Cass. Pen., Sez. Un., 6 febbraio 2006 n. 4687,
sull’inesistenza della continuazione tra illeciti penali ed
amministrativi
SENTENZA
sul ricorso proposto da A. C., n. il X a X, avverso l'ordinanza
pronunciata il 30 aprile 2002 dalla Corte d'Appello di Palermo;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Giovanni Silvestri;
lette le conclusioni del Procuratore Generale presso questa Corte,
nella persona del Sostituto dott. Mario Iannelli, che ha chiesto il
rigetto del ricorso, con ogni conseguenza di legge.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 30.4.2004, la Corte d'Appello di Palermo, in funzione
di giudice dell'esecuzione, accoglieva l'istanza presentata
nell'interesse di C. A. al fine di ottenere la revoca, ai sensi
dell'art. 673 c.p.p., di varie pronunce di condanna per sopravvenuta
abolizione del reato di emissione di assegni a vuoto: venivano, invece,
respinte le istanze dello stesso condannato intese a fare applicare in
sede esecutiva la disciplina della continuazione tra i reati
depenalizzati e il delitto di ricettazione, oggetto della sentenza in
data 1.3.1997, e a fare estendere a quest'ultima condanna il beneficio
della sospensione condizionale della pena già concesso per le
condanne relative alle violazioni della normativa sull'assegno
bancario.
Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore
del C. denunciando violazione di legge e vizi di motivazione, ai sensi
dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p., sull'assunto che
erroneamente era stata esclusa la continuazione tra le violazioni
depenalizzate e il reato non depenalizzato, costituito dalla
ricettazione di assegni rubati di cui alla sentenza 10.3.1997 della
Corte di Appello di Palermo, e che altrettanto erroneamente era stata
esclusa l'applicabilità alla pena inflitta con quest'ultima
sentenza della sospensione condizionale, già riconosciuta con un
precedente provvedimento di unificazione dei reati in materia di
assegni emesso prima della loro depenalizzazione. In via subordinata,
per il caso di esclusione della disciplina del reato continuato di cui
all'art. 671 c.p.p., il ricorrente ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p. in relazione
agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, nella parte in cui
escluderebbe la concedibilità in executivis della sospensione
condizionale della pena, anche quando questa sia divenuta possibile a
seguito della revoca di precedenti condanne per reati depenalizzati.
Con ordinanza del 26.6.2003 la Prima Sezione Penale di questa Corte,
considerato che non poteva condividersi la tesi del ricorrente
riguardante la possibilità di riconoscere la continuazione tra
violazioni depenalizzate e violazioni costituenti tuttora reato, ha
ritenuto che - contrariamente a quanto sostenuto da una parte della
giurisprudenza di legittimità - la sospensione condizionale
della pena in sede esecutiva fosse concedibile solo in conseguenza
dell'applicazione della disciplina della continuazione a norma
dell'art. 671, comma 3, c.p.p., e non anche a seguito della revoca di
precedenti condanne per abolitio criminis: precisava altresì che
la sospensione condizionale non poteva essere neppure concessa
attraverso l'interpretazione analogica del citato terzo comma dell'art.
671, stante la natura eccezionale della disposizione rispetto al
principio generale della intangibilità del giudicato. Ciò
premesso, la Prima Sezione ha ritenuto rilevante e non manifestamente
infondata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione
di legittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p. nella parte
in cui non prevede la possibilità per il giudice dell'esecuzione
di concedere la sospensione condizionale della pena in relazione ad una
sentenza per la quale l'applicazione del beneficio era stata esclusa a
causa dell'esistenza di precedenti condanne successivamente revocate
per l'intervenuta depenalizzazione dei reati.
La Corte costituzionale, con ordinanza 211/05, ha ritenuto la questione
manifestamente inammissibile, osservando che l'incidente di
costituzionalità era diretto a fare risolvere al Giudice delle
leggi un contrasto interpretativo interno alla giurisprudenza di
legittimità, attesa la riconosciuta presenza di un orientamento
favorevole all'opzione ermeneutica considerata conforme al dettato
costituzionale.
A seguito di tale decisione, la Prima Sezione, con ordinanza del
20.9.2005, ha riaffermato il principio della “fisiologica
impossibilità di applicare la continuazione tra fatti
costituenti reato e fatti non più previsti dalla legge come
tali” ed ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite per
la risoluzione del contrasto.
In data 18.11.2005 il Procuratore Generale presso questa Corte ha
ribadito le argomentazioni già sviluppate nella requisitoria
scritta e nella successiva nota integrativa per escludere
l'applicazione della sospensione condizionale della pena, concludendo
per il rigetto del ricorso.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando
l'udienza del 20.12.2005 per la trattazione con le forme di cui
all'art. 611 c.p.p..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. - E' necessario stabilire preliminarmente se possa ammettersi la
possibilità di applicare la disciplina della continuazione, a
norma dell'art. 671 c.p.p., tra il delitto di ricettazione, oggetto
della sentenza di condanna emessa il 10.3.1997 dalla Corte di Appello
di Palermo, e i fatti di emissione di assegni a vuoto non costituenti
più reato, a seguito di intervenuta depenalizzazione, per i
quali il C. è stato condannato con le sentenze poi revocate ai
sensi dell'art. 673 c.p.p..
La Prima Sezione Penale di questa Corte si è già
pronunciata in senso negativo con l'ordinanza in data 26.6.2003 e sulla
base di tale opinione ha ritenuto rilevante l'incidente di
legittimità costituzionale dell'art. 673 del codice di rito,
essendo chiaro che la questione rimessa al vaglio della Corte
costituzionale sarebbe stata ininfluente sulla decisione del ricorso
qualora la sospensione condizionale della pena fosse stata applicabile
per effetto del vincolo della continuazione, il cui riconoscimento
avrebbe reso direttamente operante la disposizione di cui al terzo
comma dell'art. 671.
Le Sezioni Unite condividono l'opinione che esclude la
possibilità di applicare la disciplina della continuazione tra
illeciti penali e illeciti amministrativi, anche se questi ultimi
corrispondevano in origine a fattispecie penali. La correttezza
dell'opinione contraria all'unificazione risulta evidente quando si
considera che la situazione configurata dall'art. 81, comma 2, c.p.
riguarda esclusivamente violazioni di norme incriminatici colpite da
sanzioni penali e, dunque, unicamente fatti costituenti reato, mentre
quella prevista dall'art. 8, comma 2, della legge 689/81, si riferisce
soltanto a “più violazioni di disposizioni che prevedono
sanzioni amministrative”: di talchè deve senz'altro negarsi che
l'istituto della continuazione possa comprendere illeciti di natura
affatto eterogenea e che il relativo regime giuridico possa risultare
dalla fusione o dalla commistione di discipline totalmente differenti
nei presupposti e nei contenuti.
Va tenuto presente, inoltre, che, ai fini del trattamento
sanzionatorio, la continuazione dà origine ad un reato unico
punito con la pena prevista per il reato più grave accresciuta
da tanti aumenti, entro il limite globale del triplo, quanti sono i
reati satelliti, onde è stato correttamente osservato che i
reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria e che il
relativo trattamento punitivo confluisce nella pena unica irrogata per
tutti i reati concorrenti (Cassazione, Su, 26 novembre 1997, Pg in
proc. Varnelli). Ne deriva che ammettere la continuazione tra reati e
illeciti amministrativi equivale a ritenere possibile la trasformazione
della sanzione amministrativa in un frammento di sanzione penale che
contribuisce a determinare la pena complessiva per il reato continuato,
in palese violazione del principio di legalità della pena.
2. - Esclusa l'ammissibilità nel caso di specie della
continuazione quale presupposto dell'applicazione della disposizione di
cui all'art. 671, comma 3, c.p.p., occorre accertare se il giudice
dell'esecuzione possa pronunciare la sospensione condizionale della
pena in caso di revoca per abolitio criminis di sentenze di condanna
che avevano impedito, nel pregresso giudizio di cognizione, la
concessione del beneficio riguardo alla pena inflitta con una
successiva sentenza di condanna.
La questione, che ha determinato la rimessione del ricorso alle Sezioni
Unite, vede nettamente divisa la giurisprudenza di legittimità.
Secondo un primo orientamento, il giudice dell'esecuzione ha il potere
di concedere il beneficio della sospensione condizionale solo quando
ciò consegua al riconoscimento del concorso formale o della
continuazione, onde deve escludersi la concedibilità, in sede
esecutiva, del beneficio a seguito della revoca per abolitio criminis,
ai sensi dell'art. 673 c.p.p., di condanne che, in sede di cognizione,
ne avevano impedito l'applicazione (Cassazione, Sezione sesta, 3
dicembre 2003, Pirrottina, rv. 228374; Sezione prima, 21 settembre
2001, Nicolao, rv. 220736). Una simile linea interpretativa è
saldamente agganciata al principio dell'intangibilità del
giudicato e alla premessa generalmente condivisa secondo cui il potere
del giudice dell'esecuzione di concedere la sospensione condizionale
della pena, previsto dall'art. 671, comma 3, c.p.p., ha natura
eccezionale e non è operante al di fuori dei casi tassativamente
indicati dalla legge (Cassazione, Sezione prima, 18 novembre 2004, P.G.
in proc. Zerbetto, rv. 230171; Sezione prima, 12 marzo 1997, P.G. in
proc. Clemente, rv. 208131; Sezione terza, 5 febbraio 1996, Vanacore,
rv. 204700). Si è altresì esclusa la possibilità
della sospensione condizionale della pena per la ragione che il giudice
dell'esecuzione è privo dei poteri di compiere la valutazione
prognostica e le attività istruttorie propri del giudice della
cognizione (Cassazione, Sezione terza, 18 giugno 1996, Ciaramella, rv.
206387).
Da tale indirizzo, rimasto per molti anni incontrastato nella
giurisprudenza di questa Corte, si è discostata per prima una
decisione pronunciata nel 2000 dalla Terza Sezione Penale con cui
è stato stabilito che, nell'ipotesi in cui vi sia stata sentenza
di condanna irrevocabile per più reati unificati dalla
continuazione ad una pena complessiva ostativa alla concessione del
beneficio e successivamente sia intervenuta una revoca parziale della
sentenza in ordine ad alcuni dei reati unificati, il giudice
dell'esecuzione può concedere la sospensione condizionale della
pena, previa valutazione dei presupposti e dopo il compimento del
giudizio prognostico ex art. 164 c.p. che il giudice della cognizione
non aveva avuto motivo di effettuare, semprechè, ovviamente, la
pena per i reati residui venga rideterminata in una misura che ne
consentirebbe la concessione (Cassazione, Sezione terza, 30 marzo 2000,
Micelli, rv. 219516). La “ratio decidendi” della sentenza si articola
nei seguenti passaggi: a) l'abrogazione della norma incriminatrice, al
pari della sopravvenuta declaratoria di illegittimità
costituzionale, determina la cessazione di tutti gli effetti penali
della sentenza di condanna, compreso quello rappresentato dall'ostacolo
che, nel giudizio di cognizione, aveva impedito l'applicazione della
sospensione condizionale della pena; b) la disposizione di cui all'art.
671, comma 3, c.p.p. è suscettibile di applicazione analogica,
di talchè il giudice dell'esecuzione può concedere la
sospensione condizionale della pena anche nel caso di revoca parziale
della sentenza di condanna che elimini uno o più reati giudicati
in continuazione; c) una diversa interpretazione porrebbe seri dubbi di
legittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p. per contrasto
con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della
Costituzione, giacchè dovrebbe considerarsi “manifestamente
illogica una disciplina che permetta la concessione del beneficio in
sede esecutiva nel caso di riconoscimento della continuazione fra
più reati giudicati con distinte sentenze di condanna
irrevocabili e la escluda, invece, nel caso di revoca della condanna
per uno o più reati già giudicati in continuazione con
altri”.
Tale opzione interpretativa è stata successivamente sviluppata
ed estesa ad una fattispecie diversa da quella esaminata nella sentenza
Micelli, essendo stato ritenuto che il giudice dell'esecuzione possa
concedere la sospensione condizionale della pena anche quando le
sentenze di condanna revocate non attengano a reati già uniti
dal vincolo della continuazione: si è, infatti, stabilito che,
alla luce dei più generali poteri d'intervento riconosciuti
dagli artt.671 e 666, comma 5, c.p.p., il giudice dell'esecuzione
può adottare la deliberazione relativa all'esistenza dei
presupposti normativi e prognostici del beneficio che sarebbe stata
compiuta dal giudice della cognizione in assenza delle condanne
ostative poi revocate per abolitio criminis (Cassazione, Sezione terza,
20 febbraio 2002, P.G. in proc. De Filippo, rv. 221368).
A questa posizione si sono successivamente allineate varie sentenze di
questa Corte (Cassazione, Sezione quinta, 6 novembre 2002, Dell'Utri,
RV 224112; Sezione prima, 6 ottobre 2004, Merosi, rv. 230318; Sezione
prima, 17 dicembre 2004, PM in proc. Schiavone, rv. 230965).
3. - Così delineati i termini del contrasto di giurisprudenza,
devono essere assunte come chiave di volta dell'indagine ermeneutica le
indicazioni contenute nell'ordinanza 211/05 pronunciata dal Giudice
delle leggi nel presente processo per definire l'incidente di
legittimità costituzionalità sollevato dalla Prima
Sezione Penale di questa Corte in ordine all'art. 673 c.p.p., nella
parte in cui non prevede che il giudice dell'esecuzione possa applicare
la sospensione condizionale della pena in caso di revoca per abolitio
criminis di sentenze di condanna che avevano impedito la concessione
del beneficio per un diverso reato.
In tale decisione, dopo avere dato atto dell'esistenza di divergenti
posizioni all'interno della giurisprudenza di legittimità, la
Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità
della questione, precisando che “il giudice - quanto meno in assenza di
un orientamento giurisprudenziale consolidato - ha il dovere di seguire
l'interpretazione da lui ritenuta più adeguata ai principi
costituzionali, configurandosi, altrimenti, la questione di
costituzionalità quale improprio strumento volto ad ottenere
l'avallo della Corte a favore di una determinata interpretazione della
norma”.
La regola ermeneutica dell'interpretazione adeguatrice è
pienamente condivisa dalle Sezioni Unite, che ne hanno più volte
affermato il ruolo di imprescindibile punto di riferimento
dell'attività del giudice (Cassazione, Su, 31 marzo 2004,
Pezzella, rv. 227524; Su, 30 ottobre 2002, Vottari, rv. 222602; Su, 23
febbraio 2000, D'Amuri, rv. 215841; Su, 24 gennaio 1996, Panigoni, rv.
203966). In particolare, nella sentenza Pezzella è stato
sottolineato che “l'interpretazione adeguatrice corrisponde ad un
preciso ed ineludibile dovere del giudice, il quale è tenuto a
ricavare dalle disposizioni interpretate, tutte le volte che ciò
sia possibile, norme compatibili con la Costituzione”, con la
precisazione che simile direttiva ermeneutica deve essere seguita
“quando una disposizione abbia carattere <> e da essa sia
enucleabile, senza manipolare il contenuto della disposizione, una
norma compatibile con la Costituzione attraverso l'impiego dei canoni
ermeneutici prescritti dagli artt. 12 e 14 delle disposizioni sulla
legge in generale”.
4. - La linea interpretativa che esclude la possibilità di
concedere la sospensione condizionale della pena in caso di revoca
della sentenza di condanna per abolitio criminis conduce a risultati
che appaiono disarmonici rispetto alla regola fondamentale del sistema
penale enunciata dall'art. 2, comma 2, c.p., ed ai valori
costituzionali di ragionevolezza e di equilibrata simmetria
dell'ordinamento. Va sottolineato, in particolare, che la tesi
negativa, rifiutando, nella situazione esaminata, la
concedibilità della sospensione condizionale, lascia persistere
la precedente valenza ostativa della sentenza di condanna poi revocata,
ponendosi in aperta collisione col precetto sancito dal citato art. 2,
comma 2, che dispone la cessazione dell'esecuzione e degli effetti
penali della condanna per un fatto non più considerato reato da
una legge posteriore. Aggiungasi che - come è stato esattamente
osservato dalla Prima Sezione Penale di questa Corte nell'ordinanza
26.6.2003, che, sul punto, ha ripreso indicazioni contenute in altre
decisioni (Cassazione, Sezione terza, 30 marzo 2000, Micelli, cit.) -
non può non considerarsi manifestamente irragionevole una
disciplina che permette al giudice dell'esecuzione la concessione della
sospensione condizionale della pena in caso di riconoscimento della
continuazione per più reati e la escluda, invece, nell'ipotesi
di revoca di sentenze di condanna per intervenuta depenalizzazione,
dato che in quest'ultima situazione il fatto incriminato è
divenuto penalmente irrilevante e del tutto inoffensivo a causa della
mutata valutazione sociale, mentre nella prima tutti i fatti di reato
unificati per continuazione mantengono intatto il disvalore criminale.
La palese discrasia cui conduce la tesi negativa rende necessaria,
dunque, la verifica della praticabilità ermeneutica della
posizione che attribuisce alla disciplina una portata immune dagli
inconvenienti segnalati e la rende sintonica al canone della
ragionevolezza.
5. - Le Sezioni Unite ritengono che il principio dell'interpretazione
adeguatrice giustifichi l'adesione all'indirizzo favorevole alla
concedibilità della sospensione condizionale della pena
nell'ipotesi di revoca di sentenze di condanna, per la ragione che esso
risulta maggiormente aderente alle linee strutturali del sistema
normativo ed appare come il più coerente risultato di
un'indagine ricostruttiva della disciplina di cui all'art. 673 c.p.p.,
che coinvolge sia profili di diritto processuale riguardanti il
principio del giudicato e i limiti dei poteri decisori del giudice
dell'esecuzione, sia profili di diritto sostanziale, incidenti
sull'ambito di operatività della legge penale nel tempo,
inquadrati nel contesto dei valori enunciati dalla Carta costituzionale
in riferimento ai principi di pari trattamento e di legalità
della pena (artt. 3, 25 e 27 Costituzione).
Gli itinerari argomentativi delle decisioni che esprimono la posizione
interpretativa qui condivisa si snodano lungo due distinti percorsi,
dato che in alcune sentenze la possibilità di concedere il
beneficio rappresenta il risultato dell'applicazione analogica
dell'art. 671, comma 3, c.p.p., volta ad eliminare una lacuna ritenuta
presente nella disciplina contenuta nell'art. 673, mentre in altre
decisioni la questione dibattuta trova soluzione all'interno della
stessa normativa dell'art. 673, della quale vengono sviluppate tutte le
potenzialità applicative.
Il primo itinerario ermeneutico è precluso dallo sbarramento
segnato dall'art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale, che
vieta di applicare le leggi che fanno eccezione a regole generali oltre
i casi in esse considerate. Invero, considerato che - conformemente
all'opinione consolidata della giurisprudenza di legittimità -
l'immodificabilità del giudicato corrisponde ad un principio
generale dell'ordinamento derogabile sono nei casi previsti dalla
legge, il divieto dell'applicazione analogica dell'art. 671, comma 3,
c.p.p. non può essere eluso in nome dell'interpretazione
secundum Constitutionem dell'art. 673, la cui sfera precettiva
può essere adeguata dal giudice ai principi della Carta
fondamentale soltanto quando la ricostruzione della portata della
disposizione risulti possibile con l'impiego degli usuali mezzi
dell'ermeneutica giuridica.
Oltre che trovare ostacolo nei motivi ora indicati, il metodo
ermeneutico dell'analogia deve essere escluso per la ragione che nel
tessuto normativo della disciplina contenuta nell'art. 673 c.p.p. sono
presenti precisi spunti interpretativi che permettono di ricondurre
nell'ambito della stessa previsione normativa la possibilità di
concedere la sospensione condizionale nell'ipotesi di revoca di una
sentenza di condanna.
L'art. 673 c.p.p. stabilisce che “nel caso di abrogazione o di
dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma
incriminatrice, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di
condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è
previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti”.
In puntuale sintonia con l'art. 2, comma 2, c.p., che fa discendere
dall'abrogazione della norma incriminatrice la cessazione di tutti gli
effetti penali della condanna, la disposizione contenuta nel codice di
rito stabilisce che la revoca della sentenza deve essere accompagnata
dalla pronuncia dei “provvedimenti conseguenti”, per tali intendendosi
quelli destinati ad eliminare gli effetti giuridici comunque
pregiudizievoli che sono scaturiti dal giudicato: e tra tali effetti
devono indubbiamente annoverarsi anche gli effetti preclusivi
eventualmente determinati, ai sensi dell'art. 164 c.p., dalle condanne
poi revocate (Cassazione, Sezione terza, 20 febbraio 2002, P.G. in
proc. De Filippo, cit.).
Pertanto, l'estensione e la flessibilità del valore semantico
della locuzione “provvedimenti conseguenti”, nonchè la coerenza
razionale del sistema, consentono di scegliere l'opzione corrispondente
all'interpretazione adeguatrice dell'art. 673, senza travalicare le
regole ermeneutiche alle quali il giudice deve attenersi, e di
privilegiare la soluzione che, ammettendo la possibilità di
concedere il beneficio della sospensione condizionale prima precluso
dalla sentenza revocata, risulta l'unica funzionale alla totale
rimozione degli effetti penali di una condanna che deve essere
totalmente cancellata in tutte la sue implicazioni negative
perché riferentesi ad un fatto che ha perduto ogni rilevanza
penale.
6. - Mancano di pregio le critiche rivolte a detta soluzione in nome
del dogma dell'intangibilità del giudicato e attraverso il
richiamo dei limiti connaturati alla giurisdizione del giudice
dell'esecuzione.
Va precisato, infatti, che, pur conservando un ruolo insostituibile
all'interno del sistema processuale penale a presidio della certezza
delle situazioni giuridiche accertate nel processo, nel codice di rito
vigente il principio della immutabilità della cosa giudicata ha
perduto valore assoluto, in quanto non rare risultano le previsioni
nelle quali la legge processuale riconosce la possibilità di
interventi integrativi o modificativi del giudicato ad opera del
giudice dell'esecuzione, al quale talora è attribuito il potere
di incidere, con la sua pronuncia, sulle statuizioni divenute
irrevocabili. E' sufficiente ricordare, al riguardo, la disciplina del
concorso formale e del reato continuato in sede esecutiva (art. 671
c.p.p.), anche nel caso di sentenze di applicazione della pena su
richiesta delle parti (art. 188 disp. att. c.p.p.), la revoca di
sentenze per abolizione di reati (art. 673 c.p.p.), il ricorso
straordinario per errore di fatto (art. 625-bis c.p.p.).
Il fatto che la disciplina dell'art. 673 c.p.p. corrisponda proprio ad
uno dei casi in cui la legge processuale introduce una specifica deroga
alla regola tradizionale dell'immodificabilità della res
iudicata segnala l'inconsistenza delle obiezioni mosse alla soluzione
favorevole alla concedibilità della sospensione condizionale,
dal momento che la previsione di provvedimenti conseguenti alla revoca
della sentenza di condanna postula necessariamente l'esercizio di
attività che traggono diretto e puntuale titolo dallo stesso
art. 673: ed, infatti, la disposizione ivi contenuta, dato il suo ruolo
chiaramente strumentale rispetto alla norma di diritto sostanziale di
cui al secondo comma dell'art. 2 c.p., implica l'attribuzione al
giudice dell'esecuzione del potere di adottare tutte le misure
occorrenti per la totale rimozione degli effetti penali della condanna.
Di talchè risulterebbe senz'altro contraddittorio ammettere la
revoca di sentenze di condanna per abolizione di reati e, nello stesso
tempo, escludere che l'intervento giurisdizionale del giudice
dell'esecuzione non possa realizzarsi attraverso provvedimenti idonei
ad eliminare qualsiasi conseguenza negativa prodotta dalla sentenza
revocata, con il solo limite degli effetti divenuti nel frattempo
irreversibili (Cassazione, Sezione terza, 20 febbraio 2002, P.G. in
proc. De Filippo, cit.).
Dalle precedenti riflessioni si evince che sono indubbiamente
infondati, per la loro portata generalizzata ed indiscriminatamente
totalizzante, i rilevi critici sollevati facendo riferimento alla
supposta carenza di poteri valutativi da parte del giudice
dell'esecuzione. E' agevole replicare, in proposito, che evidenti
esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del
sistema, inducono a ritenere che, una volta dimostrato che la legge
processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso
giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri
necessari all'esercizio di quella medesima attribuzione: onde è
consequenziale inferirne che il riconoscimento della possibilità
di eliminare l'effetto ostativo alla concessione della sospensione
condizionale della pena comporta necessariamente la titolarità
dei poteri necessari al conseguimento di tale risultato.
Mette conto, peraltro, osservare che l'affermazione della totale
mancanza di poteri istruttori e valutativi del giudice dell'esecuzione
è smentita da precisi dati enucleabili dall'ordinamento vigente.
E' significativo, difatti, che, proprio in tema di revoca della
sentenza a seguito di abolitio criminis, una parte della giurisprudenza
di questa Corte ha chiarito che il giudice dell'esecuzione richiesto di
revoca della sentenza per sopravvenuta abolitio criminis a norma
dell'art. 673 c.p.p., pur non potendo ricostruire la vicenda per cui vi
è stata condanna in termini diversi da quelli definiti con la
sentenza irrevocabile, nè valutare i fatti in modo difforme da
quanto ritenuto dal giudice della cognizione, ha il potere di far
emergere dal quadro probatorio già acquisito elementi divenuti
determinanti, alla luce del diritto sopravvenuto, per la decisione
sull'imputazione contestata (Cassazione, Sezione prima, 24 maggio 2002,
Mazzuoccolo, rv. 221646). In una simile ottica è stato
altresì precisato che il giudice dell'esecuzione può
compiere proprie autonome valutazioni, sempre che queste non
contraddicano quelle del giudice della cognizione (Cassazione, Sezione
prima, 20 maggio 1994, Casagrande, rv. 198342; Sezione sesta, 14 marzo
1994, Zanardini, rv. 197801), anche, se necessario, mediante l'esame
degli atti processuali (Cassazione, Sezione sesta, 10 marzo 2003, Di
Nardo, rv. 226196; Sezione quarta, 29 maggio 1996, Baluì, rv.
205415). E, d'altro canto, la titolarità di poteri istruttori e
valutativi trova esplicita conferma nella disposizione di cui all'art.
666, comma 5, c.p.p., che autorizza il giudice dell'esecuzione ad
acquisire i documenti e le informazioni necessari e, quando occorre, ad
assumere prove nel rispetto del principio del contraddittorio.
Inoltre, va riconosciuto che l'attribuzione al giudice dell'esecuzione
del potere di concedere la sospensione condizionale in caso di revoca
della condanna ex art. 673 non scalfisce le statuizioni irrevocabili
del giudice della cognizione ed ha una funzione meramente integrativa
del titolo esecutivo. Infatti, se nel pregresso giudizio l'unico motivo
della mancata applicazione del beneficio è identificabile non
nella presenza di una valutazione prognostica della pericolosità
dell'imputato, ma nel solo effetto preclusivo della sentenza di
condanna successivamente revocata per intervenuta abolizione del reato,
non può certamente ravvisarsi alcun reale vulnus al giudicato
qualora quel giudizio prognostico che non è stato compiuto dal
giudice della cognizione sia compiuto, poi, dal giudice
dell'esecuzione.
Va precisato, infine, che la deliberazione rimessa al giudice
dell'esecuzione non può essere, ovviamente, circoscritta
all'apprezzamento della sola situazione esistente al momento
dell'irrogazione della pena della quale è stata richiesta la
sospensione, ma deve essere necessariamente estesa alla valutazione di
tutti i sopravvenuti elementi sintomatici che, allorché il
giudice dell'esecuzione formula il giudizio prognostico, contribuiscono
a giustificare il convincimento che il condannato si asterrà dal
commettere ulteriori reati.
Alla luce di tutte le precedenti considerazioni deve conclusivamente
affermarsi il seguente principio di diritto a norma dell'art. 173,
comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice di rito:
“nell'adottare i provvedimenti conseguenti alla revoca di condanne
relative a fatti non costituenti più reato, il giudice
dell'esecuzione può disporre, a norma dell'art. 673 c.p.p., la
sospensione condizionale della pena inflitta con una successiva
sentenza qualora l'applicazione del beneficio, nel giudizio di
cognizione, sia stata negata a causa dell'impedimento costituito dalle
condanne poi revocate e sia giustificata dalla valutazione degli
elementi acquisiti nel momento in cui è formulato il giudizio
prognostico”.
Pertanto, deve pronunciarsi l'annullamento dell'ordinanza impugnata con
rinvio per nuovo esame alla Corte di Appello di Palermo, che, dopo
avere revocato, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., le sentenze di condanna
reputate ostative dal giudice della cognizione alla concessione della
sospensione condizionale della pena, ha illegittimamente ritenuto che
il giudice dell'esecuzione, in simili situazioni, non possa mai
concedere detto beneficio perché precluso dal giudicato.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, annulla l'ordinanza
impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Palermo per nuovo esame.
Così deliberato in Roma nella Camera di Consiglio del 20
dicembre 2005.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 6 FEBBRAIO 2006
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