Aggiornamento - Penale

Cass. Pen., Sez. Un., 6 febbraio 2006 n. 4687, sull’inesistenza della continuazione tra illeciti penali ed amministrativi

 

 
 SENTENZA

sul ricorso proposto da A. C., n. il X a X, avverso l'ordinanza pronunciata il 30 aprile 2002 dalla Corte d'Appello di Palermo;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Giovanni Silvestri;
lette le conclusioni del Procuratore Generale presso questa Corte, nella persona del Sostituto dott. Mario Iannelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso, con ogni conseguenza di legge.

RITENUTO IN FATTO

Con ordinanza del 30.4.2004, la Corte d'Appello di Palermo, in funzione di giudice dell'esecuzione, accoglieva l'istanza presentata nell'interesse di C. A. al fine di ottenere la revoca, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., di varie pronunce di condanna per sopravvenuta abolizione del reato di emissione di assegni a vuoto: venivano, invece, respinte le istanze dello stesso condannato intese a fare applicare in sede esecutiva la disciplina della continuazione tra i reati depenalizzati e il delitto di ricettazione, oggetto della sentenza in data 1.3.1997, e a fare estendere a quest'ultima condanna il beneficio della sospensione condizionale della pena già concesso per le condanne relative alle violazioni della normativa sull'assegno bancario.
Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore del C. denunciando violazione di legge e vizi di motivazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p., sull'assunto che erroneamente era stata esclusa la continuazione tra le violazioni depenalizzate e il reato non depenalizzato, costituito dalla ricettazione di assegni rubati di cui alla sentenza 10.3.1997 della Corte di Appello di Palermo, e che altrettanto erroneamente era stata esclusa l'applicabilità alla pena inflitta con quest'ultima sentenza della sospensione condizionale, già riconosciuta con un precedente provvedimento di unificazione dei reati in materia di assegni emesso prima della loro depenalizzazione. In via subordinata, per il caso di esclusione della disciplina del reato continuato di cui all'art. 671 c.p.p., il ricorrente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p. in relazione agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, nella parte in cui escluderebbe la concedibilità in executivis della sospensione condizionale della pena, anche quando questa sia divenuta possibile a seguito della revoca di precedenti condanne per reati depenalizzati.
Con ordinanza del 26.6.2003 la Prima Sezione Penale di questa Corte, considerato che non poteva condividersi la tesi del ricorrente riguardante la possibilità di riconoscere la continuazione tra violazioni depenalizzate e violazioni costituenti tuttora reato, ha ritenuto che - contrariamente a quanto sostenuto da una parte della giurisprudenza di legittimità - la sospensione condizionale della pena in sede esecutiva fosse concedibile solo in conseguenza dell'applicazione della disciplina della continuazione a norma dell'art. 671, comma 3, c.p.p., e non anche a seguito della revoca di precedenti condanne per abolitio criminis: precisava altresì che la sospensione condizionale non poteva essere neppure concessa attraverso l'interpretazione analogica del citato terzo comma dell'art. 671, stante la natura eccezionale della disposizione rispetto al principio generale della intangibilità del giudicato. Ciò premesso, la Prima Sezione ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p. nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice dell'esecuzione di concedere la sospensione condizionale della pena in relazione ad una sentenza per la quale l'applicazione del beneficio era stata esclusa a causa dell'esistenza di precedenti condanne successivamente revocate per l'intervenuta depenalizzazione dei reati.
La Corte costituzionale, con ordinanza 211/05, ha ritenuto la questione manifestamente inammissibile, osservando che l'incidente di costituzionalità era diretto a fare risolvere al Giudice delle leggi un contrasto interpretativo interno alla giurisprudenza di legittimità, attesa la riconosciuta presenza di un orientamento favorevole all'opzione ermeneutica considerata conforme al dettato costituzionale.
A seguito di tale decisione, la Prima Sezione, con ordinanza del 20.9.2005, ha riaffermato il principio della “fisiologica impossibilità di applicare la continuazione tra fatti costituenti reato e fatti non più previsti dalla legge come tali” ed ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite per la risoluzione del contrasto.
In data 18.11.2005 il Procuratore Generale presso questa Corte ha ribadito le argomentazioni già sviluppate nella requisitoria scritta e nella successiva nota integrativa per escludere l'applicazione della sospensione condizionale della pena, concludendo per il rigetto del ricorso.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando l'udienza del 20.12.2005 per la trattazione con le forme di cui all'art. 611 c.p.p..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. - E' necessario stabilire preliminarmente se possa ammettersi la possibilità di applicare la disciplina della continuazione, a norma dell'art. 671 c.p.p., tra il delitto di ricettazione, oggetto della sentenza di condanna emessa il 10.3.1997 dalla Corte di Appello di Palermo, e i fatti di emissione di assegni a vuoto non costituenti più reato, a seguito di intervenuta depenalizzazione, per i quali il C. è stato condannato con le sentenze poi revocate ai sensi dell'art. 673 c.p.p..
La Prima Sezione Penale di questa Corte si è già pronunciata in senso negativo con l'ordinanza in data 26.6.2003 e sulla base di tale opinione ha ritenuto rilevante l'incidente di legittimità costituzionale dell'art. 673 del codice di rito, essendo chiaro che la questione rimessa al vaglio della Corte costituzionale sarebbe stata ininfluente sulla decisione del ricorso qualora la sospensione condizionale della pena fosse stata applicabile per effetto del vincolo della continuazione, il cui riconoscimento avrebbe reso direttamente operante la disposizione di cui al terzo comma dell'art. 671.
Le Sezioni Unite condividono l'opinione che esclude la possibilità di applicare la disciplina della continuazione tra illeciti penali e illeciti amministrativi, anche se questi ultimi corrispondevano in origine a fattispecie penali. La correttezza dell'opinione contraria all'unificazione risulta evidente quando si considera che la situazione configurata dall'art. 81, comma 2, c.p. riguarda esclusivamente violazioni di norme incriminatici colpite da sanzioni penali e, dunque, unicamente fatti costituenti reato, mentre quella prevista dall'art. 8, comma 2, della legge 689/81, si riferisce soltanto a “più violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative”: di talchè deve senz'altro negarsi che l'istituto della continuazione possa comprendere illeciti di natura affatto eterogenea e che il relativo regime giuridico possa risultare dalla fusione o dalla commistione di discipline totalmente differenti nei presupposti e nei contenuti.
Va tenuto presente, inoltre, che, ai fini del trattamento sanzionatorio, la continuazione dà origine ad un reato unico punito con la pena prevista per il reato più grave accresciuta da tanti aumenti, entro il limite globale del triplo, quanti sono i reati satelliti, onde è stato correttamente osservato che i reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria e che il relativo trattamento punitivo confluisce nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti (Cassazione, Su, 26 novembre 1997, Pg in proc. Varnelli). Ne deriva che ammettere la continuazione tra reati e illeciti amministrativi equivale a ritenere possibile la trasformazione della sanzione amministrativa in un frammento di sanzione penale che contribuisce a determinare la pena complessiva per il reato continuato, in palese violazione del principio di legalità della pena.
2. - Esclusa l'ammissibilità nel caso di specie della continuazione quale presupposto dell'applicazione della disposizione di cui all'art. 671, comma 3, c.p.p., occorre accertare se il giudice dell'esecuzione possa pronunciare la sospensione condizionale della pena in caso di revoca per abolitio criminis di sentenze di condanna che avevano impedito, nel pregresso giudizio di cognizione, la concessione del beneficio riguardo alla pena inflitta con una successiva sentenza di condanna.
La questione, che ha determinato la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, vede nettamente divisa la giurisprudenza di legittimità.
Secondo un primo orientamento, il giudice dell'esecuzione ha il potere di concedere il beneficio della sospensione condizionale solo quando ciò consegua al riconoscimento del concorso formale o della continuazione, onde deve escludersi la concedibilità, in sede esecutiva, del beneficio a seguito della revoca per abolitio criminis, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., di condanne che, in sede di cognizione, ne avevano impedito l'applicazione (Cassazione, Sezione sesta, 3 dicembre 2003, Pirrottina, rv. 228374; Sezione prima, 21 settembre 2001, Nicolao, rv. 220736). Una simile linea interpretativa è saldamente agganciata al principio dell'intangibilità del giudicato e alla premessa generalmente condivisa secondo cui il potere del giudice dell'esecuzione di concedere la sospensione condizionale della pena, previsto dall'art. 671, comma 3, c.p.p., ha natura eccezionale e non è operante al di fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge (Cassazione, Sezione prima, 18 novembre 2004, P.G. in proc. Zerbetto, rv. 230171; Sezione prima, 12 marzo 1997, P.G. in proc. Clemente, rv. 208131; Sezione terza, 5 febbraio 1996, Vanacore, rv. 204700). Si è altresì esclusa la possibilità della sospensione condizionale della pena per la ragione che il giudice dell'esecuzione è privo dei poteri di compiere la valutazione prognostica e le attività istruttorie propri del giudice della cognizione (Cassazione, Sezione terza, 18 giugno 1996, Ciaramella, rv. 206387).
Da tale indirizzo, rimasto per molti anni incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte, si è discostata per prima una decisione pronunciata nel 2000 dalla Terza Sezione Penale con cui è stato stabilito che, nell'ipotesi in cui vi sia stata sentenza di condanna irrevocabile per più reati unificati dalla continuazione ad una pena complessiva ostativa alla concessione del beneficio e successivamente sia intervenuta una revoca parziale della sentenza in ordine ad alcuni dei reati unificati, il giudice dell'esecuzione può concedere la sospensione condizionale della pena, previa valutazione dei presupposti e dopo il compimento del giudizio prognostico ex art. 164 c.p. che il giudice della cognizione non aveva avuto motivo di effettuare, semprechè, ovviamente, la pena per i reati residui venga rideterminata in una misura che ne consentirebbe la concessione (Cassazione, Sezione terza, 30 marzo 2000, Micelli, rv. 219516). La “ratio decidendi” della sentenza si articola nei seguenti passaggi: a) l'abrogazione della norma incriminatrice, al pari della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, determina la cessazione di tutti gli effetti penali della sentenza di condanna, compreso quello rappresentato dall'ostacolo che, nel giudizio di cognizione, aveva impedito l'applicazione della sospensione condizionale della pena; b) la disposizione di cui all'art. 671, comma 3, c.p.p. è suscettibile di applicazione analogica, di talchè il giudice dell'esecuzione può concedere la sospensione condizionale della pena anche nel caso di revoca parziale della sentenza di condanna che elimini uno o più reati giudicati in continuazione; c) una diversa interpretazione porrebbe seri dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p. per contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, giacchè dovrebbe considerarsi “manifestamente illogica una disciplina che permetta la concessione del beneficio in sede esecutiva nel caso di riconoscimento della continuazione fra più reati giudicati con distinte sentenze di condanna irrevocabili e la escluda, invece, nel caso di revoca della condanna per uno o più reati già giudicati in continuazione con altri”.
Tale opzione interpretativa è stata successivamente sviluppata ed estesa ad una fattispecie diversa da quella esaminata nella sentenza Micelli, essendo stato ritenuto che il giudice dell'esecuzione possa concedere la sospensione condizionale della pena anche quando le sentenze di condanna revocate non attengano a reati già uniti dal vincolo della continuazione: si è, infatti, stabilito che, alla luce dei più generali poteri d'intervento riconosciuti dagli artt.671 e 666, comma 5, c.p.p., il giudice dell'esecuzione può adottare la deliberazione relativa all'esistenza dei presupposti normativi e prognostici del beneficio che sarebbe stata compiuta dal giudice della cognizione in assenza delle condanne ostative poi revocate per abolitio criminis (Cassazione, Sezione terza, 20 febbraio 2002, P.G. in proc. De Filippo, rv. 221368).
A questa posizione si sono successivamente allineate varie sentenze di questa Corte (Cassazione, Sezione quinta, 6 novembre 2002, Dell'Utri, RV 224112; Sezione prima, 6 ottobre 2004, Merosi, rv. 230318; Sezione prima, 17 dicembre 2004, PM in proc. Schiavone, rv. 230965).
3. - Così delineati i termini del contrasto di giurisprudenza, devono essere assunte come chiave di volta dell'indagine ermeneutica le indicazioni contenute nell'ordinanza 211/05 pronunciata dal Giudice delle leggi nel presente processo per definire l'incidente di legittimità costituzionalità sollevato dalla Prima Sezione Penale di questa Corte in ordine all'art. 673 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice dell'esecuzione possa applicare la sospensione condizionale della pena in caso di revoca per abolitio criminis di sentenze di condanna che avevano impedito la concessione del beneficio per un diverso reato.
In tale decisione, dopo avere dato atto dell'esistenza di divergenti posizioni all'interno della giurisprudenza di legittimità, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione, precisando che “il giudice - quanto meno in assenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato - ha il dovere di seguire l'interpretazione da lui ritenuta più adeguata ai principi costituzionali, configurandosi, altrimenti, la questione di costituzionalità quale improprio strumento volto ad ottenere l'avallo della Corte a favore di una determinata interpretazione della norma”.
La regola ermeneutica dell'interpretazione adeguatrice è pienamente condivisa dalle Sezioni Unite, che ne hanno più volte affermato il ruolo di imprescindibile punto di riferimento dell'attività del giudice (Cassazione, Su, 31 marzo 2004, Pezzella, rv. 227524; Su, 30 ottobre 2002, Vottari, rv. 222602; Su, 23 febbraio 2000, D'Amuri, rv. 215841; Su, 24 gennaio 1996, Panigoni, rv. 203966). In particolare, nella sentenza Pezzella è stato sottolineato che “l'interpretazione adeguatrice corrisponde ad un preciso ed ineludibile dovere del giudice, il quale è tenuto a ricavare dalle disposizioni interpretate, tutte le volte che ciò sia possibile, norme compatibili con la Costituzione”, con la precisazione che simile direttiva ermeneutica deve essere seguita “quando una disposizione abbia carattere <> e da essa sia enucleabile, senza manipolare il contenuto della disposizione, una norma compatibile con la Costituzione attraverso l'impiego dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale”.
4. - La linea interpretativa che esclude la possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena in caso di revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis conduce a risultati che appaiono disarmonici rispetto alla regola fondamentale del sistema penale enunciata dall'art. 2, comma 2, c.p., ed ai valori costituzionali di ragionevolezza e di equilibrata simmetria dell'ordinamento. Va sottolineato, in particolare, che la tesi negativa, rifiutando, nella situazione esaminata, la concedibilità della sospensione condizionale, lascia persistere la precedente valenza ostativa della sentenza di condanna poi revocata, ponendosi in aperta collisione col precetto sancito dal citato art. 2, comma 2, che dispone la cessazione dell'esecuzione e degli effetti penali della condanna per un fatto non più considerato reato da una legge posteriore. Aggiungasi che - come è stato esattamente osservato dalla Prima Sezione Penale di questa Corte nell'ordinanza 26.6.2003, che, sul punto, ha ripreso indicazioni contenute in altre decisioni (Cassazione, Sezione terza, 30 marzo 2000, Micelli, cit.) - non può non considerarsi manifestamente irragionevole una disciplina che permette al giudice dell'esecuzione la concessione della sospensione condizionale della pena in caso di riconoscimento della continuazione per più reati e la escluda, invece, nell'ipotesi di revoca di sentenze di condanna per intervenuta depenalizzazione, dato che in quest'ultima situazione il fatto incriminato è divenuto penalmente irrilevante e del tutto inoffensivo a causa della mutata valutazione sociale, mentre nella prima tutti i fatti di reato unificati per continuazione mantengono intatto il disvalore criminale.
La palese discrasia cui conduce la tesi negativa rende necessaria, dunque, la verifica della praticabilità ermeneutica della posizione che attribuisce alla disciplina una portata immune dagli inconvenienti segnalati e la rende sintonica al canone della ragionevolezza.
5. - Le Sezioni Unite ritengono che il principio dell'interpretazione adeguatrice giustifichi l'adesione all'indirizzo favorevole alla concedibilità della sospensione condizionale della pena nell'ipotesi di revoca di sentenze di condanna, per la ragione che esso risulta maggiormente aderente alle linee strutturali del sistema normativo ed appare come il più coerente risultato di un'indagine ricostruttiva della disciplina di cui all'art. 673 c.p.p., che coinvolge sia profili di diritto processuale riguardanti il principio del giudicato e i limiti dei poteri decisori del giudice dell'esecuzione, sia profili di diritto sostanziale, incidenti sull'ambito di operatività della legge penale nel tempo, inquadrati nel contesto dei valori enunciati dalla Carta costituzionale in riferimento ai principi di pari trattamento e di legalità della pena (artt. 3, 25 e 27 Costituzione).
Gli itinerari argomentativi delle decisioni che esprimono la posizione interpretativa qui condivisa si snodano lungo due distinti percorsi, dato che in alcune sentenze la possibilità di concedere il beneficio rappresenta il risultato dell'applicazione analogica dell'art. 671, comma 3, c.p.p., volta ad eliminare una lacuna ritenuta presente nella disciplina contenuta nell'art. 673, mentre in altre decisioni la questione dibattuta trova soluzione all'interno della stessa normativa dell'art. 673, della quale vengono sviluppate tutte le potenzialità applicative.
Il primo itinerario ermeneutico è precluso dallo sbarramento segnato dall'art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale, che vieta di applicare le leggi che fanno eccezione a regole generali oltre i casi in esse considerate. Invero, considerato che - conformemente all'opinione consolidata della giurisprudenza di legittimità - l'immodificabilità del giudicato corrisponde ad un principio generale dell'ordinamento derogabile sono nei casi previsti dalla legge, il divieto dell'applicazione analogica dell'art. 671, comma 3, c.p.p. non può essere eluso in nome dell'interpretazione secundum Constitutionem dell'art. 673, la cui sfera precettiva può essere adeguata dal giudice ai principi della Carta fondamentale soltanto quando la ricostruzione della portata della disposizione risulti possibile con l'impiego degli usuali mezzi dell'ermeneutica giuridica.
Oltre che trovare ostacolo nei motivi ora indicati, il metodo ermeneutico dell'analogia deve essere escluso per la ragione che nel tessuto normativo della disciplina contenuta nell'art. 673 c.p.p. sono presenti precisi spunti interpretativi che permettono di ricondurre nell'ambito della stessa previsione normativa la possibilità di concedere la sospensione condizionale nell'ipotesi di revoca di una sentenza di condanna.
L'art. 673 c.p.p. stabilisce che “nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti”. In puntuale sintonia con l'art. 2, comma 2, c.p., che fa discendere dall'abrogazione della norma incriminatrice la cessazione di tutti gli effetti penali della condanna, la disposizione contenuta nel codice di rito stabilisce che la revoca della sentenza deve essere accompagnata dalla pronuncia dei “provvedimenti conseguenti”, per tali intendendosi quelli destinati ad eliminare gli effetti giuridici comunque pregiudizievoli che sono scaturiti dal giudicato: e tra tali effetti devono indubbiamente annoverarsi anche gli effetti preclusivi eventualmente determinati, ai sensi dell'art. 164 c.p., dalle condanne poi revocate (Cassazione, Sezione terza, 20 febbraio 2002, P.G. in proc. De Filippo, cit.).
Pertanto, l'estensione e la flessibilità del valore semantico della locuzione “provvedimenti conseguenti”, nonchè la coerenza razionale del sistema, consentono di scegliere l'opzione corrispondente all'interpretazione adeguatrice dell'art. 673, senza travalicare le regole ermeneutiche alle quali il giudice deve attenersi, e di privilegiare la soluzione che, ammettendo la possibilità di concedere il beneficio della sospensione condizionale prima precluso dalla sentenza revocata, risulta l'unica funzionale alla totale rimozione degli effetti penali di una condanna che deve essere totalmente cancellata in tutte la sue implicazioni negative perché riferentesi ad un fatto che ha perduto ogni rilevanza penale.
6. - Mancano di pregio le critiche rivolte a detta soluzione in nome del dogma dell'intangibilità del giudicato e attraverso il richiamo dei limiti connaturati alla giurisdizione del giudice dell'esecuzione.
Va precisato, infatti, che, pur conservando un ruolo insostituibile all'interno del sistema processuale penale a presidio della certezza delle situazioni giuridiche accertate nel processo, nel codice di rito vigente il principio della immutabilità della cosa giudicata ha perduto valore assoluto, in quanto non rare risultano le previsioni nelle quali la legge processuale riconosce la possibilità di interventi integrativi o modificativi del giudicato ad opera del giudice dell'esecuzione, al quale talora è attribuito il potere di incidere, con la sua pronuncia, sulle statuizioni divenute irrevocabili. E' sufficiente ricordare, al riguardo, la disciplina del concorso formale e del reato continuato in sede esecutiva (art. 671 c.p.p.), anche nel caso di sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 188 disp. att. c.p.p.), la revoca di sentenze per abolizione di reati (art. 673 c.p.p.), il ricorso straordinario per errore di fatto (art. 625-bis c.p.p.).
Il fatto che la disciplina dell'art. 673 c.p.p. corrisponda proprio ad uno dei casi in cui la legge processuale introduce una specifica deroga alla regola tradizionale dell'immodificabilità della res iudicata segnala l'inconsistenza delle obiezioni mosse alla soluzione favorevole alla concedibilità della sospensione condizionale, dal momento che la previsione di provvedimenti conseguenti alla revoca della sentenza di condanna postula necessariamente l'esercizio di attività che traggono diretto e puntuale titolo dallo stesso art. 673: ed, infatti, la disposizione ivi contenuta, dato il suo ruolo chiaramente strumentale rispetto alla norma di diritto sostanziale di cui al secondo comma dell'art. 2 c.p., implica l'attribuzione al giudice dell'esecuzione del potere di adottare tutte le misure occorrenti per la totale rimozione degli effetti penali della condanna. Di talchè risulterebbe senz'altro contraddittorio ammettere la revoca di sentenze di condanna per abolizione di reati e, nello stesso tempo, escludere che l'intervento giurisdizionale del giudice dell'esecuzione non possa realizzarsi attraverso provvedimenti idonei ad eliminare qualsiasi conseguenza negativa prodotta dalla sentenza revocata, con il solo limite degli effetti divenuti nel frattempo irreversibili (Cassazione, Sezione terza, 20 febbraio 2002, P.G. in proc. De Filippo, cit.).
Dalle precedenti riflessioni si evince che sono indubbiamente infondati, per la loro portata generalizzata ed indiscriminatamente totalizzante, i rilevi critici sollevati facendo riferimento alla supposta carenza di poteri valutativi da parte del giudice dell'esecuzione. E' agevole replicare, in proposito, che evidenti esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del sistema, inducono a ritenere che, una volta dimostrato che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima attribuzione: onde è consequenziale inferirne che il riconoscimento della possibilità di eliminare l'effetto ostativo alla concessione della sospensione condizionale della pena comporta necessariamente la titolarità dei poteri necessari al conseguimento di tale risultato.
Mette conto, peraltro, osservare che l'affermazione della totale mancanza di poteri istruttori e valutativi del giudice dell'esecuzione è smentita da precisi dati enucleabili dall'ordinamento vigente. E' significativo, difatti, che, proprio in tema di revoca della sentenza a seguito di abolitio criminis, una parte della giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che il giudice dell'esecuzione richiesto di revoca della sentenza per sopravvenuta abolitio criminis a norma dell'art. 673 c.p.p., pur non potendo ricostruire la vicenda per cui vi è stata condanna in termini diversi da quelli definiti con la sentenza irrevocabile, nè valutare i fatti in modo difforme da quanto ritenuto dal giudice della cognizione, ha il potere di far emergere dal quadro probatorio già acquisito elementi divenuti determinanti, alla luce del diritto sopravvenuto, per la decisione sull'imputazione contestata (Cassazione, Sezione prima, 24 maggio 2002, Mazzuoccolo, rv. 221646). In una simile ottica è stato altresì precisato che il giudice dell'esecuzione può compiere proprie autonome valutazioni, sempre che queste non contraddicano quelle del giudice della cognizione (Cassazione, Sezione prima, 20 maggio 1994, Casagrande, rv. 198342; Sezione sesta, 14 marzo 1994, Zanardini, rv. 197801), anche, se necessario, mediante l'esame degli atti processuali (Cassazione, Sezione sesta, 10 marzo 2003, Di Nardo, rv. 226196; Sezione quarta, 29 maggio 1996, Baluì, rv. 205415). E, d'altro canto, la titolarità di poteri istruttori e valutativi trova esplicita conferma nella disposizione di cui all'art. 666, comma 5, c.p.p., che autorizza il giudice dell'esecuzione ad acquisire i documenti e le informazioni necessari e, quando occorre, ad assumere prove nel rispetto del principio del contraddittorio.
Inoltre, va riconosciuto che l'attribuzione al giudice dell'esecuzione del potere di concedere la sospensione condizionale in caso di revoca della condanna ex art. 673 non scalfisce le statuizioni irrevocabili del giudice della cognizione ed ha una funzione meramente integrativa del titolo esecutivo. Infatti, se nel pregresso giudizio l'unico motivo della mancata applicazione del beneficio è identificabile non nella presenza di una valutazione prognostica della pericolosità dell'imputato, ma nel solo effetto preclusivo della sentenza di condanna successivamente revocata per intervenuta abolizione del reato, non può certamente ravvisarsi alcun reale vulnus al giudicato qualora quel giudizio prognostico che non è stato compiuto dal giudice della cognizione sia compiuto, poi, dal giudice dell'esecuzione.
Va precisato, infine, che la deliberazione rimessa al giudice dell'esecuzione non può essere, ovviamente, circoscritta all'apprezzamento della sola situazione esistente al momento dell'irrogazione della pena della quale è stata richiesta la sospensione, ma deve essere necessariamente estesa alla valutazione di tutti i sopravvenuti elementi sintomatici che, allorché il giudice dell'esecuzione formula il giudizio prognostico, contribuiscono a giustificare il convincimento che il condannato si asterrà dal commettere ulteriori reati.
Alla luce di tutte le precedenti considerazioni deve conclusivamente affermarsi il seguente principio di diritto a norma dell'art. 173, comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice di rito: “nell'adottare i provvedimenti conseguenti alla revoca di condanne relative a fatti non costituenti più reato, il giudice dell'esecuzione può disporre, a norma dell'art. 673 c.p.p., la sospensione condizionale della pena inflitta con una successiva sentenza qualora l'applicazione del beneficio, nel giudizio di cognizione, sia stata negata a causa dell'impedimento costituito dalle condanne poi revocate e sia giustificata dalla valutazione degli elementi acquisiti nel momento in cui è formulato il giudizio prognostico”.
Pertanto, deve pronunciarsi l'annullamento dell'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame alla Corte di Appello di Palermo, che, dopo avere revocato, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., le sentenze di condanna reputate ostative dal giudice della cognizione alla concessione della sospensione condizionale della pena, ha illegittimamente ritenuto che il giudice dell'esecuzione, in simili situazioni, non possa mai concedere detto beneficio perché precluso dal giudicato.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, annulla l'ordinanza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Palermo per nuovo esame.
Così deliberato in Roma nella Camera di Consiglio del 20 dicembre 2005.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 6 FEBBRAIO 2006