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Cassazione
Civile, Sezioni Unite, sentenza 14 gennaio 2009, n. 553, sui rapporti
tra l’azione
di risoluzione ed il recesso I
rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale da una
parte, e
azione di recesso e di ritenzione della caparra dall'altro si pongono
in
termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale:
proposta la
domanda di risoluzione volta al riconoscimento del diritto al
risarcimento
integrale dei danni asseritamente subiti, non può ritenersene
consentita la
trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra
perché (a
prescindere da quanto già detto e ancora si dirà di qui a
breve in ordine ai
rapporti tra la sola azione di risoluzione e la singola azione di
recesso non
connesse alle relative azioni “risarcitorie”) verrebbe così a
vanificarsi la
stessa funzione della caparra, quella cioè di consentire una
liquidazione
anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione
di un
giudizio contenzioso, consentendosi inammissibilmente alla parte non
inadempiente di “scommettere” puramente e semplicemente sul processo,
senza
rischi di sorta; L'azione di
risoluzione avente natura
costitutiva e l'azione di recesso si caratterizzano per evidenti
disomogeneità
morfologiche e funzionali: sotto quest'ultimo aspetto, la
trasformazione
dell'azione risolutoria in azione di recesso nel corso del giudizio
lascerebbe
in astratto aperta la strada (da ritenersi, invece, ormai preclusa) ad
una
eventuale, successiva pretesa (stragiudiziale) di ritenzione della
caparra o di
conseguimento del suo doppio (con evidente quanto inammissibile rischio
di
ulteriore proliferazione del contenzioso giudiziale); Azione di
risoluzione “dichiarativa” e domanda giudiziale di recesso partecipano
della
stessa natura strutturale, ma, sul piano operativo, la trasformazione
dell'una
nell'altra non può ritenersi ammissibile per i motivi, di
carattere funzionale,
di cui al precedente punto b); La
rinuncia all'effetto risolutorio da parte del contraente non adempiente
non può
ritenersi in alcun modo ammissibile, trattandosi di effetto sottratto,
per
evidente voluntas legis, alla libera disponibilità del
contraente stesso; I
rapporti tra l'azione di risarcimento integrale e l'azione di recesso,
isolatamente e astrattamente considerate, sono, a loro volta, di
incompatibilità strutturale e funzionale; La domanda
di ritenzione della caparra è
legittimamente proponibile, nell'incipit del processo, a prescindere
dal nomen
iuris utilizzato dalla parte nell'introdurre l'azione “caducatoria”
degli
effetti del contratto: se quest'azione dovesse essere definita “di
risoluzione
contrattuale” in sede di domanda introduttiva, sarà compito del
giudice,
nell'esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione e
qualificazione in
iure della domanda stessa, convertirla formalmente in azione di
recesso, mentre
la domanda di risoluzione proposta in citazione, senza l'ulteriore
corredo di
qualsivoglia domanda “risarcitoria”, non potrà essere
legittimamente integrata,
nell'ulteriore sviluppo del processo, con domande. In diritto Con
l'unico
motivo di ricorso, la difesa dei coniugi Lieto denuncia violazione e
falsa
applicazione di norme di diritto (artt. 183 e 345 c.p.c., 1385 c.c.);
insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della
controversia. Si
sostiene,
nell'illustrazione del motivo, che la sostituzione, in sede di appello,
della
originaria domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento con
quella di
recesso ex art. 1385 c.c. non integrerebbe affatto gli estremi dello
ius
novorum (vietato), ma andrebbe, di converso, configurata come esercizio
di una
perdurante (quanto legittima) facoltà del richiedente, in guisa
di istanza
processuale soltanto ridotta rispetto alla già proposta
risoluzione,
nell'ambito della medesima dimensione risarcitoria della domanda, in
conseguenza dell'inadempimento di controparte. Come
si è già
avuto modo di accennare nel corso dell'esposizione dei fatti di causa,
la
questione del coordinamento dei due rimedi risarcitori alternativamente
riconosciuti dall'art. 1385 c.c. - quanto, cioè, alla
facoltà, per la parte
adempiente che abbia agito per la risoluzione del contratto (art. 1385
comma 3
c.c.) e per la condanna della parte inadempiente al risarcimento del
danno ex
art. 1453 c.c., di sostituire tali richieste, in appello, con una
domanda di
recesso dal contratto e di ritenzione della caparra o del suo doppio
(art. 1385
comma 2 c.c.) - è stata più volte affrontata da questa
corte di legittimità, e
diacronicamente risolta, in modo non uniforme, secondo percorsi
argomentativi
diversi e sovente contrastanti. 1.
- La
giurisprudenza di legittimità sulla fungibilità dei due
rimedi “caduca tori”
degli effetti del contratto L'analisi
delle
più significative pronunce di questa corte regolatrice
può utilmente dipanarsi
attraverso tre diversi livelli di analisi: il primo che parta dalla
ricognizione dei profili di uniformità rilevabili in tutte le
sentenze che
abbiano affrontato ex professo il tema dei rapporti tra domanda di
risoluzione
e di recesso, il secondo che esamini i contenuti e le motivazioni delle
pronunce favorevoli alla sostituzione della prima domanda con la
seconda, il
terzo volto all'analisi delle speculari posizioni assunte da quella
giurisprudenza più rigorosamente predicativa del principio della
infungibilità
tra le due istanze, benché funzionali entrambe alla caducazione
degli effetti
del contratto. 1.1
I profili di
omogeneità rilevabili nelle diverse pronunce della
giurisprudenza di
legittimità Indiscusse,
nella giurisprudenza di questa corte, risultano, nel tempo, le
affermazioni
secondo cui: -
I due rimedi
disciplinati, rispettivamente, dai commi secondo e terzo dell'art. 1385
cod.
civ. a favore della parte non inadempiente nell'ipotesi di
inadempimento della
controparte hanno carattere distinto e non cumulabile; -
L'inadempimento si identifica in ogni caso con quello che dà
luogo alla
risoluzione, di cui il giudice è tenuto comunque a sindacarne
gravità e
imputabilità (Cass. 2032/1993; 398/1989; 4451/1985); -
La parte non
inadempiente che abbia esercitato il potere di recesso riconosciutole
dalla
legge è legittimata a ritenere la caparra ricevuta o ad esigere
il doppio di
quella versata: la caparra confirmatoria assume, in tal caso, la
funzione di
liquidazione convenzionale e anticipata del danno da inadempimento.
Qualora,
invece, detta parte abbia preferito domandare la risoluzione (o
l'esecuzione
del contratto), il diritto al risarcimento del danno, che rimane
regolato dalle
norme generali, postula che il pregiudizio subito sia provato nell'an e
nel
quantum, con conseguente possibilità di rigetto della relativa
domanda in
ipotesi di mancato raggiungimento della prova (Cass. 7180/1997;
4465/1997); -
La parte che
ha ricevuto la caparra, se destinataria di una richiesta di
restituzione ex
art. 1385, secondo comma, sul presupposto del suo inadempimento,
può limitarsi
ad eccepire l'inadempimento dell'altra parte, senza bisogno di proporre
domanda
riconvenzionale di risarcimento del danno, essendo questa una
facoltà
ulteriore, riconosciutale dal terzo comma dello stesso articolo (Cass.
4777/2005; 11684/1993); -
Introdotta la
domanda di risoluzione per inadempimento e di risarcimento dei danni,
non è
applicabile la disciplina della caparra di cui al secondo comma
dell'art. 1385
c.c. (Cass. 13828/2000; 8881/2000; 8630/ 1998; 3602/1983); è
illegittima la
condanna della parte inadempiente a restituire il doppio della caparra
ricevuta, stante la non cumulabilità dei due rimedi (Cass. 18850
del 2004); è
necessaria la prova del danno secondo le regole generali (Cass.
17923/2007;
1301/2003; 849/2002; 4465/1997); -
Mancando la
prova del danno, se inadempiente è l'accipiens, la restituzione
della caparra è
un effetto della risoluzione come conseguenza del venir meno della
causa che
aveva determinato la corresponsione (Cass. 8630 del 1998); l'obbligo di
restituzione della somma ricevuta, privo di funzione risarcitoria,
rimane
soggetto al principio nominalistico (Cass. 5007/1993; 2032/1993;
944/1992); se
l'accipiens è adempiente, viceversa, la caparra svolge funzione
di garanzia
dell'obbligazione di risarcimento (funzione che si esplica
nell'esercizio del
diritto - da parte di chi l'abbia ricevuta e abbia titolo risarcitorio
- a
ritenere l'importo fino alla liquidazione del danno), conserva tale
funzione
sino alla conclusione del procedimento per la liquidazione dei danni
derivanti
dall'avvenuta risoluzione, non trova giustificazione la richiesta di
restituzione sino alla definizione di tale procedimento (Cass.
5846/2006), con
conseguente compensazione con il credito risarcitorio. 1.2.
- Le
pronunce favorevoli alla sostituzione della domanda di risoluzione con
quella
di recesso Secondo
parte
della giurisprudenza di questa corte, la parte non inadempiente che,
ricevuta
una somma di denaro a titolo di caparra confìrmatoria, abbia pur
tuttavia agito
per la risoluzione (o esecuzione) del contratto e per la condanna al
risarcimento del danno ai sensi dell'art. 1453 cod. civ., potrebbe
legittimamente sostituire a tali istanze, in grado di appello, quelle
di
recesso dal contratto e di ritenzione della caparra a norma dell'art.
1385,
comma 2 cod. civ.. Tale richiesta non integrerebbe, difatti, gli
estremi della
domanda nuova vietata dall'art. 345 c.p.c., configurandosi piuttosto,
rispetto
alla domanda originaria, come esercizio di una perdurante
facoltà (e come più
ridotta istanza) rispetto alla risoluzione, in una parallela orbita
risarcitoria che ruota pur sempre intorno all'inadempimento dell'altra
parte
(Cass. n. 3331 del 1959; n. 2380 del 1975; n. 1391 del 1986; n. 1213
del 1989;
n.7644 del 1994; n. 186 del 1999; n. 1160 del 1996; n. 11760 del 2000;
n. 849
del 2002, sia pur in obiter). A
fondamento di
tale convincimento, si è di volta in volta sostenuto: -
che la domanda
di recesso è anch'essa basata sulla declaratoria di
inadempimento e tende, sia
pure con particolari modalità, allo scioglimento del contratto; -
che la domanda
di ritenzione della caparra (ovvero di pagamento del suo doppio), dal
suo
canto, è pur sempre una domanda di risarcimento, non incidendo
sulla sua natura
e funzione la peculiare forma di indennizzo preventivamente concordato; -
che “domanda
nuova” è solo quella che importa la trasformazione oggettiva
delle domande
originarie, la modifica del fatto costitutivo del diritto vantato,
l'alterazione dei presupposti oggettivi e soggettivi dell'azione,
sì da
determinare uno spostamento dei termini della controversia su un piano
diverso
e più ampio, ovvero, sotto il profilo del petitum, quella che
non abbia la
possibilità di assorbire il contenuto della domanda originaria e
non escluda
pertanto la riproponibilità di quest'ultima dopo la decisione
del giudice; -
che, ai sensi
dell'art. 1453, c. 2, c.c., si deve ritenere virtualmente compresa
nella
domanda di esecuzione quella di risoluzione, mentre la domanda di
recesso o di
ritenzione, pur costituendo, sul piano processuale, una domanda
più limitata
rispetto a quella di risoluzione, discende ugualmente dalla
declaratoria di
inadempimento dell'altra parte secondo i principi generali
sull'importanza e
sull'imputabilità del medesimo, e importa l'assorbimento, sotto
questo
riguardo, del contenuto della domanda originaria di adempimento (e poi
di
risoluzione) sì da renderne giuridicamente impossibile la
riproposizione.
Peraltro, la domanda di ritenzione della caparra è pur sempre
una domanda di
risarcimento dei danni, che non muta nella sua essenza e funzione sol
perché
assume la configurazione dell'indennizzo preventivo, e può
rappresentare per la
parte una limitazione della reintegrazione patrimoniale oppure anche un
vantaggio
maggiore di quello che si sarebbe conseguito con i modi ordinari; -
che, in
definitiva, la domanda di recesso dal contratto costituisce una domanda
più
limitata rispetto a quella di risoluzione per inadempimento,
poiché, in quanto
ricompresa nell'unico fatto costitutivo del diritto vantato, non altera
i
presupposti oggettivi e soggettivi dell'azione e non sposta la
controversia su
un piano diverso, tanto da introdurre nel processo un nuovo tema di
indagine. Va
ancora
ricordato come, di recente, con la pronuncia di cui a Cass. n. 11356
del 2006 -
che contiene una sintesi dei principi elaborati dalla giurisprudenza di
legittimità in subiecta materia -questa corte abbia avuto modo
di riaffermare
il principio della fungibilità delle domande di risoluzione e di
recesso,
attribuendo poi alla caparra confìrmatoria (del tutto
condivisibilmente) natura
composita, funzione eclettica, effetti diacronici. 1.3.
- Le
pronunce contrarie alla ammissibilità della sostituzione della
domanda di
risoluzione con quella di recesso Secondo
altra
parte della giurisprudenza di legittimità, la domanda di
risoluzione del
contratto e di risarcimento del danno e quella di recesso dal contratto
medesimo con incameramento della caparra avrebbero, in linee generali,
oggetto
diverso, nonché differente causa petendi. Ne consegue che la
seconda domanda,
se formulata soltanto in appello in sostituzione della prima proposta
in primo
grado, non costituisce semplice emendatio della iniziale pretesa, ma
delinea
una questione del tutto nuova, come tale inammissibile ai sensi
dell'art. 345
cod. proc. civ. (Cass. n. 8995 del 1993). 1.4.
- Le
pronunce relative a fattispecie di risoluzione di diritto Più
composito
appare il panorama giurisprudenziale di questa corte nell'ipotesi in
cui la
relazione tra azione di recesso e azione di risoluzione abbia avuto
riguardo a
fattispecie di risoluzioni di diritto. A fronte di un filone
costantemente
volto ad escludere la possibilità di chiedere il recesso, ai
sensi del comma
secondo dell'art. 1385 c.c., quando si è agito per la
risoluzione di diritto
dello stesso contratto, si rinvengono, difatti, altre decisioni che, in
vario
modo, appaiono più elasticamente funzionali a consentire al
contraente non
inadempiente di utilizzare il meccanismo del recesso. a)
Nel senso
della impraticabilità del rimedio del recesso, essendo il
contratto già risolto
ex lege, si orientano tre decisioni di questa corte (Cass. n. 2557 del
1989, n.
26232 del 2005, n. 9040 del 2006, tutte relative a contratti in cui era
stata
chiesta la risoluzione in forza di diffida ad adempiere ex art. 1454
c.c. ed
era poi stato esercitato il recesso ai sensi del secondo comma
dell'art. 1385
c.c.) il cui fondamento motivazionale ruota attorno all'ostacolo
costituito da
un effetto risolutivo già realizzatosi alla data della scadenza
della diffida
(e alla connessa natura dichiarativa della relativa sentenza di
accertamento),
con la conseguenza che “non si può recedere da un contratto
già risolto de
iure”. In particolare, le due pronunce più recenti, non ignare
delle
argomentazioni svolte dalla dottrina dominante sul tema della presunta
legittimità di una sostituzione del recesso con la risoluzione,
affermano di
condividerle limitatamente alla ordinaria domanda di risoluzione
giudiziale, e
decidono in ordine alla caparra sulla base del consolidato principio
del cd.
“effetto restitutorio” proprio della risoluzione. In particolare, la
pronuncia
del 2005, dopo aver negato ogni fungibilità tra le domande di
risoluzione e di
recesso, riconosce poi la legittimità “dell'esercizio dei
diritti relativi alla
caparra confirmatoria di cui all'art. 1385 comma secondo c.c.”,
specificando
che si tratterebbe, nella specie, di far valere un'istanza di danni
più ridotta
rispetto a quella, maggiore, che si suppone esercitata con l'azione
risolutorio/risarcitoria di cui al successivo comma terzo, con
conseguente
esclusione di qualsivoglia profilo di novità della domanda con
riferimento alla
(sola) richiesta di danni e conseguente legittimità della
“conversione” in
appello dell'istanza di risarcimento in domanda di ritenzione. b)
Nel senso
della possibilità del recesso se la risoluzione di diritto non
si è verificata
per rinuncia all'effetto risolutorio si esprime invece Cass. n. 7182
del c)
Nel senso
della possibilità di utilizzare il meccanismo di cui al secondo
comma dell'art.
1385 c.c. dopo essersi avvalsi della risoluzione di diritto senza
ulteriore
domanda di risarcimento del danno sembrano ancora indirizzarsi due
ulteriori
sentenze di questa corte (Cass. n. 1851 del 1997 e n. 319 del 2001), la
prima
intervenuta in una fattispecie di termine essenziale, l'altra di
diffida ad
adempiere: in entrambe le ipotesi, è stato riconosciuto alla
parte adempiente
il diritto di esercitare l'azione ai sensi del secondo comma dell'art.
1385
c.c. per ottenere, rispettivamente, di ritenere la caparra ricevuta
ovvero di
conseguire il doppio della caparra versata dopo essersi avvalsa della
risoluzione di diritto già verificatesi: decisiva, a giudizio di
quei collegi,
era apparsa la circostanza che la parte, nell'esercizio dell'azione
dichiarativa per l'accertamento della risoluzione di diritto, non
avesse
chiesto la liquidazione del danno ai sensi dell'art. 1453 c.c. La
decisione del
1997 aggiunge, poi, che la scelta alternativa prevista dall'art. 1385
riguarda
l'esercizio dell'azione costitutiva di risoluzione di cui all'art. 1453
c.c. e
non quella che si limita ad accertare l'intervenuto inadempimento,
mentre la
sentenza del 2001, sul presupposto della affinità sostanziale
tra risoluzione
del contratto per inadempimento e recesso di cui all'art. 1385 c.c.,
pone
l'accento sulla funzione risarcitoria della caparra come preventiva
liquidazione del danno e ritiene che la scelta tra questa o l'integrale
risarcimento da provare, ai sensi del comma terzo, non sia preclusa a
chi si
sia avvalso del meccanismo giuridico della risoluzione di diritto. d)
Nel senso
della possibilità di recesso indipendentemente dal tipo di
risoluzione, infine,
risulta essersi espressa, di recente, Cass. n. 16221 del 2002,
concernente una
fattispecie di risoluzione per diffida ad adempiere: 1.5.
- Le
pronunce relative ai rapporti tra caparra e risarcimento Secondo
Cass.
3555/2003, chi agisce in risoluzione non ha diritto, a titolo di danno
minimo
risarcibile, alla caparra (o al doppio di quella data) se non prova il
maggior
danno: 2.
- Le
questioni di diritto sottoposte alle sezioni unite 2.1
- Alla luce
dell'analitico excursus che precede, emerge con maggiore chiarezza come
le
questioni di diritto sottoposte al vaglio di queste sezioni unite - in
realtà
più articolate e complesse di quelle rilevate con l'ordinanza di
rimessione -
possano così complessivamente sintetizzarsi: a)
Analisi della
relazione - accessorietà, complementarietà,
(in)dipendenza - intercorrente tra
le azioni risolutorio/risarcitoria da una parte, e le azioni di
recesso/ritenzione della caparra dall'altra; b)
analisi dei
rapporti tra l'azione di risoluzione avente natura costitutiva e
l'azione di
recesso; c)
analisi dei
rapporti tra l'azione di risoluzione avente natura dichiarativa e
l'azione di
recesso; d)
analisi dei
rapporti tra risoluzione ex lege, rinuncia all'effetto risolutorio (in
ipotesi
di diffida ad adempiere e successiva “ritrattazione” dopo l'inutile
decorso del
termine), recesso; e)
analisi dei
rapporti tra l'azione di risarcimento integrale e l'azione volta alla
ritenzione della caparra; f)
proponibilità
dell'azione di ritenzione della caparra in assenza di azione
risarcitoria, a
prescindere del rimedio caducatorio prescelto (risoluzione/recesso). 2.2.
- Alla
soluzione delle questioni sopra esposte non appare un fuor d'opera far
precedere una sintetica ricostruzione dei più rilevanti aspetti
morfologici e
funzionali dell'istituto della caparra, oltre che una breve e
giocoforza
incompleta ricognizione delle posizioni della dottrina in ordine ai
rapporti
tra i rimedi previsti dall'art. 1385 c.c., nell'intendimento di dare
continuità
ad un recente indirizzo accolto da queste sezioni unite, che, in non
poche
pronunce, hanno analizzato, dato conto e sovente fatte proprie non
poche
riflessioni della migliore giuscivilistica italiana, in un fecondo e
sempre più
intenso rapporto di sinergia di pensiero tra giurisprudenza di
legittimità e
studiosi del diritto destinato sempre più spesso a tradursi in
“diritto
vivente”. 3.
- La natura
siuridica della caparra confirmatoria - Le posizioni della dottrina. 3.1.
- La
caparra confirmatoria viene comunemente definita come negozio giuridico
accessorio che le parti perfezionano versando l'una (il tradens)
all'altra
(l'accipiens) una somma di denaro o una determinata quantità di
cose fungibili
al momento della stipula del contratto principale al fine di perseguire
gli
scopi di cui all'art. 1385 c.c. In
particolare,
il termine “caparra” riveste, già sotto il profilo strettamente
semantico, la
duplice funzione, da un canto, di qualificare, sotto il profilo
causale, il
negozio giuridico accessorio, dall'altro di indicare la somma di denaro
o la qualità
di cose fungibili che ne costituiscono l'oggetto (come si osserva
correttamente
in dottrina, è la stessa norma regolatrice dell'istituto che
discorre, da un
lato, di dazione “a titolo di caparra”, così indicando il
negozio giuridico che
dà fondamento alla datio, dall'altro di “restituzione o
imputazione della
caparra”, in tal modo riferendosi specificamente all'oggetto del
negozio, il
denaro o la res tradita). Sotto
il profilo
tanto morfologico quanto funzionale, il mutevole istituto (come
già compiutamente
e condivisibilmente rilevato dalla III sezione questa corte, sulla scia
di una
attenta dottrina, con la sentenza 11356/2006) presenta caratteristiche
affatto
composite e spiccatamente eclettiche. La
caparra
confirmatoria, difatti, su di un piano, per così dire, di
funzionalità
patologica, è volta a garantire l'esecuzione del contratto,
venendo incamerata
in caso di inadempimento della controparte, sotto tale profilo
avvicinandosi
alla cauzione; ha carattere di autotutela, consentendo il recesso senza
la
necessità di adire il giudice; ha altresì funzione di
garanzia per il
risarcimento dei danni eventualmente liquidati in via giudiziale,
ovvero,
alternativamente, di liquidazione preventiva, forfetaria e
convenzionale del
danno stesso, automaticamente connessa al recesso cui la parte si sia
determinata in conseguenza dell'inadempimento della controparte; in una
speculare dimensione di fisiologico dipanarsi della vicenda
contrattuale, essa
si caratterizza invece come anticipata esecuzione parziale della
prestazione
dedotta in contratto (mentre correttamente se ne esclude una ulteriore
funzione
probatoria dell'intervenuta conclusione del contratto principale - come
pure
sostenuto da una risalente giurisprudenza: Cass. 925/1962, 1326/1958 -,
atteso
che ad essere tradizionalmente inteso come “probatorio” è in
realtà il riflesso
di una duplice peculiarità morfologica dell'istituto, la sua
realità e la sua
accessorietà). Fattispecie
cangiante e versatile, la caparra assume, diacronicamente - a seconda,
cioè, del
“momento” del rapporto negoziale in cui si colloca -, forme e funzioni
assai
diversificate, in ciò distinguendosi nettamente tanto dalla
caparra
penitenziale, che costituisce il semplice - e non altrimenti
utilizzabile -
corrispettivo del diritto di recesso, quanto dalla clausola penale,
rispetto
alla quale non pone limiti all'entità del danno risarcibile -
ben potendo la
parte non inadempiente recedere senza dover proporre domanda giudiziale
o
intimare la diffida ad adempiere e trattenere la caparra ricevuta
ovvero
esigere il doppio di quella prestata a totale soddisfacimento del danno
derivante dal recesso, del tutto a prescindere dall'effettiva esistenza
e
dimostrazione di un danno; ovvero non esercitare il recesso e chiedere
la
risoluzione del contratto e l'integrale risarcimento del danno sofferto
in base
alle regole generali, sul presupposto di un inadempimento imputabile e
di non
scarsa importanza (la parte non inadempiente non potrà, in tal
caso, incamerare
la caparra, bensì trattenerla a garanzia della pretesa
risarcitoria, ovvero a
titolo di acconto su quanto a lei spettante quale risarcimento
integrale dei
danni che saranno in seguito accertati e liquidati) -. Né
va trascurato
l'ulteriore aspetto funzionale della caparra conseguente alla scelta
della
parte di avvalersi dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento
ovvero di
risoluzione del negozio, anziché recedere dal contratto: la sua
restituzione è
in tal caso conseguenza dell'effetto restitutorio proprio della
risoluzione
negoziale, del venir meno, cioè, della causa della sua
corresponsione: essa
perde in tale ipotesi la funzione di limitazione forfettaria e
predeterminata
della pretesa risarcitoria all'importo convenzionalmente stabilito in
contratto, e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che
alla
restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del
contratto, ha
diritto anche al risarcimento dell'integrale danno subito se e nei
limiti in
cui riesce a provarne l'esistenza e l'ammontare in base alla disciplina
generale
di cui agli artt. 1453 s.s. c.c.. 3.2.
- La
questione del coordinamento tra il rimedio del recesso e quello della
risoluzione, espressamente disciplinati in favore del contraente non
inadempiente dal codice vigente, ha radici profonde, che affondano
nell'antico
dibattito accesosi in dottrina già nel vigore del codice del
1865 - che
contemplava la sola alternativa tra ritenzione della caparra e
richiesta di
esecuzione del contratto, mentre dottrina e giurisprudenza già
si
interrogavano, a quel tempo, sulla possibilità di chiedere il
risarcimento
secondo le regole ordinarie. Ecco
dunque il
legislatore del 1942 introdurre, nell'ambito della disciplina generale
dei
contratti, accanto al rimedio del recesso con ritenzione della caparra
(o
richiesta del doppio di quella versata), quello della risoluzione del
contratto
con conseguente risarcimento del danno da quantificarsi secondo le
regole
ordinarie. Nella mens legis, secondo quanto risulta dalla relazione al
codice,
la caparra «mentre conferma il contratto (per modo che deve
essere restituito o
computato in caso di adempimento...), facilita le composizioni in caso
di
inadempimento: infatti, l'inadempiente... perde la caparra data o
restituisce
il doppio di quella ricevuta... e questa è certo una
composizione spedita. Ma
poiché la caparra è di regola confìrmatoria, la
parte adempiente può far valere
i suoi diritti in via ordinaria... e allora la caparra funziona come
garanzia
per il recupero dei danni, che saranno attribuiti in sede di
risoluzione del
contratto o, in caso di condanna ad eseguirlo, per la mora
verificatasi». Pacifico,
secondo la unanime dottrina, il carattere di rigida
alternatività tra i due
rimedi, recesso/risoluzione, alcuni autori ne trarranno la ulteriore
conseguenza - per la parte adempiente che non sia riuscita a provare in
parte o
per l'intero il danno subito nell'azione di risoluzione e risarcimento
- della
sopportazione del rischio di vedersi risarcito un importo inferiore
alla
caparra, ovvero negato qualsiasi importo. Altra parte della dottrina,
di
converso, si indurrà più benevolmente a temperare tale
rigida conseguenza tanto
sul piano processuale - negando la configurabilità di una
domanda nuova in
ipotesi di sostituzione di quella risolutoria con quella di
recesso/ritenzione
-, quanto su quello sostanziale, ricostruendo la fattispecie, nella sua
dimensione dinamica di liquidazione anticipata del danno, in termini di
minimum
risarcibile, sempre legittimamente esigibile dal creditore che non sia
riuscito
a provare il maggior danno. 3.3.
- A partire
dagli anni sessanta, si disegnano sempre più evidenti profili di
omogeneità tra
l'istituto di cui al secondo comma dell'art. 1385 c.c. - affidato alla
manifestazione di volontà della parte non inadempiente - e la
risoluzione del
contratto per inadempimento, giusta la (condivisibile) considerazione
per cui
il recesso, in realtà, non assurge a dignità di categoria
giuridica dotata di
autonomia strutturale sua propria, ma rileva piuttosto come fattispecie
negoziale dai profili funzionali non omogenei, se la legge stessa
definisce in
termini di “recesso” atti recettizi a struttura unilaterale diversi tra
loro
quanto a giustificazione causale e meccanismi effettuali. Par lecito
discorrere, allora, di due diverse discipline della risoluzione
piuttosto che
di alternativa tra recesso e risoluzione del contratto, par lecito
immaginare,
di conseguenza, una ricostruzione della fattispecie in termini di
peculiare
ipotesi di risoluzione di diritto, da affiancare (piuttosto che
contrapporre) a
quelle di cui agli artt. 1454, 1456, 1457 c.c.. Il recesso della parte
non
inadempiente si conferma così “modalità” (ulteriore) di
risoluzione del
contratto, destinata ad operare, indipendentemente dall'esistenza di un
termine
essenziale o di una diffida ad adempiere, mercé la semplice
comunicazione
all'altra parte di una volontà “caducatoria” degli effetti
negoziali -
operante, nella sostanza, attraverso un meccanismo analogo a quello che
regola
la clausola risolutiva espressa. Si discorre, all'esito di queste
corrette riflessioni,
del tutto opportunamente, di una “forma di risoluzione stragiudiziale
del
contratto che presuppone l'inadempimento della controparte, avente i
medesimi
caratteri dell'inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale”,
cui
consegue, tra l'altro, una “rilevante semplificazione del quadro
probatorio”. Con
riferimento
ai rapporti tra gli effetti della caparra e i normali effetti
dell'inadempimento dell'obbligazione contrattuale, si riconosce poi
pacificamente, in dottrina, la facoltà di scelta conferita alla
parte non
inadempiente dall'art. 1385 c.c., mentre altrettanto dominante
risulterà
l'orientamento secondo cui il ricorso al recesso sarebbe legittimo
anche quando
sia stata proposta e proseguita una iniziale domanda giudiziale di
(esecuzione
o) risoluzione del contratto. Tra le relative domande e azioni non si
rinvengono ragioni di incompatibilità, e nella condivisa
impraticabilità del
relativo cumulo la maggior parte degli autori non scorge affatto
l'ulteriore
conseguenza dell'illegittimità dell'esperimento di entrambe in
posizione
alternativa o subordinata, che si ritiene consentita, di converso,
“fino alla
precisazione delle conclusioni nella sede giudiziale che prelude alla
decisione
di merito”. 3.4.
- Tale
orientamento verrà, di recente, sottoposto a serrata critica da
parte di altri
autori, che, da posizioni minoritarie, qualificano in termini di vera e
propria
forzatura dogmatica l'idea che la domanda di recesso non integri gli
estremi
della domanda nuova rispetto a quella di (adempimento o) risoluzione ex
art.
1453 c.c.. Pur condividendosi l'affermazione secondo cui la richiesta
di
recesso si configura quale “istanza ridotta” rispetto alla risoluzione,
vive
nello stesso ambito risarcitorio in relazione all'inadempimento
dell'altra parte,
si connota di conseguente identità di causa petendi (dal momento
che la ragione
del domandare si sostanzia in entrambi i casi nell'inadempimento
dell'altro
contraente), ad essere sottoposta a revisione critica è
l'indiscriminata
identificazione del relativo petitum. Sostanziandosi l'azione di cui al
secondo
comma dell'art. 1385 c.c., in una forma di risoluzione stragiudiziale
del
contratto, operante alla stregua degli altri meccanismi di risoluzione
stragiudiziale previsti dal codice, la sentenza che pronuncia su tale
domanda
non potrebbe avere - si sostiene - che natura dichiarativa, mentre
è
costitutiva quella che decide sulla risoluzione ai sensi dell'art. 1453
c.c., è
di condanna quella che pronuncia sull'adempimento. Duplice,
allora,
la conseguenza: da un canto, è diverso il petitum immediato che
identifica le
azioni che si collegano alle tre domande, essendo diverso il tipo di
provvedimento richiesto al giudice (giusta la distinzione chiovendiana
ancor
oggi condivisa dalla dottrina e giurisprudenza prevalente in tema di
petitum
attoreo), di talché “non sussiste identità di azioni e
quindi di domande se è
vero che tale identità postula la coincidenza del petitum
immediato e di quello
mediato”; dall'altro, anche il petitum mediato (il bene della vita che
si
chiede alla controparte cui è rivolta la domanda), è in
realtà diverso, se (ex
art. 1453 c.c.), volendo conseguire lo scioglimento del vincolo, si
chiede
all'inadempiente di subire una certa modificazione giuridica quale
quella che
scaturisce da una pronuncia costitutiva di risoluzione, ovvero, con la
domanda
di recesso (ex art. 1385, c. 2 c.c.), si impone alla controparte,
mirando alla
certezza del modo d'essere del rapporto, di prendere atto della
positiva
verifica in ordine alla sussistenza dei presupposti stragiudiziali
della
risoluzione. Fortemente
(e
condivisibilmente) critica appare ancora questa stessa dottrina
rispetto alla
possibilità di chiedere il recesso dopo aver inizialmente
invocato la
risoluzione del contratto sulla base di una pretesa (quanto in
realtà
impredicabile) disponibilità dell'effetto risolutorio, effetto
del quale si
evidenzia, specularmente, l'assoluta indisponibilità per la
parte non
inadempiente, sottolineandosi come tale, erroneo approdo
giurisprudenziale
esponga nella sostanza il contraente inadempiente, ormai condotto sulla
via
dell'avvenuta risoluzione, ad una inopinata reviviscenza del contratto
e al
conseguente, risorto obbligo di adempimento, vicenda che la legge vuole
palesemente evitare, sancendo per tabulas il divieto di modifica della
domanda
di risoluzione in domanda di adempimento. Quanto,
infine,
alla tesi della caparra intesa come minimum risarcibile, affacciatasi
subito
dopo l'introduzione dell'art. 1385 c.c., va notato come essa sia stata
oggetto
di recente riscoperta da parte di più di un autore negli ultimi
anni,
opinandosi in proposito che, nell'attribuire la scelta dei due rimedi
ai sensi
del 1385 c.c., il legislatore “sarebbe stato mosso dall'intento di
tutelare il
contraente non inadempiente consentendogli di provare l'eventuale
maggior
danno, senza per questo dover perdere quanto già garantitogli in
via preventiva
e forfetaria”. A fondamento di tale (poco comprensibile e ancor meno
condivisibile) istanza di “ipertutela” della parte non inadempiente, si
sottolinea
che altrimenti “si falcidierebbe l'istituto della caparra annullandone
la
funzione tipica di predeterminazione del danno” (mentre, sul piano
comparatistico si richiama - ma non del tutto conferentemente - il
codice
tedesco che, per un istituto omologo, prevede, in realtà, con
disposizione del
tutto “neutra” § 336 e 337 BGB, soltanto che “qualora l'accipens
chieda il
risarcimento del danno per inadempimento, nel dubbio, la caparra vada
imputata
a risarcimento, mentre deve essere restituita al momento della
prestazione del
risarcimento del danno”). Così, dal punto di vista sistematico,
si sostiene -
sul presupposto che l'alternativa non sia tra recesso e risoluzione ma
tra
l'accontentarsi della caparra o voler perseguire un più cospicuo
ristoro - che
domanda di risarcimento dei danni secondo le regole generali e domanda
di
ritenzione della caparra sarebbero entrambe species del più
ampio genus
“domanda di risarcimento” ai sensi dell'art. 1453 c. 1 c.c., autonome
rispetto
a quelle di adempimento, risoluzione o accertamento di intervenuta
risoluzione.
In tal modo - si conclude - sarebbe soddisfatta, senza forzature
dogmatiche di
sorta, l'istanza di giustizia sostanziale (?) quale è quella del
contraente
incolpevole che, non essendo riuscito a conseguire l'integrale
risarcimento per
cui aveva agito ex comma terzo dell'art. 1385 c.c., decida “di
accontentarsi di
meno”. 3.5.
- Pressoché
unanime risulta, invece, la dottrina nel negare legittimità alla
ormai
ultratrentennale posizione espressa da questa corte di
legittimità sul tema
(supra, sub 1.2-d) della cd. “rinunciabilità” all'effetto
risolutorio
conseguente alla sua “ritrattazione” da parte del contraente
adempiente, dopo
l'inutile decorso del tempo fissato con la diffida (giurisprudenza
consolidata,
da Cass. 1530/1977 a Cass. 11967/2004; da ultimo, di recente, Cass. n.
23315
del 2007, che contiene, peraltro, una puntuale analisi e un implicito
apprezzamento delle avverse opinioni dottrinarie). L'asse portante
della teoria
della rinunciabilità ruota, difatti, come si legge ancora nella
sentenza del
2007, attorno ad un concetto di essenzialità, per così
dire, “unilaterale”,
posta, cioè, nell'esclusivo interesse del creditore, unico
arbitro della
convenienza o meno a far valere l'inutile decorso del tempo in seno al
dipanarsi della vicenda negoziale. Dunque, la norma di cui all'art.
1454 c.c.
non tutelerebbe l'interesse del diffidato alla certezza del rapporto
(intesa in
termini di definitiva realizzazione dell'effetto risolutorio “di
diritto” di
cui discorre l'ultimo comma della norma stessa), ma (solo) quello del
diffidante che, disponendo (sine die) dell'effetto risolutorio,
può ancora e
sempre agire per l'adempimento: così come, verificatosi
l'inadempimento, la
parte non inadempiente può scegliere tra risoluzione, giudiziale
o di diritto
(per diffida), e adempimento coattivo, così, verificatasi la
risoluzione, la
stessa parte potrebbe, nonostante la scadenza del termine indicato in
diffida,
purtuttavia esercitare l'azione di adempimento contrattuale. Argomento
a latere
di tale ricostruzione della fattispecie, la natura giuridica della
diffida che,
in guisa di negozio giuridico unilaterale recettizio, non potrebbe
produrre
effetti contro e oltre la volontà del suo autore: nessun
ostacolo, dunque, alla
neutralizzazione del relativo effetto negoziale attraverso altra
manifestazione
di volontà negoziale, dichiarativa o per facta concludentia
(tale ritenendosi,
ad esempio, l'esercizio di un'azione giudiziale volta a conseguire un
risultato
affatto diverso dalla risoluzione). A
mente delle
più approfondite costruzioni dottrinarie intervenute in subiecta
materia (che
queste sezioni unite, come di qui a breve si dirà, ritengono di
poter
condividere), l'effetto risolutorio conseguente alla diffida non
rientrerebbe,
viceversa, nella disponibilità dell'intimante. Se “il contratto
è risolto”,
creditore e debitore sono ormai liberati dalle rispettive obbligazioni
(salvo
quelle restitutorie), e l'effetto risolutivo, destinato a prodursi
automaticamente, cristallizza un inadempimento e le sue conseguenze in
iure
impedendo ogni ulteriore attività di disposizione dell'effetto
stesso. In tal
modo si opera un irrinunciabile bilanciamento tanto dei contrapposti
interessi
negoziali - ivi compreso quello dell'inadempiente che non può
indefinitamente
restare esposto all'arbitrio della controparte - quanto di quelli,
più
generali, al rapido e non più discutibile rientro nel circolo
economico di quei
beni coinvolti nella singola, patologica vicenda contrattuale. 4
- La soluzione
dei quesiti sottoposti all'esame di queste sezioni unite. 4.1.
- È
convincimento del collegio che il ricorso dei coniugi Lieto debba
essere
rigettato, e che debba essere confermata la statuizione del giudice
territoriale predicativa del carattere di novità della domanda
da quegli
proposta in appello in sostituzione di quella originaria, sia pur con
le
precisazioni che di qui a breve seguiranno. 4.2
- Si è fatto
cenno, in precedenza (supra, sub 2.1), come le vicende sostanziali e
processuali scaturenti dai rapporti tra azione di risoluzione e di
risarcimento
da un canto, e tra domanda di recesso e di ritenzione della caparra
dall'altro
involgano delicate questioni di diritto, la cui soluzione postula una
corretta
analisi di tali rapporti in una più vasta ottica di ricerca e
ritrovamento del
reale fondamento, morfologico e funzionale, dell'istituto della
caparra, entro
i più vasti ed attuali confini del giusto processo inteso come
processo celere,
come processo evitabile, come equo contemperamento delle posizioni
delle parti
contrattuali secondo il fondamentale canone ermeneutico della buona
fede
reciproca, id est del ripudio di qualsivoglia forma di abuso che
dottrina e
giurisprudenza tedesca felicemente definiscono come
Rechtsmi§brauch. Va
in premessa
senz'altro condivisa la ricostruzione dottrinaria secondo la quale il
diritto
di recesso è una evidente forma di risoluzione stragiudiziale
del contratto,
che presuppone pur sempre l'inadempimento della controparte avente i
medesimi
caratteri dell'inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale:
esso
costituisce null'altro che uno speciale strumento di risoluzione
negoziale per
giusta causa, alla quale lo accomunano tanto i presupposti
(l'inadempimento
della controparte) quanto le conseguenze (la caducazione ex tunc degli
effetti
del contratto). Tale
inquadramento sistematico dell'istituto postula, al fine di un
legittimo
esercizio del diritto di recesso e di conseguente ritenzione della
caparra,
l'esistenza di un inadempimento gravemente colpevole, di un
inadempimento cioè
imputabile (ex art. 1218 e 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex
art. 1455
c.c.). Un
inadempimento
imputabile, poiché in assenza di esso viene meno il più
generale presupposto
richiesto dalla norma di cui all'art. 1218 affinché il debitore
possa considerarsi
tenuto al risarcimento del danno, del quale la caparra costituisce
(almeno in
uno dei suoi polifoni aspetti funzionali) liquidazione anticipata,
convenzionale, forfetaria: la impossibilità dell'esecuzione
della prestazione
per causa non imputabile determina la risoluzione per
impossibilità
sopravvenuta della prestazione (artt. 1218, 1256, 1463 c.c.) e la
conseguente
caducazione dell'intera convenzione negoziale, ivi compresa quella,
accessoria,
istitutiva della caparra (in tal senso, la pressoché costante
giurisprudenza di
questa corte: Cass. 23.1.1989 n. 398, ove si legge che la disciplina
dettata
dal secondo comma dell'art. 1385 cod. civ., in tema di recesso per
inadempimento nell'ipotesi in cui sia stata prestata una caparra
confirmatoria,
non deroga affatto alla disciplina generale della risoluzione per
inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando
l'inadempimento
della controparte sia colpevole e di non scarsa importanza in relazione
all'interesse dell'altro contraente. Pertanto nell'indagine
sull'inadempienza
contrattuale da compiersi alfine di stabilire se ed a chi spetti il
diritto di
recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono
seguire nel
caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso
che
occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di
entrambi
i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di
essi
abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l'interesse
dell'altro al
mantenimento del negozio). Un
inadempimento
grave perché (come già correttamente evidenziato nella
sentenza dianzi citata,
e come confermato dalla dominante dottrina), diversamente opinando
(come pure
ipotizzato da chi sottolinea come la collocazione della norma ex art.
1385 sia
al di fuori dello specifico capo dedicato alla risoluzione per giusta
causa ed
ai suoi presupposti, non contenendo il predetto articolo alcuna
menzione delle
caratteristiche dell'inadempimento né tantomeno sussumendone la
gravità al
rango di condizione necessaria per l'esercizio del diritto di recesso)
si
finirebbe, da un canto, per indebolire, anziché rafforzare, il
vincolo
negoziale - consentendosi alla parte di sottrarvisi capricciosamente al
solo
annunciarsi di qualsivoglia, minima difformità di esecuzione -
così
determinando una insanabile contraddizione con l'opposta, tipica
finalità di
rafforzamento del predetto vincolo, universalmente riconosciuta alla
caparra -;
dall'altro, per negare incomprensibilmente in radice la identità
strutturale di
un medesimo presupposto risarcitorio (l'inadempimento), così
come sussunto
nella sfera del rilevante giuridico dall'unica norma che lo disciplina
in parte
qua (l'art. 1385 c.c.), salvo ad annettervi poi, sul piano funzionale,
due
rimedi alternativi di tutela (il recesso, la risoluzione): ammettere
l'ipotesi
contraria condurrebbe alla poco logica conseguenza per cui in presenza
di un
inadempimento lieve il contraente incolpevole potrebbe recedere dal
contratto,
ma non provocarne la risoluzione in via ordinaria (con buona pace della
evidente alternatività “integrale” dei rimedi rispettivamente
modellati dal
secondo e dal terzo comma della norma citata, e salva, peraltro, la
contraria
volontà delle parti che, con apposita clausola, si determinino
ad attribuire
rilevanza anche ad ipotesi di inadempimento lieve, attraverso una
specificazione ed eterodeterminazione del regolamento negoziale
espressamente
convenuto in forme dissonanti rispetto allo schema legislativo). 4.3.
- Tanto
premesso, e avviando a soluzione il complesso coacervo di quesiti
sollevati in
premessa, deve in limine osservarsi che, se il recesso è non
altro che una
forma di risoluzione stragiudiziale del contratto che presuppone
l'inadempimento della controparte, le interazioni rilevanti da
esaminare sul
piano normativo non sono tanto quelle tra il recesso stesso e le varie
forme di
risoluzione, quanto quella, pur collegata, tra azione di risarcimento
ordinaria
e domanda di ritenzione della caparra. Si
è
condivisibilmente affermato, in proposito, che l'unica ragione per cui
il
contraente incolpevole (oltre che di buon senso) possa preferire la
meno pervia
strada della risoluzione alla più agevole manifestazione della
volontà di
recesso è evidentemente volta al proposito di conseguire un
risarcimento (che
egli auspica) maggiore rispetto all'importo della caparra (o del suo
doppio).
Se un'alternativa si pone, allora, per la parte non inadempiente,
questa non è
tanto limitata ad una scelta (in realtà, del tutto fungibile
quoad effecta) tra
recesso e risoluzione, ma si estende necessariamente a quella tra
l'incamerare
la caparra (o il suo doppio), cosi ponendo fine alla vicenda negoziale,
e
l'instaurare un apposito giudizio per conseguire una più
cospicua
locupletazione, un più pingue risarcimento, una più
congrua quantificazione di
danni dei quali egli si riserva (fondatamente!) di offrire la prova. Ecco
che
l'analisi della prima relazione tra le azioni in esame comporta non
tanto
l'attribuire rilevanza alla pretesa antinomia risoluzione+risarcimento
/ recesso+ritenzione
della caparra, una vera e propria alternatività (rectius,
incompatibilità)
esistendo piuttosto, sul piano morfologico, tra le due sole azioni
“recuperatorie”, quella, cioè, strettamente risarcitoria (la
domanda di
risarcimento danni) e quella più latamente satisfattiva (la
ritenzione della
caparra, sul cui carattere, in realtà, paraindennitario e non
strettamente
risarcitorio non è in questa sede lecito approfondire una
riflessione). Le
(apparenti)
problematiche afferenti ai rapporti tra le (sole) domande di
risoluzione e di
recesso non hanno, in realtà, al di là di aspetti
formalistico/speculativi,
autonoma rilevanza giuridica sostanziale: una domanda (principale) di
risoluzione contrattuale correlata ad una richiesta risarcitoria
contenuta nei
limiti della caparra, oltre ad avere una rilevanza pressoché
solo teorica (non
si capisce perché adire il giudice, potendo la parte stessa
determinare
l'effetto risolutorio in sede stragiudiziale, mentre diverso potrebbe
risultare
l'approccio in ipotesi di domanda riconvenzionale), non è altro
(nonostante il
contrario avviso di autorevole dottrina, che discorre di
compatibilità tra
domanda costitutiva di risoluzione giudiziale e risarcimento del danno
nei
limiti della caparra) che una domanda di accertamento dell'avvenuto
recesso (e
della conseguente risoluzione legale del contratto); una domanda di
risoluzione
avanzata senza il corredo di una ulteriore richiesta risarcitoria,
rapportata o
meno all'entità della caparra, avrà il solo scopo di
caducare in via giudiziale
il contratto senza ulteriori conseguenze economiche per la parte
inadempiente
(il che potrà accadere nell'ipotesi - invero assai rara - in cui
la parte
adempiente abbia il solo scopo di rendere definitivo l'accertamento
della
caducazione degli effetti del contratto, ma non voglia incamerare, per
motivi
di etica personale, la caparra ricevuta poiché, a seguito del
primo
inadempimento, egli ha potuto successivamente concludere un più
lucroso affare
e non intende ulteriormente speculare sulla vicenda), senza che, nel
corso del
giudizio, sia lecito introdurre complementari domande “risarcitorie”
collegate
(che risulterebbero del tutto nuove e pertanto inammissibili). Il
vero nodo da
sciogliere, dunque, riguarda la relazione complessa tra le quattro
possibili
domande giudiziali, le prime due sinergicamente volte alla risoluzione
e al
risarcimento del danno, le seconde, proposte in una diversa fase o
(come nella
specie) in un diverso grado di giudizio, funzionali alla declaratoria
di
recesso con ritenzione della caparra. Ed è soltanto con
riferimento a questa
ipotesi che la questione va risolta analizzando, peraltro, non
(soltanto) la
interazione risoluzione/recesso bensì quella tra risarcimento e
ritenzione di
caparra. Vero che il recesso non è che un'altra forma di
risoluzione ex lege
(ciò che apparentemente legittimerebbe le pronunce che escludono
il carattere
di novità di quelle domande che abbiano trasformato la richiesta
di risoluzione
in istanza di declaratoria di recesso, orbitando entrambe intorno al
medesimo
asse costituito dall'inadempimento di controparte), resta da stabilire
se tale
fungibilità sia, o meno, legittimamente esportabile ai rapporti
tra le due
connesse azioni lato sensu risarcitorie. È
convincimento
di queste sezioni unite che la risposta al quesito debba essere
negativa, e che
del tutto destituita di fondamento (benché suggestivamente
sostenuta in
dottrina e motivatamente fatta propria da una recente giurisprudenza di
legittimità e di merito) risulti la teoria della caparra intesa
quale misura
minima del danno risarcibile da riconoscersi comunque alla parte non
inadempiente benché questa si sia avvalsa, in sede di
introduzione del
giudizio, dei rimedi ordinari di tutela. 4.4.
- Come
opportunamente e condivisibilmente rilevato da una recente dottrina che
ha
esaminato funditus la questione, l'art. 1385 comma terzo c.c.,
nell'accordare
alla parte non inadempiente la facoltà di avvalersi della tutela
risolutoria
ordinaria, non ha in alcun modo previsto la risarcibilità del
maggior danno,
quanto piuttosto il risarcimento integrale del danno subito (se
provato),
secondo un meccanismo (processuale) ormai del tutto indipendente dalla
precedente liquidazione convenzionale (e stragiudiziale). Di
qui
l'ulteriore connotazione della sinergia necessaria tra azione
risolutoria e
azione risarcitoria: attraverso la loro congiunta proposizione, la
parte tende
ad ottenere un risarcimento integrale secondo le norme generali in tema
di
inadempimento, e non si determina ad invocare e conseguire l'eventuale
differenza tra l'importo convenzionalmente “risarcitorio” rappresentato
dalla
caparra, da un canto, e il danno effettivamente sofferto (ma da
provare),
dall'altro. L'esame
comparato tra la norma posta dal legislatore in tema di caparra e
quella dettata
in tema di clausola penale conferma la bontà di tale riflessione. Soltanto
in tema
di clausola penale, difatti, il legislatore ha contemplato, per la
parte (sia
pur previo patto espresso), la facoltà di agire in giudizio per
la
risarcibilità del danno ulteriore, con ciò
presupponendosi che la somma dovuta
a titolo di penale risulti comunque acquisita al patrimonio
dell'adempiente, il
quale ha la ulteriore facoltà di provare ad incrementare la
posta risarcitoria
tutte le volte che, in giudizio, egli sia in grado di provare
l'ulteriore danno
sofferto. Le
stesse regole
operazionali risultano del tutto assenti (e dunque del tutto
impredicabili) in
tema di caparra confirmatoria, poiché risarcibilità del
danno ulteriore e
risarcibilità del danno effettivo postulano l'operatività
di ben diversi
meccanismi di tutela, diversamente disciplinati dal legislatore (la
differenza
viene acutamente colta ed efficacemente esplicitata in una assai
risalente
sentenza di merito: secondo la corte di appello di Cagliari - la
sentenza è del
24 ottobre 1946 -, difatti, “dal raffronto tra l'art. 1382 - ove, a
proposito
della clausola penale, è espressamente contemplata la
facoltà delle parti di
convenire la risarcibilità del danno ulteriore, e l'art. 1385
ultimo comma, per
giungere alla conclusione che, se in quest'ultima disposizione il
legislatore
non credette di ripetere l'identica espressione dell'art. 1382 ma fece
invece
richiamo alle norme generali sul risarcimento, fu perché volle
una distinzione
tra le due fattispecie”). Vanno
considerate, ancora, ad ulteriore conferma della correttezza della
soluzione
adottata: -
la evidente
disomogeneità “genetica” tra il ristoro conseguente
all'incameramento della
caparra o del suo doppio - ristoro che in nulla pare assimilabile al
meccanismo
risarcitorio tipico, e che addirittura prescinde da qualsiasi prova ed
esistenza stessa di un danno - e il risarcimento del danno vero e
proprio,
conseguito secondo le normali regole probatorie, danno la cui
riparazione non
può che essere integrale, ai sensi dell'art. 1223 c.c. (in esso
ricompresi,
oggi, secondo quanto condivisibilmente affermato da Cass. ss. uu.
26972/08,
anche i pregiudizi non patrimoniali incidenti su diritti inviolabili
della
persona, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata degli
artt.
1174, 1218, 1223 c.c.); -
la speculare
difformità funzionale tra i due rimedi, la domanda di ritenzione
della caparra
(o di richiesta del suo doppio) essendo pretesa fondata su una causa
petendi
affatto diversa da quella riconnessa all'azione di risarcimento.
Proprio la
finalità di liquidazione immediata, forfetaria, stragiudiziale,
posta
nell'interesse di entrambe le parti, viene irredimibilmente esclusa
dalla
pretesa giudiziale di un maggior danno da risarcire (e provare),
poiché la semplificazione
stragiudiziale del procedimento di ristoro conseguente alla sola
ritenzione
della caparra tramonta, inevitabilmente e definitivamente, al cospetto
delle
barriere processuali sorte per effetto di una domanda dalla natura
strettamente
risarcitoria, e perciò solo del tutto alternativa; -
il dato
testuale dell'art. 1385, c. 3, c.c. che, nell'offrire una precisa
alternativa
alla parte adempiente, nulla dispone in ordine alla possibilità
del creditore
di disattendere la generale regola, sostanziale e processuale, secondo
cui
electa una via non datur recursus ad alteraram. Proprio il richiamo
“alle norme
generali” va inteso nel senso che il creditore ha diritto al
risarcimento
integrale se riesce a dimostrare il danno, così restando escluso
il diritto di
modificare la pretesa, a meno di non voler poi disapplicare proprio
quelle
“norme generali”, ovvero applicarle in un'ottica di indiscriminato
favor per il
creditore, secondo una sua personale convenienza valutata a posteriori,
priva
di alcun serio bilanciamento di interessi tra le parti; -
generali
considerazioni di economia processuale, oltre che di corretto
bilanciamento
degli interessi in gioco, secondo cui, da un canto, chi agisce in
giudizio per
la risoluzione è mosso dal proposito di conseguire un ristoro
patrimoniale più
cospicuo, e pertanto “rinuncia al certo per l'incerto” affrontando
peraltro
l'alea (e l'onere) della prova dell'an e del quantum del pregiudizio
sofferto,
con il rischio (a suo carico) che il danno risulti inferiore a quanto
pattuito
con la caparra (o addirittura inesistente); dall'altro, chi ammette una
fungibilità tra le azioni lato sensu risarcitorie ignora che
ciò si
risolverebbe nella indiscriminata e gratuita opportunità di
modificare, per
ragioni di mera convenienza economica, la strategia processuale
iniziale dopo
averne sperimentato gli esiti, trasformando il processo in una sorta di
gioco
d'azzardo “a rilancio senza rischio”; dall'altro ancora, soltanto
l'esclusione
di una inestinguibile fungibilità tra rimedi consente di evitare
situazioni di
abuso e rende il contraente non inadempiente doverosamente responsabile
delle
scelte operate, impedendogli di sottrarsi ai risultati che ne
conseguono,
quando gli stessi non siano corrispondenti alle aspettative che ne
hanno
dettato la linea difensiva; -
la più
rigorosa osservanza di precetti costituzionali, così
perseguendosi l'ulteriore
approdo, in armonia con il nuovo dettato dell'art. 111 Cost. (e
resistendo alla
suggestione di dover sempre preservare, oltre ogni ragionevolezza, la
posizione
della parte non inadempiente) di evitare rilevanti diseconomie
processuali:
oltre all'apprezzabile risultato di disincentivare il contenzioso
attraverso il
divieto di qualsiasi mutatio actionis in corso di giudizio, non va
dimenticato
come le domande di risoluzione e di risarcimento comportino spesso, sul
piano
probatorio, un'intensa e defatigante attività per le parti e per
il giudice, e
un inopinato mutamento delle pretese creditorie vanificherebbe il
contenuto
stesso di tali attività, legittimando un'esigenza di parte
fondata sulla sola
circostanza di non trovare più conveniente proseguire nel
cammino processuale
inizialmente scelto. Si aprirebbero così pericolosi varchi a ben
poco fondate
richieste giudiziali, favorendo liti il più delle volte
temerarie introdotte da
chi, certo di un commodus discessus processuale costituito dalla
inestinguibile
facoltà di rivitalizzare una domanda di recesso con ritenzione
della caparra,
si sentirebbe legittimato a tentare in ogni caso una pur assai
improbabile
demonstratio dì aver subito maggiori danni “a costo zero”. 4.5.
- Dalle
considerazioni sinora esposte discende la ulteriore, inevitabile
conseguenza
per cui l'originaria domanda di (sola) risoluzione non può
ritenersi
legittimamente convertibile, in sede di appello, in domanda di (solo)
recesso,
e ciò non solo e non tanto per i numerosi motivi di sistema
indicati, sul piano
della morfologia delle azioni, dalla più recente dottrina (cui
in precedenza si
è fatto cenno), ma soprattutto perché tale modifica
potrebbe risultare
callidamente e surrettiziamente funzionale a riattivare il meccanismo
legale di
cui al secondo comma dell'art. 1385 c.c. (al recesso consegue, ex lege,
il
diritto alla ritenzione della caparra), ormai definitivamente caducato
per via
delle preclusioni processuali definitivamente prodottesi a seguito
della
proposizione della domanda di risoluzione sic et simpliciter.
Specularmente
inammissibile deve ritenersi la domanda di risoluzione giudiziale
introdotta
dopo essersi avvalsi della tutela speciale ex art. 1385 secondo comma
c.c.,
intanto perché, dopo aver esercitato il diritto di recesso, il
contratto è già
risolto, ma soprattutto poiché, ancora una volta, con tale
trasformazione si
cercherebbe surrettiziamente di ampliare l'ambito risarcitorio in sede
processuale, dopo aver incamerato la caparra, indirizzandolo verso una
più
pingue (ma ormai intempestiva) richiesta di risarcimento integrale. 4.6.
- Quanto,
infine, alla questione della rinunciabilità all'effetto
risolutorio da parte
del contraente non inadempiente, gli argomenti addotti in dottrina
appaiono, a
giudizio di queste sezioni unite, meritevoli di ingresso nella
giurisprudenza
di questa corte. A
fondamento di
tale revirement (sia pur connesso solo indirettamente alla decisione
del caso
in esame), va difatti osservato: -
che il tenore
strettamente letterale della norma di cui all'art. 1454 collega alla
inutile
scadenza del termine contenuto in diffida un effetto automatico,
verificandosi
la risoluzione al momento stesso dello spirare del dies ad quem
indicato dal
diffidante. Gli stessi meccanismi operativi previsti per le altre
fattispecie
di risoluzione legale confortano tale conclusione, poiché
clausola risolutiva
espressa e termine essenziale partecipano, sincronicamente, del
medesimo
aspetto genetico della convenzione negoziale, postulando, per loro
stessa
natura, la necessità (clausola risolutiva) o la
possibilità (termine
essenziale) di una ulteriore manifestazione di volontà da parte
del non
inadempiente che, alla luce dei diacronici sviluppi del rapporto
contrattuale,
potrebbe farsi portatore di un interesse diverso, rispetto alla
risoluzione,
nel tempo del verificatosi inadempimento. La diffida, coevamente
comunicata
alla controparte già nel momento (patologicamente) funzionale
del rapporto,
contiene invece in sé già tutti gli elementi di
valutazione di una situazione
attuale e attualizzata, in termini di interesse, in capo al diffidante;
- che
il collegamento tra la essenzialità del termine contenuto nella
diffida e la
(peraltro non pacifica) esclusività dell'interesse
dell'intimante attiene, in
realtà, all'atto di diffida ma non all'effetto risolutorio, che
la norma ex
art. 1454 c.c. mostra di considerare automatico, perseguendo la non
discutibile
funzione di bilanciamento di interessi contrapposti, a tutela anche
della parte
che, allo spirare del termine, abbia posto un affidamento legittimo
nell'avvenuta cessazione degli effetti del negozio; -
che la
perdurante disponibilità dell'effetto risolutorio in capo alla
parte non inadempiente
risulterebbe, in assenza di qualsivoglia disposizione normativa
“limitativa”
(quale quella dettata, ad esempio, in tema di remissione del debito),
operante
sine die, in evidente contrasto con gli analoghi meccanismi di
risoluzione
legale collegati al termine essenziale e al relativo adempimento
tardivo, così
generandosi, sotto altro profilo, una ingiustificata e sproporzionata
lesione
all'interesse del debitore, il cui ormai definitivo affidamento nella
risoluzione (e nelle relative conseguenze) del contratto inadempiuto
potrebbe
indurlo, non illegittimamente, ad un conseguente riassetto della
propria
complessiva situazione patrimoniale; -
che la stessa
ratio legis sottesa al più generale meccanismo della risoluzione
giudiziale
(art. 1453 c.c.) appare principio di portata assai più ampia (e
dunque
legittimamente esportabile anche nel parallelo sottosistema della
risoluzione
legale) dacché permeato dell'evidente funzione di accordare
(moderata) tutela
anche alla parte non adempiente che, assoggettata ad un'iniziativa
volta alla
caducazione del contratto, non può più essere, ex lege,
destinataria di una
successiva richiesta di adempimento (in una vicenda in cui, si badi, la
definizione dell'effetto risolutorio è ancora in itinere,
destinata com'è a formare
oggetto di accertamento processuale in contraddittorio), onde porsi
volontariamente (ma del tutto legittimamente) in condizione di non
poter più
adempiere. Se la proposizione di una domanda giudiziale di risoluzione
implica
l'assenza di interesse del creditore all'adempimento e il conseguente
acquisto,
da parte del debitore, di una sorta di “diritto a non adempiere”, non
v'è
ragione di escludere che la stessa ratio (di cui è d'altronde
traccia dalla
stessa relazione al codice) non debba informare anche la speculare
vicenda
della diffida ad adempiere, in entrambi i casi risultando espressa
inequivocabilmente la mancanza di interesse all'adempimento
intempestivo; -
che la natura
di negozio unilaterale recettizio della diffida non pare utile a
legittimare la
(non conferente) conseguenza della disponibilità dell'effetto
risolutivo.
Soccorrono, al riguardo, disposizioni normative, come quelle di cui
all'art.
1723 c.c. in tema di irrevocabilità del mandato (anche) in rem
propriam, che
lasciano chiaramente intendere come la più generale filosofia
ispiratrice del
codice del '42, quella, cioè, della tutela dell'affidamento
incolpevole, trovi
necessario spazio e puntuale attuazione tutte le volte in cui
l'unilateralità
dell'atto incida significativamente anche sugli interessi del
destinatario; -
che, in
definitiva, la concezione dell'effetto risolutivo disponibile in capo
al
creditore pare figlia di una ideologia fortemente punitiva per
l'inadempiente,
si atteggia a mo' di sanzione punitiva senza tempo, assume forme di
(ingiustificata) “ipertutela” del contraente adempiente, del quale si
legittima
ogni mutevole e repentino cambiamento di “umore” negoziale. 4.7.
- Vanno,
pertanto, affermati (a soluzione delle questioni proposte supra, sub
2.1) i
seguenti principi di diritto: a) I rapporti tra azione di risoluzione e di
risarcimento integrale da una parte, e azione di recesso e di
ritenzione della
caparra dall'altro si pongono in termini di assoluta
incompatibilità
strutturale e funzionale: proposta la domanda di risoluzione volta al
riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni
asseritamente
subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in
domanda di recesso
con ritenzione di caparra perché (a prescindere da quanto
già detto e ancora si
dirà di qui a breve in ordine ai rapporti tra la sola azione di
risoluzione e
la singola azione di recesso non connesse alle relative azioni
“risarcitorie”)
verrebbe così a vanificarsi la stessa funzione della caparra,
quella cioè di
consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta
ad
evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi
inammissibilmente alla parte non inadempiente di “scommettere”
puramente e
semplicemente sul processo, senza rischi di sorta; b) L'azione
di risoluzione avente natura
costitutiva e l'azione di recesso si caratterizzano per evidenti
disomogeneità
morfologiche e funzionali: sotto quest'ultimo aspetto, la
trasformazione
dell'azione risolutoria in azione di recesso nel corso del giudizio
lascerebbe
in astratto aperta la strada (da ritenersi, invece, ormai preclusa) ad
una
eventuale, successiva pretesa (stragiudiziale) di ritenzione della
caparra o di
conseguimento del suo doppio (con evidente quanto inammissibile rischio
di
ulteriore proliferazione del contenzioso giudiziale); c) Azione di
risoluzione “dichiarativa” e
domanda giudiziale di recesso partecipano della stessa natura
strutturale, ma,
sul piano operativo, la trasformazione dell'una nell'altra non
può ritenersi
ammissibile per i motivi, di carattere funzionale, di cui al precedente
punto
b); d) La
rinuncia all'effetto risolutorio da parte
del contraente non adempiente non può ritenersi in alcun modo
ammissibile,
trattandosi di effetto sottratto, per evidente voluntas legis, alla
libera
disponibilità del contraente stesso; e) I
rapporti tra l'azione di risarcimento
integrale e l'azione di recesso, isolatamente e astrattamente
considerate,
sono, a loro volta, di incompatibilità strutturale e funzionale; f) La
domanda di ritenzione della caparra è legittimamente
proponibile, nell'incipit del processo, a prescindere dal nomen iuris
utilizzato dalla parte nell'introdurre l'azione “caducatoria” degli
effetti del
contratto: se quest'azione dovesse essere definita “di risoluzione
contrattuale” in sede di domanda introduttiva, sarà compito del
giudice,
nell'esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione e
qualificazione in
iure della domanda stessa, convertirla formalmente in azione di
recesso, mentre
la domanda di risoluzione proposta in citazione, senza l'ulteriore
corredo di
qualsivoglia domanda “risarcitoria”, non potrà essere
legittimamente integrata,
nell'ulteriore sviluppo del processo, con domande
“complementari”, né di
risarcimento vero e proprio né di ritenzione della caparra,
entrambe inammissibili
perché nuove. Il
ricorso è
pertanto rigettato. La
disciplina
delle spese (che possono per motivi di equità essere in questa
sede compensate,
attesa la complessità e la natura controversa delle questioni
trattate) segue
come da dispositivo. P.Q.M. La
corte rigetta
il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione. |
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