Corte Costituzionale, Sent. 11 luglio 2003 n. 233, sul risarcimento
del danno morale e sulla prova del reato in sede civile
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2059 del
codice civile, promosso con ordinanza del 20 giugno 2002
dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Manetti
Luciano ed altri contro Ingretolli Daniela ed altri,
iscritta al n. 60 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie
speciale, dell’anno 2003.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2003 il Giudice relatore
Annibale Marini.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale di Roma, con ordinanza dell’11 maggio 2002, depositata
il 20 giugno 2002, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2059 cod. civ.
In punto di rilevanza, il rimettente espone di doversi pronunciare su
domande di risarcimento del danno morale
avanzate dagli eredi di persone decedute in un sinistro stradale nei
confronti dei conducenti dei veicoli coinvolti nel
sinistro stesso. Aggiunge che nessuna delle parti è riuscita
a superare la presunzione di colpa in pari misura
concorrente posta a carico di ciascuno dei conducenti dall’art. 2054,
secondo comma, cod. civ., cosicché le
suddette domande risarcitorie dovrebbero essere respinte, stante la
limitazione posta dall’art. 2059 cod. civ.,
dovendo – per diritto vivente – escludersi la risarcibilità,
ex art. 185 cod. pen., del danno morale nel caso in cui la
responsabilità dell’autore del fatto illecito, pur astrattamente
costituente reato, sia accertata in base ad una
presunzione di legge e non in base all’oggettiva ricostruzione del
fatto.
La previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale nei
soli casi previsti dalla legge, contenuta nella norma
impugnata, sarebbe tuttavia lesiva del diritto fondamentale dell’individuo
alla serenità morale, tutelato dall’art. 2
Cost., oltre ad essere fonte di inique ed ingiustificate disparità
di trattamento, tali da violare il principio di
eguaglianza. Sotto altro aspetto, essa avrebbe prodotto – per effetto
di orientamenti giurisprudenziali nel tempo
consolidatisi – ingiustificate duplicazioni risarcitorie, contrastanti
con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della
ragionevolezza, rispetto al tertium comparationis rappresentato dall’art.
2043 cod. civ.
Con riguardo al primo dei profili considerati, il rimettente osserva
che la norma impugnata si fonderebbe, in
definitiva, sull’assunto secondo cui i diritti della personalità
non costituiscono elementi del patrimonio del titolare e
la loro lesione non darebbe perciò luogo a risarcimento.
Siffatto assunto non potrebbe tuttavia trovare cittadinanza nell’ordinamento
costituzionale, posto che tutti i diritti
della personalità, nessuno escluso, ricevono tutela dagli artt.
2 e 3 Cost., come è del resto riconosciuto sia dalla
giurisprudenza di legittimità e di merito sia dalla migliore
dottrina. Né, d’altro canto, potrebbe sostenersi che la
sofferenza morale causata dalla perdita di un prossimo congiunto non
sia tutelata da alcun precetto costituzionale
e quindi – non costituendo un diritto della personalità – non
possa essere risarcita se non nei limiti stabiliti dall’art.
2059 cod. civ.
L’assurdità di una simile tesi, sul piano giuridico, risulterebbe
– secondo il rimettente - palese ove si consideri che,
secondo l’orientamento prevalente della dottrina, della giurisprudenza
di legittimità e di quella costituzionale, l’art.
2 Cost. sancisce il valore assoluto della persona umana ed è
norma a contenuto precettivo e non programmatico,
cosicché ogni proiezione della persona nella realtà sociale
sarebbe suscettibile di assurgere al rango di diritto
soggettivo perfetto, con la conseguente configurabilità di una
tutela risarcitoria in caso di lesione.
Non potendo dubitarsi che la famiglia sia una delle formazioni sociali
nelle quali l’individuo esplica la propria
personalità e che i vincoli famigliari costituiscano proiezione
della persona nella realtà sociale, ne discenderebbe
che i suddetti vincoli costituiscono, ex art. 2 Cost., oggetto di un
diritto soggettivo perfetto. L’art. 2059 cod. civ.,
impedendone la risarcibilità in caso di lesione, salvo i casi
previsti dalla legge, violerebbe perciò tanto l’art. 2 Cost.,
frustrando un diritto fondamentale, quanto l’art. 3, con riguardo al
principio di eguaglianza, differenziando
ingiustamente la situazione di chi perde un congiunto in conseguenza
di un illecito accertato e quella di chi invece
lo perde in conseguenza di un illecito presunto ex art. 2054 cod. civ.
La norma impugnata, d’altro canto, non sarebbe - ad avviso del rimettente
– suscettibile di una lettura
costituzionalmente orientata, così da superare il prospettato
dubbio di legittimità con riferimento al canone di
ragionevolezza.
In particolare, non ritiene il giudice a quo di poter condividere la
tesi secondo la quale la lesione di un diritto
costituzionalmente protetto sarebbe comunque risarcibile, nonostante
il tenore dell’art. 2059, in base al combinato
disposto dell’art. 2043 e della norma costituzionale di volta in volta
violata.
In primo luogo, tale orientamento si fonda sull’assunto che l’art. 2043
sia una norma in bianco, ma siffatto assunto
è stato ormai abbandonato dalla giurisprudenza delle Sezioni
unite della Cassazione, con la sentenza n. 500 del
1999, nella quale il danno risarcibile è espressamente definito
come la lesione dell’interesse al bene della vita al
quale l’interesse leso, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto,
effettivamente si collega. In tale ottica la
risarcibilità discende dunque dal fatto che l’interesse leso
sia rilevante per l’ordinamento, a prescindere
dall’esistenza di una garanzia costituzionale, e non vi è dubbio
– ad avviso sempre del giudice a quo – che
l’interesse alla propria serenità morale sia preso in considerazione,
sotto molti aspetti, dall’ordinamento.
Secondariamente, la tesi cosiddetta «del combinato disposto»
condurrebbe a svuotare l’art. 2059 cod. civ. di ogni
contenuto, atteso che qualsiasi danno morale potrebbe astrattamente
ricondursi alla lesione di un diritto
costituzionalmente protetto. Ma tra una interpretatio abrogans conforme
a Costituzione ed una interpretatio utilis
con questa contrastante l’interprete – secondo il rimettente - dovrebbe
necessariamente scegliere la seconda.
L’orientamento ermeneutico in esame porterebbe, infine, ad una irragionevole
duplicazione di risarcimento nel caso
in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato: in tal caso,
infatti, il danneggiato potrebbe agire sia per il
risarcimento del danno ingiusto, in base al combinato disposto degli
artt. 2 Cost. e 2043 cod. civ., sia per il
risarcimento del danno morale in base all’art. 2059 cod. civ.
In via dichiaratamente subordinata, il rimettente solleva poi, in riferimento
all’art. 3 Cost., una diversa questione di
legittimità costituzionale della stessa norma, nella parte in
cui non consente la liquidazione del danno non
patrimoniale nei casi in cui la responsabilità dell’offensore
venga affermata – come è nel giudizio a quo - in base ad
una presunzione di legge.
Il rimettente muove dalla considerazione che siffatta lettura della
norma, costituente diritto vivente, nacque in
un’epoca storica nella quale, vigendo l’art. 3 cod. proc. pen. del
1930, l’accertamento dell’illecito in sede civile era
necessariamente subordinato all’accertamento del reato in sede penale.
L’irrisarcibilità del danno morale in caso di responsabilità
presunta, quale conseguenza dell’inesistenza del reato
affermata in sede penale, discenderebbe pertanto dalla preminenza logica
della giurisdizione penale rispetto a
quella civile.
La situazione sarebbe radicalmente mutata a seguito dell’introduzione
del nuovo art. 75 cod. proc. pen., per
effetto del quale l’azione risarcitoria in sede civile può avere
uno svolgimento del tutto autonomo, ed un esito
anche contrastante, rispetto all’eventuale azione penale che sia promossa
per lo stesso fatto.
La norma impugnata si porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 3 Cost.
in quanto - «in modo irrazionale rispetto al
dettato dell’art. 75 cod. proc. pen., considerato quale tertium comparationis»
- nonostante la conclamata parità
delle giurisdizioni, precluderebbe al danneggiato che agisca in sede
civile ai fini del risarcimento del danno morale
«di avvalersi di uno dei mezzi di prova più tipici e risalenti
del processo civile, cioè la presunzione».
2.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, che ha concluso per la declaratoria di non fondatezza
della questione.
Ad avviso della parte pubblica, il senso della norma impugnata sarebbe
quello non di negare il riconoscimento dei
diritti della personalità tutelati dagli artt. 2 e 3 Cost.,
ma di limitare un profilo risarcitorio privo – per la particolare
natura di quei diritti - di effettiva idoneità ripristinatoria
della perdita subita.
La norma troverebbe in definitiva la propria giustificazione nell’esigenza
– pur essa frutto di civiltà giuridica - di
evitare che il debitore si trovi assoggettato ad un carico risarcitorio
sproporzionato rispetto all’entità del fatto
illecito, tanto più che, una volta ammessa la piena risarcibilità
del danno morale, sarebbe difficile giustificare la
limitazione della tutela risarcitoria – in una fattispecie come quella
sottoposta all’esame del giudice a quo - ai soli
congiunti e non anche ad altri soggetti legati alle vittime del sinistro
da rapporti di diversa natura.
La scelta operata dal legislatore sarebbe dunque frutto di una valutazione
non solo ampiamente discrezionale ma
altresì riconducibile ad un sistema complessivo, «non
suscettibile di riscrittura attraverso una mera pronuncia
abrogativa».
Legando la possibilità del risarcimento alla natura penale dell’illecito,
l’ordinamento avrebbe inteso, non
irragionevolmente, attribuire valore differenziale, tenuto conto della
specialità di questo tipo di danni, alla natura
della condotta anziché a quella dell’evento.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale di Roma – chiamato a pronunciarsi su domande di risarcimento
del danno morale avanzate dai
prossimi congiunti di persone decedute in un incidente automobilistico,
nei confronti dei conducenti dei veicoli
coinvolti, la cui responsabilità discende, secondo lo stesso
giudice, esclusivamente dalla presunzione di cui all’art.
2054, secondo comma, cod. civ. – solleva due diverse questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 2059 cod. civ.
La prima, che il rimettente qualifica come principale, ha ad oggetto
– con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. – la
previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale «solo
nei casi determinati dalla legge».
Siffatta limitazione risarcitoria sarebbe – ad avviso del rimettente
– lesiva del diritto fondamentale dell’individuo alla
serenità morale, tutelato dall’art. 2 Cost., nonché fonte
di ingiustificate disparità di trattamento tra danneggiati.
Avrebbe inoltre dato causa – per effetto di orientamenti giurisprudenziali
nel tempo consolidatisi – ad ingiustificate
duplicazioni risarcitorie, contrastanti con l’art. 3 Cost. sotto il
profilo della ragionevolezza.
La seconda questione, indicata come subordinata, riguarda invece, con
riferimento all’art. 3 Cost., la medesima
norma nella parte in cui escluderebbe la risarcibilità del danno
non patrimoniale allorché la responsabilità dell’autore
del fatto, corrispondente ad una fattispecie astratta di reato, venga
affermata – come appunto nel caso di specie
- in base ad una presunzione di legge.
Siffatta esclusione si porrebbe in irragionevole contrasto con il principio
di parità delle giurisdizioni civile e penale,
proclamato dall’art. 75 cod. proc. pen., precludendo al danneggiato
che agisca in sede civile ai fini del risarcimento
del danno non patrimoniale di avvalersi di un mezzo di prova tipico
del processo civile, quale la presunzione.
Presupposto interpretativo comune ad entrambe le questioni è
quello – certamente non implausibile – secondo cui
l’ambito di applicazione dell’art. 2059 cod. civ. copre l’intera area
del danno non patrimoniale, restando perciò
preclusa al giudicante la possibilità di risarcire il pregiudizio
alla serenità morale, derivante dalla perdita di un
congiunto per fatto illecito altrui, mediante il ricorso all’art. 2043
cod. civ., in combinato disposto con l’art. 2 Cost.
2.- Una corretta valutazione del rapporto di pregiudizialità
tra le questioni oggetto del presente giudizio porta ad
invertire l’ordine di trattazione seguito dal rimettente, esaminando
prioritariamente la questione sollevata,
nell’ordinanza, in via subordinata.
Il rimettente infatti, in relazione ad una domanda di risarcimento del
danno morale derivato agli attori dalla morte di
congiunti in uno scontro tra veicoli provocato da fatto illecito altrui,
ritiene di non poter accertare concretamente
l’elemento soggettivo del dolo o della colpa dell’autore dell’illecito
e di dover quindi ricorrere alla presunzione di pari
responsabilità dei conducenti dei veicoli, posta dall’art. 2054,
secondo comma, cod. civ. Pertanto il dubbio di
costituzionalità da lui sollevato in ordine all’art. 2059 cod.
civ., nella parte relativa alla limitazione della risarcibilità
del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge (tra
i quali rientra quello del danno derivante da
reato, ai sensi dell’art. 185 cod. pen.) in tanto può ritenersi
rilevante in quanto si assuma l’esclusione di tale
risarcibilità nelle ipotesi in cui il ricordato elemento soggettivo
discenda da una presunzione di legge.
Ma poiché il rimettente dubita (anche) della legittimità
costituzionale dell’art. 2059 cod. civ. proprio sotto questo
specifico profilo, è evidente come la relativa questione sia
preliminare all’altra, prospettata come principale.
3.- La questione individuata come logicamente preliminare deve essere
dichiarata non fondata nei sensi di cui in
motivazione.
3.1.- Il rimettente nel sollevare il dubbio di costituzionalità
muove dalla ritenuta necessità, ai fini della risarcibilità
del danno non patrimoniale, dell’accertamento in concreto di un reato
e, quindi, anche dell’elemento soggettivo del
dolo o della colpa.
Ma è proprio una interpretazione siffatta, assunta in termini
di diritto vivente, a risultare del tutto dissonante
rispetto alla ratio della norma impugnata, quale si desume dalla evoluzione
legislativa e giurisprudenziale verificatasi
in materia.
3.2. – Non vi è dubbio che l’art. 2059 cod. civ., stabilendo
che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo
nei casi determinati dalla legge, circoscriveva originariamente la
risarcibilità all’ipotesi, contemplata dall’art. 185
cod. pen., del danno non patrimoniale derivante da reato, e le conferiva
un carattere sanzionatorio, reso
manifesto, tra l’altro, dalla stessa relazione al codice civile, secondo
la quale «soltanto nel caso di reato è più
intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il bisogno
di una più energica repressione con carattere
anche preventivo».
Coerentemente a ciò, si riteneva, poi, che il riferimento al
reato, contenuto nell’art. 185 cod. pen., dovesse essere
inteso nel senso della ricorrenza in concreto di una fattispecie criminosa
in tutti i suoi elementi costitutivi, anche di
carattere soggettivo. Con la conseguente inoperatività, in tale
ambito, della presunzione di legge destinata a
supplire la prova, in ipotesi mancante, della colpa dell’autore della
fattispecie criminosa.
3.3.- L’indirizzo interpretativo riassuntivamente esposto risulta, tuttavia,
destinato ad entrare in crisi per effetto
della richiamata evoluzione sull’area di risarcibilità del danno
non patrimoniale.
Da un lato, infatti, il legislatore ha introdotto ulteriori casi di
risarcibilità del danno non patrimoniale estranei alla
materia penale, riguardo ai quali è del tutto inconferente qualsiasi
riferimento ad esigenze di carattere repressivo
(si pensi, ad esempio, alle azioni di responsabilità previste
dall’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, per i danni
derivanti da ingiusta privazione della libertà personale nell’esercizio
di funzioni giudiziarie; dall’art. 2 della legge 24
marzo 2001, n. 89, per i danni derivanti dal mancato rispetto del termine
ragionevole di durata del processo).
Dall’altro, la giurisprudenza – sia pure muovendosi nell’ambito di operatività
dell’art. 2043 cod. civ., nel corso di un
travagliato itinerario interpretativo nel quale questa Corte è
ripetutamente intervenuta - ha da tempo individuato
ulteriori ipotesi di danni sostanzialmente non patrimoniali, derivanti
dalla lesione di interessi costituzionalmente
garantiti, risarcibili a prescindere dalla configurabilità di
un reato (in primis il cosiddetto danno biologico). Il
mutamento legislativo e giurisprudenziale venutosi in tal modo a realizzare
ha fatto assumere all’art. 2059 cod. civ.
una funzione non più sanzionatoria, ma soltanto tipizzante dei
singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.
Su tale base, pertanto, anche il riferimento al «reato»
contenuto nell’art. 185 cod. pen., in coerenza con la
diversa funzione assolta dalla norma impugnata, non postula più,
come si riteneva per il passato, la ricorrenza di
una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente
nella sua oggettività all’astratta
previsione di una figura di reato. Con la conseguente possibilità
che ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per
effetto di una presunzione di legge.
Del resto, è significativo come la stessa giurisprudenza di legittimità
abbia affermato, in relazione al reato
commesso da persona non imputabile, che la risarcibilità del
danno non patrimoniale a norma dell’art. 2059 cod.
civ., in relazione all’art. 185 cod. pen., non richiede che il fatto
illecito integri in concreto un reato punibile per il
concorso di tutti gli elementi a tal fine rilevanti per la legge penale,
essendo sufficiente che il fatto stesso sia
astrattamente preveduto dalla legge come reato.
Sicché può dirsi che, anche sotto l’aspetto della complessiva
coerenza del sistema, la tesi che alla parola «reato»
attribuisce il significato di fatto (solo) astrattamente previsto come
tale dalla legge risulta certamente non
estranea alla stessa giurisprudenza, pur richiamata dal rimettente
a sostegno della contraria opinione.
Né, d’altro canto, potrebbe ancora invocarsi, quale argomento
a favore della tesi opposta, una asserita prevalenza
della giurisdizione penale rispetto a quella civile.
L’art. 75 cod. proc. pen. ha definitivamente consacrato il principio
di parità delle giurisdizioni, cosicché perfino la
possibilità di giudicati contrastanti in relazione al medesimo
fatto, ai diversi effetti civili e penali, costituisce
evenienza da considerarsi ormai fisiologica.
3.4.- Occorre da ultimo considerare che l’indirizzo interpretativo assunto
dal rimettente come diritto vivente risulta
disatteso, successivamente all’ordinanza di rimessione, dalla stessa
giurisprudenza di legittimità.
Giova al riguardo premettere – pur trattandosi di un profilo solo indirettamente
collegato alla questione in esame –
che può dirsi ormai superata la tradizionale affermazione secondo
la quale il danno non patrimoniale riguardato
dall’art. 2059 cod. civ. si identificherebbe con il cosiddetto danno
morale soggettivo. In due recentissime pronunce
(Cass., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828), che hanno l’indubbio pregio
di ricondurre a razionalità e coerenza il
tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona,
viene, infatti, prospettata, con ricchezza di
argomentazioni – nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale
e di quello non patrimoniale –
un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod.
civ., tesa a ricomprendere nell’astratta
previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante
da lesione di valori inerenti alla persona: e
dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento
dello stato d’animo della vittima; sia il
danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse,
costituzionalmente garantito, all’integrità
psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico
(art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso
definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante
dalla lesione di (altri) interessi di rango
costituzionale inerenti alla persona.
Per quanto specificamente riguarda il tema – che qui ci occupa - della
risarcibilità del danno non patrimoniale in
caso di colpa presunta, altre, anch’esse recentissime, sentenze del
giudice di legittimità, muovendo dalla «sempre
più avvertita esigenza di garantire l’integrale riparazione
del danno ingiustamente subito (...) nei valori propri della
persona, anche in riferimento all’art. 2 Cost.», sono giunte
all’enunciazione di un principio di diritto perfettamente
coerente con le considerazioni sin qui svolte. Si afferma, infatti,
in tali pronunce che alla risarcibilità del danno non
patrimoniale ex artt. 2059 cod. civ. e 185 cod. pen. non osta il mancato
positivo accertamento della colpa
dell’autore del danno se essa, come nei casi di cui agli artt. 2051
e 2054 cod. civ., «debba ritenersi sussistente in
base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto
sarebbe qualificabile come reato» (Cass., 12
maggio 2003, nn. 7281 e 7282).
Sicché, nessun ostacolo sussiste, neppure sotto l’aspetto di
un contrario diritto vivente, all’accoglimento di una
interpretazione opposta a quella da cui muove il rimettente nel sollevare
il dubbio di costituzionalità.
3.5.- Conclusivamente, l’art. 2059 cod. civ. deve essere interpretato
nel senso che il danno non patrimoniale, in
quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile
anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa
dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge.
Resta in tal modo superato il dubbio di legittimità costituzionale
originato da una contraria lettura della norma,
mentre la concreta possibilità di una tutela risarcitoria dei
danneggiati nel giudizio principale rende evidentemente
priva di rilevanza e, pertanto, inammissibile l’ulteriore questione
di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ.,
prospettata dal medesimo rimettente in riferimento agli artt. 2 e 3
Cost. e diretta a censurare la limitazione della
risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi stabiliti
dalla legge.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 2059 del
codice civile sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale
di Roma con l’ordinanza in epigrafe;
dichiara inammissibile l’ulteriore questione di legittimità costituzionale
della medesima norma, sollevata dallo stesso
rimettente in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 30 giugno 2003.
F.to:
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Annibale MARINI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 luglio 2003.
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