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Cass. Civ., sez.
II, 31/08/2015, n. 17321 azione di rivendicazione e di restituzione SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione
notificato il 22 febbraio 1995 i coniugi D. G.A. e
G.G. evocavano, dinanzi al Tribunale di Foggia, L.D. esponendo di avere
acquistato, con atto notarile del 28.10.1993, dallo I.A.C.P. di Foggia, in
regime di comunione legale, un alloggio di edilizia residenziale pubblica,
sito in Foggia, via dei Preti n. 1, comprensivo della comproprietà del locale
comune al piano scantinato di circa mq. 25, occupato senza titolo da
convenuto, per cui chiedevano che quest'ultimo fosse condannato all'immediato
rilascio del locale, per consentirne l'uso comune, oltre al risarcimento dei
danni. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo i
ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 948 e 1102 c.c., per avere la corte
territoriale erroneamente qualificato l'azione loro esperita come reale e non
già come avente carattere personale per avere richiesto la restituzione, e
non l'accertamento giudiziale del loro diritto di comproprietà, in danno del
convenuto prospettando che questi occupa, in modo esclusivo ed arbitrario, il locale di proprietà condominiale. Con la
conseguenza che il convenuto era stato esonerato dalla più onerosa probatio
diabolica. Diversamente il contraddittorio avrebbe dovuto
essere integrato nei confronti di tutti i comproprietari. A conclusione del
mezzo viene formulato il seguente quesito di
diritto: "In ipotesi l'attore agisca in giudizio chiedendo solo il
rilascio della res comune da parte del convenuto, che la occupa
illegittimamente, senza richiedere la declaratoria di accertamento della sua
comproprietà, non trova applicazione l'istituto della rivendicazione
trattandosi di azione di mera restituzione di carattere personale e non reale
o è legittimo opinare il contrario?". La doglianza è infondata. E' opportuno a questo punto richiamare la
distinzione tra l'azione di rivendica e quella di restituzione. La prima ha carattere reale ed è fondata sul
diritto di proprietà di un bene, di cui l'attore assume di esser titolare, ma
di non averne la materiale disponibilità; è esperibile contro chiunque, di fatto, possiede o detiene il bene (art. 948 c.c.), ed è volta ad ottenere il
riconoscimento del diritto di proprietà di esso e a riaverne il possesso. La
seconda è fondata sull'inesistenza, ovvero sul
sopravvenuto venir meno, di un titolo alla detenzione del bene da parte di
chi attualmente ne disponga per averlo ricevuto da colui che glielo richiede
o dal suo dante causa - e per questo ha natura personale - ed è volta, previo
accertamento di tale mancanza, ad attuare il diritto - personale - alla
consegna del bene. Pertanto in quest'ultimo caso l'attore non ha l'onere di
fornire la prova del suo diritto di proprietà, bensì può limitarsi ad
allegare l'insussistenza ab origine, oppure il successivo venir meno - per
invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio della
facoltà di recesso - del titolo giuridico legittimante la detenzione del bene
da parte del convenuto, che perciò è obbligato a restituirlo. Evidentemente le due azioni
- pur tendendo entrambe al risultato pratico del recupero della disponibilità
materiale del bene - hanno natura e presupposti diversi e sono distinte, sia
per causa petendi che per petitum. Pertanto, prescindendo
dalla qualificazione dell'azione effettuata dalla parte, la domanda di
restituzione di un bene, fondata sull'arbitraria disponibilità materiale da
parte del convenuto, chiarendo che trattasi di locale acquisito con l'atto
notarile di compravendita di appartamento sito nello stesso stabile
condominiale, accompagnata dalla contestuale dichiarazione della
esistenza su di esso di un diritto reale di (com)proprietà ed in mancanza
della deduzione di un rapporto obbligatorio fra le parti, rientra dall'ambito
delle azioni reali perchè può esser qualificabile come rivendica, non già
quale azione personale di rilascio o di restituzione, come asserito dai
ricorrenti, alla quale il convenuto ha contrapposto il suo diritto al
possesso esclusivo in base all'atto pubblico di acquisto del proprio
appartamento del 1972, che assumeva comprendere anche il locale in contesa,
con conseguente maturazione, in ogni caso, dell'usucapione. Mette conto,
altresì, ricordare, per un corretto approccio della questione sottoposta
dagli impugnanti all'esame della Corte, che ricorre l'ipotesi della domanda
riconvenzionale quando il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro
di lui azionata, oppone una controdomanda, chiedendo un provvedimento
positivo sfavorevole all'attore, che va oltre il rigetto della domanda
principale e che gli attribuisca beni determinati in contrapposizione a
quelli oggetto della pretesa ex adverso azionata; invece con l'eccezione
riconvenzionale il convenuto formula una richiesta che, pur ampliando il tema
della controversia, ha carattere difensivo e non di attacco, posto che essa
tende alla sola reiezione della domanda attrice, attraverso l'opposizione al
diritto fatto valere dall'attore di altro diritto idoneo a paralizzarlo
(confr. Cass. 13 febbraio 2006 n. 3072). Così ricostruito il rapporto tra domanda ed eccezione
riconvenzionale, ritiene il collegio che non abbia errato il giudice di
merito nel ritenere proposta dai coniugi D.G.- G. domanda
di rivendica e dal convenuto L.D. eccezione riconvenzionale di usucapione del
medesimo locale scantinato, per essere quest'ultima tesa solo a paralizzare
la domanda attrice, volta a dichiarare abusiva ed illegittima l'occupazione
dello spazio in comproprietà de quo, con conseguente condanna dello stesso al
rilascio per consentirne l'uso comune, basate entrambe su una stessa situazione
di fatto, l'una come progressione difensiva dell'altra. Corretta è, dunque, la
qualificazione delle rispettive difese proposte dalle parti: stando alla
ricostruzione effettuata dalla Corte d'appello, la deduzione degli attori
presupponendo l'accertamento della comproprietà del locale scantinato, oltre
alla sua restituzione, ha introdotto una azione
petitoria, ed il convenuto non avendo richiesto la verifica, in suo favore,
dell'avvenuto acquisto di un diritto per effetto del possesso protrattosi per
il periodo legale, mirava esclusivamente a paralizzare la domanda avversaria.
Del resto, l'azione personale di restituzione, come già dice il nome, è
destinata a ottenere l'adempimento dell'obbligazione di ritrasferire una cosa
che è stata in precedenza volontariamente trasmessa
dall'attore al convenuto, in forza di negozi quali la locazione, il comodato,
il deposito e così via, che non presuppongono necessariamente nel tradens la
qualità di proprietario. Essa non può pertanto surrogare l'azione di
rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando
la condanna al rilascio o alla consegna viene
chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche
originaria di ogni titolo. In questo caso la domanda è tipicamente di rivendicazione,
poichè il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale
inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale
occorre quindi che venga data la piena
dimostrazione, mediante la probatio diabolica (in termini, Cass. SS.UU. 28 marzo 2014 n, 7305). Per quanto riguarda poi il regime probatorio - questione
sulla quale i ricorrenti si sono particolarmente
soffermati - va segnalato che, come più volte chiarito da questa Corte,
l'azione di rivendicazione, tendendo al riconoscimento del diritto di
proprietà dell'attore ed al conseguimento del possesso sottrattogli contro la
sua volontà, esige la prova della proprietà della cosa da parte dell'attore e
del possesso di essa da parte del convenuto (tra le tante: Cass. 19 febbraio 2002 n. 2392). Il
principio, posto dall'art. 2697 c.c., secondo il quale chi vuoi
far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono
il fondamento, ha riguardo ai fatti che determinano
il sorgere del diritto vantato, mentre la prova delle condizioni negative,
ossia delle circostanze idonee ad impedire la nascita o il perdurare di tale
diritto fa carico al soggetto passivo della pretesa. Ne deriva che la corte
distrettuale ha pronunciato in maniera conforme al diritto, avendo respinto
la domanda per la mancata prova della proprietà del locale in capo agli
attori, a fronte della dimostrazione, a mezzo delle
prove testimoniali, dell'uso esclusivo dello stesso scantinato da parte del
convenuto sin dal 1972. Nè in
presenza di tale vicenda processuale si pone la questione
dell'integrazione necessaria del contraddittorio nei confronti dei restanti
condomini - dedotta in primo grado dal convenuto (v. pag. 3 della sentenza
impugnata) ed implicitamente respinta dal primo giudice e non riproposta in
appello - stante la qualificazione delle difese delle parti contrapposte nei
termini di cui sopra. Con il secondo motivo i
ricorrenti denunciano la violazione dell'art. 346 c.p.c., per avere la corte di
merito posto a base del proprio convincimento l'atto di acquisto del bene de
quo da parte del dante causa dei resistenti, atto
notaio Marano Delfino del 1972, senza considerare che si trattava di
argomentazione facente parte delle difese del convenuto e non riproposta in
appello, per cui la relativa eccezione doveva ritenersi rinunziata. A
corollario del mezzo viene formulato il seguente
quesito di diritto: "Il giudice di secondo grado, investito dal gravame,
in violazione dell'art. 346 c.p.c., non può prendere in
esame domande ed eccezioni che la parte non abbia riproposto in appello che,
quindi, sono da intendersi rinunciate ed abbandonate o è vero il
contrario?". Il motivo è inammissibile
prima che fondato. L'onere di riproposizione,
previsto dal secondo comma dell'art. 345 c.p.c., concerne soltanto le
eccezioni in senso proprio e non riguarda certo gli argomenti difensivi e le
relative prospettazioni giuridiche, proprio perchè questi debbono
sempre ritenersi implicitamente sottoposti ai giudice di secondo grado,
attraverso la proposizione dell'appello o con l'istanza di rigetto della
impugnazione, li che, in particolare, deve ritenersi con riferimento alle
contestazioni dell'esistenza del fatto costitutivo della domanda, da
considerarsi implicitamente ricomprese - fatta eccezione per le ipotesi in
cui attengano a punti esaminati e decisi in primo grado - nella richiesta di
rigetto dell'appello, formulata dall'appellato vittorioso in primo grado. Nella specie, a contrastare
la domanda di accertamento della proprietà comune dello scantinato nei
confronti dell'occupante abusivo, L.D. - in primo
grado - aveva espressamente eccepito non solo l'intervenuta usucapione, ma si
era anche difeso assumendo l'acquisto del locale cantina dal suo dante causa,
come emergeva dall'atto notaio Marano Delfino del 1972. La corte distrettuale
ha ritenuto di respingere la domanda attorea per la mancata prova della
proprietà del locale in capo agli attori, fornita dal convenuto la
dimostrazione del possesso esclusivo utile ad
usucapionem dello stesso scantinato. E' evidente, perciò, che la
difesa dei ricorrenti - basata in sostanza sull'argomento dell'acquisto a
titolo derivato della proprietà esclusiva del locale, dedotto dal convenuto -
risulta fondato su diversa ratio decidendi. La
sentenza ha difatti evidenziato come fosse stato provato l'uso esclusivo del
bene protratto da oltre venti anni, con diversa configurazione giuridica, di
acquisto a titolo originario, in capo al L., per cui la questione
(concernente il concorrente acquisto a titolo derivativo della proprietà) è
estranea alla (diversa) ratio decidendi sulla quale è fondata la decisione
impugnata, che l'ha semplicemente valutata ad abundantiam, come elemento
ulteriormente giustificativo della adeguatezza del
provvedimento. Con il terzo motivo i
ricorrenti lamentano erroneità ed illegittimità
della motivazione sulle prove acquisite, in particolare quanto alla
interpretazione dell'atto del notato Marano di acquisto dell'immobile da
parte del L., da cui la corte ha tratto il convincimento del trasferimento
anche del locale cantinato. E' parimenti inammissibile
la terza censura che ripropone il tema dell'acquisto
a titolo derivativo, sotto altro angolo visuale: non è questo l'argomento sul
quale si fonda l'accoglimento dell'eccezione riconvenzionale di usucapione
(per quanto esposto con riferimento al secondo mezzo), ma si tratta di
interlocuzione ipotetica che non ha nessuna incidenza sulla decisione della
controversia. La censura è inammissibile
anche sotto altro profilo: con essa i ricorrenti deducono essenzialmente la
prospettazione di una diversa analisi del merito della causa, inammissibile
in sede di legittimità, nonchè nella pretesa di contrastare il risultato
dell'attività svolta dalla corte di appello nell'esercizio dei compiti alla stessa affidati e del suo potere discrezionale di
apprezzamento dei fatti e delle risultanze istruttorie, con particolare
riferimento alla valutazione delle raccolte prove testimoniale e documentali. Trattasi di attività il cui
espletamento costituisce prerogativa del giudice del merito. La motivazione
di quest'ultimo al riguardo non è sindacabile in sede di legittimità se -
come nella specie - sufficiente ed esente da vizi logici e da errori di
diritto: il sindacato di legittimità è sul punto limitato al riscontro
estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che
consenta di individuare le ragioni della decisione e l'iter argomentativo
seguito nell'impugnata sentenza. Spetta infatti solo
al giudice del merito individuare la fonte del proprio convincimento e
valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere
tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in
discussione, dar prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova. Nè per
ottemperare all'obbligo della motivazione il giudice di merito è tenuto a
prendere in esame tutte le risultanze istruttorie e
a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti essendo sufficiente
che egli indichi gli elementi sui quali fonda il suo convincimento e
dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e fatti
che, sebbene non specificamente menzionati, siano incompatibili con la
decisione adottata. Nel caso in esame non è
ravvisabile difetto di motivazione: la sentenza impugnata è del tutto
corretta e si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto e che
presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice distrettuale. Con il quarto motivo i
ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 1158, 1165 e 2944 c.c., per non avere tenuto conto la
corte di merito che l'attività svolta dai coniugi per ottener la riconsegna
dei locali aveva riguardato anche l'intesa in base alla quale il L. avrebbe
dovuto corrispondere una somma per acquistare il bene comune. L'illustrazione
del mezzo è completata dal seguente quesito di diritto: "Qualora il
possessore, in tema di usucapione, riconosca il diritto altrui e proponga di
acquistare l'immobile dai comproprietari da lui posseduto ed
asseritamele usucapito, pone in essere un comportamento inconciliabile con la
volontà di godere il bene uti dominus tale da interrompere il termine utile
per l'usucapione o tale principio è giuridicamente illegittimo". Il motivo è infondato e al
quesito occorre dare risposta negativa. La rinuncia tacita all'usucapione è configurabile
soltanto allorchè sussista incompatibilità assoluta fra il comportamento del
possessore e la volontà del medesimo di avvalersi della causa di acquisto dei diritto, senza possibilità di diversa interpretazione
(vedi Cass. n. 10026 del 2002). Orbene, nel
caso di specie, le dichiarazioni dei testi escussi -
riprodotte nel ricorso in ossequio al principio di autosufficienza - ( Gu.Mi.
e C. M.), secondo cui il L. avrebbe dichiarato la propria disponibilità ad
acquistare il locale in contestazione, ormai maturato il termine per
usucapire, non sembrano sufficientemente ed univocamente dimostrativi del
pregresso tacito riconoscimento del diritto del Condominio e quindi della
rinuncia ovvero dell'interruzione del termine "ad usucapionem".
Alla statuita efficacia abdicativa attribuita a siffatte dichiarazioni
poteva in sostanza contrapporsi, come rilevato dalla corte territoriale (v. pag. 6 della sentenza impugnata), la diversa
interpretazione nel senso che essi fossero ispirati solo alla volontà del
convenuto di regolarizzare la propria posizione e di eliminare il contenzioso
insorto tra le parti pur senza perdere il diritto acquisito in virtù
dell'intervenuta usucapione. Ne discende che
correttamente e senza violazione dei principi sopra enunciati il giudice di
appello ha ritenuto che non poteva costituire atto interruttivo
dell'usucapione la disponibilità manifestata dal convenuto ad acquistare il
bene non implicando tale atto riconoscimento del diritto altrui (sia pure nei
limiti fissati dall'art. 1102 c.c., per il godimento della
cosa comune) sul bene in tesi posseduto e goduto in via esclusiva dal L..
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