Con sentenza X, il Tribunale di Brescia (in composizione
monocratica) dichiarava P. G. e F. V. responsabili, rispettivamente, di
diffamazione aggravata a mezzo della stampa e di omesso controllo sul
contenuto della pubblicazione, in relazione ad un articolo, a firma del
P., apparso in data X sul quotidiano a tiratura nazionale “X” diretto
dal F..
L’articolo - titolato “B.: inaccettabile il pool-pensiero” e recante il
testo di una intervista rilasciata al P. dall’On. M. B. - aveva
riportato l’affermazione del giornalista secondo cui la D.ssa I. B.,
sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano,
aveva “spacciato” per “intercettazione registrata”, in una richiesta di
misura cautelare nei confronti del giudice R. S., l’appunto di un
poliziotto che aveva “origliato”, ascoltando presso il bar X di Roma
una conversazione tra il detto giudice ed il P.M. M.; al commento
dell’intervistatore P. nei seguenti termini: « ... è un
reato ... nessun P.M. si è mosso ed il C.S.M. ha escluso
responsabilità disciplinari; possono i Magistrati continuare a
comportarsi così?», era seguita la seguente sintetica
risposta dell’ intervistato: «è uno dei casi più
scandalosi che si siano registrati in questi anni».
Il Tribunale, accertato non corrispondere a verità che la D.ssa
B. avesse rappresentato come acquisite alle indagini prove date da vere
intercettazioni ambientali - riteneva l’articolo lesivo della
reputazione della D.ssa B. per risultarne ipotizzata la commissione di
un reato riconducibile alla medesima nonché la contiguità
dello stesso magistrato ad ambienti complici in punto di
impunità.
In particolare, il Tribunale escludeva la configurabilità
dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca, giudicando omesso
il necessario controllo della verità della notizia, non assolto
invero dalla presa d’atto di una non significativa interrogazione
parlamentare sulla vicenda (On. P.); escludeva, infine, anche l’ipotesi
della esimente putativa perché invocata con rinvio ad un
intervento di un componente del C.S.M., il Cons. M. P., che aveva
sì stigmatizzato la condotta processuale della D.ssa B. e,
però, aveva poi concluso riconoscendo che l’espressione
“conversazioni tra presenti”, adottata nella richiesta di misura
cautelare, non era indicativa di un fatto di intercettazione in senso
tecnico e, pertanto, «si era trattato di un equivoco».
In sostanza, il fatto reso noto non corrispondeva al vero ed era stato
enfatizzato oltre il lecito dal giornalista, mentre al direttore andava
addebitato di avere omesso il doveroso controllo sul materiale e sulle
fonti utilizzate dal primo.
Investita del gravame degli imputati - entrambi condannati alla pena di
lire 1.000.000 di multa oltre che al risarcimento del danno in favore
della parte civile - la Corte d’appello di Brescia, con la sentenza in
epigrafe, confermava i giudizi di colpevolezza.
Preliminarmente reietta l’eccezione del difetto di valida querela, la
Corte territoriale ribadiva come non rispondente al vero che la
Dott.ssa B. avesse volutamente qualificato come “intercettazioni” le
conversazioni ascoltate ed annotate dal funzionario di polizia presente
nel bar X, essendosi l’elemento di prova descritto in termini asettici
e con rinvio all’allegata relazione di servizio in punto di
modalità captative del colloquio S.-M.; e, poi, giudicava priva
di rilievo la circostanza che il G.u.p. del Tribunale di Milano e
successivamente la stessa Suprema Corte, decidendo nel procedimento
incidentale cautelare, avessero reso un’interpretazione dell’elemento
di prova nel senso di vere intercettazioni ambientali.
Osservato, quindi, che il contenuto della conversazione era stato
fedelmente riferito nella richiesta cautelare, i secondi giudici
negavano l’applicabilità alla fattispecie dell’esimente putativa
riferita all’esercizio del diritto di cronaca/critica, non giovando in
tal senso né la risposta dell’intervistato, successiva
all’affermazione diffamatoria, né il registrato intervento del
componente del C.S.M., risoltosi nella censura delle espressioni
adottate dalla Dott.ssa B. come semplicemente idonee ad indurre in
equivoco il destinatario della richiesta quando, invece, l’articolo
aveva rappresentato un fatto - reato finalizzato, in sostanza, “a
consentire l’arresto di un innocente”; e, quanto al direttore,
risultava evidente l’omissione dei controlli su fonti informative che
non legittimavano, per loro qualità e contenuto, l’attribuzione
alla Dott.ssa B. di un’ipotesi di reato.
A mezzo del comune difensore, ricorrono per cassazione gli imputati
chiedendo l’annullamento, con o senza rinvio, della sentenza di secondo
grado.
Deducono entrambi: 1) violazione di legge quanto alla ritenuta
validità della querela; 2) erronea applicazione della legge
penale ovvero motivazione mancante o manifestamente illogica in punto
di disconoscimento della scriminante del diritto di critica e di
cronaca anche sotto il profilo della putatività; 3) quale motivo
concernente, in realtà, il solo F., difetto di motivazione
quanto al giudizio di omesso controllo sull’attendibilità delle
fonti informative utilizzate dal giornalista.
Il primo motivo di gravame - che tratta una questione pregiudiziale -
deve essere disatteso.
Riconoscono gli stessi ricorrenti, invero, che l’atto sottoscritto
dalla persona offesa recava non soltanto la mera esposizione dei fatti
(costituenti obiettivamente le ipotesi di reato contestate) ma,
altresì, la dichiarazione di volere sporgere “querela” in ordine
ai medesimi, e tanto basta, come ha correttamente osservato la Corte
territoriale, per ritenere, nella specie, la condizione di
procedibilità dei reati.
Fermo, invero, che, in punto di validità della proposizione
della querela (art. 336 cod. proc. pen.), la legge non prescrive
formule particolari, consentendo al giudice di valutare l’atto nel suo
insieme per cogliere l’effettiva volontà del querelante (v. fra
le tante: Cass. Sez. V, 28.4.2004 n. 26635, Berardini; Cass. Sez. V,
24.1.2001 n. 10543, P.G. in proc. Altomare N.), l’apprezzamento di
un’effettiva volontà di querelarsi, seppure non ulteriormente
esplicitata nell’enunciazione della volontà di punizione del
colpevole, risulta nella specie giudizio di merito, insindacabile in
sede di legittimità, perché reso in conformità ai
canoni logico - giuridici di ermeneutica; cui non possono i ricorrenti
fondatamente opporre il difetto della dichiarazione di “volere la
punizione”, trattandosi di espressione semplicemente alternativa ed in
ogni caso equipollente a significare - in linea con la natura di
condizione di procedibilità propria dell’atto - la
volontà che venga instaurato un procedimento penale per la
punizione di un fatto ritenuto penalmente rilevante.
Il secondo motivo è infondato laddove sostiene l’oggettiva
esistenza della esimente del diritto di cronaca/critica.
Come’è noto, infatti, perché ricorra tale scriminante,
occorre, in primo luogo, che il fatto riferito corrisponda a
verità.
Va premesso che la parte oggettivamente diffamatoria dell’articolo di
stampa nei confronti della Dott.ssa B. è stata ravvisata, dalla
gravata sentenza, nella rappresentazione di una condotta illecita e
decettiva tenuta da tale magistrato nell’asserire, a sostegno della
richiesta di emissione di ordinanza di custodia cautelare, la
sussistenza di gravi indizi di colpevolezza tratti da una
“intercettazione registrata” mentre in realtà i medesimi
fondavano su appunti presi da “un poliziotto che origliava”; tanto
è, infatti, quanto si legge nel capo di imputazione, all’interno
del quale si rinviene altresì l’addebito che il giornalista
avrebbe così insinuato “pesanti sospetti sulla conduzione delle
indagini da parte dell’inquirente”.
L’ulteriore accenno alla circostanza che, a fronte di tale
rappresentata condotta, “nessun P.M.” si era “mosso”, ed il C.S.M.
aveva escluso responsabilità disciplinari, non ha oggettiva
valenza diffamatoria nei confronti del magistrato, risultando presa in
considerazione, tale circostanza, unicamente in sede di esame della
posizione del direttore del quotidiano per evidenziare, in termini
puramente congetturali - riconoscibili per tali nell’espressione “con
chiaro sottinteso” - una sorta di difesa corporativa oltre il lecito e
tale da trasmodare in una forma di connivenza o complicità che,
oltretutto, si risolverebbe essenzialmente in un addebito denigratorio
mosso a persone ed organi diversi dalla querelante.
Tanto rilevato e precisato, va osservato che, nella specie, l’impugnata
sentenza ha evidenziato, con motivazione del tutto puntuale, le ragioni
per le quali la notizia pubblicata - e cioè la rappresentazione,
da parte del P.M., nella richiesta al giudice per le indagini
preliminari, di emissione di un provvedimento restrittivo, come
risultati di “intercettazione ambientale” elementi che in gran parte
costituivano il contenuto di una mera percezione auditiva dell’agente
di P.G., occasionalmente presente, di frasi profferite all’interno del
bar X (in un colloquio fra il giudice R. S. ed il P.M. M.) - difettava
del requisito di corrispondenza al vero.
Si è dato atto in sentenza, infatti, per incensurabile
acquisizione in fatto, che il P.M. non aveva fatto cenno, nella
richiesta indirizzata al G.i.p., ad “intercettazioni ambientali” tout
court, bensì aveva evidenziato quanto emerso da “conversazioni,
tra presenti”, espressione, questa, che richiama il contenuto di un
colloquio diretto ma non esplicita ex se le modalità di sua
percezione da parte di terzi; e, ciò, in un contesto descrittivo
comunque corredato dall’annotazione di servizio dell’ispettore V.,
indicativa di ognuna delle distinte modalità attraverso le quali
il contenuto del colloquio era stato percepito, sicché
documentalmente emergeva la coesistenza sia di annotazioni eseguite dal
pubblico ufficiale in ordine a quanto acquisito de auditu sia di
captazione a mezzo di registratore e di microspia.
Pertanto, il richiamo, operato dalla Dott.ssa B., ad elementi
indizianti emersi da una “conversazione tra presenti intervenuta alle
ore 12 del 2 marzo X all’interno del bar X” risultava cosa ben diversa
dall’attribuita rappresentazione, da parte del P.M., di elementi
indiziari tratti, interamente, da una intercettazione ambientale (per
tale “spacciata”).
Le argomentazioni dei ricorrenti volte a sostenere, invece, la
verità del fatto oggetto della pubblicazione, sono prive di
consistenza perché ignorano i dati oggettivi esposti e
valorizzati sul punto dal giudice di merito e, segnatamente, fra
questi, l’esatto contenuto letterale della richiesta formulata dalla
Dott.ssa B., per diffondersi viceversa sulle dichiarazioni rese dal
Dott. M. (uno dei loquentes nel colloquio captato), la manifesta
irrilevanza delle quali in ordine al punto in oggetto è stata
chiaramente evidenziata dai secondi giudici con argomentazioni immuni
da vizi di sorta ed opposte, in questa sede, unicamente veicolando una
personale rilettura delle dichiarazioni del M., volta a sostenere che
costui sarebbe stato chiamato a rispondere di fatti la cui prova
sarebbe stata fondata sui risultati del semplice ascolto da parte
dell’ispettore V. (circostanza, questa, smentita dall’insindacabile
affermazione in fatto dei secondi giudici, con preciso richiamo
all’atto processuale interessato).
Fondato, viceversa, è tale secondo motivo in ordine al diniego
della esimente putativa del diritto di cronaca/critica.
Ed invero, non può in primis non rilevarsi che l’espressione
“conversazione tra presenti” effettivamente adottata dal P.M. (e, per
vero, non contemplata dal codice di rito che, a proposito di
intercettazioni ambientali, usa il termine “comunicazioni” tra
presenti) si presta oggettivamente ad una lettura equivoca circa la
pregnanza dell’elemento indiziante evidenziato in relazione alle
concrete modalità acquisitive del medesimo, ed è
parimenti innegabile che se - come si legge nella sentenza gravata di
ricorso - detta espressione può essere stata “eventualmente”
male interpretata dal G.u.p., dal Tribunale di Milano e dalla stessa
Suprema Corte di Cassazione, analoga possibilità di
(incolpevole) errore interpretativo non può essere esclusa in
capo al giornalista.
Tanto premesso, va rilevato che la Corte territoriale ha escluso la
configurabilità della esimente putativa sulla base di una
duplice argomentazione: 1) a sostegno della convinzione di
verità della notizia non poteva essere richiamato il sintetico
commento dell’intervistato, l’On. B., sia perché detto commento
è “successivo alla diffamazione posta in essere con le parole
precedenti”, sia perché il medesimo null’altro avrebbe attestato
se non una personale opinione del soggetto intervistato; 2) neppure le
dichiarazioni del Cons. P., componente del C.S.M., rese nel
procedimento concernente la condotta processuale dell’inquirente,
potevano concorrere a fondare la soggettiva convinzione del giornalista
circa la verità del fatto riferito, avendo il P. non già
sostenuto che la Dott.ssa B. avesse commesso un reato nell’esercizio
delle proprie funzioni, bensì convenuto circa l’adozione di un
linguaggio oggettivamente idoneo ad indurre in errore il G.u.p., la
Cassazione e gli organi di informazione senza avere poi chiarito
l’equivoco formatosi sul punto.
A giudizio di questa Corte, invece, dette argomentazioni - così
come articolate - convergono nell’evidenziare la piena sussistenza
della esimente del diritto di cronaca sotto il profilo putativo.
Quanto all’argomento sub 1), invero, va anzitutto osservato che
è manifestamente illogica l’affermazione secondo la quale,
poiché il commento dell’On. B., segue, nel testo dell’articolo,
all’affermazione dell’intervistatore secondo cui il P.M. aveva
“spacciato per intercettazione telefonica l’appunto di un poliziotto
che origliava” e, poiché la “condotta processuale”
dell’inquirente non aveva avuto conseguenze sul piano penale ovvero su
quello disciplinare, “l’avallo” dell’intervistato non avrebbe avuto
influenza alcuna sulla convinzione di verità del fatto espressa
dall’intervistatore nell’articolo.
È sin troppo agevole rilevare, al riguardo, che “l’avallo” ha
preceduto la pubblicazione della notizia e che è al momento
della pubblicazione - e non già alle scansioni temporali interne
al dialogo formatosi fra intervistatore ed intervistato - che occorre
avere riguardo ai fini di apprezzamento della sussistenza o meno della
esimente putativa in oggetto.
Ciò posto, non può fondatamente revocarsi in dubbio, al
riguardo, che la formulazione della risposta fornita dall’intervistato
nei termini riportati in capo d’imputazione avesse - perché non
proveniente da un quivis de populo, bensì da un soggetto
qualificato come relatore della Commissione Bicamerale sui problemi
della giustizia, in tale veste interpellato - una seria valenza
rafforzativa della veridicità della notizia agli occhi
dell’intervistatore (e quale dallo stesso appresa).
L’avere il P. intervistato sull’argomento in questione, prima di
pubblicare l’articolo recante notizia del fatto, un soggetto
particolarmente qualificato ed autorevole - che, nell’esprimere la
propria “opinione”, ha implicitamente dato per pacifico il fatto stesso
- rappresenta, indubbiamente, un momento di accurata attività di
controllo sulla verità della notizia percepita quale esigibile
dal giornalista, cui questi - peraltro corrispondente al vero la
circostanza che “il caso” era stato portato all’attenzione del C.S.M. -
ha aggiunto, in sostanza, niente più che una valutazione
strettamente conseguente alla perentoria affermazione
dell’intervistato, sicché può dirsi giustificato il
convincimento dell’intervistatore ed autorizzato, nel contesto
dell’intervista, il commento, anche in toni provocatorii (è un
“reato”), a chiusura di rappresentazione di un fatto grave e come tale
confermato.
Quanto, poi, all’argomento sub 2), va considerato che la sentenza
gravata riconosce che il Cons. P., componente del C.S.M.,
rimproverò comunque all’inquirente l’uso di un linguaggio
“oggettivamente idoneo ad indurre in errore il G.u.p., la Cassazione e
gli organi di informazione”, nonché il mancato successivo
chiarimento “dell’equivoco” insorto, cosicché tale fonte, anche
questa accreditata ed autorevole e, comunque, sicuramente non priva di
affidabilità in relazione alla qualità del soggetto,
costituiva elemento ulteriore di ragionevole convinzione, in capo al
giornalista, di una non corretta condotta processuale tenuta dal P.M.
nel compimento di uno specifico atto funzionale; né rileva, in
senso contrario, la circostanza dell’intervenuta archiviazione del caso
da parte del C.S.M., posto che la sentenza impugnata non afferma che
l’esito archiviatorio sia conseguito ad una rilevata infondatezza del
rilievo mosso dal citato Cons. P. sull’equivocità e sulla
possibile attitudine decettiva dell’espressione usata dal magistrato
inquirente nella richiesta cautelare.
A ciò deve aggiungersi - a sostegno del giudizio di
operatività dell’esimente per essere il P., pure affidatosi a
fonti informative affidabili, incorso in involontario errore sulla
verità del fatto narrato - che il medesimo, come emerge dalla
stessa sentenza, era stato ritenuto addirittura degno di formare
oggetto di un’interrogazione parlamentare.
In sostanza, all’esito di un esame cumulativo - e non frazionato, come
viceversa risulta nella sentenza impugnata - degli stessi elementi di
fatto rappresentati dal giudice di merito ed attinenti alla genesi
della pubblicazione dell’articolo di stampa, emergono gli estremi di un
incolpevole ed involontario errore percettivo del giornalista sulla
corrispondenza al vero del fatto esposto, con esenzione da
responsabilità; questa applicandosi, infatti, allorché,
come nella specie, in esito ad un accurato controllo della notizia
appresa da più fonti informative, saggiata la verità
della stessa mediante contatto e riferimento a fonti di sicura
qualità ed affidabilità, il giornalista abbia reso un
fatto contra verum per errore “incolpevole” o “assolutamente scusabile”
(v., Cass. Sez. V, 26.10.1998 n. 11199, Mattana ma, anche, Cass. Sez.
V, 5.2.97 n. 891, Mordenti ed altro, e Cass. Sez. V, 5.12.90 n. 16092,
Milani).
Donde la piena applicabilità alla fattispecie concreta della
esimente putativa invocata (artt. 51 e 59 cod. pen.), in presenza degli
ulteriori requisiti richiesti dalla giurisprudenza di
legittimità, costituiti dall’interesse sociale alla notizia
(cosiddetta “pertinenza”) e dalla correttezza del linguaggio usato
(cosiddetta “continenza”). Ed invero, sotto il primo profilo,
l’interesse sociale alla diffusione della notizia è
assolutamente evidente in ragione della riferibilità della
medesima ad un procedimento penale coinvolgente pesantemente magistrati
in vicende corruttive e che, dunque, riproponeva il tema della corretta
amministrazione della giustizia e della stessa sua credibilità
e, sotto il secondo profilo, né la (pure infondata) affermazione
dell’articolista secondo la quale l’inquirente avrebbe configurato un
non perseguito reato, né l’adozione del termine “spacciare” -
per quanto aspro e particolarmente incisivo - integrano una violazione
del principio di continenza, rappresentando la prima affermazione
(negli esposti termini “è un reato”) soltanto una personale
opinione del giornalista e la seconda una, sia pur sgradevole,
espressione figurata, quasi dettata conseguenza della rappresentazione
(come già detto incolpevole) della prospettazione probatoria di
un aliud pro alio da parte dell’organo inquirente.
Giovando qui precisare, conclusivamente sul punto, che tutti i richiami
alle “insinuazioni” ed ai “sottintesi” dell’articolista, contenuti nel
capo di imputazione e ripresi in sentenza, risultano, per le ragioni
già esposte, recessivi rispetto al fine sotteso, dal momento che
essi costituiscono in ogni caso la mera conseguenza, presso la platea
dei lettori, dell’esposizione di un fatto incolpevolmente ritenuto
corrispondente ad veritatem, di interesse sociale ed espresso in
termini che, sia pure fortemente critici, non eccedono il limite della
continenza.
Non dissimili argomentazioni valgono in relazione al giudizio di
colpevolezza del direttore del quotidiano F. V. per omesso controllo
sulla pubblicazione, fatto oggetto di censura con il terzo motivo di
ricorso.
Il direttore, infatti, disponeva delle medesime informazioni che erano
state utilizzate e poste a base dell’articolo di stampa pubblicato, ed
il suo specifico dovere di controllo, tenuto conto che l’articolo
riproduceva il testo di un’intervista, si esauriva nella verifica di
fedele trascrizione delle dichiarazioni dell’intervistato e di piena
affidabilità delle fonti stesse quale emergente dal contenuto e
dal tenore stesso dell’articolo, sì che non possono ravvisarsi
nella fattispecie - non vedendosi quali diverse ed ulteriori verifiche
il F. avrebbe dovuto operare nel caso concreto - quei profili di colpa
in omittendo che integrano l’autonomo reato del direttore previsto
dall’art. 57 cod. pen.; né la circostanza, riferita
nell’articolo e dunque non ignorata dal direttore, della sopravvenuta
archiviazione da parte del C.S.M., può essere logicamente spesa
- come pure si legge nella sentenza gravata - come dimostrativa
dell’abdicazione o dell’inosservanza al dovere di controllo, valendo in
definitiva anche per tale soggetto ed in relazione alla condotta
omissiva ascrittagli, l’erronea ma incolpevole convinzione della
verità (indipendente, per le ragioni già illustrate,
dall’esito archiviatorio) del fatto pubblicato.
L’impugnata sentenza, pertanto, dovrà essere annullata senza
rinvio - ricorrendo l’ipotesi di superfluità di cui alla lettera
l) dell’art. 620 cod. proc. pen., in quanto tutti gli elementi
probatori risultano già acquisiti agli atti, né si rende
necessaria una nuova valutazione che non sia di tipo strettamente
tecnico - giuridico (come direttamente operata da questa Corte) -
perché il fatto ascritto agli imputati non è punibile ai
sensi degli artt. 51 e 59 cod. pen..
P.Q.M.
La Corte, annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il
fatto non è punibile ai sensi degli artt. 51 e 59 cod. pen..
Roma in pubblica udienza il 9.7.2004.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 23 SETTEMBRE 2004
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