni caso non si può confondere l'atto discrezionale della pubblica amministrazione con l'atto dovuto. Nel caso di specie non vi era alcuna discrezionalità nel porre in essere l'atto, in quanto un atto era comunque dovuto, nel senso che o veniva disposta la riammissione in servizio, o veniva negata tale riammissione. Il diritto ad ottenere il compimento dell'atto (sia pure la reiezione dell'istanza di riammissione) e di conoscere le ragioni dell'eventuale ritardo appaiono in questo quadro di tutta evidenza e, conseguentemente, la condotta dei pubblici ufficiali (amministratori straordinari della USL, succedutisi nel tempo, cui competeva la risposta) appare illegittima. Ne valgono ragioni di fatto quali eventuali difficoltà dovute alla mole di lavoro dell'ufficio o alla complessità della pratica, perché in entrambi i casi le ragioni del ritardo potevano (quindi dovevano) essere esplicitate attraverso la risposta. D'altra parte, proprio l' invocata complessità della prativa, smentisce la linearità del primo assunto, secondo cui la richiedente non aveva in assoluto diritto alla riammissione in servizio. Tali ragioni non impongono sull'elemento soggettivo del reato, da un lato perché la conoscenza della richiesta rivolta all'ente di cui si è responsabili è presunta, salvo prova contraria da fornirsi dal soggetto che invoca la propria ignoranza incolpevole; dall'altro lato perché la pretesa personale convinzione di non dover dare risposta non scusa, trattandosi di violazione del precetto penale. Ed infine, che l'interessata fosse stata altrimenti posta a conoscenza delle difficoltà dell'amministrazione a fornire risposta alla sua richiesta, è mera illazione, non suffragata da concreti elementi probatori, e comunque irrilevante rispetto alla previsione normativa. I ricorsi devono pertanto essere rigettati con la conseguente condanna in solido dei ricorrenti a pagare le spese processuali. |
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