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Aggiornamento - Penale |
Cass. Pen., sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047 la nuova concussione
e la legge 190 del 2012 RITENUTO
IN FATTO Ai ricorrenti era contestato il
reato di concussione ex art. 317 cod. pen. perchè, P.L. in qualità
di ispettore della Guardia di Finanza subordinato al R. e capo pattuglia
della verifica, R.S. in qualità di luogotenente della Guardia di Finanza,
direttore della verifica, con minaccia di chiudere una verifica fiscale in
modo sfavorevole alla società verificata Minitransport Srl, nonchè, con la
minaccia di estendere gli accertamenti fiscali ad ulteriori società facenti
capo del gruppo Ministransport Spa, pur essendo la verifica finalizzata ad un
progetto di emersione del sommerso da lavoro, richiedendo inizialmente la
somma di Euro 300.000 pari al 10% del totale dell'importo degli acquisti - di
cui si minacciava la verifica ai fini delle imposte indirette - inducevano
M.L., legale rappresentante della Minitransport Spa, a promettere
indebitamente a lui (il R.) ed al P., la somma di Euro 40.000, prima tranche
di ulteriori pagamenti, che effettivamente veniva consegnata in data
5.11.2009 in Legnano (MI). L'indagine era resa possibile
dalla denunzia sporta dal M. L. e dalla commercialista della società P.S.
prima del pagamento della predetta somma. I giudici di merito avevano
quindi così ricostruito la vicenda sulla scorta degli atti di indagine: M.L. nella denuncia riferiva
della verifica fiscale finalizzata alla emersione del lavoro sommerso
disposta nei confronti della società di cui era legale rappresentante,
Minitrasport, attività iniziata nel luglio 2009 e svolta da R. e P. della
Guardia di Finanza della compagnia di Rho. Pur se da tale verifica non
risultavano anomalie nei rapporti tra la società ed i propri dipendenti, gli
ufficiali della GdF rilevavano delle presunte violazioni di norme tributarie
nei rapporti tra la società ed alcuni soggetti che effettuavano trasporto
merci per conto della Minitrasport; tali soggetti, autotrasportatori in
proprio, avevano emesso fatture in varie situazioni di irregolarità con
conseguente evasione di imposte ed Iva di cui doveva essere ritenuta
responsabile, secondo gli accertatori, anche la società Minitrasport. Gli stessi finanzieri avevano
prospettato al denunciante ciò che avrebbe comportato una verifica che
attestasse quando da loro rilevato: l'Agenzia delle Entrate avrebbe
certamente emesso un avviso di accertamento per gli importi indicati dalla
Guardia di Finanza per un totale, tra Iva, Imposte e sanzioni, di circa Euro
1.150.000, con la necessità di adire Alle obiettive condizioni che i
finanzieri prospettavano, si aggiungeva, a dire del dichiarante M., la
particolare difficoltà di prova che la sua società avrebbe avuto a causa
della mancanza, nelle fatture emesse dai predetti autotrasportatori esterni,
di analiticità nella descrizione delle prestazioni. E, comunque, sarebbe già
stato un rilevante danno per la sua società il necessario accantonamento dei
fondi per il caso di soccombenza in sede di contenzioso tributario. Su queste premesse, i
finanzieri gli prospettavano la possibilità che loro effettuassero un
accertamento più favorevole evidenziando solo parte delle irregolarità
facendo risultare la autonoma, e non estensibile alla Minitrasport,
responsabilità degli autotrasportatori esterni per le violazioni fiscali. A
fronte di tale trattamento di maggior favore, i due ufficiali chiedevano che
fosse loro data la somma di Euro 300.000. La richiesta era rafforzata, e di
fatto posta in termini ricattatori, in quanto i finanzieri dicevano che, se
non vi fosse stato accordo, avrebbero potuto estendere le indagini fiscali ad
altre società del gruppo ed al "mondo bancario che supporta l'intero
gruppo". Gli stessi finanzieri, rispetto
alle difficoltà evidenti del M. nel reperire immediatamente la somma per
intero, manifestavano la disponibilità ad accettare pagamenti rateali. Di quanto detto si era parlato
nell'ambito di più incontri, anche conviviali, cui partecipavano i due
ufficiali accertatori, il M. e la commercialista P.. In queste occasioni il M. aveva
sempre rifiutato il pagamento manifestando tutt'al più la disponibilità ad un
"regalo" di Euro 20.000/30.000. Dopo vari altri contatti con i
due ricorrenti, M. preferiva aderire all'invito della commercialista di
denunziare i fatti. La commercialista P. confermava
le stesse circostanze. Dopo la denunzia, gli ulteriori
incontri venivano registrati su disposizione della Autorità Giudiziaria. In
particolare erano registrati i colloqui in incontri separati che il M. aveva
con il P. ed il R., che peraltro apparivano in parziale contrasto fra loro,
come dettagliatamente riferiva Il 5 novembre Quindi, alle dichiarazioni di
M. e P., si sono poi aggiunte le dichiarazioni di P. e del R.. P. riferiva subito dopo
l'arresto le seguenti circostanze: - ammetteva di aver ricevuto
Euro 40.000 per la verifica e di doverne ricevere altri Euro 10.000 negando
che vi fosse accordo per ulteriori somme. Il denaro che aveva ricevuto doveva
essere diviso a metà con il R.. - La proposta di pagare la
maggior somma di Euro 300.000 era frutto di un'iniziativa del R. che lui non
condivideva ritenendola una pretesa eccessiva. R., invece, nei propri
interrogatori riferiva al PM che la richiesta di Euro 300.000 era stata fatta
propria dal P., ma poi precisava " P. era d'accordo nel chiedere Euro
300.000. Non mi ricordo chi per primo
dei due abbia detto la cifra, può essere che sia stato io, ma sicuramente è
stata decisa assieme". I giudici di merito, poi,
valorizzando il contenuto delle intercettazioni e le dichiarazioni di P.,
ritenevano che, contrariamente a quanto dallo stesso affermato, R. non aveva
abbandonato le sue pretese ma aveva lasciato che P. gestisse la trattativa,
restando in attesa della divisione del denaro. I giudici di merito hanno
ritenuto i fatti integrare il reato di concussione in quanto la richiesta era
stata formulata in termini di abuso di autorità e come tale era stata
percepita dal M. che intendeva diversamente risolvere le irregolarità delle
quali doveva rispondere. Peraltro, si osserva nella sentenza di appello,
dalle dichiarazioni di M. e P. risulta come costoro fossero sostanzialmente
convinti delle ragioni della società Minitrasport. La sentenza di appello
risolveva anche talune questioni preliminari poste dalla difesa del R.,
rilevando che non vi era alcuna nullità consistente nella assenza di taluni
atti dal fascicolo del giudizio immediato in quanto il P.M, aveva disposto
stralcio inserendo tutti gli atti rilevanti nel presente processo tanto che,
degli stessi atti dalla stessa indicati, la difesa non indicava la concreta
utilità; riteneva perimenti irrilevante la deduzione in ordine alla mancata
trascrizione delle intercettazioni in presenza delle registrazioni in atti. Avverso tale sentenza hanno
proposto ricorso entrambi gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori. Ricorso P.. con primo motivo deduce la
violazione di legge per essere stato qualificato il fatto erroneamente quale
concussione anzichè quale corruzione, anche a causa di una motivazione
illogica e contraddittoria nella valutazione delle dichiarazioni di M.. Dalle stesse dichiarazioni
della persona offesa risulta come la stessa avesse interesse effettivo a non
far emergere le irregolarità ascrivibili alle società collegate alla
Minitrasport; era evidente come M. avesse avuto piena libertà di non
accogliere la richiesta e come la somma finale di Euro 40.000 fosse stata
definita all'esito di trattative. Proprio la forte differenza tra la somma
iniziale e quella finale dimostra l'ampio margine di trattativa e la
posizione paritetica tra le parti. Quindi non vi era stata alcuna situazione
di soggezione psicologica del M. che, del resto, aveva anche avanzato
specifiche proposte per evitare ulteriori sanzioni. Con il secondo motivo deduce la
violazione di legge ed il vizio di motivazione per non essere stata ritenuta
la forma tentata del delitto di concussione. Il denunciante si era sempre
opposto alle richieste di pagamento avendo solo genericamente dato
disponibilità a pagare qualcosa a titolo di regalo. La promessa di dare una
somma si era perfezionata solo successivamente alla predisposizione della
consegna del denaro sotto il controllo della pg. Con terzo motivo deduce la
violazione di legge per omesso esame del secondo motivo di appello in ordine
al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 323 bis cod. pen. avendo P. ha fatto personalmente
pervenire un "memoriale" a propria firma che, tra l'altro,
ripercorre i fatti per cui è processo. Ricorso R.. con primo motivo deduce la
nullità della sentenza per violazione dell'art. 454 cod. proc. pen. poichè il pubblico
ministero, procedendo a stralcio del procedimento in oggetto da altro
procedimento principale, aveva selezionato solo parte del materiale
probatorio occultandone il resto in altro fascicolo processuale; si trattava
di documentazione la cui conoscenza avrebbe comportato diverse scelte della
difesa. Indica in particolare i seguenti atti non allegati al fascicolo: - verbali di sommarie
informazioni rese da M.L. al PM il 27 gennaio 2010, atto successivo
all'emissione di decreto di giudizio immediato ma precedente alla
celebrazione del giudizio abbreviato. - "numerosi altri
atti" delegati alla polizia tributaria ovvero ai carabinieri di Rho tra
il novembre 2009 ed il febbraio 2010. - la consulenza tecnica in materia
informatica disposta ai sensi dell'art. 359 cod. proc. pen. la cui relazione è
stata depositata prima della richiesta di giudizio immediato. - la registrazione della
conversazione del 29 ottobre 2009 (incontro al quale M. si recò munito di
apparecchi di registrazione). - note della polizia
tributaria, che il ricorso indica analiticamente, aventi ad oggetto
accertamenti su pratiche disciplinari, accertamenti bancari patrimoniali,
l'incrocio dei dati degli intestatari delle utenze telefoniche risultanti
dalle rubriche degli indagati, le informazioni su attività di verifica svolta
dal Rileva la assenza di risposte a
due deleghe di indagine, nonchè la mancanza di trascrizione degli
interrogatori degli indagati, dei quali la difesa ha soltanto le
registrazioni audio pur avendo fatto richiesta di trascrizione. In diritto afferma esservi
nullità della richiesta di giudizio immediato e degli atti conseguenti non
essendo in libera disponibilità del pubblico ministero la scelta degli atti
rilevanti essendo, al contrario, obbligato a trasmettere tutti gli atti
relativi al procedimento. Con secondo motivo deduce la
mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di assunzione di nuove
prove, richiesta giustificata dalla incompletezza del fascicolo processuale
depositato al pubblico ministero con la richiesta di giudizio immediato. In particolare: - non è stata data risposta
alla richiesta di sentire il denunciarne M.L. a seguito della scoperta
all'interno di altro fascicolo processuale dei verbali di sommarie
informazioni del 27 gennaio 2010. - Non è stata acquisita una lettera del
maggiore A. da cui risultava che R. non voleva alle sue dipendenze il P. a
causa dei procedimenti disciplinari a suo carico. - non è stata data risposta
alla richiesta, ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen., comma 3 di audizione
degli ufficiali A., S. e B.. Con terzo motivo deduce il
vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del fatto contestato. La difesa ripercorre con ampie
argomentazioni il materiale probatorio a carico del R. rilevando che Con quarto motivo deduce la
mancanza ed illogicità della motivazione nonchè l'erronea applicazione della
legge penale in ordine all'inquadramento dei fatti da ritenere costituenti
tutt'al più il diverso reato di corruzione. Emerge dalla stessa denunzia
come fossero fondati i rilievi della Guardia di Finanza rispetto ai quali M.
aveva ritenuto necessario trovare un accordo con i ricorrenti avendo lui
stesso detto di aver proposto un "regalo", che intendeva
determinare in Euro 20.000/30.000, in cambio di minor rigidità. In assenza, quindi, di volontà prevaricatrice
e di stato di soggezione, il fatto andava correttamente contestato quale
corruzione. Con quinto motivo deduce la
violazione della legge penale non essendo stata applicata la disciplina della
desistenza e valutata, se del caso, la portata dei soli atti già compiuti per
configurare un reato diverso. Osserva che, nelle sentenze di
merito, si da atto che il 3 novembre 2009 R. aveva detto al M. che non voleva
assolutamente alcuna somma di denaro e suggeriva di non dare niente neanche a
P.. Pertanto in questo momento andava valutata la desistenza. Peraltro la circostanza
dell'immediato arresto del P. aveva impedito di dimostrare la sua reale
rinuncia a portare avanti la condotta incriminata come sarebbe stato
dimostrato dalla mancata ricezione della propria quota i reati eventualmente
prospettabili in base alla condotta tenuta sino alla desistenza vengono
indicati nell'abuso di ufficio, ovvero nella omessa denuncia di reato da
parte del pubblico ufficiale. Con sesto motivo deduce il
vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti
generiche, rilevando la erroneità di una motivazione che fa riferimento alla
assenza di confessione ed indicando i numerosi elementi che andavano valutati
positivamente ai fini della applicazione di tale attenuante. Con settimo motivo deduce il
vizio di motivazione in ordine alla quantificazione della pena. Sono stati depositati motivi
aggiunti il 6 febbraio 2013. Con primo motivo si afferma la
"nullità della sentenza per emergenze probatorie sorte successivamente
all'emissione della sentenza della Corte d'Appello di Milano ritenute
assolutamente decisive ai fini della corretta valutazione dei fatti oggetto
del procedimento, con conseguente annullamento con rinvio della sentenza
impugnata". Osserva la difesa che, come da
notizie di stampa che allega (il 22 febbraio la difesa ha depositato copia
dell'avviso di chiusura delle indagini ottenuto dalla Procura della
Repubblica di Como il 21 febbraio 2013), M.L. è stato destinatario di una
ordinanza di custodia in carcere in relazione all'imputazione di associazione
a delinquere finalizzata all'emissione e al successivo utilizzo di fatture
emesse per operazioni inesistenti, condotte commesse proprio con specifico
riferimento alle Società facenti parte di un gruppo riconducibile alla
Minitransport e ad altre società costituite all'estero che fungevano da
società "cartiera" per gli scopi contestati nelle imputazioni
oggetto della misura cautelare. Si tratta di fatto successivo alla
presentazione del ricorso in cassazione. Risulta come il M. abbia
adibito delle società alla emissione di fatture per operazioni inesistenti in
modo da ottenere crediti inesistenti da compensare con debiti tributari. Tale
vicenda, nota la difesa, conforta la tesi che fosse corretto l'accertamento
dei ricorrenti che, con la verifica fiscale, avevano effettivamente
individuato un ambito di utilizzazione di false fatture. La denunzia
presentata dal M. contro P. e R., quindi, appariva un modo per ritardare
l'accertamento delle responsabilità che ora, invece, stanno emergendo. La difesa chiede che Con secondo motivo deduce la
violazione di legge alla luce della diversa qualificazione giuridica dei
fatti resa possibile dalla nuova disciplina dei reati contro CONSIDERATO
IN DIRITTO I ricorsi vanno accolti
limitatamente alla diversa qualificazione giuridica dei fatti alla luce delle
nuove disposizioni in tema di reati contro Il primo motivo è infondato. Come sopra già riportato, la
difesa di R., rilevato che il PM aveva disposto stralcio del più ampio
fascicolo di indagine ai fini della richiesta di giudizio immediato che ha
portato all'attuale giudizio, rilevato che non tutti gli atti del
procedimento originario sono confluiti nel fascicolo di giudizio immediato,
afferma innanzitutto la sussistenza di un obbligo del pubblico ministero di
trasmettere tutti gli atti di indagine non potendo effettuarne una selezione
in base alla rilevanza. Alla violazione di tale obbligo si afferma che segua
la nullità del giudizio immediato e la conseguente nullità di tutti gli atti
seguenti. Inoltre, in riferimento agli atti di cui rileva la mancanza, il
ricorrente deduce anche una concreta violazione dei diritti della difesa. La tesi dell'obbligo del
pubblico ministero di allegare tutti gli atti indipendentemente dalla loro
rilevanza non solo non è fondata su alcuna specifica disposizione, come
risulta dal ricorso che non ne cita alcuna, ma è smentita dall'art. 130 disp. att. cod. proc. pen. che
prevede esattamente il principio opposto: "Se gli atti di indagine
preliminare riguardano più persone o più imputazioni, il pubblico ministero
forma il fascicolo previsto dall'art. 416 c.p., comma 2, inserendovi gli atti
ivi indicati per la parte che si riferisce alle persone o alle imputazioni
per cui viene esercitata l'azione penale". Inoltre, si rileva che non è
prevista alcuna nullità in materia di incompletezza del fascicolo
processuale, non essendo prevista una sanzione specifica nè per la violazione
della disposizione specifica per il giudizio immediato dell'art. 454 cod. proc. pen., comma 2, nè per la
violazione di quella più generale dell'art. 416 cod. proc. pen.. Con riferimento a
tale ultima disposizione, che prevede che con la richiesta di rinvio a
giudizio siano trasmessi gli atti di indagine, l'eventuale conseguenza
immediata della mancata allegazione di atti è, comunque, la loro
inutilizzabilità e non la nullità del decreto di rinvio a giudizio. E' quindi infondata la tesi
della difesa secondo la quale dalla presunta violazione denunciata possa
derivare la nullità del decreto di giudizio immediato (Sez. 2, n. 48604 del
15/10/2009 - dep. 18/12/2009, Mandaradoni e altri, Rv. 246261). Il ricorrente, però, oltre a
contestare il diritto del pubblico ministero di scegliere gli atti rilevanti,
sostiene che nel caso di specie la incompletezza del fascicolo avrebbe in
concreto violato diritti della difesa, in particolare precludendo una
ponderata scelta in ordine al rito. Se, in base alla predetta
disposizione di attuazione, non può certamente configurarsi un'astratta
lesione dei diritti di difesa, effettivamente può valutarsi se la scelta di
non inserire determinati atti possa avere, in concreto, effettive conseguenze
negative per l'imputato, fermo restante che, in assenza di una specifica
previsione di nullità, non si potrebbero invocare le conseguenze indicate dal
ricorrente (Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006 - dep. 05/10/2006, Battistella e
altri, Rv. 234355). Ma, dalla lettura degli atti
specifici indicati della difesa, esclusa la valutabilità di quelli per i
quali si formula solo un'ipotesi che possano essere nel fascicolo originario,
si evince come per nessuno di questi la difesa abbia dimostrato l'obiettivo
riferimento alla vicenda in oggetto. Si comprende, anzi, che sono atti
relativi alla verifica di eventuali ulteriori condotte dei medesimi imputati
non collegate alla vicenda de quo. Del resto non vi è alcuna argomentazione
specifica sulla portata di tali atti e la difesa si limita a dedurre il
generico vulnus. Il secondo motivo del ricorso è
manifestamente infondato. La questione della mancata assunzione di nuove
prove è correttamente posta quale vizio di motivazione ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen., lett. e), non
ricorrendo alcuna ipotesi astratta di diritto alla prova rilevante ai sensi
della lett. d). Ma era anche necessario sviluppare argomenti per dimostrare
la decisività della prova, quantomeno al fine di poter invocare una più accurata
motivazione negativa da parte dei giudice di appello. Invece, non si spiega
la ragione di rilievo delle prove asseritamente rese necessarie dal mancato
deposito di atti nè quali condizioni dovessero far ritenere assolutamente
necessaria la audizione degli ufficiali A., S. e B.. Il terzo motivo, da valutare
unitamente al primo dei motivi aggiunti ed al quinto motivo con il quale si
afferma che i fatti come ricostruiti integrerebbero una ipotesi di desistenza
ai sensi art. 56 c.p., comma 3, è infondato. Il ricorrente sostiene il vizio
di motivazione, deducendo sia profili di carenza, che di contraddittorietà ed
illogicità, rilevando in particolare che non si è correttamente desunto dagli
atti la inattendibilità del M.. Per valutare tale
inattendibilità il ricorrente con i motivi aggiunti ha formulato anche delle
vere e proprie richieste istruttorie in ragione di un procedimento penale a carico
del M.. Al riguardo non può che ritenersi del tutto inammissibile il primo
motivo aggiunto in quanto si richiedono attività di merito precluse in sede
di legittimità. Se del caso, eventuali nuove prove potranno essere proposte
nel giudizio di rinvio a seguito dell'annullamento che verrà pronunciato per
le ragioni di cui appresso. Venendo agli altri argomenti
del terzo motivo, va innanzitutto considerato come complessivamente la
sentenza impugnata offra una motivazione adeguata, pienamente e logicamente
aderente alle premesse di fatto acquisite, per la ricostruzione dei fatti e
del ruolo dei due imputati, non essendovi alcuna carenza su punti essenziali.
Nè emergono macroscopiche contraddizioni ed illogicità; in particolare, la
sentenza valuta la particolare circostanza in cui il R., nel corso di un
incontro da soli, disse al M. di non aver più nulla pretendere, per poi
considerare, con argomentazioni logiche ed ancorate ai dati di fatto, come la
complessiva condotta ed il successivo accordo con il P. per la consegna del
denaro destinato anche al R. dimostrino che, in realtà, l'abbandono della
attività delittuosa era solo apparente e che, comunque, a quel momento, il
reato era già consumato e che quindi la condotta del R. non poteva neanche in
teoria essere ritenuta di desistenza essendo stata comunque portata a termine
l'azione da lui iniziata. E' stato quindi applicato il principio comunemente
affermato dalla giurisprudenza di questa Corte: in caso di reato
plurisoggettivo, vi può essere desistenza volontaria con efficacia
scriminante solo quando il soggetto interessato si sia attivato per evitare
la consumazione del reato da parte dei compartecipi o per annullare le
conseguenze del proprio apporto causale (Sez. 6, Sentenza n. 27323 del 20/05/2008 Ud. (dep.
04/07/2008 ) Rv. 240737; Sez. 6, Sentenza n. 6619 del 07/04/1999 Ud. (dep.
27/05/1999 ) Rv. 214747). Chiarito quindi come non
emergano evidenti profili di vizio della motivazione, non avendo il
ricorrente nè indicato in via specifica quali sarebbero i punti carenti e
quali gli evidenti errori o illogicità, va rilevato che il motivo di ricorso
per il resto consiste in un'ampia esposizione del materiale probatorio per il
quale si propone una lettura alternativa a quella data dai giudici di merito.
Deve, allora, rammentarsi quali siano i limiti del sindacato del giudice di
legittimità sulla motivazione: è possibile valutare la completezza e
corrispondenza logica tra premesse e conclusioni, ma non è invece possibile,
essendo questa attività tipicamente di merito, apprezzare il contenuto dei
singoli elementi probatori e fornirne una autonoma valutazione complessiva da
sostituire, laddove non corrispondente, a quella del provvedimento impugnato.
Quindi non possono valutarsi quegli argomenti del ricorso che, di fatto,
richiedono una nuova decisione in merito. Quanto ai motivi relativi alla
qualificazione giuridica del fatto, sviluppati sia nel ricorso originario che
nei motivi aggiunti, si può fare una valutazione congiunta con i motivi del
P.. Ricorso P.. Con il primo motivo di ricorso
la difesa di P., sviluppa innanzitutto talune generiche deduzioni prettamente
di merito sull'attendibilità delle versioni dei testimoni dell'imputato, non
valutabili perchè generiche e comunque palesemente fuori dell'ambito del
sindacato illegittimità. Nello stesso motivo pone il
tema della configurabilità del reato di concussione affermando che, sulla
base di quanto accertato, è invece configurabile un fatto di corruzione.
Analoga questione ha posto il quarto motivo di ricorso del R.. Inoltre il P.,
con il secondo motivo, deduce che, alla stregua di quanto accertato, se del
caso è stato integrato solo il tentativo di concussione e non il reato
consumato. Infine, con il secondo motivo aggiunto, la difesa del R. rileva
come il fatto ascritto rientri nella nuova ipotesi di reato di cui all'art. 319 quater cod. pen. introdotto con Trattandosi di qualificazione
giuridica del fatto, la decisione dovrà riguardare anche P.. Va quindi premesso innanzitutto
che si deve far riferimento alla ricostruzione del fatto di cui alla
sentenza, essendosene già rilevata la corretta motivazione, dovendosi solo
discutere della qualificazione giuridica alla luce delle nuove disposizioni
in materia di corruzione e concussione. Innanzitutto si devono
condividere gli argomenti con i quali Correttamente i giudici di
merito hanno tenuto conto del fatto -che la richiesta dei pubblici ufficiali
è stata formulata prima della conclusione delle loro attività prospettando
alla parte il rischio della formalizzazione, nell'atto di chiusura della
verifica, della ipotesi di responsabilità dell'azienda per le fatture dei
terzi autotrasportatori e, soprattutto, la prospettiva di estendere gli
accertamenti alle altre società del gruppo: - che non vi era stata libera
contrattazione ma una iniziale pretesa assai elevata dalla quale il M. aveva
cercato di salvarsi offrendo la somma di Euro 20.000/30.000 per accontentare
gli imputati, ma inutilmente. - Proprio in ragione di tale
pressione aveva deciso di denunziare i fatti. Questi argomenti, quindi,
risolvono i motivi sulla sussistenza del diverso reato di corruzione, mentre,
per quanto riguarda la configurabilità del tentativo e non del reato
consumato, ci si tornerà oltre in quanto è un problema che si pone anche
rispetto ad una diversa configurazione giuridica del fatto. Pur se ad una prima lettura
potrebbe sembrare che vi sia stato un semplice "spacchettamento"
finalizzato a distinguere le due condotte già inserite nell'art. 317 cod. pen. in base alla gravità della
pressione sul privato diversificando le pene, vi sono differenze che rendono
non di tale immediatezza la individuazione degli ambiti di applicazione delle
due disposizioni. Si deve tenere infatti conto
innanzitutto della più rilevante particolarità della "induzione
indebita" di cui all'art. 319 quater cod. pen. rispetto alla
tradizionale figura di concussione: di tale nuovo reato risponde anche il
privato "concusso", pur se la pena nei suoi confronti è alquanto
inferiore rispetto a quella del pubblico ufficiale/incaricato di pubblico
servizio (il massimo è, rispettivamente, di otto e di tre anni di
reclusione). La sanzione per il privato per
prima cosa comporta una modifica della struttura del reato che non è più un
reato plurioffensivo, come sarebbe dovuto essere se fosse stata semplicemente
scissa in due ipotesi la previgente fattispecie di concussione, reato,
appunto, plurioffensivo, perchè muta radicalmente il ruolo di quella che era
la seconda persona offesa. La vittima non è più tale ma diventa un correo in
un reato a concorso necessario. Il testo della disposizione non sembra
lasciar spazio a dubbi, il soggetto concusso è sempre un concorrente nel
reato in quanto, laddove il privato non dovesse essere punibile perchè non
consapevole (indiscusso che sia necessario il dolo), ricorrerebbero diverse
ipotesi di reato. Già tale innovazione esclude
che possa darsi una risposta semplicistica alla individuazione degli ambiti
di applicazione delle due disposizioni. Con il mutamento di ruolo della persona
offesa non è possibile affermare, alla luce del dato apparente della medesima
formulazione delle condotte, che è stata semplicemente divisa la vecchia
fattispecie di concussione in due autonomi reati per distinguere le sanzioni
solo in base alla presunta maggior gravità di una "costrizione"
rispetto ad una "induzione". La previsione di punibilità dei
privato, inoltre, impone di interpretare la disposizione nel senso che la sua
condotta costituente reato rientri nell'ambito della
"rimproverabilità" e della "esigibilità", valutate in
astratto. Per quanto questi siano criteri sostanzialmente riferibili
all'elemento soggettivo del reato, laddove si scegliesse una interpretazione
nel senso che risponda del reato in questione il privato che subisca una
coartazione, si punirebbe una condotta che, già sul piano della fattispecie
astratta, verrebbe caratterizzata da un elemento psicologico rispetto al
quale vi sarebbe sempre un fondato dubbio sulla inesigibilità e
rimproverabilltà. E' quindi calzante l'osservazione sull'effetto che
comporterebbe il ritenere l'obbligo del privato di resistere ad un
significativo grado di coartazione psicologica: "Viceversa, punire chi
si sia piegato alla minaccia, ancorchè essa si sia presentata in forma blanda
, significa richiedere al soggetto virtù civiche ispirate a concezioni di
stato etico proprie di ordinamenti che si volgono verso concezioni
antisolidarìstiche e illiberali. (Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012 - dep.
22/01/2013, Roscia, Rv. 253935)". Pertanto la nuova fattispecie criminosa
non può corrispondere puramente e semplicemente ai casi per i quali, come
meglio si specifica dopo, la giurisprudenza precedente parlava di condotta di
"induzione". Allo stesso modo, per i fatti contestati prima della
riforma, come nel caso del presente processo, non si può ritenere
significativa la utilizzazione nel capo di imputazione del termine
"induzione". Infatti, non essendovi una
differenziazione normativa tra le condotte di costrizione ed induzione, che
erano indicate indifferentemente nell'art. 317 cod. pen. previgente, nella prassi
giudiziaria si utilizzavano in modo fungibile i termini
"costringeva" o "induceva "e, talora, li si utilizzava
entrambi con formulazioni quali "costringeva ed induceva" oppure
"costringeva o, comunque, induceva". Un sommario esame della
giurisprudenza degli ultimi anni dimostra come, nella maggior parte dei casi
in cui si faceva differenza fra le due condotte, la "induzione"
fosse divenuto un termine maggiormente utilizzato per significare una più
blanda costrizione ovvero una costrizione non esplicita ed il termine
"costrizione", invece, fosse utilizzato prevalentemente per definire
minacce di maggiore gravità o, comunque, esplicite. Se però si tiene conto di
un'altra innovazione delle due disposizioni in questione, art. 317 e art. 319 quater cod. pen., è già possibile
dare un indirizzo ai fini della interpretazione nel senso che la
"induzione" non può essere una, pur blanda, vera e propria minaccia
(corrispondente alla figura generale dell'art. 612 cod. pen.) e che, per converso, la
"costrizione" vale, con la nuova formulazione, a coprire qualsiasi
ipotesi di minaccia di un male ingiusto. Difatti una ulteriore e
rilevante modifica apportata con il nuovo reato di concussione è che non è
più previsto quale soggetto attivo l'incaricato di pubblico servizio; la
concussione, oggi, è un reato proprio del solo pubblico ufficiale. Entrambi, invece, sia il
pubblico ufficiale che l'incaricato di pubblico servizio, possono essere gli
autori del reato di induzione indebita di cui all'art. 319 quater cod. pen.. Non sembra che possa dubitarsi
che la condotta dell'incaricato di pubblico servizio che abbia le
caratteristiche della concussione rientri oggi nel reato di estorsione quando
la sua condotta consista nella minaccia di un male ingiusto (con evidente
continuità normativa per i fatti commessi in precedenza, ma non è un tema che
qui interessa), minaccia resa possibile dall'abuso della posizione. Quindi si può affermare che
l'incaricato di pubblico servizio risponde del reato di cui all'art. 319 quater cod. pen. solo quando la sua
condotta non integri estorsione, in quanto nell'art. 319 quater vi è la
clausola di riserva "salvo che il fatto costituisca più grave
reato"; ed il reato di estorsione è più grave. La necessaria conclusione è nel
senso che il reato di induzione indebita non può avere un ambito di
applicazione più ampio quando ne sia responsabile il pubblico ufficiale
rispetto al caso in cui lo commetta l'incaricato di pubblico servizio. A
ritenere il contrario, se cioè l'estorsione avesse un ambito più ampio e non
corrispondente alla concussione, avremmo incomprensibili disparità nel
trattamento di identiche condotte. Se, infatti, la
"costrizione" non dovesse avere un ambito corrispondente alla
"minaccia" dell'estorsione e, quindi, nel concetto di "induzione"
rientrassero anche (de)i casi di minaccia in senso proprio, pur se
caratterizzati da minor gravità, innanzitutto vi sarebbero condotte che, se
commesse dal pubblico ufficiale, sarebbero punite meno gravemente che se
commesse dall'incaricato di pubblico servizio. In ipotesi, per il primo la
minaccia lieve commessa con abuso di qualità/poteri al fine di ricevere un
profitto verrebbe punita ai sensi dell'art. 319 quater cod. pen. e, per il secondo,
dall'art. 629 cod. pen.. Inoltre, e questa sarebbe una
conseguenza ancor più anomala, il privato vedrebbe la propria condotta in un
caso valutata come di vittima di una estorsione e nell'altro di responsabile
del reato di cui all'art. 319 quater cod. pen.. Ma sarebbe del
tutto irragionevole differenziare così fortemente le conseguenze della sua
condotta a seconda se abbia ceduto alle pressioni di un pubblico ufficiale o
di un incaricato di pubblico servizio (a tacere del problema della
consapevolezza della esatta qualifica e del rilievo del possibile errore). Già, quindi, si può anticipare
la conclusione nel senso che la condotta di induzione rilevante ai fini
dell'art. 319 quater cod. proc. pen. deve essere certamente caratterizzata da
una condizione di metus publicae potestatis e da una forma di pressione
psicologica, ma la stessa debba essere più propriamente una forma di
persuasione, di prospettazione della convenienza del cedere alla richiesta
del pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio piuttosto che la
minaccia in senso tecnico (art. 612 cod. pen.), come meglio si chiarirà
oltre. Queste prime conclusioni sono
difatti confermate anche valutando il possibile criterio interpretativo per
distinguere, in base alla terminologia utilizzata, costrizione ed induzione;
anche in questo modo si giunge alla conclusione che nella nuova formulazione
dell'art. 317 cod. pen. la "costrizione"
corrisponde alla minaccia di male ingiusto. Innanzitutto va considerato che
i due termini non possono essere posti sullo stesso piano: mentre la
costrizione rappresenta un'azione, l'induzione è la conseguenza di una
azione. Ciò corrisponde innanzitutto al
significato nel linguaggio comune di "induzione" ed
"indurre" e, una volta separate le due condotte, non si può interpretare
"induzione" che secondo il proprio significato letterale piuttosto
che secondo il particolare significato che aveva assunto nella vecchia
giurisprudenza in ragione dell'accostamento all'altra condotta nell'art. 317 cod. pen.. Del resto, proprio da varie
norme del sistema penale, sia norme originarie del codice penale, che
dimostrano l'iniziale utilizzazione da parte del legislatore del 1930, che
norme recenti, risulta che la "induzione" è termine utilizzato, nel
suo ampio significato proprio, per indicare la conseguenza di altre azioni,
sia di violenza/minaccia che ingannatrici: nell'art. 377 bis cod. pen.. Si legge
"Chiunque, con violenza o minaccia, o con offerta o promessa di denaro o
di altra attività, induce a non rendere dichiarazioni ..."L'induzione,
quindi, può essere conseguenza di condotte assolutamente opposte. Nell'art. 494 c.p. si "induce ... in
errore". Nel reato di violenza sessuale la induzione è condotta che mira
a "trarre in inganno". Nel reato di truffa troviamo "inducendo
taluno in errore". Il termine
"induzione" non è, quindi, univocamente riferibile ad una condotta
di sia pur blanda coartazione, ma non può neanche essere inteso, nell'art. 319 quater cod. pen., come induzione in
errore, non essendo giustificata, in tale ultimo caso, la punibilità del
privato. Si deve allora individuare
quali siano gli ambiti di una condotta che rientri nella previgente
concussione, che sia caratterizzata da una pressione psicologica cui il
privato consapevolmente cede ma che non giunga alla soglia della minaccia di
un male ingiusto nella definizione di cui all'art. 612 cod. pen.. Questa è la condotta
"spacchettata" e posta a base del nuovo reato di cui all'art. 319 quater cod. pen.. A tale fine rileva il
significato assunto nel diritto vivente dal concetto di induzione, nei casi
in cui lo si sia voluto espressamente differenziare (e non utilizzare
indifferentemente) - significato ragionevolmente valutato dal legislatore
della riforma; si deve così individuarne l'ambito più ampio rispetto ai casi
in cui ricorre la minaccia del male ingiusto. Il reato di concussione nasce
nel codice R. dalla unificazione delle due fattispecie del codice previgente
che disciplinava e puniva con pene diverse la concussione per
"costrizione" e quella per "induzione". Anche con la
concussione unificata del codice R., come si legge nella giurisprudenza più
datata, le due figure mantenevano una netta distinzione. L'induzione è/era
(Sez. 6, Sentenza n. 82 del 20/01/1967 Ud. (dep. 29/05/1967) Rv. 104344), la
"persuasione fraudolenta" che ricorre o quando la vittima
"indipendentemente dall'uso di artifizi o raggiri" (caso nel quale,
invece, si indica il possibile ricorrere della truffa aggravata) per il
"metus publicae potestatis" crede che la richiesta del p.u. sia
legittima o quando le vittime siano "persone consapevoli di subire un
sopruso e tuttavia rassegnate a sopportarlo per timore di rappresaglie". E' quindi possibile trarre
delle conclusioni sufficientemente certe: La figura della concussione
nella precedente formulazione nasceva con riferimento a due possibili
condotte del pubblico ufficiale, di costrizione o d'induzione, prevedendo un
ampio ambito di applicazione. La norma puntava essenzialmente ad individuare
casi in cui la volontà del privato, posto in condizioni di effettuare una
indebita dazione di utilità (si rammenti, non solo denaro od utilità
strettamente economiche), non fosse libera. E questo poteva essere effetto
sia di una costrizione che, più in generale, di qualsiasi condotta tendente a
porre il privato in condizioni di ritenere necessario accettare le richieste
del pubblico ufficiale. Infatti, secondo la giurisprudenza/più risalente, si
riteneva che la induzione potesse consistere anche in una situazione di
inganno per cui, oltre alla ipotesi di concussione quale estorsione commessa
con il particolare abuso dei poteri, si delineava chiaramente anche
un'ipotesi di concussione che si andava a porre quale ipotesi speciale di
truffa aggravata. Nella successiva evoluzione
giurisprudenziale e dottrinaria tale condotta decettiva è stata però ritenuta
più propriamente integrare il reato di truffa vero e proprio mentre il reato
di concussione, negli anni recenti, è stato ritenuto quale caratterizzato da
una condizione di soggezione del privato che è "costretto" a tenere
una determinata condotta. Nella evoluzione dell'istituto il concetto di
"induzione", come già detto, è diventato prevalentemente quello di
indicare la costrizione non realizzata mediante condotte esplicite ovvero di
immediata minaccia. Una volta che la espressione
viene cancellata dal reato di concussione ed utilizzata in una nuova
(apparentemente simile) disposizione, "indurre" torna ad avere il
suo significato proprio, della lingua comune e, comunque, dell'ordinamento
penale, di "convincimento". Risulta quindi corretta
un'interpretazione che lascia nell'ambito della concussione (sostanzialmente
parallela alla estorsione) qualsiasi prospettazione di un danno ingiusto per
ricevere indebitamente la consegna o la promessa di denaro o di altra utilità
e che, invece, faccia rientrare nella ipotesi di cui all'art. 319 quater cod.
proc. pen. una condotta di persuasione, basata sulla maggiore forza (quindi
il metus publicae potestatis) del soggetto con la qualifica pubblica che
prospetta una conseguenza dannosa (che non sia un "male ingiusto")
che induca il privato, senza reali spazi "contrattuali" sull'an,
alla prestazione illecita. Tale conclusione si trae dalla
giurisprudenza di questa Corte sull'art. 317 cod. pen. previgente secondo la quale
ciò che caratterizza il reato di concussione non è lo svantaggio per il
privato o il suo necessario stato soggettivo di timore. La fondamentale
caratteristica del reato di concussione previgente era la condotta del
pubblico ufficiale che, abusando di qualifica o funzioni, poneva di fatto il
privato davanti alla necessità di aderire alle sue pretese indipendentemente
dal carattere vantaggioso o meno, per il privato, del cedere, Del resto nel
processo qui in oggetto non si discute della prospettazione di un male
ingiusto in quanto i pubblici ufficiali richiedevano denaro per non compiere
attività dell'ufficio consistente nel rilievo degli illeciti che
coinvolgevano l'azienda. E' particolarmente
significativa la costante giurisprudenza di questa Corte intervenuta sul tema
della distinzione tra corruzione e concussione in riferimento ai casi nei
quali il privato tragga comunque un qualche vantaggio dalla condotta illecita
del pubblico ufficiale. Si è sempre affermato che la concussione ricorre) a fronte
del dato atteggiamento prevaricatore, anche se non vi è prospettazione di un
"male ingiusto"; ed è cosi, si ripete, che ben si individua l'area
di applicabilità della nuova figura di reato. "(Sez. 6^, n. 40898,
18/05/2011 Cataluddi e altri) Osserva E' il caso di precisare che
integra l'abuso di potere anche la minaccia da parte del pubblico ufficiale
dell'esercizio di un potere legittimo, ma al fine di conseguire un fine
illecito, quale certamente è l'ottenimento dell'indebito: la deviazione
dell'esercizio del potere dalla sua causa tipica verso un obiettivo diverso
ed estraneo agli interessi della Pubblica Amministrazione concreta l'abuso. L'abuso di potere da parte del
pubblico ufficiale determina nel soggetto passivo, come conseguenza, uno
stato d'animo tale da porto in posizione di soggezione rispetto al primo,
condizione questa che costituisce la premessa dell'atto dispositivo indotto e
costituito dalla dazione del concusso.". "Sez. 6, n. 9528 del
09/01/2009 - dep. 03/03/2009, Romano e altri, Rv. 243047: .... la circostanza
che l'atto, oggetto del mercimonio, del pubblico ufficiale sia illegittimo e
contrario ai doveri di ufficio non comporta per sè la degradazione del titolo
del reato da concussione in corruzione, neppure quando il soggetto passivo
versi già in illecito e sia consapevole dell'illegittimità dell'atto, posto
che ciò che occorre e basta ai fini della sussistenza della concussione è che
rimanga inalterata la posizione di preminenza prevaricatrice del pubblico ufficiale
sull'intimorita volizione del privato (Cass. 01.02.1993, Cardillo), indotta
dall'abuso delle qualità o delle funzioni del primo (Cass. 09.03.1984,
Avalle), tale da escludere che la volontà del secondo si sia liberamente
determinata (Cass. 04.05.1983, Alfonso). La conclusione è quindi, quella
già affermata da questa Corte (Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012 - dep.
22/01/2013, Roscia, Rv. 253935). Di converso, stante il già detto ambito
residuale della norma, compie il reato di cui all'art. 319 quater chi per
ricevere indebitamente le stesse cose prospetta una qualsiasi conseguenza
dannosa che non sia contraria alla legge .... non può parlarsi di minaccia
perchè il danno non sarebbe iniuria datum e perciò la costrizione è mancata,
ma essendosi ciononostante raggiunto il risultato, il soggetto è stato
comunque indotto alla promessa o alla consegna indebita". Ricorre la induzione indebita,
insomma, in quei casi in cui al privato non venga minacciato un danno
ingiusto e possa, anzi, avere persino una convenienza economica dal cedere
alle richieste del pubblico ufficiale laddove costui "induca" al
pagamento quale alternativa alla adozione di atti legittimi della
amministrazione, dannosi per il privato. Così individuando l'area di
applicabilità della nuova disposizione, innanzitutto si da un contenuto
identico al reato, sia esso commesso dal pubblico ufficiale che
dall'incaricato di pubblico servizio, in quanto è una condotta che non
rientra nè nell'estorsione nè nella concussione, da ritenere, per quanto
detto, oggi limitata alla prospettazione di un danno ingiusto (costrizione). In questo modo, inoltre, trova
piena giustificazione la sanzione nei confronti del privato superandosi le
ragioni di perplessità sopra indicate. Difatti, in una situazione in
cui, pur a fronte di un comportamento prevaricatore, il pubblico ufficiale
prospetta una situazione comunque vantaggiosa per il caso di corresponsione
di quanto richiesto, si rientra certamente nell'ambito dei comportamenti
esigibili. E', infatti,
"esigibile" che il privato resista ad una tale pretesa, ancorchè il
complesso della situazione abbia fatto ragionevolmente optare per un livello
di sanzione inferiore a quella del soggetto pubblico; ed è
"rimproverabile" il privato nel caso in cui abbia invece optato per
cedere alle richieste del pubblico ufficiale, senza però rischiare un danno
ingiusto ma ottenendone, comunque, un vantaggio. L'effetto della nuova
normativa, è, quindi, quella di lasciare il più grave reato di concussione
per le situazioni sostanzialmente corrispondenti alla estorsione. Quanto detto risolve anche il
tema della continuità normativa; le condotte che oggi rientrano nella nuova
ipotesi di reato erano, in precedenza, qualificabili come concussione. La distinzione per qualificare
correttamente le condotte commesse e contestate prima della L. n. 190 del 2012 va fatta non sulla base
dell'uso formale dei termini "costrizione" ed
"induzione", ma analizzando la condotta contestata e le conseguenze
paventate dal pubblico ufficiale per ottenere il denaro o le altre utilità,
ovvero se abbia prospettato un male ingiusto o meno. In base a quanto detto sopra, i
fatti contestati ai ricorrenti ed accertati vanno inquadrati nella nuova
figura di reato di cui all'art. 319 quater cod. pen.. Tutta la condotta
dei due imputati è consistita nel prospettare l'esercizio di attività in sè
legittime individuando irregolarità fiscali sia nell'azienda in cui erano in
esecuzione le attività di verifica che nelle altre aziende del gruppo. Il
pagamento della somma pretesa veniva comunque presentato come alternativa ad
un danno non certo qualificabile ingiusto. Si tratta esattamente della
condotta che oggi rientra nel reato di induzione indebita. Per questa ragione, si impone
l'annullamento con rinvio della sentenza dovendo il giudice di rinvio
rideterminare la pena alla luce della nuova disposizione, applicabile in
quanto più favorevole della previgente. Così riqualificato il fatto va
esaminato il secondo motivo del ricorso di P. con il quale si sostiene che
ricorra una ipotesi di tentativo. In riferimento alla vicenda in
esame va considerato come si pongano rispetto alla qualificazione della forma
consumata o tentata dei reati di concussione o di induzione indebita il caso
in cui il privato accetta di promettere con la riserva mentale di rivolgersi
alla polizia giudiziaria ed il caso in cui effettivamente il privato si
rivolga alla polizia giudiziaria organizzando una consegna controllata del
denaro, com'è avvenuto nel caso di specie. Il caso, affrontato più volte
da questa Corte, è stato costantemente risolto come segue: il reato di concussione (ed
oggi anche quello di induzione indebita) è consumato con la promessa del
pagamento e non con l'effettivo pagamento per cui il fatto che quest'ultimo
avvenga sotto il controllo della polizia giudiziaria, senza neanche la
possibilità per il pubblico ufficiale di arrivare a detenere in modo autonomo
il denaro od altra utilità corrispostagli, non è significativo al fine di
ritenere che il reato sia consumato o meno. Il discrimine è invece dato
dall'essere intervenuta la denunzia o comunque il comportamento teso ad
allertare le forze dell'ordine prima o dopo la "promessa", momento
di consumazione del reato. Quanto alla riserva mentale di
futura denunzia, non è dato rilevante in quanto non impedisce, nel frattempo,
la conclusione dell'accordo (Sez. 6, n. 20914 del 05/04/2012 - dep.
30/05/2012, Tricarico, Rv. 252786: E' dunque evidente, nel
caso di specie, che la promessa venne effettuata prima della presentazione
della denuncia alla Guardia di Finanza, cui fece seguito, l'indomani mattina,
la predisposizione dell'appostamento in occasione della consegna all'imputato
della prima franche della somma di denaro richiesta. Al riguardo è noto -
secondo l'insegnamento espresso da un pacifico e risalente indirizzo
giurisprudenziale, che questa Suprema Corte ritiene ampiamente condivisibile
(Sez, 6, n. 11384 del 21/01/2003, dep. 11/03/2003, Rv, 227196; Sez. 6,10
ottobre 1979, dep. 3 marzo 1980, n. 2972, Rv. 144526; Sez. 6, 5 febbraio 1981,
dep. 4 novembre 1981, n. 9803, Rv. 150809) - che nel delitto di
concussione la predisposizione dell'azione di polizia con la collaborazione
della vittima, allo scopo di sorprendere in flagranza di reato il funzionario
disonesto, non assume alcuna rilevanza giuridica allorquando, essendosi
verificata in precedenza la promessa, il reato risulti già consumato.
Viceversa, solo nell'ipotesi in cui la sequenza abuso - induzione - metus -
promessa si arresti prima di quest'ultimo passaggio, che rappresenta il
momento consumativo, il reato deve ritenersi tentato e non consumato,
sussistendo i presupposti degli atti idonei diretti in modo non equivoco a
commetterlo (Sez. 6, n. 10355 del 07/06/2007, dep. 06/03/2008, Rv. 238912). A
fronte della su acclarata ricostruzione storico-fattuale, conclusivamente,
deve ritenersi del tutto irrilevante la sollecitazione di un intervento della
polizia giudiziaria dopo l'effettuazione della promessa, poichè la relativa
richiesta del soggetto passivo, in tal caso, è avvenuta successivamente al
perfezionamento del reato. Nè, del resto, può tralasciarsi di considerare che
la giurisprudenza di legittimità ritiene integrato il delitto di concussione
finanche nell'ipotesi in cui la promessa di denaro fatta dal privato al
pubblico ufficiale sia sorretta dalla speranza che un efficace intervento
delle forze dell'ordine ne impedisca l'adempimento, non potendosi ritenere
sufficiente ad escludere il metus publicae potestatis la sola circostanza che
il soggetto passivo si sia rivolto alla forze di polizia per sottrarsi alle
pretese dell'autore del reato (Sez. 6, 17303 del 20/04/2011, dep. 05/05/2011,
Rv. 250066).). Il tema del momento consumativo
del reato rispetto alla data della prima denunzia in Procura è ampiamente
sviluppato nelle pagine da Quindi correttamente Possono infine valutarsi anche
i residui motivi dei due ricorsi. Il sesto motivo del ricorso R.
è manifestamente infondato in quanto contesta la mancata applicazione delle
attenuanti generiche senza indicare specifiche carenze della motivazione o
errori macroscopici ma chiedendo, di fatto, una valutazione di merito, non
consentito in sede di legittimità, degli elementi che, secondo la difesa, giustificherebbero
l'applicazione delle predette attenuanti. Il settimo motivo è assorbito
dalla nuova valutazione che dovrà fare il giudice di rinvio. Manifestamente infondato è,
infine, il terzo motivo del ricorso P.. Premesso che la attenuante di cui
all'art. 323 bis c.p., è applicabile anche al
reato di induzione indebita, per cui il tema permane rilevante anche a fronte
della riqualificazione del fatto, va considerato che la complessiva
motivazione sul trattamento sanzionatorio e sulla inapplicabilità delle
attenuanti generiche fornisce una motivazione in tema di gravità della
condotta che, evidentemente, non consente di ritenere la "particolare
tenuità" della condotta. Peraltro rileva lo stesso dato della genericità
degli stessi argomenti della difesa che, anche in astratto, non riescono a
prospettare adeguatamente la sussistenza di tale attenuante, icto oculi
difficilmente compatibile con la vicenda in questione. In conclusione, ritenuto il
fatto integrare il diverso reato di cui all'art. 319 quater c.p., la sentenza va annullata
con rinvio ad altra sezione della stessa Corte di Appello che, con nuovo
giudizio, valuterà i fatti, come già accertati ed alla luce della diversa
qualificazione giuridica, per le determinazioni in ordine alla pena. P.Q.M. Qualificato il fatto come reato
di cui all'art. 319 quater cod. pen. annulla la sentenza
impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello
di Milano. Rigetta nel resto. Così deciso in Roma, il 25
febbraio 2013. Depositato in Cancelleria il 21
marzo 2013
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