Cassazione civile,
sez. un., 30 dicembre 2011, n. 30174 obbligazioni
solidali e transazione
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
L'Istituto Bancario San Paolo Imi s.p.a.
(in seguito incorporato nella società Intesa San Paolo e che con tale
denominazione verrà d'ora innanzi designato) con atto notificato il 10
maggio 2001 propose opposizione avverso il diniego di ammissione di un
proprio credito per complessivi Euro 8.516.792,67 al passivo della
liquidazione coatta amministrativa della Compagnia Tirrena di Assicurazione
s.p.a. (in prosieguo Tirrena). Il credito, secondo quanto prospettato
dall'opponente, derivava da due lettere di patronage con le quali, negli
ultimi mesi del 1989, la
Tirrena aveva prestato garanzia per debiti bancari
facenti capo alla Edilizia Borghese s.p.a.
L'opposizione fu accolta dal Tribunale di Roma, la cui decisione venne poi
confermata in secondo grado dalla Corte d'appello di Roma con sentenza
depositata il 4 febbraio 2008.
La corte d'appello reputò che le lettere di patronage a
suo tempo sottoscritte dal legale rappresentante della Tirrena implicassero
l'assunzione di un vero e proprio obbligo di garanzia per i debiti bancari
facenti capo alla Edilizia Borghese, società
indirettamente controllata dalla medesima Tirrena; che l'assunzione di un
tal genere di garanzia non potesse dirsi estranea all'oggetto sociale di
quest'ultima e non esulasse dai poteri dell'amministratore delegato che
aveva apposto la sua firma sulle menzionate lettere di patronage;
che fosse infondata la pretesa
del commissario liquidatore di profittare di una transazione in precedenza
stipulata dall'Intesa San Paolo con un altro debitore in solido, la Milano Assicurazioni
s.p.a., avendo le parti dell'accordo transattivo espressamente limitato gli
effetti di detto accordo ai reciproci rapporti; che, infine, nessun
ingiustificato arricchimento si fosse verificato in favore dell'Intesa San
Paolo, il cui credito era stato ammesso al passivo previa detrazione di
quanto già riscosso in adempimento della surriferita transazione.
La
Tirrena in liquidazione coatta ha proposto ricorso per
cassazione avverso tale sentenza prospettando cinque motivi di censura, ai
quali l'Intesa San Paolo ha replicato con controricorso.
Con ordinanza del 1 febbraio
2011, n. 2346, la terza sezione di questa corte, cui era stato
originariamente assegnato il ricorso, ha prospettato l'opportunità che se
ne occupino le sezioni unite, trattandosi di risolvere, tra l'altro, due
questioni di massima di particolare importanza: la prima afferente
all'esatta individuazione della portata e dei limiti del divieto di
svolgere attività commerciali diverse da quella assicurativa,
riassicurativa e di capitalizzazione, o a queste connesse, imposto alle
società assicurative dallaL. n. 295 del 1978, art. 5; la seconda
relativa alla possibilità che il creditore ed uno dei debitori in solido,
nel transigere la lite tra loro insorta, escludano la potestà degli altri
debitori in solido di profittare degli effetti della transazione, a norma
dell'art. 1304 c.c., comma 1.
Il ricorso è stato quindi rimesso all'esame delle
sezioni unite.
Sono state depositate memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Prima di affrontare le due questioni per le quali il
ricorso è stato affidato alle sezioni unite, occorre brevemente farsi carico dell'esame del primo motivo d'impugnazione,
che mette in discussione la possibilità stessa di ravvisare, nella
fattispecie di cui si tratta, l'esistenza di un obbligo di garanzia assunto
dalla Tirrena per i debiti della Edilizia Borghese nei confronti
dell'Intesa San Paolo.
Le censure in tal senso formulate dalla ricorrente, riferite
a pretesi errori di diritto e ad assenti vizi di motivazione dell'impugnata
sentenza, sono destituite di fondamento.
Nessuna violazione delle norme sull'interpretazione dei
contratti è dato riscontrare, avendo la corte di merito correttamente desunto
dal chiaro tenore delle surriferite lettere di patronage, oltre che dal
successivo comportamento delle parti, l'intenzione della Tirrena di
assumere direttamente nei confronti della banca creditrice l'obbligazione
di garanzia di cui si discute ed essendo ciò assorbente rispetto ad ogni altro profilo di censura dedotto nel ricorso,
ivi compreso quello relativo alla necessità che l'assunzione dell'obbligo
di garanzia risulti in modo espresso, poichè è proprio nelle espressioni
adoperate nei testi contrattuali che la volontà di assumere un tale obbligo
è stata inequivocabilmente individuata dalla corte di merito.
Per il resto, non emergono lacune o contraddizioni della
motivazione dell'impugnata sentenza su punti che possano dirsi decisivi,
mentre le critiche formulate nel motivo di ricorso in esame investono
aspetti dell'interpretazione data in concreto agli specifici contratti di
cui si tratta, che rientrano nell'esclusiva competenza del giudice del
merito e non sono suscettibili di riesame ad opera
della Corte di Cassazione.
Risulta perciò assodato che la Tirrena, con le
lettere di patronage prodotte in giudizio nella presente causa, s'impegnò
verso la banca creditrice a garantire l'esposizione debitoria della
Edilizia Borghese, società avente oggetto immobiliare, partecipata al 100%
da altra società, l'Istituto Finanziario Italiano s.p.a., a propria volta
controllata dalla stessa Tirrena.
2. Ciò posto, si può senz'altro passare all'esame del
secondo motivo di ricorso, il quale, nel denunciare la violazione della
citataL. n. 295 del 1978, art. 5, comma 2, oltre che di svariati articoli del codice civile,
tocca la questione dei limiti entro cui è consentito alle imprese
assicurative lo svolgimento di attività non direttamente ed immediatamente
afferenti alle nozioni di assicurazione, riassicurazione o
capitalizzazione.
Giova premettere che, ai fini della risoluzione di tale
questione, non sembra decisivo il fatto che lo statuto della società
Tirrena espressamente ricomprenda nell'oggetto sociale il rilascio di
fideiussioni inerenti alle finalità sociali o idonee a facilitarne il
conseguimento. Dovendosi infatti privilegiare
l'interpretazione di tale clausola che ne preservi la validità, è chiaro
che essa va intesa come volta a consentire unicamente la prestazione di
quelle garanzie che possano considerarsi ammesse dall'ordinamento, in
relazione al tipo di attività svolta dall'impresa assicurativa ed ai limiti
ad essa inerenti, e non anche di quelle eventualmente eccedenti tali
limiti.
D'altronde, occorre anche sottolineare
come i limiti posti dal legislatore alla possibilità che un'impresa di
assicurazioni svolga attività extrassicurativa abbiano carattere
inderogabile, perchè rispondono ad un interesse di ordine generale - che si
è soliti identificare con l'esigenza di non dilatare eccessivamente l'area
del rischio imprenditoriale cui tali imprese sono esposte, oltre che nel
più agevole controllo su di esse da parte delle autorità di vigilanza -
derivante dalla natura stessa dell'assicurazione e dalla funzione sociale
che le è propria. Ne consegue che i contratti eventualmente stipulati in
violazione di tale divieto sono da considerare nulli, a norma dell'art. 1418 c.c., comma 1, (in tal senso giàCass. 14 ottobre 2010, n. 21247).
Occorre, però, individuare correttamente i confini del
divieto espresso dalla citataL. n. 295 del 1978, art. 5, comma 2, (abrogato e sostituito prima dalD.Lgs. n. 175 del 1995, art. 7, comma 2, e
poi dalD.Lgs. n. 209 del 2005, art. 11, ma
nondimeno applicabile ratione temporis alla presente fattispecie) ed, in
particolare, stabilire quali operazioni possano esser considerate lecite,
in quanto "connesse" con l'oggetto proprio dell'impresa
assicurativa, e quali invece debbano dirsi vietate perchè implicanti il
compimento di "altra attività commerciale".
A tal riguardo appare anzitutto necessario puntualizzare
che la norma in esame è volta a circoscrivere l'area dell'attività
imprenditoriale della società assicurativa, come agevolmente si desume dal
suo riferimento all'oggetto sociale, nel senso d'impedire che detta
attività assuma una portata incompatibile con quella tipica e specifica di
una simile impresa. Altro è, però, il porre in essere un'attività
imprenditoriale (eventualmente eccedente i limiti legali sopra indicati),
altro è compiere singoli e specifici atti negoziali, quali quelli
implicanti l'assunzione di obblighi di garanzia, che di per sè soli non
connotano in alcun modo una specifica attività d'impresa. E' il possibile
oggetto sociale dell'impresa assicurativa ad
essere limitato dalla norma, non la capacità d'agire dell'ente
personificato, la quale perciò conserva la sua naturale portata generale
come per qualsiasi altro soggetto giuridico.
In tanto, allora, l'assunzione di garanzie per debiti di
terzi potrebbe assumere i connotati di un'attività imprenditoriale
extrassicurativa, in quanto si esplicasse in modo
sistematico e nei confronti di un'indeterminata platea di soggetti, venendo
perciò a rivestire le sembianze di un'attività di tipo finanziario, che
comporterebbe l'assunzione di un rischio d'impresa ulteriore e diverso da
quello assicurativo. Ma non è questo il caso della
prestazione di singole garanzie in favore di società facenti parte di un
gruppo di cui la stessa impresa assicurativa è a capo.
D'altronde, quando di tratta dell'esercizio di
un'impresa, per individuare una significativa
connessione tra l'attività dell'impresa medesima e singoli atti negoziali
da essa realizzati non rileva tanto il dato statico ed oggettivo di ciò in
cui l'una e gli altri consistono, quanto il legame funzionale tra essi: il
fatto, cioè, che quegli atti siano espletati in vista delle stesse finalità
che connotano lo svolgimento dell'impresa. Il nesso di strumentante, oggi
richiamato in modo esplicito dalla nuova formulazione del citatoD.Lgs. n. 209 del 2005, art. 11, comma 4,
già nel vigore della pregressa normativa appariva
idoneo a far considerare l'atto strumentale come connesso all'oggetto
dell'attività assicurativa in senso proprio. Ne sarebbe altrimenti derivata
una rigidità, nell'individuazione degli atti consentiti e di quelli vietati
ad un'impresa di assicurazione, del tutto
incompatibile con le esigenze dinamiche di quella (come di qualsiasi altra)
impresa, non potendosi fissare a priori una tassonomia di atti connessi o
non connessi all'oggetto assicurativo, ma dipendendo piuttosto la liceità
di quegli atti dalla loro concreta attinenza alle mutevoli finalità
dell'impresa; con il solo ovvio limite - quello si davvero imprescindibile,
perchè coerente con lo scopo del divieto legale - che il loro compimento
non si traduca in una sistematica attività implicante l'assunzione di un
rischio imprenditoriale indipendente e estraneo rispetto a quello tipico
dell'assicuratore: nel che risiede il senso dell'ulteriore specificazione
della norma, volto appunto a vietare il compimento di qualsiasi attività
commerciale definita "altra".
Per questa ragione non può dirsi di per sè vietato che
una società esercente attività assicurativa acquisisca partecipazioni in società aventi oggetto diverso, volta che tale
acquisizione non comporti l'esercizio di un'attività di trading finanziario
incoerente con l'oggetto assicurativo, ma sia uno dei mezzi adoperati per
la conservazione delle riserve patrimoniali di cui detta società ha bisogno
per assolvere correttamente i propri compiti istituzionali. Ed in questa logica si è significativamente collocata
anche la Corte
di Giustizia dell'Unione Europea quando, chiamata ad interpretare il
divieto di attività extrassicurative posto dall'art. 8, n. 1, lett. b),
della direttiva 73/239/Cee, ha escluso che contrasti con tale divieto la
possibilità per un'impresa di assicurazioni di detenere partecipazioni di
altra società operante in aree diverse, purchè nei limiti delle riserve
disponibili (Corte di Giustizia 21 settembre 2000, C/109/99).
Ma se questo è vero, se cioè non può dirsi di per sè
anomalo il fatto che una società di assicurazioni detenga, come nella
specie è accaduto, una partecipazione di controllo (poco rileva se diretta
o indiretta) in una società immobiliare, allora neppure si può sostenere
che nel divieto dianzi richiamato è ricompresa la
prestazione di garanzie per i debiti di quest'ultima. Non è infatti anomalo, in via di principio, che la società
capogruppo si renda garante per le esposizioni debitorie di una o più delle
sue controllate, nella misura in cui vi possa corrispondere un interesse
del gruppo nel suo insieme e, di riflesso, un interesse della stessa
controllante. Il prestare garanzia, in sè considerato, lungi dall'integrare
gli estremi di un'attività commerciale incoerente ed
incompatibile con l'oggetto sociale della garante, ben può configurarsi
come un atto strumentale alla conservazione del valore della partecipazione
azionaria di cui la stessa garante è titolare, e quindi condividere la
medesima finalità cui è ispirata la detenzione della partecipazione.
Alla stregua di tale principio, che induce a
disattendere il diverso orientamento manifestato sul punto daCass. n. 21247/10, cit.
(preceduta daCass. n. 4981/01e seguita daCass. n. 10007/11), il motivo di ricorso di
cui si tratta va rigettato.
3. Prima di soffermarsi sull'altra delle due questioni
che hanno determinato l'assegnazione del presente ricorso alle sezioni
unite, occorre procedere all'esame del terzo motivo d'impugnazione, che
concerne l'asserito difetto di poteri rappresentativi in capo
all'amministratore delegato della Tirrena che ebbe a sottoscrivere le più
volte menzionate lettere di patronage.
La società ricorrente, muovendo dal presupposto che
all'amministratore delegato era stato conferito unicamente il potere di
rilasciare fideiussioni a favore di istituti
bancari e casse di risparmio per operazioni riguardanti società finanziarie
ed assicurative del gruppo, sostiene trattarsi di un'indicazione tassativa,
onde male l'avrebbe interpretata la corte territoriale ritenendo vi potesse
esser compresa anche la stipulazione di contratti autonomi di garanzia; e
lamenta inoltre che la medesima corte territoriale non abbia considerato il
fatto che le operazioni per le quali la garanzia era stata prestata non
riguardavano una società finanziaria o assicurativa, bensì immobiliare, e
che tale società non era neppure direttamente controllata dalla Tirrena.
Nemmeno tali doglianze colgono nel segno.
L'impugnata sentenza non manca di sottolineare
come l'attribuzione di poteri rappresentativi all'amministratore delegato
della Tirrena, lungi dall'essere espressa con un elenco tassativo, fosse
assai ampia e generica, sino ad autorizzarlo a "spendere la firma
sociale in tutti i rapporti con amministrazioni pubbliche e private, banche
ed altri enti senza eccezione alcuna", in coerenza, del resto, con la
previsione statutaria che attribuiva al medesimo consigliere delegato la
qualifica di legale rappresentante della società. Logica - e non
censurabile in questa sede - è dunque l'ulteriore
deduzione secondo cui la successiva formula riguardante il potere di
sottoscrivere fideiussioni per debiti delle società del gruppo debba essere
interpretata estensivamente: sia quanto alla natura giuridica dei contratti
mediante i quali la società assuma su di sè la garanzia per debiti altrui,
sia quanto al perimetro delle società comprese nel gruppo i cui debiti si
intendano garantire. Non infondatamente, del resto, la controricorrente ha
obiettato che, anche a norma del testo allora in vigore dell'art. 2384 c.c., le eventuali limitazioni al
potere di compiere atti rientranti nell'oggetto sociale da parte degli
amministratori forniti della legale rappresentanza dell'ente non risulterebbero comunque opponibili ai terzi di cui non
sia stata provata la mala fede.
4. Il quarto ed il quinto
motivo del ricorso sono collegati e possono perciò essere esaminati
congiuntamente.
Si tratta della già accennata questione se il creditore ed
uno dei debitori in solido, nel transigere la lite tra loro insorta,
possano impedire agli altri debitori in solido di profittare degli effetti
della transazione, come previsto dall'art. 1304 c.c., comma 1.
Questione che nella fattispecie in esame concretamente
si pone, giacchè è pacifico che la Tirrena ebbe a
transigere una lite con altro istituto di credito verso il quale aveva
assunto il medesimo obbligo di garanzia in forza del quale l'Intesa San
Paolo ha chiesto di essere ammessa al passivo della liquidazione coatta
della società garante.
A ciò aggiungasi che, secondo la società ricorrente, la
corte d'appello avrebbe determinato il residuo credito dell'Intesa San
Paolo senza conteggiare correttamente quanto già corrisposto dall'altro
debitore in solido, incorrendo così in un difetto di motivazione e nella
violazione del principio che vieta l'indebito arricchimento e che sottosta
anche all'applicazione dell'art. 1304 c.c., comma 1.
4.1. A tal riguardo è opportuno anzitutto rilevare come
l'apparente contrasto riscontrabile nella lettura di alcune massime
estratte da sentenze di questa corte (Cass. n. 5108 del 2011en. 4257 del 1991, da un lato,Cass. n. 1873 del 1997e n. 24 del 1968,
dall'altro) sembra in realtà agevolmente componibile in base alla diversa
portata che, di volta in volta, può assumere la transazione intervenuta tra
il creditore ed uno di più condebitori solidali.
Decisiva in tal senso, come è
stato sottolineato anche dalla dottrina maggioritaria, appare la
circostanza che la transazione
riguardi l'intero debito o che invece abbia ad oggetto unicamente la quota
del debitore con cui è stipulata. Ipotesi, quest'ultima, certamente
configurabile - sempre che, beninteso, l'obbligazione sia per sua natura
scindibile e che non si tratti di solidarietà pattuita nell'interesse di uno
dei condebitori - quando vi consenta il creditore nel cui interesse il
vincolo della solidarietà passiva è concepito, senza che sia necessario
postulare un preventivo scioglimento della solidarietà, che ben può invece
realizzarsi nel contesto medesimo della
transazione. Nè occorre a tal fine postulare un'indispensabile diversità
dei titoli da cui dipendono le diverse obbligazioni legate dal vincolo
della solidarietà, volta che tale vincolo sia unicamente funzionale ad una migliore realizzazione del credito e nulla perciò
valga ad ostacolare la libera esplicazione dell'autonomia negoziale delle
parti che intendono escluderlo per una quota parte del credito stesso.
La transazione
prò quota, in quanto tesa a determinare lo
scioglimento della solidarietà passiva rispetto al debitore che vi
aderisce, non può coinvolgere gli altri condebitori, i quali dunque nessun
titolo avrebbero per profittarne, salvo ovviamente che per gli effetti
derivanti dalla riduzione del loro debito in conseguenza di quanto pagato
dal debitore transigente. La previsione dell'art. 1304 c.c., comma 1, non si riferisce a
questa fattispecie (in tal senso si vedano ancheCass. n. 16050 del 2009,Cass. n. 14550 del 2009,Cass. n. 7485 del 2007,Cass. n. 9396 del 2006eCass. n. 8946 del 2006).
E' la transazione
riguardante l'intero debito quella cui, viceversa, detta norma si
riferisce, perchè è la comunanza dell'oggetto della transazione a far sì
che di questa possa avvalersi il condebitore in solido, pur non avendo
partecipato alla sua stipulazione e quindi in deroga al principio secondo
cui il contratto produce effetto solo tra le parti. La riduzione
dell'ammontare del debito eventualmente pattuita in via transattiva con uno
solo dei debitori opererà, in tal caso, anche per gli altri che dichiarino
di volersene avvalere, non diversamente da quel che sarebbe accaduto se
anch'essi avessero sottoscritto la medesima transazione. Nè tale
conseguenza potrebbe essere evitata introducendo nella transazione per
l'intero debito una clausola di contrario tenore, per l'ovvia
considerazione che una simile clausola sarebbe destinata ad
incidere su un diritto potestativo che la legge attribuisce ad un soggetto
terzo, rispetto ai contraenti, e del quale perciò questi ultimi non
sarebbero legittimati a disporre.
Lo stabilire poi se, in concreto, la transazione tra il
creditore ed uno dei debitori in solido ha avuto
ad oggetto l'intero debito o solo la quota del debitore transigente
comporta, evidentemente, un'indagine sul contenuto del contratto e sulla
comune volontà che in esso i contraenti hanno inteso manifestare, da
compiere ad opera del giudice di merito secondo le regole di ermeneutica
fissate nell'art. 1362 c.c.e segg..
4.2. Giova però ancora interrogarsi, ove l'indagine
sopra menzionata conduca alla conclusione che le parti hanno inteso
focalizzare la transazione unicamente su una determinata quota di debito,
su quale sia il residuo credito azionabile nei confronti degli altri debitori rimasti estranei.
La risposta della
giurisprudenza a questo interrogativo non sempre è stata chiara. In taluni
casi si è affermato che il credito verso gli altri condebitori si riduce in
proporzione alla quota transatta (cfr.
Cass. n. 16050 del 2009,Cass. n. 7485 del 2007,Cass. n. 8946 del 2006,Cass. n. 7212 del 2002,Cass. n. 2931 del 1999eCass. 7413 del 1991); in altri casi si è
detto che esso si riduce in misura pari all'ammontare di quanto il
creditore ha già percepito a seguito della transazione (cfr.Cass. n. 5108 del 2011,Cass. n. 14550 del 2009eCass. n. 4820 del 1979).
Il risultato non è però necessariamente il medesimo.
Qualora, infatti, la transazione porti all'uscita di scena di uno dei
debitori solidali, ma al tempo stesso alla soddisfazione del credito in misura minore rispetto alla
quota ideale gravante su quel debitore (si faccia l'esempio di un credito
verso tre condebitori solidali, d'importo pari a 90,
e si ipotizzi che la transazione sulla quota di uno dei debitori abbia
determinato il pagamento di 20), un conto è affermare che gli altri
condebitori restano tenuti per l'ammontare non soddisfatto del credito
(pari, nell'esempio fatto, a 70), altro dire che il loro debito si riduce
in misura proporzionale alla quota ideale del condebitore venuto meno (ciò
che, nel suddetto esempio, legittimerebbe il creditore a pretendere dai
condebitori esclusi dalla transazione solo 60).
Considerato allora che la transazione parziaria non puè
nè condurre ad un incasso superiore rispetto
all'ammontare complessivo del credito originario, nè determinare un
aggravamento della posizione dei condebitori rimasti ad essa estranei,
neppure in vista del successivo regresso nei rapporti interni, è giocoforza
pervenire alla conclusione che il debito residuo dei debitori non transigenti è destinato a ridursi
in misura corrispondente all'ammontare di quanto pagato dal condebitore che
ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua
quota ideale di debito.
In caso
contrario, se cioè il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva
idealmente capo al transigente, il debito residuo che resta tuttora a
carico solidale degli altri obbligati dovrà essere necessariamente ridotto
(non già di un ammontare pari a quanto pagato, bensì) in misura
proporzionale alla quota di chi ha transatto, giacchè altrimenti la
transazione provocherebbe un ingiustificato aggravamento per soggetti
rimasti ad essa estranei.
4.3. Nel caso in esame la corte d'appello,
nell'escludere che la
Tirrena potesse profittare della transazione intervenuta
tra la creditrice Impresa San Paolo e l'altra condebitrice in solido,
Milano Assicurazioni, non ha svolto alcuna indagine sul contenuto di tale
transazione, nè ha spiegato le ragioni per le quali questa possa avere
eventualmente riguardato la sola quota debitoria facente
capo alla società da ultimo menzionata e non anche l'intero debito.
Neppure ha chiarito secondo quale criterio, per effetto
dell'esecuzione di detta transazione, è stato quantificato il debito
residuo gravante sulla Tirrena.
5. L'impugnata
sentenza deve perciò essere cassata, con rinvio alla Corte d'appello di
Roma (in diversa composizione), che giudicherà attenendosi al seguente
principio di diritto:
"Il debitore che non sia stato parte della
transazione stipulata dal creditore con altro condebitore in solido non può
profittarne se, trattandosi di un'obbligazione divisibile ed essendo stata
la solidarietà prevista nell'interesse del creditore, l'applicazione dei
criteri legali d'interpretazione dei contratti porti alla conclusione che
la transazione ha avuto ad oggetto non l'intero
debito ma solo la quota di esso riferibile al debitore che ha transatto; in
caso contrario il condebitore ha diritto a profittare della transazione
senza che eventuali clausole in essa inserite possano impedirlo.
Qualora risulti che la transazione ha avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che la ha
stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido è
destinato a ridursi in misura corrispondente all'ammontare di quanto pagato
dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o
superiore alla sua quota ideale di debito; se invece il pagamento è stato
inferiore alla quota che faceva idealmente capo a condebitore che ha
raggiunto l'accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri
coobbligati deve essere ridotto in misura proporzionale alla quota di chi
ha transatto".
5. Al giudice di rinvio si richiede anche di provvedere
sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte, pronunciando a sezioni unite, accoglie il
quarto ed il quinto motivo del ricorso e rigetta
gli altri; cassa l'impugnata sentenza e rinvia la causa alla Corte
d'appello di Roma, in diversa composizione, demandandole di provvedere
anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2011
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