E’ scriminata la lesione del consenziente? nota a Tribunale Militare
i Torino sent. n. 123, 9 febbraio 1999
di Monica Abbatecola
Il problema affrontato dal Tribunale Militare di Torino con la sentenza
n.123 del 9 febbraio 1999 ripropone le difficoltà di individuare
quali siano i diritti di cui un soggetto possa validamente disporre, ai
fini dell’applicazione dell’art. 50 c.p. .
La sentenza che si annota espone sinteticamente le principali teorie
elaborate in materia con riguardo al delitto di lesioni personali e più
genericamente al bene dell’integrità fisica, per discostarsi, tuttavia,
da queste attraverso un’argomentazione logica.
Il caso concreto riguardava un’ustione provocata da un militare ad
un collega attraverso la parte metallica di un accendino, previamente riscaldata,
alla quale, come emergeva dalle testimonianze, l’offeso aveva acconsentito
liberamente, chiedendo anzi egli stesso di essere sottoposto a questa sorta
di “rito di iniziazione” al gruppo.
Dottrina e giurisprudenza prevalenti hanno configurato il bene
dell’integrità fisica come parzialmente indisponibile, attraverso
il richiamo all’art. 5 c.c. , che, per quanto di elaborazione posteriore
al codice penale permetterebbe con maggior certezza rispetto al passato,
di interpretare l’istituto de quo.
In precedenza il problema era stato dibattuto nel corso dei lavori
preparatori al codice Rocco, il cui progetto preliminare prevedeva una
disposizione, l’art. 589 rubricato “lesioni del consenziente”, il quale,
parallelamente alla norma, questa tuttora vigente, sull’omicidio del consenziente,
disponeva una pena attenuata per siffatta ipotesi.
Detto articolo fu soppresso seguendo le indicazioni della Commissione
Ministeriale, nelle cui sedute si discusse diffusamente del problema ,
nonostante pareri sostanzialmente favorevoli resi dalla dottrina universitaria
e dalla magistratura .
La stessa relazione al Re del Guardasigilli, esponendo le ragioni di
tale soppressione, manifesta di aver ritenuto inutile una forma di attenuazione
per le lesioni poiché la fattispecie non può essere mai attenuata,
qualora la lesione rappresenti violazione di un diritto di terzi – come
nel caso di lesioni acconsentite per sottrarsi al servizio militare o per
frodare l’assicurazione- e poiché si ritenne fuori dalla realtà
della vita che un soggetto acconsenta senza motivo alla lesione della propria
integrità fisica .
Invero sono proprio questi ultimi casi a sollevare i maggiori dubbi,
e la sentenza che si annota si inserisce in tale casistica: rispetto ad
essi una stretta interpretazione sembra condurre, in assenza di altri parametri,
a ritenere che la norma generale sul consenso scriminante potesse essere
applicata loro.
In tal senso si rinviene un lontano precedente in una sentenza della
Corte di Cassazione del 1934, che fece scalpore, ritenendo non punibile
l’asportazione consentita di una ghiandola sessuale, finalizzata ad un
trapianto su altro uomo, poiché in tal caso si era ritenuto essere
in presenza di quelle ipotesi in cui il consenso ha efficacia di escludere
il reato, volto ad autorizzare un danno al proprio corpo che non rende
fisicamente e socialmente inidoneo l’individuo all’adempimento dei suoi
doveri in rapporto alla famiglia e allo Stato .
Più specificamente la decisione suddetta aveva ritenuto disponibile
in detti limiti l’integrità fisica a condizione che il consenso
fosse lecito concorrendo a realizzare uno scopo di particolare valore sociale,
qual era il vantaggio alla salute ottenuto dal destinatario del trapianto,
consistente nel riacquisto della capacità di procreare .
Le diverse ed opposte reazioni suscitate in dottrina provano come la
materia rimanesse avvolta nell’incertezza e spiegano come l’art. 5 c.c.,
che del resto appariva come il risultato dell’elaborazione precedente di
dottrina e giurisprudenza sull’art. 50 c.p., fosse stato immediatamente
utilizzato come direttiva per dirimere simili dubbi.
Nonostante che tale norma sia ampliamente accolta come strumento interpretativo
della portata del consenso nel diritto penale , non mancano voci contrarie
che fanno leva sul dato cronologico e sulla separazione delle diverse branche
del diritto, penale e civile, che si riverbera sulla diversità di
funzioni, come evidenzia la sentenza in commento, l’una, quella dell’art.
50 c.p., volta a dirimere il conflitto di interessi tra l’autore del fatto
e quello tutelato dalla norma, l’altra, propria dell’art. 5 c.c., indirizzata
a rendere inefficaci atti lucrativi aventi ad oggetto il proprio corpo.
In verità già il legislatore nei lavori preparatori richiamava
spesso l’ordinamento generale come fonte per individuare quando un soggetto
potesse legittimamente (ora validamente) disporre di un suo diritto ed
inoltre, a nostro parere, l’art. 5 c.c. vieta quel tipo di atti di disposizione
anche qualora siano gratuiti.
Anche per la presenza di siffatte discussioni, oscillanti tra il ritenere
sempre inesistente il delitto di lesioni ove ricorresse il consenso della
persona offesa e il ritenere comunque applicabile la pena stabilita per
le normali lesioni, nonostante il contrasto con la soluzione adottata per
l’omicidio del consenziente, un progetto di riforma del codice Rocco del
1949-1950 prevedeva l’introduzione di una norma che punisse in modo attenuato
le lesioni del consenziente, non ritenendo improbabile, come invece sembrava
credere il legislatore del ’30, che “possa venire prestato il consenso
per una lesione che ecceda i limiti –del resto incerti- dalla facoltà
di disporre della propria integrità fisica senza ledere contemporaneamente
diritti di terzi” .
Attualmente però i dubbi che l’art. 5 c.c. lascia insoluti sarebbero,
per alcuni autori , risolvibili ricorrendo ad un solido e più pregnante
argomento ricavabile dal dettato costituzionale, alla luce del quale occorre
interpretare le norme vigenti.
E’ da ritenersi che il codice, nell’intenzione dei suoi compilatori,
escludendo l’articolo afferente alle lesioni del consenziente, non volesse
negare rilevanza al consenso rispetto a simile delitto, anzi, nonostante
l’ambiguità delle parole del Guardasigilli, sopra riportate, circa
l’utilità di una specifica norma in materia, intendesse ricondurre
anche tale fattispecie nell’alveo dell’art. 50 c.p., in mancanza di previsioni
più puntuali rispetto alle quali il consenso non poteva annullare
il disvalore del fatto alla luce della scala di interessi allora esistente.
Ciò è ricavabile, come fa la sentenza che si annota,
e come già aveva evidenziato il Progetto del 1949, da un argomento
logico per il quale non si capisce come il legislatore abbia dato rilevanza
al consenso rispetto al bene vita e non al bene integrità fisica,
questo, oggi, anche alla luce dell’interpretazione imposta dall’art. 3
Cost. per la quale simile soluzione sarebbe irragionevole.
Del resto l’applicazione del consenso scriminante alle lesioni è
coerente con l’impianto originario del codice ispirato ad una ipotetica
scala di valori nella quale i beni personali vengono sacrificati di fronte
a più alti interessi dello Stato, della società e dei terzi.
Sembra che, come aveva a suo tempo asserito la Suprema Corte
nella decisione citata, non siano ravvisabili limiti alla disponibilità
dei propri diritti oltre a quelli tracciati da tali superiori interessi.
Simile ricostruzione sembrerebbe vacillare alla luce della tutela riconosciuta
dalla Costituzione alla salute garantita come bene primario e diritto fondamentale
dell’individuo: la dottrina sopra citata, in posizione contraria a quella
adottata dalla sentenza che si annota, ritiene infatti che l’art. 32 cost.
escluda l’efficacia scriminante dell’art. 50 c.p. rispetto alla lesione
del consenziente, memore altresì di emendamenti proposti in fase
costituente, volti a vietare atti di disposizione del proprio corpo incompatibili
con la dignità umana.
Ritenendo insufficiente l’art. 5 c.c. tale dottrina riconosce nell’art.
32 cost. una forte limitazione della disponibilità della persona
che realizza una notevole garanzia per i singoli, fondando una sorta di
diritto-dovere dell’individuo di conservare la propria integrità
fisica.
“In questa prospettiva occorrerà ricercare in apposite
norme giustificatrici o all’interno dei principi generali dell’ordinamento,
gli elementi che consentono di derogare ai limiti costituzionali e che
quindi permettono l’individuazione dei casi nei quali il consenso del soggetto
titolare del diritto continua validamente ad esplicare efficacia scriminante”
.
Gli stessi lavori preparatori, invero, rinviano spesso alla consuetudine
e all’ordinamento generale per l’individuazione della portata di siffatta
causa di giustificazione.
Nonostante tale teoria catturi l’attenzione degli interpreti,
essa viene smentita dai lavori preparatori della Costituente.
Non si rinviene traccia, infatti, nelle sedute dell’epoca del problema
de quo e gli emendamenti proposti al testo dell’allora art. 26, sia quelli
accolti sia quelli soppressi o ritirati, non lasciano desumere una volontà
di limitare la disponibilità dell’individuo della propria integrità
fisica, se non naturalmente e limitatamente ai casi in cui sia in gioco
la salute collettiva .
Lo stesso emendamento, poi ritirato, con il quale si intendeva vietare
al singolo di disporre del proprio corpo in maniera incompatibile con la
dignità umana, risulta del tutto inconferente poiché assolutamente
estraneo alla problematica in esame .
Pur essendo incontrovertibile che la Costituzione ha adottato il principio
personalista riconoscendo la persona come centro di interessi e di valori
intorno al quale ruota tutto il sistema delle garanzie personali ed imponendo
allo Stato di regolare la società secondo canoni conformi alla dignità
dell’uomo, e che coerentemente a ciò può essere letto il
diritto alla salute, sembra difficile evincere dall’art. 32 cost. un corrispondente
dovere, sanzionato penalmente, in capo al singolo di preservare la propria
salute, quando non entrino in gioco interessi di terzi e, più genericamente,
della collettività .
Si può quindi ritenere condivisibile la soluzione adottata dal
Tribunale Militare di Torino, ricordando come l’art. 5 del codice civile
rimanga un buon punto di riferimento per l’interprete, da leggere tuttavia
nel senso che siano vietate, e dunque non consentibili validamente, le
lesioni che comportano una riduzione permanente della funzionalità
dell’individuo, avendo cura di valutare l’integrità fisica in termini
non meramente anatomici.
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