La sentenza
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Giovanni D’URSO - Presidente -
Dott. Carlo LICARI - Consigliere -
Dott. Sergio VISCONTI - Consigliere -
Dott. Ruggero GALBIATI - Consigliere -
Dott. Vincenzo ROMIS - Rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) A. S. n. il X;
2) M. P. n. il X;
avverso sentenza del 27/10/2003 Corte Appello di Milano;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in Pubblica Udienza la relazione svolta dal Consigliere Dott.
Romis Vincenzo;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Veneziano Giuseppe
che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Udito, per la parte civile, l'Avv. Roberto Iannaccone che si è
riportato alle condizioni scritte.
Udito il difensore Avv. G. D.N. il quale ha concluso insistendo per
l'accoglimento dei ricorsi e chiedendo in subordine, per l'imputato A.,
declaratoria di prescrizione del reato.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
B. S., A. S. e M. P. venivano tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di
Milano per rispondere del reato di lesioni colpose in danno di A. A.
secondo la seguente contestazione: perché, nelle rispettive
qualità di medici curanti il paziente A. A. presso il servizio
di gastroenterologia ed endoscopia digestiva dell'ospedale X - ed
intervenuti, rispettivamente, la B. in data X, l'A. in data X, la M. in
data X - per colpa, consistita in imprudenza, imperizia e negligenza, e
segnatamente perché seguendo il caso del paziente A. A. affetto
da rettocolite ulcerosa precedentemente diagnosticata, e con terapia
farmacologica già instaurata dal dottor G. presso l'ospedale di
Varese consistente nella somministrazione di Asacol (farmaco a base di
mesalazina e dotato di effetti collaterali sull'apparato renale secondo
quanto evidenziato dal foglietto illustrativo allegato alla confezione
commerciale del farmaco), avevano omesso di effettuare e/o di
prescrivere i dovuti e periodici esami ematochimici diretti a
verificare la funzionalità renale del paziente sottovalutando
altresì gli indici infiammatori emergenti dagli esami eseguiti
in data 2/12/1996, in tal modo cagionando all'A. medesimo una
nefropatia tubulo interstiziale acuta/cronica in portatore di
rettocolite ulcerosa, con iniziale insufficienza renale accertata il
31/1/1998 a seguito di ricovero presso l'ospedale di Varese,
comportante una malattia della durata di circa 17 mesi con
indebolimento permanente della funzione renale.
Il giudice, all'esito del dibattimento e sulla base anche di
accertamenti peritali, riteneva di assolvere gli imputati, motivando il
suo convincimento con argomentazioni che possono così
riassumersi: a) la B. aveva visitato l'A. la prima volta il X, aveva
raccolto ed annotato i dati anamnestici riferitile dal paziente, aveva
effettuato il prelievo del sangue, aveva quindi verificato la
normalità della funzionalità renale attraverso i valori
di azotemia e creatinina (sulla scorta anche dell'esito della
"clearance" della creatinina) ed aveva prescritto la prosecuzione della
terapia con mesalazina riducendo la dose originaria della metà;
da allora la B. non aveva avuto più modo di occuparsi di quel
paziente, per cui la stessa, non riscontrandosi nella sua condotta
elementi di colpa, doveva ritenersi del tutto estranea a quanto
successivamente accaduto, con conseguente sua assoluzione con la
formula "per non aver commesso il fatto"; b) per quel che riguarda l'A.
e la M., nella loro condotta non era dato riscontrare profili di colpa,
nè sotto l'aspetto della negligenza nè sotto quello
dell'imperizia, atteso che: 1) la terapia prescritta per la rettocolite
ulcerosa, di cui la persona offesa soffriva, era assolutamente idonea,
sia per la scelta del farmaco che per le dosi prescritte; 2) all'inizio
della terapia l'A. non aveva presentato alcuna controindicazione
all'uso di detto farmaco, posto che gli indici della
funzionalità renale erano risultati normali come emerso dagli
esami ematochimici eseguiti nel giugno del 1996; 3) i periti avevano
affermato la sussistenza del nesso di causalità tra il farmaco
somministrato al paziente e l'insorgenza della patologia renale, in
termini di rilevante probabilità, sul rilievo della
nefrotossicità della mesalazina - in quanto acido 5
aminosalicidico - ed in assenza di altre cause quali infezioni
nefrologiche rilevanti o patologie autoimmuni; ad avviso dei periti, se
nel periodo tra il gennaio 1997 ed il gennaio 1998 fossero stati
richiesti esami del sangue comprensivi dei valori di azotemia e
creatinina, questi ultimi avrebbero rivelato l'insorgenza di una
insufficienza renale: di tal che, la condotta contestata agli imputati
andava qualificata come condizione necessaria dell'evento lesivo, anche
alla luce di quanto affermato in materia, nel 2002, dalle Sezioni Unite
della Cassazione; 4) la costruzione accusatoria muoveva tuttavia dal
presupposto che in quegli anni (1996 e 1997) vi fosse, da parte dei
medici imputati, la conoscenza degli effetti nefrotossici della
mesalazina; 5) era invece emerso che a quell'epoca detta conoscenza non
era ancora patrimonio comune, specie tra i medici gastroentorologi; 6)
pur appartenendo l'Asacol alla categoria dei salicilati, detto farmaco
presentava però molecole del tutto diverse e modificate, e
soltanto nel 2000 avevano cominciato a diffondersi tra i nefrologi, ed
anche tra i gastroenterologi, sufficienti e complete segnalazioni in
ordine ad una tossicità del farmaco per i reni tale da poter
determinare l'insorgenza di una nefrite interstiziale: prima del 2000,
anche nella letteratura scientifica vi erano state sporadiche
informazioni, comunque pubblicate su riviste minori, di una
nefrotossicità della mesalazina, peraltro anche contrastate da
altre di segno contrario; 7) non esistevano ancora in ambito
gastroenterologo "linee guida" di comportamento con raccomandazioni di
controlli della funzionalità renale in caso di terapia
prolungata con il farmaco in questione; 8) il foglietto illustrativo
che accompagnava il farmaco somministrato all'A. non conteneva
indicazioni sulla necessità di sottoporre il paziente al
controllo periodico della funzionalità renale, ma solo
raccomandazioni di uso con cautela nei confronti di pazienti in cui
fosse presente un danno renale o epatico, e divieto di somministrazione
del farmaco a soggetti portatori di conclamata insufficienza renale; 9)
gli stessi specialisti nefrologi dell'ospedale di Varese, in occasione
del ricovero dell'A. il 19 gennaio 1998, benché a conoscenza
dell'assunzione da parte dell'A. di mesalazina, avevano continuato la
terapia farmacologica con l'Asacol, senza neanche ridurne la dose,
nonostante la presenza in quel momento di valori indicativi di una
insufficienza renale, ed avevano disposto l'interruzione della
somministrazione del farmaco solo all'esito della biopsia che aveva
consentito di diagnosticare la nefrite interstiziale; 10) alcun
elemento era emerso per ritenere che la B., al momento della visita del
2 dicembre 1996 - allorquando la creatinina era risultata pari a 1,5 -
fosse a conoscenza dei risultati di laboratorio del giugno precedente
che avevano evidenziato un valore della creatinina di 1,3: pertanto non
poteva rimproverarsi ai medici posti sotto accusa di aver trascurato un
"trend" in salita della creatinina la quale tuttavia ben poteva
considerarsi sostanzialmente nella norma anche ad un valore di 1,5,
specie perché erano risultati contestualmente normali il valore
dell'azotemia ed i dati dell'esame delle urine; 11) pur non essendo
stato più controllato il valore della creatinina dal 2 dicembre
1996, erano state comunque sempre regolarmente effettuate le analisi
delle urine da cui erano emersi valori normali.
Avverso detta sentenza proponevano gravame sia la parte civile che il
pubblico ministero, quest'ultimo limitatamente alle posizioni dell'A. e
della Molteni.
La Corte d'Appello di Milano confermava l'assoluzione della B., e,
quanto agli altri due imputati, ribaltava il verdetto di primo grado
condannando entrambi alla pena ritenuta di giustizia.
La Corte di merito sostanzialmente rivalutava nell'ottica dell'accusa
circostanze ed elementi che avevano formato oggetto di esame ed analisi
da parte del primo giudice, e, specificamente in ordine alla posizione
dell'A. e della M., sottolineava quanto segue: 1) come peraltro
già evidenziato dallo stesso Tribunale, poteva affermarsi in
termini di rilevante probabilità la sussistenza del nesso
causale tra la somministrazione della mesalazina e l'insorgenza della
nefrite tubulo-interstiziale, anche perché era stata esclusa
qualsiasi altra causa alternativa: di tal che risultavano pienamente
rispettati i criteri dettati dalle Sezioni Unite in tema di
accertamento del nesso causale; 2) per quel che concerne la
prevedibilità dell'evento, contrariamente a quanto ritenuto dal
primo giudice, gli imputati - anche in considerazione della loro
qualifica di medici specialisti - non potevano ignorare gli effetti
nefrotossici dell'Asacol posto che: a) informazioni al riguardo erano
già state pubblicate su riviste scientifiche sin dagli anni '80
e '90 (ad esempio, sulla rivista Lancet la cui diffusione non era certo
limitata ad isolate regioni); b) il farmaco in argomento apparteneva
alla famiglia dei salicilati, di cui era nota la possibile
nefrotossicità; c) il foglietto illustrativo del medicinale
raccomandava speciali precauzioni d'uso nei confronti di pazienti con
danno renale ed epatico, il che rendeva irrilevante che tale rischio,
nel caso del paziente A., non fosse stato ancora conclamato in maniera
incontrovertibile; 3) d'altra parte la stessa dottoressa B., a fronte
di un dato relativo alla creatinina (1,5) non ancora preoccupante, ma
tuttavia meritevole di attenzione, si era posta il problema della
"clearance" della creatinina, a dimostrazione della necessità di
cautela e controllo per un'emergenza ematochimica non del tutto
soddisfacente; 4) al contrario, i dottori A. e M. non avevano mai
disposto esami ematochimici, nè generici nè mirati alla
funzionalità renale, pur disponendo dei dati già noti
alla B., che, al momento del loro intervento, erano certamente datati
e, quindi, non più significativi; 5) conclusivamente, appariva
innegabile che l'A. e la M., per quanto rispettivamente fatto, non
avevano prestato adeguata attenzione al rischio derivante dall'uso
prolungato dei salicilati da parte dell'A., "così omettendo
quegli esami che, se tempestivamente effettuati, avrebbero consentito o
di evitare l'insorgere della malattia o di limitarne le conseguenze
negative per la parte offesa" (per come si legge testualmente a pag. 10
della sentenza della Corte d'Appello).
Ricorrono per Cassazione gli imputati A. e M. deducendo doglianze -
sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio
motivazionale - sostanzialmente simili ed in gran parte sovrapponigli
anche dal punto di vista letterale, trattandosi di posizioni
pressoché identiche; le impugnazioni divergono solo nella parte
concernente l'intensità del rapporto terapeutico instauratosi
tra i medici suddetti e l'A. - avendo l'A. e la M. visitato il
paziente, rispettivamente, due volte il primo ed una sola volta la
seconda - e le prescrizioni e le indicazioni dai medesimi fornite al
paziente stesso.
Ciò posto, le censure dei ricorrenti - che in buona sostanza
fanno leva principalmente sulle argomentazioni svolte dal primo giudice
a sostegno della sentenza di assoluzione - possono sintetizzarsi come
segue: A) anche il dottor G. - il quale aveva avuto precedentemente in
cura l'A. prescrivendogli l'A. - non aveva ritenuto di eseguire esami
finalizzati a controllare la funzionalità renale del paziente;
B) l'A., pur rientrando nella categoria dei salicilati, presenta
tuttavia molecole peculiari che ben possono differenziarne gli effetti
collaterali rispetto agli altri farmaci appartenenti alla medesima
categoria: di tal che, sotto il profilo del nesso di causalità,
i giudici di merito avrebbero errato nel trarre la certezza della
nefrotossicità della mesalazina dalla sua appartenenza alla
categoria dei salicilati; C) solo nel 2000 avrebbero cominciato a
diffondersi tra i nefrologi ed i gastroenterologi complete informazioni
e segnalazioni circa una nefrotossicità del farmaco; in
precedenza si era trattato di notizie pubblicate su riviste minori, e
peraltro anche contrastanti, tant'è che i medici non avevano a
disposizione neanche le "linee guida"; neppure la "guida all'uso dei
farmaci" (a cura della Direzione Generale del Ministero della
Sanità) suggeriva l'opportunità di controlli di "routine"
della funzionalità renale nel caso di uso di aminosalicilati;
quanto al foglietto illustrativo del farmaco in argomento, fino al 1998
lo stesso presentava solo l'indicazione di un uso cauto nei confronti
di pazienti già affetti da problemi renali (o epatici) e divieto
per pazienti affetti da conclamata insufficienza renale, trattandosi di
farmaco eliminato per via renale e metabolizzato per via epatica; il
che sarebbe cosa diversa da una avvertenza di pericolo di
nefrotossicità: prova ne sia che solo a partire dal 2000, nel
foglietto allegato alla confezione del farmaco, risulta espressamente
raccomandato il monitoraggio della funzionalità renale in corso
di trattamento con il farmaco; dunque, secondo i ricorrenti, in base
alle cognizioni scientifiche ed agli studi dell'epoca, negli anni 1996
e 1997 l'evento dannoso occorso all'A. non era nè prevedibile
nè prevenibile, tant'è che gli stessi specialisti
nefrologi dell'Ospedale di Varese - in occasione del ricovero dell'A.
presso quel nosocomio nel gennaio 1998 - pur in presenza di un valore
di creatinina (3,8) sicuramente ben superiore alla norma, avevano
continuato a somministrare all'A., dal 21 gennaio 1998 al 31 gennaio
1998, l'A. ed avevano deciso di interrompere tale terapia farmacologica
solo all'esito della biopsia che aveva evidenziato l'insorgenza della
nefrite tubulo-interstiziale; D) dubbia sarebbe anche la sussistenza
del nesso causale tra l'omesso monitoraggio e l'insorgenza della
patologia renale: ed invero, un farmaco può essere tossico in
modo acuto ovvero per dipendenza, ed ancora oggi vi sarebbero
incertezze circa la riconducibilità della mesalazina nel novero
dei farmaci ad effetto tossico per dipendenza; E) la M., nell'unica
occasione in cui aveva visto la parte offesa, aveva riscontrato che i
valori di azotemia e creatinina dell'A., relativi ai precedenti esami,
erano rispettivamente pari a 49 e 1,5, ritenendoli dunque
pressoché nella norma, ed aveva comunque mutato la terapia
sostituendo l'Asacol con la Salazopirina: successivamente l'A., dopo
aver consultato telefonicamente un medico dell'ospedale Sacco di
Milano, aveva ripreso l'uso dell'Asacol all'insaputa della M.;
quest'ultima, in quell'unica circostanza in cui aveva visitato il
paziente, aveva riportato in cartella solo i dati relativi ai globuli
bianchi perché si trattava degli unici valori risultati al di
fuori della norma;
tutti gli altri esami (ivi compreso l'esame delle urine) avevano
evidenziato valori normali e quindi soltanto per tale ragione non erano
stati riportati in cartella, come sottolineato anche a pag. 10 della
sentenza di primo grado (con riferimento all'udienza del 5 luglio
2002); F) la M. non aveva dunque rilevato alcun dato che potesse essere
spia di una cattiva funzionalità renale, procedendo peraltro
anche alla sostituzione dell'Asacol con altro farmaco; dopo due
settimane l'A. si era recato poi all'ospedale di Varese per un blocco
vertebrale, ed in quell'occasione al paziente erano state riscontrate
anomalie nella funzionalità renale e quindi diagnosticata la
nefrite tubulo-interstiziale; G) sulla scorta di tali ultime
circostanze, secondo i ricorrenti, non potrebbe in assoluto escludersi
che a provocare la malattia renale possa essere stato un abbondante uso
di antidolorifici da parte dell'A., magari assunti in regime di
automedicazione, per fronteggiare i dolori acuti derivanti dal blocco
vertebrale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Ricorso A.
Il ricorso del dottor A. non merita accoglimento.
Le dedotte doglianze, pur articolate con diffuse argomentazioni -
specie per quel che concerne la problematica relativa al nesso causale
tra la condotta omissiva e l'evento in materia di colpa professionale
medica (che ha visto l'intervento delle Sezioni Unite di questa Corte
con la sentenza Franzese: ud. 10/7/2002, dep. 11/9/2002) - risultano
invero prive di giuridico fondamento.
Deve innanzi tutto sottolinearsi che, per quel che riguarda
l'individuazione dei profili di colpa nella condotta del dottor A., con
il gravame - attraverso la denunzia di asseriti vizi di violazione di
legge e di motivazione - sono state riproposte questioni, anche di
fatto, già ampiamente dibattute in sede di merito.
Orbene i vizi denunciati non sono riscontrabili nella sentenza
impugnata, con la quale la Corte territoriale - quanto alla posizione
del dottor A. - ha dimostrato di aver analizzato tutti gli aspetti
essenziali della vicenda, pervenendo, all'esito di un approfondito
vaglio di tutta la materia del giudizio, a conclusioni sorrette da
argomentazioni adeguate e logicamente concatenate.
Trattandosi di contestazione di condotta colposa omissiva,
preliminarmente è necessario verificare la sussistenza di un
obbligo di garanzia in capo all'imputato. Orbene, nella concreta
fattispecie la verifica al riguardo è particolarmente agevole;
ed invero l'obbligo di garanzia non presenta particolari problemi per
quel che riguarda i trattamenti medico chirurgici: è sufficiente
che si sia instaurato un rapporto sul piano terapeutico tra paziente e
medico per attribuire a quest'ultimo la posizione di garanzia ai fini
della causalità omissiva, e comunque quella funzione di garante
della vita e della salute del paziente che lo rende responsabile delle
condotte colpose che abbiano cagionato una lesione di questi beni.
Passando ad esaminare nello specifico la condotta del dottor A., va
innanzi tutto sottolineato che la Corte d'Appello di Milano ha ritenuto
di condividere pienamente le conclusioni dei periti di ufficio secondo
cui l'insorgenza della patologia renale, poi diagnosticata all'A.,
doveva certamente ricollegarsi, sotto il profilo eziologico, alla
somministrazione (per un lungo periodo) di un farmaco, l'Asacol, che al
paziente stesso era stato prescritto per la cura di una rettocolite
ulcerosa; conclusione questa sorretta da adeguata e puntuale
motivazione (anche nel rispetto dei principi enunciati nella sentenza
Franzese delle Sezioni Unite) - e peraltro sostanzialmente non
contestata nemmeno dal consulente della difesa, per come si evince
dalle sentenze di primo e secondo grado - atteso che, all'esito di
puntuale verifica al riguardo, è stata esclusa qualsiasi altra
causa potenzialmente idonea, sul piano della credibilità
razionale (e sulla scorta delle nozioni e delle esperienze scientifiche
al momento disponibili), a causare la nefrite interstiziale.
Decisivo rilievo, nella produzione dell'evento, è stato dunque
attribuito alla terapia farmacologica (protrattasi nel tempo) a base di
"mesalazina", e, sotto il profilo della colpa per condotta omissiva,
alla mancata acquisizione di dati relativi alla funzionalità
renale del paziente che sarebbe stato possibile ottenere attraverso
semplici esami ematochimici.
Alcuna censura può dunque essere mossa alla Corte territoriale,
avendo questa motivatamente condiviso le conclusioni dei periti di
ufficio (il giudice resta pur sempre il "peritus peritorum"); muovendo
dalle risultanze peritali, la Corte stessa ha poi individuato gli
elementi ritenuti utili per confutare la tesi difensiva, traendo nel
contempo, dalle risultanze medesime, validi argomenti per affermare che
il mancato controllo dei valori di creatinina ed azotemia (indici della
funzionalità renale) aveva favorito l'insorgenza e
l'aggravamento della patologia renale. Ad avviso dei giudici di secondo
grado, in sostanza, se il dottor A. avesse disposto le analisi
predette, avrebbe avuto la possibilità, riscontrando
l'alterazione dei valori della cretinina e dell'azotemia, di rendersi
conto della cattiva funzionalità renale, e quindi, sospendendo
innanzi tutto la terapia di Asacol, avrebbe reso possibile
altresì un più immediato ed efficace intervento, in tal
modo impedendo, quanto meno, l'aggravamento della patologia renale (ove
già insorta) tenuto conto dei tempi in cui intervenne il dottor
A. rispetto al momento (fine gennaio 1998) in cui fu diagnosticata
all'A. la malattia renale. E la Corte di merito ha saldamente ancorato
l'affermazione di colpevolezza del dottor A. ad oggettive circostanze e
specifici elementi probatori, in tal modo dando sicura dimostrazione di
aver espresso il proprio convincimento anche all'esito del necessario
giudizio controfattuale, secondo i criteri dettati dalle Sezioni Unite.
Ed invero, se nel novembre 1996, in occasione della visita della
dottoressa B. (l'unica che si preoccupò di richiedere esami
concernenti la funzionalità renale dell'A.), la creatinina era
di 1,5 e l'azotemia era pari a 49 (ai limiti della norma secondo i
"range" di riferimento, tanto che la dottoressa B. ritenne
indispensabile avvalersi anche della "clearance" della creatinina), e
se nel gennaio 1998 (allorquando presso l'ospedale di Varese fu poi
accertata la nefrite interstiziale) la creatinina stessa era di 3,8 (e
quindi notevolmente alterata), deve ritenersi acquisita la "certezza
processuale" che (pur se si volesse, in ipotesi, prescindere dal primo
intervento del dottor A. nel gennaio 1997, atteso che in tale
circostanza il sanitario stesso poteva aver fatto affidamento sui dati
acquisiti dalla dottoressa B., anche se comunque erano pur sempre
trascorsi circa due mesi) nel giugno del 1997 (quando il dottor A.
visitò per la seconda volta il paziente), semplici esami di
laboratorio avrebbero evidenziato - su un piano di credibilità
razionale e probabilità logica (Sez. Unite, Franzese) - un
valore di creatinina superiore a quello considerato quale parametro
normale: il che avrebbe consentito un pronto intervento con tutte le
conseguenze, favorevoli per il paziente, di cui si è sopra
detto.
Quanto alla prevedibilità dell'evento, parimenti vanno condivise
le argomentazioni svolte dalla Corte distrettuale, con qualche
ulteriore precisazione.
Non appare, invero, di decisivo rilievo il grado di conoscenza e di
diffusione, nel mondo scientifico all'epoca dei fatti in questione, per
quel che concerne la specifica nefrotossicità della "mesalazina"
(e quindi dell'Asacol), pur non potendo sottacersi che una rivista a
larga diffusione e di riconosciuto valore di informazione scientifica,
quale la Lancet, aveva comunque già dato notizia di studi
concernenti effetti nefrotossici del medicinale in argomento. Il dato
particolarmente significativo, e sicuramente rilevante, è che
già a quell'epoca il bugiardino (foglio illustrativo) allegato
alla confezione del farmaco, come pacificamente acclarato, richiamava
l'attenzione sulla funzionalità renale: orbene, non è
dato comprendere come sia possibile verificare la funzionalità
renale di un soggetto se non attraverso esami di laboratorio, peraltro
estremamente agevoli ed attuabili con un semplice prelievo di sangue
senza alcun rischio per l'integrità fisica del paziente.
Nè il dottor A. può invocare a propria giustificazione la
circostanza che solo a far tempo dal 2000 con il "bugiardino" relativo
al farmaco "de quo" è stato raccomandato il monitoraggio, in
corso di terapia, della funzionalità renale del paziente; giova
ribadire che già la semplice avvertenza (esistente nel foglio
illustrativo di quegli anni, come detto) di un uso cauto del farmaco
nei pazienti con danno renale ed epatico, con l'indicazione espressa di
evitarne l'impiego nel caso di soggetto con conclamata insufficienza
renale (come letteralmente riportato nel foglietto), imponeva uno
specifico e preventivo (oltre che periodico) controllo di detta
funzionalità (e quindi la necessità di appositi esami di
laboratorio, invece omessi) onde verificare l'eventuale sussistenza di
controindicazioni all'uso del farmaco: e ciò anche nel rispetto
degli ordinari criteri di diligenza e prudenza, la cui inosservanza
rileva anche sotto il profilo della mera colpa generica (imprudenza,
imperizia e negligenza) pure oggetto di contestazione nel capo di
imputazione.
Conclusivamente, sulla scorta di tutte le suesposte considerazioni,
appare del tutto giustificato, e corroborato dalle acquisite risultanze
processuali, il convincimento espresso dalla Corte di merito secondo
cui la condotta omissiva del dottor A. è stata condizione
necessaria dell'evento lesivo subito dal paziente A. A., con "alto o
elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità
logica" (c.d. "certezza processuale").
Avuto riguardo alla successione cronologica degli interventi del dottor
A., ed alla condotta di quest'ultimo, appare del tutto infondata la
tesi subordinata sostenuta dalla difesa secondo cui il reato contestato
all'imputato sarebbe estinto per intervenuta prescrizione. L'assunto
difensivo si basa, evidentemente, sulla individuazione della data del
30 gennaio 1997 quale momento di inizio della decorrenza del termine
prescrizionale. Detta data, tuttavia, corrisponde solo alla prima delle
occasioni nelle quali il Dottor A. ebbe modo di occuparsi direttamente
dell'A. ed omise di effettuare i controlli per verificare la
funzionalità renale del paziente. Il dottor A., infatti,
visitò l'A. ancora il 24 giugno 1997, ed anche in tale
circostanza, come pacificamente accertato, non richiese i dovuti esami
ematochimici, così ponendo in essere una condotta che
ulteriormente incise sull'evoluzione della patologia renale poi
diagnosticata all'A. nel gennaio 1998. Quanto alla terapia a base di
Asacol, nel periodo dal 24 giugno 1997 in poi, nel ricorso dell'A. si
legge testualmente (pag. 20) che quest'ultimo (in occasione, appunto,
della visita dell'A. del 24 giugno 1997) "...modificava la terapia
sostituendo l'Asacol a base di mesalazina con la terapia cortisonica" e
che (sempre il dottor A.) "...provvide al cambiamento della terapia con
quella cortisonica" (pag. 21). Orbene, dalle sentenze di primo e
secondo grado si rileva che allorquando intervenne poi la dottoressa M.
(il 7 gennaio 1998), costei sostituì la mesalazina con la
salazopirina (pag. 2 della sentenza di primo grado e pag. 5 della
sentenza d'appello). Ne deriva che, al momento dell'intervento della
dottoressa M., l'A. stava ancora assumendo l'Asacol (l'uso del verbo
sostituire non lascia spazio a dubbi di sorta in proposito), e
ciò proprio in base alle indicazioni del dottor A. come si
rileva inequivocabilmente dalla relazione della perizia collegiale in
atti, laddove a pag. 5 risulta specificato che in occasione della
visita del dottor A. del 24 giugno 1997 la terapia di Asacol fu sospesa
per due mesi (dunque solo fino a tutto agosto di quell'anno); è
documentalmente provato, quindi, che la ripresa della terapia a base di
Asacol, dopo la temporanea sospensione, era stata prevista e prescritta
dal dottor A. il 24 giugno 1997 (senza alcun controllo dei valori della
funzionalità renale, come detto).
Ne consegue che il termine prescrizionale per il reato ascritto al
dottor A., tenuto conto dell'intervento e della condotta di costui del
24 giugno 1997, a tutt'oggi non risulta ancora decorso.
2) Ricorso M..
Diversa è invece la posizione della dottoressa M., per quel che
riguarda il nesso di causalità tra la sua condotta e l'evento.
Ed invero, ferme restando tutte le considerazioni svolte in precedenza
nell'esaminare il ricorso del dottor A. e da intendersi qui
integralmente richiamate - che valgono anche per la dottoressa M.,
sotto il duplice profilo della colpa generica e specifica secondo
l'addebito a suo carico formulato - la sentenza della Corte di merito
risulta assolutamente carente sul piano motivazionale laddove è
stata affermata la riconducibilità dell'evento lesivo anche al
comportamento della M..
Risultano dagli atti pacificamente accertate le seguenti circostanze di
fatto: a) l'A. aveva iniziato la terapia con l'Asacol sin dal novembre
1995 su prescrizione del dottor G.; b) la dottoressa M. visitò
l'A. in una sola occasione, esattamente in data 7 gennaio 1998, ed in
tale circostanza sostituì l'Asacol con la salazopirina,
dimezzando la dose giornaliera; c) la nefrite interstiziale - patologia
insorta quale conseguenza della somministrazione dell'Asacol, e non
diagnosticata prima del 31 gennaio 1998 a causa della mancata verifica
(dopo il primo intervento della dottoressa B.) dei valori relativi alla
funzionalità renale con appositi esami ematochimici - fu
accertata appunto il 31 gennaio 1998 presso l'ospedale di Varese.
Muovendo dunque dalle premesse fattuali appena ricordate, la Corte di
merito, nel pronunciare sentenza di condanna a carico della dottoressa
M., avrebbe dovuto specificamente indicare - nel rispetto dei principi
enunciati dalle Sezioni Unite (innanzi più volte ricordati) in
tema di rapporto di causalità in presenza di una condotta
colposa omissiva - gli elementi processuali di significativa valenza
probatoria, nonché i dati scientifici eventualmente disponibili,
cui poter ancorare saldamente il convincimento della sussistenza del
nesso causale (è opportuno ricordare che le Sezioni Unite hanno
altresì precisato, con la sentenza Franzese, che
"l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del
riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il
ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale
efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad
altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo,
comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e
l'esito assolutorio del giudizio"). I giudici di seconda istanza
avrebbero cioè dovuto ritenere acquisite (e, di conseguenza,
specificamente indicare) risultanze processuali tali da poter
legittimare la seguente affermazione (all'esito del necessario giudizio
controfattuale); se la dottoressa M. in occasione del suo unico
intervento, 24 giorni prima che fosse diagnosticata all'ospedale di
Varese la patologia renale all'A. (il quale assumeva l'Asacol da oltre
due anni), avesse eseguito gli esami di laboratorio (in specie,
creatinina ed azotemia) finalizzati a verificare la funzionalità
renale, riscontrando valori al di fuori della norma, avrebbe, con tale
condotta (doverosa ed invece omessa) - ed in termini di "alto o elevato
grado di credibilità razionale" o "probabilità logica"
(c.d. "certezza processuale") - impedito l'insorgenza della nefrite
interstiziale, o quanto meno avrebbe evitato un significativo
aggravamento della patologia stessa rispetto al livello poi riscontrato
il 31 gennaio 1998 dai medici di Varese (i quali, a loro volta, pur in
presenza di un valore di creatinina di 3,8, sospesero la
somministrazione di Asacol solo dopo aver conosciuto l'esito della
biopsia).
La Corte distrettuale ha ritenuto di poter basare l'affermazione della
sussistenza del nesso causale, tra la condotta degli imputati
condannati e l'evento, sulla seguente considerazione: "....A. e M., per
quanto rispettivamente fatto, non hanno prestato adeguata attenzione al
rischio derivante dall'uso prolungato dei salicilati da parte di A.,
così omettendo di prescrivere quegli esami che, se
tempestivamente effettuati, avrebbero consentito o di evitare
l'insorgere della patologia o di limitarne le conseguenze negative per
la persona offesa" (così letteralmente, a pag. 10 della
sentenza). Orbene, siffatta enunciazione, se per il dottor A. ben
può ritenersi suffragata da adeguate risultanze processuali e da
argomentazioni logicamente concatenate (sulla scorta di tutto quanto
sopra evidenziato nel vagliare le censure dedotte dall'imputato),
viceversa, per la M., risulta semplicemente assertiva e del tutto priva
di un logico ed adeguato supporto motivazionale: e ciò, giova
ripeterlo, avuto riguardo alle circostanze di fatto prima ricordate (in
particolare, la data dell'unico intervento della dottoressa M.), dalle
quali non può assolutamente prescindersi per una corretta e
compiuta valutazione in ordine alla sussistenza del nesso causale tra
la condotta della M. stessa - pur certamente colposamente omissiva - e
l'evento lesivo.
Alla stregua di tutte le suesposte considerazioni, l'impugnata sentenza
deve essere dunque annullata nei confronti di M. P., con rinvio, per
nuovo esame, ad altra sezione della Corte d'Appello di Milano che si
atterrà ai principi di diritto sopra ricordati.
Al rigetto del ricorso dell'A. segue, per legge, la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali. L'A. va altresì
condannato a rifondere alla parte civile le spese del presente giudizio
che si liquidano in euro 2250,00 di cui euro 2000,00 (duemila/00) per
onorari, oltre I.V.A. e C.P.A. se dovute.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di M. P. e rinvia per nuovo
esame ad altra Sezione della Corte d'Appello di Milano.
Rigetta il ricorso di A. S. e condanna detto ricorrente al pagamento
delle spese processuali nonché a rifondere alla parte civile le
spese del presente giudizio che si liquidano in euro 2250,00 di cui
euro 2000,00 (duemila/00) per onorari, oltre I.V.A. e C.P.A. se dovute.
Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2004.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 1° DICEMBRE 2004
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