Cass. pen., sez. V, 23 maggio 2005, n. 19473, sulla
scriminante dell'attività sportiva e gioco del calcio
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 27 settembre 1999, il Tribunale di Venezia dichiarava
Da. Fa. colpevole del reato di lesioni volontarie aggravate, ai sensi
dell'art. 582, 583, comma 2, n. 3, c.p. (per avere cagionato a An. Da.
Ar., colpendolo violentemente con una gomitata all'addome, nel corso di
una partita di calcio, una lesione gravissima dalla quale derivava la
perdita dell'uso dell'organo della milza) e - con la concessione delle
attenuanti generiche, prevalenti sulla contestata aggravante - lo
condannava alla pena di mesi otto di reclusione, nonché al
risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, da
determinarsi in separata sede, con provvisionale liquidata in lire
20.515.600, oltre consequenziali statuizioni di legge.
La vicenda processuale riguardava un episodio accaduto il 3.3.1995
durante un incontro di calcio del campionato Eccellenza tra le squadre
Nu. Sa. e Je. 91. Sugli sviluppi di un calcio d'angolo, An. Da. Ar.,
portiere dello Je., aveva respinto, in elevazione, il pallone e subito
dopo, in fase di ricaduta, era stato colpito dal Da. Fa. giocatore
avversario, con una gomitata all'addome. Immediatamente soccorso, lo
stesso An. Da. Ar. era stato trasportato all'Ospedale di X dove, otto
giorni dopo, aveva subito la splenectomia e la saturazione di una
perforazione intestinale.
Pronunciando sul gravame proposto dal difensore dell'imputato, la Corte
d'Appello di Venezia riformava, in parte, l'appellata decisione,
dichiarando non doversi procedere nei confronti del Da. Fa.
perché il reato ascrittogli era estinto per intervenuta
prescrizione. Confermava le disposizioni relative all'azione civile,
con ulteriori statuizioni di legge.
Avverso l'anzidetta pronuncia lo stesso difensore e l'imputato
personalmente propongono ora distinti ricorsi per cassazione, deducendo
le ragioni di censura in parte motiva indicate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Il primo motivo di ricorso proposto dal difensore denuncia
mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla
dinamica della vicenda, ricostruita sulla base di deposizioni
testimoniali contrastanti e senza dar conto, peraltro, dei molteplici
rilievi mossi nell'atto di appello.
Il secondo motivo denuncia violazione dell'art. 606 lett. e) del codice
di rito, nonché mancanza e, comunque, manifesta
illogicità della motivazione in ordine a quella stessa dinamica,
in palese contrasto con univoche risultanze testimoniali.
Il terzo motivo denuncia identica violazione dell'art. 606 lett. e) del
codice di rito con riferimento alla ritenuta volontarietà della
duplice lesione della milza e dell'intestino, nonostante le precise
affermazioni del dr. Da. Ol., il chirurgo che aveva operato la parte
offesa.
Il quarto motivo eccepisce la violazione dell'art. 606 lett. b) ed e)
del codice di rito in relazione agli artt. 50 e 51 c.p. ed alle cause
di giustificazione non codificate; nonché errata interpretazione
ed applicazione della legge penale od illogicità della
motivazione. Contesta, in particolare, la qualificazione giuridica del
fatto come reato doloso, insistendo, altresì, per la richiesta
di applicazione delle scriminanti di cui agli artt. 50 e 51 c.p.
(consenso dell'avente diritto ed esercizio di un diritto) ovvero di
quelle, atipiche e non codificate, dell'esercizio dell'attività
sportiva e dell'azione socialmente adeguata, sulla base, peraltro, di
autorevoli insegnamenti di questo Giudice di legittimità.
Il quinto motivo denuncia violazione dell'art. 606 lett. b) c.p.p. in
relazione agli artt. 582, 590 c.p.; errata interpretazione ed
applicazione della legge penale sul gradato rilievo che, nel caso di
specie, sarebbe stata, semmai, ravvisabile una fattispecie colposa, ai
sensi dell'art. 590 c.p..
Il primo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato
riproduce, in buona sostanza, le censure già espresse nel
ricorso del difensore, sotto il profilo del difetto motivazionale, in
ordine alla lettura delle risultanze testimoniali.
Il secondo motivo eccepisce inosservanza o erronea applicazione della
legge penale, ai sensi dell'art. 606, lett. b) del codice di rito, sul
riflesso, fondato anche su diversi richiami giurisprudenziali di
legittimità e di merito, che, nel caso di specie, sarebbe
operante la scriminante del consenso dell'avente diritto nell'ambito
del rischio consentito che ogni giocatore conosce ed accetta e che
l'ordinamento non punisce per l'interesse pubblico sotteso alla pratica
sportiva.
2. - Le censure relative alla motivazione ed alla metodologia di
lettura delle risultanze di causa, che sostanziano i motivi primo,
secondo e terzo del ricorso proposto dal difensore ed il primo motivo
del ricorso dell'imputato, valutate globalmente per identità di
ratio, devono essere disattese in quanto si risolvono in censure di
merito. Peraltro, la dinamica del sinistro, nelle sue particolari
modalità, risulta delineata sulla base di un'argomentazione
immune da incongruenze di sorta. Dal coacervo delle motivazioni della
sentenza di primo e di secondo grado, che, in quanto convergenti in
punto di penale responsabilità, si integrano vicendevolmente,
costituendo una sola entità giuridica, risulta infatti accertato
che le gravi conseguenze fisiche patite dal
An. Da. Ar. sono riconducibili alla gomitata inferta dal Da. Fa., nel
corso di un'azione di gioco. Il dato sostanziale, emerso pacificamente
dalle risultanze processuali, al di là delle segnalate
divergenze su particolari ininfluenti e marginali, depone
incontrovertibilmente per l'ascrivibilità del fatto allo stesso
imputato e per l'accidentalità dell'evento nell'ambito di
un'ordinaria fase di gioco, non essendo emerso da alcunché che
il colpo sia stato inferto deliberatamente od in un diverso contesto,
vale a dire a gioco fermo, con lo specifico e diretto intendimento di
aggredire la persona offesa.
In questa sede di legittimità risultano, allora, insindacabili
la ricostruzione della dinamica dell'incidente, la determinazione
dell'evento lesivo e la sua riconducibilità all'azione violenta
del Da. Fa.. L'esistenza di un idoneo apparato giustificativo a
fondamento della versione dei fatti prescelta dal giudice del merito
non lascia, dunque, spazio all'apprezzamento delle doglianze di parte,
neanche sotto il profilo scientifico relativo a natura ed eziologia
delle lesioni riportate dalla persona offesa, a fronte delle
dichiarazioni - giustamente valorizzate - del consulente di parte
civile e del chirurgo che aveva operato il An. Da. Ar..
Le censure di parte vanno, poi, disattese nella misura in cui, sono
intese alla contestazione del mancato rilievo dell'art. 129 c.p.p., a
fronte della causa estintiva maturata per decorso del termine
prescrizionale, ed alla richiesta di relativa applicazione in questa
sede di legittimità.
E' ius receptum, infatti, che l'art. 129 c.p.p. - come, del resto,
è fatto palese dal significato letterale delle locuzioni usate
dalla stessa norma - postula che, in presenza di una causa di
estinzione del reato, il giudice debba privilegiare la pronuncia di
proscioglimento nel merito, con formula corrispondente, soltanto quando
dagli atti di causa risulti evidente - e, dunque, con rilievo
percettivo ictu oculi - che il fatto non sussiste o che l'imputato non
lo ha commesso e che il fatto non costituisce reato o non è
previsto dalla legge come reato (cfr. Cass. n. 48527 del 18.11.2003,
rv. 228505, secondo cui la valutazione che, in proposito, deve essere
compiuta dal giudice appartiene più al concetto di constatazione
che a quello di apprezzamento; con la conseguenza che, qualora le
risultanze processuali siano tali da condurre a diverse ed alternative
interpretazioni, senza che risulti evidente la prova
dell'estraneità dell'imputato al fatto criminoso, non può
essere applicata la regola di giudizio ex art. 530, comma secondo cod
.proc. pen., la quale equipara la prova incompleta, contraddittoria od
insufficiente alla mancanza di prova, ma deve essere dichiarata la
causa estintiva della prescrizione). La Corte di merito ha
correttamente applicato tale principio giurisprudenziale rilevando che
non risultava evidente in atti alcuna situazione sostanziale che
potesse giustificare il proscioglimento in merito del Fa., da
privilegiare rispetto alla declaratoria della causa estintiva del reato
per prescrizione.
Risultano, invece, fondate, nei soli termini di seguito indicati, le
doglianze di parte, espresse nei motivi quarto e quinto del ricorso del
difensore e nel motivo secondo dell'impugnazione dello stesso imputato,
relativamente alla qualificazione giuridica del fatto in questione.
Profilo questo che, nell'economia del giudizio, mantiene la sua
rilevanza anche in presenza di una causa estintiva, per la ricaduta
che, agli effetti civili, assume la caratterizzazione giuridica ai fini
della determinazione del quantum risarcitorio.
Orbene, in materia di lesioni personali derivanti dalla pratica dello
sport, le elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali hanno, da tempo,
definito i contorni della nozione di illecito sportivo, nozione che
ricomprende tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni
delle regole che governano lo svolgimento di una certa disciplina
agonistica, non sono penalmente perseguibili, neppure quando risultano
pregiudizievoli per l'integrità fisica di un giocatore
avversario, in quanto non superano la soglia del c.d. rischio
consentito. Si tratta di un'area di non punibilità, la cui
giustificazione teorica non può che essere individuata nella
dinamica di una condizione scriminante. Il quesito interpretativo se
l'esimente in questione debba essere ricondotta al paradigma del
consenso dell'avente diritto, di cui all'art. 50 c.p., e dunque
all'ambito concettuale di una tipica causa di giustificazione prevista
dal sistema positivo, ovvero all'area delle cause di giustificazione
c.d non codificate è stato risolto dalla giurisprudenza di
questa Suprema Corte nel secondo senso, in considerazione
dell'interesse primario che l'ordinamento statuale riconnette alla
pratica dello sport (cfr., tra le altre, Cass. sez. 4, 12.11.1999, n.
2765, rv. 217643; id., sez. 5, 2.6.2000, n. 8910, rv 216716). Tale
interpretazione deve essere certamente ribadita, vuoi perché la
riconducibilità ad una tipica causa di giustificazione
comporterebbe non trascurabili problemi di coordinamento con il
generale principio della non disponibilità di beni giuridici
fondamentali, quali la salute od anche la vita, dotati, certamente, di
valenza costituzionale, vuoi perché, in effetti, alla pratica
sportiva l'ordinamento giuridico assegna un ruolo di assoluto rilievo.
La considerazione privilegiata attiene sia ad una duplice prospettiva,
sia individuale, sul piano della tutela della persona, sia di carattere
sociale: entrambe meritevoli di protezione.
Sotto il primo profilo, rileva la funzione altamente educativa dello
sport, soprattutto agonistico, sotto forma non solo di cultura fisica,
ma di educazione del giovane praticante al rispetto delle norme ed
all'acquisizione della regola di vita secondo cui il conseguimento di
determinati obiettivi (quale può essere la vittoria di una gara
o il miglioramento di record personale) é possibile solo
attraverso l'applicazione, il sacrificio e l'allenamento e,
soprattutto, deve essere il risultato di tali componenti, senza callide
o pericolose scorciatoie. Ed in tale prospettiva, lo sport diventa
anche formidabile palestra di vita, preparando i giovani ad affrontare,
con lo spirito giusto, la grande competizione della vita che li attende
e per la quale saranno, certamente, meglio attrezzati ove
interiorizzino valori come sacrificio, applicazione, rispetto delle
regole e del prossimo.
La valenza positiva dello sport la si coglie, in modo più
vistoso, in chiave sociale, con riferimento alle discipline di squadra,
in quanto al valore del benessere fisico, si accompagna quello della
socializzazione, con evidente ricaduta nella sfera di previsione
dell'art. 2 della Carta Costituzionale, alla luce del riferimento alle
formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità, tra le
quali sono certamente da ricomprendere anche le associazioni sportive.
Senza dire, poi, dell'ulteriore profilo di utilità sociale
connesso al fatto che lo sport può aiutare le istituzioni a
distogliere i giovani da pericolose forme di devianza.
Funzionale al perseguimento di questi valori è il principio di
lealtà e di rispetto dell'avversario, codificato mediante regole
tassative che ciascun atleta, al momento del tesseramento, accetta
consapevolmente, impegnandosi alla rigorosa osservanza, a pena di
specifiche sanzioni. Non a caso tutti i regolamenti delle federazioni
sportive annoverano tra i principi fondamentali quello della
lealtà e della correttezza, che costituisce valore fondante di
ciascun ordinamento.
Orbene, proprio sulla base di tali principi è stata ritagliata
la nozione di illecito sportivo, con riferimento all'inosservanza, sia
dei canoni di condotta generalmente previsti per ciascuna disciplina
(ad esempio, determinate tipologie comportamentali anche estranee alla
competizione vera e propria; tesseramenti fraudolenti od iniziative
volte ad alterare il regolare svolgimento di una gara ed altro ancora),
sia delle specifiche regole di gioco che devono essere osservate
nell'agone sportivo e che compongono la parte tecnica del regolamento
di ciascuna federazione. L'area del rischio consentito deve ritenersi
coincidente con quella delineata dal rispetto di quest'ultime regole,
che individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla
normazione secondaria (cioè dal regolamento sportivo), il limite
della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve
avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare,
in forma agonistica, un determinato sport. Le regole tecniche mirano,
infatti, a disciplinare l'uso della violenza, intesa come energia
fisica positiva, tale in quanto spiegata - in forme corrette - al
perseguimento di un determinato obiettivo, conseguibile vincendo la
resistenza dell'avversario, (quale può essere l'impossessamento
di un pallone conteso o la realizzazione di un goal nel calcio,
calcetto, hockey, pallanuoto, pallamano; di un canestro nel basket o di
una meta nel rugby et similia; o ancora il superamento dell'avversario
nel pugilato, nella lotta ed altro ancora).
Posto che l'uso della forza fisica, nel senso anzidetto, può
essere causa di pregiudizi per l'avversario che cerchi di opporre
regolare azione di contrasto, il rispetto delle regole segna il
discrimine tra lecito ed illecito in chiave sportiva. Ma neppure in
ipotesi di violazione di quelle norme, tale da configurare illecito
sportivo, viene travalicata l'area del rischio consentito, ove la
stessa violazione non sia volontaria, ma rappresenti, piuttosto, lo
sviluppo fisiologico di un'azione che, nella concitazione o trance
agonistica (ansia del risultato), può portare alla non voluta
elusione delle regole anzidette. Tutte le volte in cui quella
violazione sia, invece, voluta, e sia deliberatamente piegata al
conseguimento del risultato, con cieca indifferenza per l'altrui
integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del
rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si
entra nell'area del penalmente rilevante, con la duplice prospettiva
del dolo o della colpa. Il dolo ricorre quando la circostanza di gioco
è solo l'occasione dell'azione volta a cagionare lesioni,
sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica
(per ragioni estranee alla gara o per pregressi risentimenti personali
o per ragioni di rivalsa, ritorsione o reazione a falli precedentemente
subiti, in una logica dunque punitiva o da contrappasso).
E' evidente che, ai fini dell'indagine in questione, risulta decisivo
accertare se il fatto si sia o meno verificato nel corso di una tipica
azione di gioco, in quanto in ipotesi alternativa ricorre sempre una
fattispecie dolosa.
Quando, invece, la violazione delle regole avvenga nel corso di
un'ordinaria situazione di gioco, il fatto avrà natura colposa,
in quanto la violazione consapevole è finalizzata non ad
arrecare pregiudizi fisici all'avversario, ma al conseguimento - in
forma illecita, e dunque antisportiva - di un determinato obiettivo
agonistico, salva, ovviamente, la verifica in concreto che lo
svolgimento di un'azione di gioco non sia stato altro che mero pretesto
per arrecare, volontariamente, danni all'avversario.
Orbene, applicando tali principi alla fattispecie in esame, è
agevole rilevare che dall'esposizione della sentenza impugnata,
integrata, per quanto di ragione, dalla motivazione di primo grado, non
emerge alcun elemento - neppure dalle dichiarazioni della persona
offesa - che potesse indurre a ritenere che il Da. Fa. avesse
profittato delle circostanze di tempo e luogo per colpire
deliberatamente il An. Da. Ar. sull'impulso di motivazioni estranee
allo svolgimento della partita.
E' risultato, inoltre, che il fatto lesivo ha avuto luogo nel corso di
un'ordinaria azione di gioco, sugli sviluppi di un corner, nella tipica
situazione che si verifica quando il pallone, dopo la battuta del
calcio d'angolo, spiove in area avversaria e viene conteso dal portiere
e dagli altri giocatori. Nello specifico, il An. Da. Ar. in elevazione,
era saltato più in alto degli avversari e, sia pure contrastato,
era riuscito a respingere la sfera e poi, in fase di ricaduta, aveva
subito l'azione fallosa del Da. Fa. che lo aveva colpito con una
gomitata.
Quindi, certa la circostanza di gioco, certa l'azione fallosa per
violazione di una specifica regola di gioco (tipico fallo sul portiere)
ed altrettanto certo l'effetto lesivo, non risulta indicata prova
alcuna che l'impatto sia stato volontariamente inteso ad arrecare
pregiudizio all'integrità fisica dell'avversario, piuttosto che
evento conseguente ad un'intempestiva azione di contrasto (il portiere
aveva già colpito il pallone) caratterizzata da salto scomposto
(con le braccia allargate ed i gomiti alzati) ovvero da volontaria
violazione di regole di gioco (fallo da frustrazione) non accompagnata
però da univoca volontà di ledere. In questa logica, la
parte motiva della sentenza impugnata offre un elemento di particolare
pregnanza che, riduttivamente, è stato valorizzato dal giudice
di merito, al solo fine di ribadire il giudizio di
riconducibilità del fatto lesivo al Da. Fa.. E cioè la
circostanza che, al termine della partita, l'atleta si sia recato
prontamente nello spogliatoio avversario per sincerarsi delle
condizioni del An. Da. Ar., ad eloquente riprova, ancorché
postuma, non solo che era stato proprio lui l'autore del fallo, ma,
soprattutto, che non v'era stato alcun pregresso risentimento od alcuna
volontà di far male.
2. - Per tutto quanto precede, il fatto lesivo per cui è causa
deve essere riqualificato, ai sensi dell'art. 590, c.p., come fatto
colposo, con conseguente statuizione nei termini indicati in
dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l'impugnata sentenza limitatamente alla
qualificazione giuridica del fatto che qualifica come reato di lesioni
colpose. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 20 gennaio
2005.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 23 MAGGIO 2005
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