Aggiornamento - Penale

Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, Sentenza del 16 gennaio 2002 n.
           1588 in materia di responsabilità del datore di lavoro anche in caso di colpa del
           lavoratore fino ai casi limite di condotte inopinabili, imprevedibili e esorbitanti del
           lavoratore 
 

                                   SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

           1 - Il difensore di A. R. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza, in data
           9 ottobre 2000, della Corte di Appello di Caltanissetta che ha confermato la sentenza, in
           data 19 giugno 1998, del tribunale di Gela, il quale ha affermato la penale responsabilità
           del R., nella sua qualità di responsabile e amministratore unico della ditta omonima, per il
           reato di omicidio colposo, aggravato della violazione delle norme antinfortunistiche, in
           danno di F. C.
           2 - Questi, il 31 marzo 1988, in gela, nel corso dei lavori, per la costruzione di un
           collettore delle fogne cittadine, dati in appalto alla ditta X., era sceso nella trincea che
           era stata scavata per porvi a dimora un tratto della tubazione fogniaria, scavo che, in
           quel momento, - i lavori erano stati interrotti per un guasto al mezzo meccanico con il
           quale si stavano eseguendo - aveva raggiunto la profondità massima di m. 1.82 ed una
           lunghezza di m. 4 che doveva essere protratta sino ad almeno sette metri perché
           potesse esser accolto un segmento, lungo sei metri, della tubazione.
           Il C. era sceso nella trincea per misurare la profondità dello scavo e, mentre ne risaliva,
           era stato colpito ai piedi e alle gambe da un tratto di terreno che si era staccato
           improvvisamente da una delle pareti e che l'aveva scaraventato contro la parete
           opposta: aveva perso l'equilibrio e, cadendo, aveva sbattuto il viso in modo così violento
           da riportare lesioni che ne determinavano il decesso.
           La Corte dava, anzitutto, atto che i lavori non erano consistiti né in uno "splateamento",
           né in uno "sbancamento", ma in uno "scavo", sicché non poteva trovare applicazione,
           come aveva eccepito la difesa nei motivi di appello, la norma, contestata nel capo di
           imputazione, dell'art. 12 del D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 - che detta la disciplina
           antinfortunistica per gli "splateamenti" e gli "sbancamenti" - , sebbene la norma dell'art.
           13 prevista, ai fini di prevenzione, per gli scavi di pozzi e di trincee profondi più di m.
           1.50.
           La Corte riteneva, poi, che, essendo stato inequivocabilmente accertato, sulla base delle
           dichiarazioni dei testi, che la consistenza del terreno in cui si stava scavando non dava
           "sufficienti garanzie di stabilità, anche in relazione alla pendenza delle pareti", si sarebbe
           dovuto provvedere, come disponeva l'art. 12, all'applicazione delle necessarie armature
           di sostegno - o, comunque, visto che le armature avrebbero potuto impedire di calare i
           tubi, alla realizzazione del cosiddetto "acquintato", consistente nella realizzazione di
           scarpate laterali lungo le pareti dello scavo - sin dal momento in cui lo scavo aveva
           raggiunto e superato il limite del metro e mezzo e, da quel momento, man mano che lo
           scavo procedeva.
           "Tenuto conto del fatto - proseguiva la Corte - che tale precauzione doveva essere
           realizzata "man mano" che i lavori procedevano al momento che nello scavo l'operaio
           doveva comunque scendere per accertare se la profondità raggiunta era quella prevista
           in progetto e, comunque, per effettuarvi le congiunzioni o saldature che dir si voglia tra i
           vari segmenti delle tubazioni: e tenuto conto che le opere di prevenzione degli infortuni
           vanno realizzate, per legge, in corso d'opera secondo le raccomandazioni e disposizioni
           date dal datore di lavoro e dai direttori dei lavori o da chi per loro proprio perché va
           prevenuta anche la  disobbedienza, trascuratezza, imprudenza dei lavoratori, appariva
           chiaro che, se tale soluzione dell'acquintato fosse stata adottata dai responsabili man
           mano che i lavori procedevano, si sarebbe realizzato di fatto quello stato di sicurezza
           che la legge sostanzialmente richiede".
           "Infine, la mancanza accertata, in prossimità della zona dello scavo, di cartelli contenenti
           il divieto ai dipendenti lavoratori di scendere negli scavi prima dell'ultimazione degli stessi
           e della completata predisposizione delle relative misure di prevenzione - proseguiva la
           Corte - era circostanza che evidenziava ancor più la responsabilità del prevenuto in
           ordine al reato contestatogli  malgrado la imprudenza del C. nel calarsi nello scavo non
           ancora bonificato con le opportune misure di prevenzione".
           3 - Il difensore con tre motivi, denuncia quanto segue.
           I - "violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), per erronea applicazione dell'art. 13 del
           d.p.r. n. 164/1956", deducendo che l'art. 13 "contempla l'ipotesi in cui all'interno dello
           scavo si proceda a lavori manuali", che "la ratio solare della norma è nel senso che la
           insufficienza della garanzia di stabilità del terreno rileva se e in quanto all'interno dello
           scavo debbano permanervi gli operatori manuali, sicché è necessario, man mano che
           procede lo scavo, provvedere all'applicazione di armature di sostegno".
           "Se non va applicato l'art. 13, soccorre, però l'art. 12, il quale ancorché regoli di
           splateamento e di sbancamento, contempla comunque lo scavo con o senza impiego di
           escavatore meccanico, prevedendo, peraltro, che l'inclinazione delle pareti di attacco,
           mediante acquinato, vada corretta quando i lavori di scavo siano effettuati senza
           l'impiego di escavatori meccanici, escavatori con i quali, invece, si stava, quel giorno,
           effettuando lo scavo." 
           "Non v'è dubbio, inoltre, che l'acquinato, allorché si proceda con escavatori meccanici,
           vada, comunque, allestito allorché sia previsto l'ingresso del lavoratore nello scavo per la
           misurazione o per la saldatura delle giunture con la sezione i tubo posata nella
           precedente trincea".
           "Ma, tutti i testi hanno dichiarato che era assolutamente vietato l'ingresso nello scavo
           se non dopo la realizzazione dell'acquinato, con la conseguenza che, se il lavoratore
           avesse rispettato l'ordine, il fatto non sarebbe accaduto".
           II - "Violazione dell'art. 606, comma i, lett. b), c.p.p. per inosservanza dell'art. 110 c.p.",
           deducendo che, "secondo l'art. 110 c.p., chi concorre nel medesimo reato è responsabile
           dello stesso e ne risponde agli effetti civili in base alla percentuale di responsabilità, per
           cui va stabilita la responsabilità concorsuale nell'accadimento a fini civilistici del C.".
           III - "Violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. e degli artt. 62 bis e 133 c.p.",
           deducendo che all'imputato sono state negate le attenuanti generiche sulla base di un
           solo, remoto, precedente penale, se pure specifico, e la corte, inoltre, non ha tenuto in
           alcun conto l'età dell'imputato, della organizzazione del cantiere e dell'assenza di censure
           da parte dell'Ispettorato del lavoro".

                                    MOTIVI DELLA DECISIONE 

           1 - Il primo motivo è infondato.
           I - Secondo la giurisprudenza di questa suprema corte, citata anche dalla sentenza
           impugnata, "l'obbligo di provvedere all'applicazione di armature di sostegno delle pareti,
           nello scavo di pozzi o di trincee profonde più di metri uno e cinquanta, quando la
           consistenza del terreno non dia sufficiente garanzia di stabilità, sussiste a partire dal
           momento in cui lo scavo raggiunge la profondità di metri uno e cinquanta e deve essere
           adempiuto prima di procedere oltre nell'escavazione in profondità e, man mano che
           procede lo scavo, si deve proseguire nel contemporaneo armamento; risponde, pertanto,
           di violazione della norma predetta, il datore di lavoro che, soltanto dopo avere ultimato
           lo scavo, a mezzo di escavatrice meccanica, di profondità superiore a metri uno e
           cinquanta, inizi le operazioni di applicazione delle armature di sostegno" (Cass., 16
           novembre 1971, n. 471).
           II - La ratio di questa interpretazione della norma dell'art. 13 del d.p.r. n. 164/1956 -
           interpretazione data nell'esame di una fattispecie pressocchè identica a quella in esame
           - è di chiara evidenza.
           Mentre l'art. 12, interessandosi dello splateamento e dello sbancamento, distingue a
           seconda che i lavori vengano eseguiti manualmente o con escavatori meccanici, l'art. 13
           non distingue e non v'è una sola proposizione nello stesso dalla quale possa desumersi
           che la misura antinfortunistica ivi prevista vada rispettata soltanto quando si proceda
           allo scavo manualmente e non quando vi si proceda avvalendosi di escavatori meccanici.
           E la ragione di questa indifferenza del legislatore rispetto alle modalità di esecuzione dello
           scavo sta, indubbiamente, nel fatto che, pur quando lo scavo si effettui con l'ausilio di
           un escavatore, è tutt'altro che remota la possibilità che un lavoratore, per una qualsiasi
           ragione, debba scendere o scenda, magari disobbedendo agli ordini ricevuti, nella
           trincea, correndo il rischio, nel caso di insufficiente consistenza del terreno, di essere
           travolto.
           Nell'esecuzione, dunque, di uno scavo, o manualmente o con mezzo meccanico, il datore
           di lavoro, nel caso si accerti che il terreno non dia sufficienti garanzie di stabilità, deve
           provvedere, o dare ordini delle necessarie armature di sostegno non appena sia stata
           raggiunta, scavando, la profondità di oltre m. 1.50 e ciò al fine di prevenire pericoli per
           l'incolumità del lavoratore o dei lavoratori che, per una qualsiasi ragione, scendano nella
           trincea.
           Nel caso di specie, lo scavo aveva raggiunto, allorché vi è sceso il C., la profondità di m.
           1.82 e, quindi, di ben 3 cm. oltre il m. 1.50, con la conseguenza che, in quel momento, il
           C. avrebbe dovuto trovare in sito le armature di contenimento del terreno o il cosiddetto
           "acquinato".
           III - Si eccepisce, però, che erano stati impartiti precisi ordini che vietavano a chiunque
           di scendere nella trincea prima che venisse completato lo scavo ed effettuato
           l'acquinato.
           Ma, di quest'ordine non v'è alcuna traccia nella sentenza di primo grado, mentre la Corte
           di Appello, interessandosene, ha escluso che si fosse, comunque, trattato di un ordine
           "chiaro, visibile e cogente", avendo affermato, nella penultima proposizione della
           sentenza, che "ancora manchevole è il suo comportamento in quanto, come si è già
           detto, non ha predisposto le relative istruzioni e i conseguenti ordini a scopo di
           prevenzione in modo evidente, visibile e cogente e ha omesso di provvedere
           direttamente a che dette istruzioni e detti ordini venissero rispettati".
           Supposto, dunque, che questi ordini siano stati impartiti, la loro evidenza, la loro visibilità
           cioè la loro inequivocità, e, quindi, la loro cogenza andavano negate e, in ogni caso, il
           datore di lavoro non aveva provveduto direttamente a che quegli ordini venissero
           rispettati.
           D'altro canto, il C., quando è morto, aveva ed è stato trovato con il metro in mano, il
           che significa, per un verso, che era sceso nello scavo per fare qualcosa che aveva
           sicura attinenza con lo scavo e, sul piano squisitamente logico, che la Corte di Appello
           correttamente afferma, sostanzialmente, che è difficile credere che, sia pure di propria
           iniziativa, il lavoratore sia sceso nella trincea nella chiara consapevolezza - vista la non
           evidenza, la non visibilità e, dunque, la non cogenza dell'ordine - del divieto di scendervi.
           2 - Il secondo motivo è infondato.
           La prevalente giurisprudenza di questa Suprema Corte è, invero, nel senso che "le norme
           sulla prevenzione degli infortuni hanno la funzione propria di evitare che si verifichino
           eventi lesivi della incolumità, intrinsecamente connaturati alla esecuzione di talune
           attività lavorative, anche  nelle ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad
           eventuali imprudenze e disattenzioni dei lavoratori, la cui incolumità deve essere sempre
           protetta con appropriate cautele".
           "Solo se il lavoratore ponga in essere una condotta inopinabile, imprevedibile, esorbitante
           dal procedimento di lavoro ed incompatibile con il sistema di lavorazione oppure si
           concreta nella inosservanza, da parte sua, di precise disposizioni antinfortunistiche, solo
           in questa evenienza è configurabile la colpa dell'infortunato nella produzione dell'evento,
           con esclusione, in tutto o in parte, della responsabilità penale del datore di lavoro".
           (Cass., 3 marzo 1980, Pedrotti; 104 dicembre 1984, D'Amico; 5 novembre 1986,
           Amadori).
           Il C. non ha fatto nulla che non potesse essere previsto perché non ha fatto nulla che
           non avesse a che fare con il lavoro, nulla di incompatibile con il sistema di lavorazione o
           esorbitante dal procedimento di lavoro e, inoltre, le disposizioni antinfortunistiche del
           datore di lavoro, secondo la ricostruzione della Corte di Appello, non erano state affatto
           precise, e ciò volendo supporre che vi siano state e volendo prescindere dal fatto che,
           in quel momento, non v'era nessuno che potesse, come si sarebbe dovuto, farle
           osservare, visto che, come ha accertato la sentenza impugnata, non era presente
           neppure il capo cantiere.
           3 - Il terzo motivo è infondato.
           Può essere anche vero che l'unico precedente in tema di violazione di norme
           antinfortunistiche sia risalente nel tempo, anche se all'imputato è stata contestata la
           recidiva infraquinquennale; ma, è pur sempre un precedente che, proprio perché
           attinente alla violazione delle norme che pongono in pericolo l'incolumità dei lavoratori, la
           Corte di Appello ha correttamente sottolineato ritenendolo, con assoluta ragionevolezza,
           parametro negativo e, quindi, di insuperabile ostacolo ai fini del riconoscimento delle
           attenuanti generiche.
           4 - Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. 

                                             P.Q.M. 

           La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
           spese processuali.
           Così deciso in Roma il 10 ottobre 2001.
 
 

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