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Cassazione civile, sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25767 danno da nascita indesiderata Le Sezioni Unite Civili, a risoluzione di contrasto, sulla responsabilità medica per nascita indesiderata, hanno affermato che: a) la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l’onere mediante presunzioni semplici; b) il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da “vita ingiusta”, poiché l’ordinamento ignora il “diritto a non nascere se non sano”. la causa, senza ulteriore
istruttoria, veniva decisa con compensazione delle spese. Il successivo gravame era respinto dalla Corte d'appello di Firenze con sentenza 15 maggio 2008. C21)3 La corte territoriale motivava che il risarcimento del danno non conseguiva automaticamente all'inadempimento dell'obbligo di esatta informazione a carico del sanitario su possibili malformazioni del nascituro, bensì era soggetto alla prova della sussistenza delle condizioni previste dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza) per ricorrere all'interruzione della gravidanza; che questa, nello spirito della legge, era consentita per evitare un pericolo per la salute della gestante e subordinata a requisiti specifici, in assenza dei quali l'aborto costituiva reato; che in particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, occorreva
che la presenza di rilevanti anomalie nel feto determinasse un grave pericolo
per la salute fisica o psichica della madre, su cui incombeva il relativo
onere della prova (art.6 1.194/1978); che, sul punto, gli attori non avevano fornito neppure delle specifiche allegazioni, limitandosi ad affermare che corrispondeva a regolarità causale il rifiuto della gestante, se correttamente informata, a portare a termine la gravidanza; né era ammissibile supplire al difetto di prova mediante la richiesta consulenza tecnica d'ufficio; - che si doveva pure negare la legittimazione attiva della figlia
minore, sulla base della prospettazione di un diritto a non nascere privo di
riconoscimento nell'ordinamento giuridico; come pure l'ammissibilità del cd.
aborto eugenetico, in assenza di alcun pericolo per la salute della madre,
una volta esclusa ogni responsabilità del medico nella causazione della
malformazione del feto. Avverso la sentenza, notificata il 6 ottobre 2008, i sigg. e in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla figlia minore proponevano ricorso per cassazione, articolato in due motivi, notificato il 5 dicembre 2008. Deducevano la violazione degli articoli 1176 e 2236 cod. civ. e dell'art.&
della legge 22 maggio 1978, n. 194, nel riversare sulla gestante l'onere
della prova del grave pericolo per la sua salute fisica o psichica dipendente
dalle malformazioni del nascituro: laddove l'impedimento all'esercizio del
diritto di interrompere la gravidanza era di per sé sufficiente a integrare
la responsabilità del medico con il conseguente suo obbligo al risarcimento; la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n. 405 nella negazione, alla figlia minore, del diritto ad un'esistenza sana e dignitosa: nella specie, compromessa dai pregiudizi correlati alla presenza di malformazioni genetiche. Resistevano congiuntamente l'Azienda iM, il dr. nonché, con distinto controricorso, il prof. I ricorrenti ed il prof. depositavano memoria illustrativa ex art.378 cod. proc. civ. La terza sezione civile, cui era stato assegnato il ricorso, ravvisando un contrasto di giurisprudenza nei precedenti arresti di legittimità, rimetteva la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite. In particolare, il collegio poneva in evidenza che la tematica della cd. nascita indesiderata aveva dato luogo, in ordine alla questione dell'onere probatorio ad un primo e più risalente orientamento, secondo cui corrisponde a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza, se informata di gravi malformazioni del feto (Cass. numero 6735/2002; Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n. 14.488; Cass., sez.3, 4 gennaio 2010 n.13; Cass., sez.3, 10 novembre 2010 n.22.837; Cass., sez.3, 13 luglio 2011 n.15.386; cui si era contrapposta una giurisprudenza più recente, che aveva escluso tale presunzione semplice, ponendo a carico delta parte attrice di allegare e dimostrare che, se informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza (Cass., sez.3, 2 ottobre 2012 n.16754; Cass., sez.3, 22 marzo 2013 n.7269; Cass., sez.3, 10 dicembre 2013 n. 27.528; Cass., sez.3, 30 maggio 2014 n.12.264). In ordine al secondo motivo di ricorso, rilevava un contrasto ancora più marcato sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico e della struttura sanitaria: alla tesi negativa sostenuta da Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n. 14.488; Cass., se.3, 14 luglio 2006 n. 16.123, Cass., sez.3, 11 maggio 2009 n.10.741 faceva riscontro la contraria opinione che escludeva il requisito della soggettività giuridica del concepito e la sua legittimazione, dopo la nascita, a far valere la violazione del diritto all'autodeterminazione della madre, causa del proprio stato di infermità, che sarebbe mancato se egli non fosse nato (Cass., sez.3, 3 maggio 2011 n.9700; Cass.,sez.3 2 ottobre 2012 n.16.754). Dopo il conforme provvedimento presidenziale, la causa passava in decisione all'udienza del 22 settembre 2015 sulle conclusioni del Procuratore generale e dei difensori in epigrafe riportate. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione di legge nel riparto dell'onere della prova del grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, dipendente da rilevanti malformazioni del nascituro. Punto di partenza della relativa disamina è l'interpretazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all'aborto, legittimando l'autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza. Il diniego, in linea di principio, dell'interruzione di gravidanza come strumento di programmazione familiare, o mezzo di controllo delle nascite, e "a fortiori" in funzione eugenica, emerge, infatti, inequivoco già dall'art.1, contenente l'enunciazione solenne della gerarchia dei valori presupposta dal legislatore, rivelatrice della natura eccezionale delle ipotesi permissive; fuori delle quali l'aborto resta un delitto ("Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite"). In particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza
delle condizioni ivi rigorosamente tipizzate ha non solo efficacia esimente
da responsabilità penale, ma genera un vero e proprio diritto
all'autodeterminazione della gestante di optare per l'interruzione della
gravidanza (art.6: "L'interruzione
volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere
praticata: quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la
vita della donna; quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a
rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo
per la salute fisica o psichica della donna"). Il dettato normativo trova rispondenza assiologica nel principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, già persona, e quella dell'embrione, che persona deve ancora diventare (Corte cost. 18 febbraio 1975 n.20). In questa cornice normativa, la censura dei ricorrente qui in scrutinio ripropone l'annoso problema del riparto dell'onere della prova dei predetti presupposti di legge in tema di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata (wrongful birth lawsuit. Con l'espressione wrongful life si indica, invece, la causa petendi dell'azione esercitata in proprio dal figlio: sintagmi, inaugurati - sembra - dalla Appellate Cort dell'Illinois nella sentenza 3 Aprile 1963, Zepeda v. Zepeda, in un caso in cui l'attore aveva convenuto, per danni, il padre, responsabile di averlo condannato ad una vita infelice, quale figlio illegittimo). L'impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle
condizioni di cui all'art.6, imputabile a negligente carenza informativa da
parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile. La gestante,
profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul
quale grave l'obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue
richieste; senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia
espresso, in ipotesi, l'intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa
prescelto, ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile
sulla salute del feto. Occorre però che l'interruzione
sia legalmente consentita - e dunque, con riferimento al caso in esame, che
sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le
rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave
pericolo per la salute fisica o psichica della donna - giacché, senza il
concorso di tali
presupposti, l'aborto integrerebbe un reato; con la conseguente esclusione
della stessa antigiuridicità del danno, dovuto non più a colpa professionale,
bensì a precetto imperativo di legge. Oltre a ciò, dev'essere altresì provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni facoltizzanti. Sotto questo profilo, il thema
probandum è costituito da un fatto complesso; e cioè, da un accadimento
composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la
rilevante anomalia del nascituro, l'omessa informazione da parte del medico,
il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva
di quest'ultima. In tale evenienza, può essere impossibile fornire la dimostrazione
analitica di tutti gli eventi o comportamenti che concorrano a comporre la
fattispecie: onde, il problema si risolve ponendo ad oggetto della prova
alcuni elementi che si ritengano rappresentativi dell'insieme e dai quali sia
perciò possibile derivare la conoscenza, per estrapolazione, dell'intero
fatto complesso. Nel caso in esame un aspetto particolarmente delicato - ove il
convenuto non dia per pacifiche le componenti di fatto essenziali della
fattispecie - è costituito dalla circostanza che la prova verte anche su un
fatto psichico: e cioè, su uno stato psicologico, un'intenzione, un
atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti. L'ovvio problema che ne
scaturisce è che del fatto psichico non si può fornire rappresentazione
immediata e diretta; sicché non si può dire
che esso sia oggetto di prova in senso stretto. In tal caso, l'onere
probatorio - senza dubbio gravoso, vertendo su un'ipotesi, e non su un fatto
storico - può essere assolto tramite dimostrazione di altre circostanze,
dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva,
all'esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare. Il passo successivo consiste nell'applicare la concezione quantitativa
o statistica della probabilità, intesa come frequenza di un evento in una
serie di possibilità date: espressa dall'ormai consolidato parametro del "più probabile, che no". Nel caso in esame, Ne ha poi tratto la conclusione che, in difetto di tale prova
positiva, neppure la consulenza tecnica d'ufficio fosse ammissibile; e la
domanda dovesse essere quindi respinta in
limine. Al riguardo, si osserva che se la premessa astratta appare esatta, dal
momento che i presupposti della fattispecie facoltizzante non possono che
essere allegati e provati dalla donna, ex art.2697 cod. civ. (onus incumbit ei qui dicit) - con un
riparto che appare del resto rispettoso dei canone della vicinanza della prova - si palesa manchevole, invece, I' omessa valutazione - che sembra adombrare un'esclusione aprioristica - della possibilità di assolvere il relativo onere in via presuntiva. È bene chiarire che non si verte in tema di presunzione legale, sia
pure juris tantum: la cui
consacrazione in via generale ed astratta appartiene al legislatore e che si
risolve in una semplificazione della fattispecie legale, esimendo la parte
dall'onere di provarne uno o più elementi integrativi, ulteriori rispetto
alla premessa fattuale (non diversamente che in caso di non contestazione del
fatto, che pure comporta la relevatio
ab onere probandi; pur se di quest'ultima sia dubbia l'irreversibilità:
art.345, secondo comma, cod. proc. civ.). Nulla del genere è infatti
riscontrabile nella presente fattispecie, in cui il legislatore non esime in
alcun modo la madre dall'onere della prova della malattia grave, fisica o
psichica, che giustifichi il ricorso all'interruzione della gravidanza,
nonché della sua conforme volontà di ricorrervi. Ci si riferisce, invece, alla praesumptio
hominis, rispondente ai requisiti di cui all'art. 2729 cod. civile, che
consiste nell'inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non
solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo quod plerumque accidit - In questa direzione il tema d'indagine principale diventa quello delle
inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di
attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che
si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale: restando
sul professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata
comunque all'aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale. E' da escludere, peraltro, che tale indagine debba approdare ad
un'elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione
di ricorso all'aborto; che, proprio per il suo carattere generale e astratto,
mal dissimulerebbe l'inammissibile prefigurazione giudiziale di una
presunzione juris tantum. In conclusione, la statuizione della Corte d'appello di Firenze si è
arrestata a livello enunciativo del principio generale, pur esatto, del
riparto dell'onere probatorio: e risulta dunque manchevole nella parte in cui
omette di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva,
in concreto desumibile dai fatti allegati. La sentenza dev'essere quindi cassata sul punto; restando
impregiudicato l'accertamento susseguente dell'effettivo evento di danno
conseguito al mancato esercizio del diritto di scelta, per eventuale
negligenza del medico curante, parimenti oggetto di prova. Esclusa, infatti,
la configurabilità di un danno in re
ipsa quale espressamente prospettato dai ricorrenti - occorre che la situazione
di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna , ex art.6
lett. b) I. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno
effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica
d'ufficio. Esula, altresì, dal thema
decídendum di questa fase di legittimità il problema dell'identificazione
dell'eventuale pregiudizio, legato da vincolo causale immediato e diretto, al
fatto colposo dei sanitari (artt.1223 , 2056 cod. civ.): se limitato allo
stesso danno alla salute prefigurato ex
ante quale causa permissiva dell'interruzione di gravidanza - restando
cioè interno alla fattispecie di cui all'art.6, in considerazione della
natura eccezionale della norma - o se sia esteso a tutti danni-conseguenza
riconducibili, in tesi generale, all'ordinaria responsabilità aquiliana. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la violazione degli
articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n.
405, nella negazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome al
risarcimento del danno per l'impossibilità di un'esistenza sana e dignitosa. E' questo il problema, senza dubbio, più delicato e controverso della fattispecie legale in esame, che ha visto contrapposti due indirizzi di pensiero, di ispirazione anche metagiuridica, contesta di riflessioni financo filosofiche ed etico-religiose, di irriducibile antinomia: segnati spesso da accese intonazioni polemiche in una pubblicistica ideologicamente schierata, in favore o contro la presunzione juris et de jure di preferibilità della vita, per quanto malata (problematica, che investe anche temi diversi, come quello della morte pietosa). Anche se debba escludersi un approccio di carattere eminentemente
giuspolitico - che appartiene al legislatore: spettando, per contro, al
giudice l'interpretazione della disciplina vigente, sia pure nel più completo
approfondimento delle potenzialità evolutive in essa insite - non è
seriamente contestabile che sulla giurisprudenza pregressa, anche straniera,
abbiano influito, ben oltre l'ordinario, considerazioni antropologiche e
soprattutto di equità, intesa come ragionevole attenuazione e modificazione
apportata alla legge in virtù di speciali circostanze. Nucleo centrale della disamina è quello della legittimazione ad agire
di chi, al momento della condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non
era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato a I I 'a
rt.1 cod. civ. ("La capacità
giuridica si acquista dal momento della nascita"), conforme ad un
pensiero giuridico plurisecolare. Natura eccezionale, a questa stregua, rivestirebbero le norme che
riconoscono diritti in favore del nascituro, concepito o non concepito,
subordinati all'evento della nascita (ibidem,
secondo comma): quale deroga al principio generale secondo cui non può
reclamare un diritto chi, alla data della sua genesi, non era ancora
esistente (artt.254, 320, 462, 784), o non era più (arg. ex art.4 cod. civ.). Di qui la definizione, nella fattispecie in esame, di diritto
adespota, la cui configurazione riuscirebbe, "prima facie" in contrasto con il principio generale
sopra richiamato. L'argomento, apparentemente preclusivo in limine, non si palesa, peraltro, insuperabile; e di fatto è stato superato da quella giurisprudenza di legittimità che ha opposto che il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, diventa attuale ed azionabile dopo la nascita del soggetto. E' vero, in tesi generale, che l'attribuzione di soggettività giuridica
è appannaggio del solo legislatore, e che la cd. giurisprudenza normativa,
talvolta evocata quale fonte concorrente di diritto, violerebbe il principio
costituzionale di separazione dei poteri ove non si contenesse all'interno
dei limiti ben definiti di clausole generali previste nella stessa legge,
espressive di valori dell'ordinamento (buona fede, solidarietà, ecc.):
eventualmente riesumando la dicotomia storica tra giurisprudenza degli
interessi (Interessenjurisprudenz), di
ispirazione evolutiva, e giurisprudenza dei concetti (Begriffsjurisprudenz), di natura statica: entrambe, peraltro,
storicamente ancorate ad una concezione positivistica del diritto. Ma in realtà non è punto indispensabile elevare il nascituro a soggetto
di diritto, dotato di capacità giuridica - contro il chiaro dettato
dell'art.' cod. civ. - per confermare l'astratta legittimazione del figlio
disabile ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali
siano collocabile in epoca anteriore alla sua stessa nascita. Al fondo di
tale ricostruzione dogmatica vi è, infatti, il convincimento tradizionale, da
tempo sottoposto a revisione critica, che per proteggere una certa entità
occorra necessariamente qualificarla come soggetto di diritto. Questa
Corte ha già da tempo negato, pur se in ipotesi di danno provocato al feto
durante il parto, che l'esclusione del diritto al risarcimento possa
affermarsi sul solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato
anteriormente alla nascita: definendo erronea la concezione che, a tal fine,
ritiene necessaria la sussistenza di un rapporto intersoggettivo ab origine tra danneggiante e
danneggiato. Ed ha concluso che, una volta accertata l'esistenza di un
rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla
nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia
acquistato la personalità giuridica, sorge e dev'essere riconosciuto in capo
a quest'ultimo il diritto' al risarcimento ( Cass., sez.3, 22 novembre 1993,
n. 11503). Tenuto conto del naturale relativismo dei concetti giuridici, alla tutela del nascituro si può pervenire, in conformità con un indirizzo dottrinario, senza postularne la soggettività - che è una tecnica di imputazione di diritti ed obblighi - bensì considerandolo oggetto di tutela (Corte costituzionale 18 febbraio 1975 n.27; Cass., sez.3, maggio 2011 n.9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881). Tale principio informa espressamente diverse norme dell'ordinamento.
Così, l'arti, primo comma, legge 19 febbraio 2004 n.40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) annovera
tra i soggetti tutelati anche il concepito ("Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi
derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso
alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le
modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti isoggetti coinvolti, compreso il
concepito"). Analogo concetto è riflesso nell'art. 1 della stessa
legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della
maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), qui in esame, che retrodata la tutela della vita
umana anteriormente alla nascita ("Lo
Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile,
riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo
inizio). Anche la legge 29 luglio 1975 n.405 (Istituzione dei consultori familiari) afferma l'esigenza di
proteggere la salute del concepito (arti.: "Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha
come scopi...: c) la tutela della salute della donna e del prodotto del
concepimento"). Infine, nell'ambito della stessa normativa
codicistica, l'art.254 prevede il riconoscimento del figlio nato fuori del
matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato. Entro questa cornice dogmatica si può dunque concludere per
l'ammissibilità dell'azione del minore, volta al risarcimento di un danno che
assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi, che del resto
neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che
tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da
differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi
dell'effetto pregiudizievole, purché senza il concorso determinante di
concause sopravvenute ( cfr. art.41 cod. pen.). Qui la particolarità risiederebbe nel fatto che il medico sia, in
ipotesi, l'autore mediato del danno, per aver privato la madre di una facoltà
riconosciutale dalla legge, tramite una condotta omissiva
che si ponga in rapporto diretto di causalità con la nascita indesiderata; e
la soluzione verrebbe, in tal modo, ad essere identica alla diversa ipotesi
della responsabilità del medico verso il nato disabile per omessa
comunicazione ai genitori della pericolosità di un farmaco somministrato per
stimolare l'attività riproduttiva (Cass 11 maggio 2009 n 10741), o di una malattia
della gestante suscettibile di ripercuotersi sulla salute del feto. Se dunque l'astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto
(oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato non trova un
ostacolo insormontabile nell'anteriorità del fatto illecito alla nascita,
giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti
dotati di capacità giuridica ai sensi dell'arti cod. civile, occorre
scrutinare a fondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso ed il rapporto
di causalità tra condotta del medico ed evento di danno. Sotto il primo profilo, in un approccio
metodologico volto a mettere tra parentesi tutto ciò che concretamente non è
indispensabile, per cogliere l'essenza di ciò che si indaga, si deve partire
dal concetto di danno-conseguenza, consacrato all'art.1223 cod. civile e
riassumibile, con espressione empirica, nell'avere
di meno, a seguito dell'illecito. In siffatta ricostruzione dogmatica, il
danno riuscirebbe pertanto legato alla stessa vita del bambino; e l'assenza
di danno alla sua morte Ed è qui che la tesi ammissiva, in subiecta materia, incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l'illecito, è la non vita, da interruzione della gravidanza. E la non vita non può essere un bene della vita; per la contraddizion che noi consente. Tanto meno può esserlo, per il nato, retrospettivamente, l'omessa distruzione della propria vita (in fieri, che è il bene per eccellenza, al vertice della scala assiologica dell'ordinamento. Anche considerando norma primaria l'art. 2043 cod. civile,infatti, viene meno, in radice, il concetto stesso di danno ingiusto; oltre che reciso il nesso eziologico, sia pure inteso in base ai principi della causalità giuridica e nella sua ampiezza più estesa, propria della teoria della condicio sine qua non (generalmente rifiutata, peraltro, in materia di illecito civile). Non si può dunque parlare di un diritto a non nascere; tale, occorrendo ripetere, è l'alternativa; e non certo quella di nascere sani, una volta esclusa alcuna responsabilità, commissiva o anche omissiva, del medico nel danneggiamento del feto. Allo stesso modo in cui non sarebbe configurabile un diritto al suicidio, tutelabile contro chi cerchi di impedirlo: ché anzi, non è responsabile il soccorritore che produca lesioni cagionate ad una persona nel salvarla dal pericolo di morte (stimato, per definizione, male maggiore). Si aggiunga, per completezza argomentativa, che seppur non è punibile il tentato suicidio, costituisce, per contro, reato l'istigazione o l'aiuto al suicidio (art.580 cod. pen.): a riprova ulteriore che la vita - e non la sua negazione - è sempre stata il bene supremo protetto dall'ordinamento. Del resto, il presupposto
stesso del diritto è la vita del soggetto; e la sua centralità affermata fin
dal diritto romano ("Cum igítur hominum causa omne ius constitutum
sit ... ": D. 1, 5, 2., Hermogenianus, libro primo iuris epitomarum ). Il supposto interesse a non nascere, com'è stato detto efficacemente in dottrina, mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell'attribuire alla volontà del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo del cd. diritto alla felicità). CIS L'ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali. Né vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell'effetto pregiudizievole (Cass., sez. 3, 3 maggio 2011, n.9700). La formula, concettualmente fluida ed inafferrabile, pretende di estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni - progressivamente più restrittive nel tempo - posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negatività. In senso contrario, qualche voce in dottrina, non senza echi giurisprudenziali, adduce l'apparente antinomia tra la progressiva estensione del credito risarcitorio in favore del padre (Cass., sez.3, 10 maggio 2002 n.6735) e dei germani (Cass., sez.3, 2 ottobre 2012 n.16.754) ed il perdurante diniego opposto al figlio, primo interessato dalle patologie prese in considerazione dalla norma: argomento, suggestivo ed impressionistico, ma di nessun pregio giuridico, restando ad un livello di costatazione empirica, senza adeguato apprezzamento delle diverse premesse in diritto. A prescindere da una disamina approfondita, estranea al presente thema decidendum, della tesi estensiva sopra menzionata, per saggiarne la solidità argomentativa, sia in ordine ai presupposti oggettivi - se, cioè, sia, o no, necessario che i parenti (che nessuna voce in capitolo hanno in ordine alla scelta abortiva), possano godere, di fatto, di un trattamento probatorio perfino più favorevole che non la madre, perché esenti dall'onere di provare lo stesso pericolo per la propria salute contemplato dall'art.6 I. cit. - e soggettivi - in quanto non onerati dell'omologa prova della loro condivisione dell'opzione abortiva - valore dirimente ha il rilievo che solo per i predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si può configurare una danno-conseguenza, apprezzabile tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato. In una decisione che investa diritti fondamentali della persona umana, diventa, al riguardo, rilevante anche l'analisi comparatistica, mediante richiamo di precedenti attinti dall'esperienza maturata in ordinamenti stranieri, culturalmente vicini ed informati al più assoluto rispetto dei diritti della persona. La giurisprudenza riguardante azioni di danni per wrongful birth e wrongful
fife si è formata innanzitutto presso le corti statunitensi. Il primo caso in termini sembra essere quello deciso dalla New Jersey
Supreme Court 6 marzo 1967 Gleitman v. Cosgrove, in cui furono respinte sia
la domanda della madre contro il medico curante, che aveva trascurato la
pericolosità della rosolia della gestante - sotto il profilo che l'aborto
era, all'epoca, un reato (soppresso dalla pronuncia della Supreme Court 22
Gennaio 1973 Roe - nome di fantasia, a tutela della privacy - v. Wade, con
una maggioranza di sette giudici a due), sia quella del figlio nato malato:
proprio con l'argomento, destinato a diventare tralatizio, che era
improponibile un confronto tra vita con malattia e non vita. Sulla scia del precedente, le Corti superiori nella maggior parte
degli stati degli U.S.A. hanno respinto le richieste risarcitorie dei figli
handicappati, accogliendo invece quella dei genitori (cfr. New Jersey Supreme
Court 26 giugno 1979, Berman v. Allan); con sporadiche eccezioni in singoli
stati ( California Court of Appeal 1980 Curlender v. Bio Science Laboratories
e, parzialmente, California Supreme Court Turpin v. Sortini, 1982 ), e
(Harbeson v. Parke-Davies Inc. 6 gennaio 1983). Anche in Germania, si è negato il risarcimento al figlio handicappato ( BGH, 18 gennaio 1983); così come in Inghilterra (London Court of Appeal 19 febbraio 1982, Sachen McKay v. Essex Health Authority. / Alla luce di questi cenni sommari, si può enucleare una tendenza generale a ritenere compensabile la penosità delle difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza, a
cagione di patologie in nessun modo imputabili eziologicamente a colpa
medica, mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale; e
dunque, nella sede appropriata alla tutela di soggetti diversamente abili e
bisognosi di sostegno per cause di qualsivoglia natura, anche diversa da
quella in esame. Ed al riguardo nulla è più significativo dell'evoluzione normativa
seguita in Francia alla pronuncia della Cour de Cassation, assemblée
plénière, 17 novembre 2000, sul cd. affaire
Perruche che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento ex delicto ad un nato affetto da grave
malattia, non diagnosticata durante la gravidanza (in difformità dalle
conclusioni del P.G., sull'impossibilità di ravvisare un danno nella stessa
vita, espresse, per via apagogica, con sintesi icastica: "Le dommage c'est la vie et l'absence de dommage c'est la mort:
La mort devient ainsi une valeur préférable à la vie"). Con la « Loi relative aux droits de malades et à la
qualité du système de santé » 4 marzo 2002 n. 2002-303 (cd. Loi Kouchner, dal nome del ministro
della salute proponente Bernard Kouchner), si sono infatti perentoriamente
riaffermati i canoni tradizionali - con il crisma del primato della legge -
prescrivendo che nessuno può far valere un pregiudizio derivante dal solo
fatto della nascita e che la persona nata con un handicap dovuto a colpa
medica può ottenerne il risarcimento quando l'atto colposo ha provocato
direttamente o ha aggravato l'handicap, o non ha permesso di prendere misure
in grado di attenuarlo ( Art.1 del titolo Y »Solidarité envers les personnes
handicapées» : «Nul ne peut se prévaloir d'un préjudice du seul fait de sa
naissance. La personne née avec un handicap dei à une faute médicale peut
obtenir la réparation de son préjudice lorsque I'acte fautif a provoqué directement
le handicap ou l'a aggravé, ou n'a pas permis de prendre les mesures
susceptibles de l'atténuer»). Legge, la cui espressa retroattività -
censurata dapprima dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo
con due arresti assunti all'unanimità dai 17 giudici della Grande Chambre (sent. 6 ottobre 2005
in cause Maurice c. Francia e Draon c. Francia) e poi dichiarata illegittima,
in parte qua ( Conseil
constitutionel 11 giugno 2010), appare, all'evidenza, significativa della
volontà del legislatore di risanare la cesura giurisprudenziale tra un
indirizzo tradizionale, fondato su pilastri dogmatici e concettuali di
plurisecolare vigenza, e la dirompente deviazione (definita, da parte della
dottrina, perfino come arrét de
provocation ) segnata dalla sentenza della Suprema Corte, ponendo a
carico della solidarietà nazionale l'assistenza dei nati handicappati. In quest'ottica, viene meno anche il fondamento della tesi che àncora la sussistenza del credito risarcitorio ai cd. doveri di protezione, di cui sarebbe beneficiario il nascituro: figura primamente elaborata dalla dottrina tedesca ( Schutzpflichte), che riconosce a parenti, o conviventi, anche per ragioni di lavoro, a contatto con la controparte contrattuale, una tutela più intensa, di natura contrattuale (Vertraege mit Schutzwirkung fuer Dritte), che non quella propria della generalità dei terzi, che possono valersi, invece, della sola azione aquiliana. Sulla scorta di tale ricostruzione concettuale, si sostiene che se il contratto tra la madre ed il medico ha effetti protettivi verso i terzi (Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n.14488, che tuttavia nega il diritto del figlio al risarcimento), non sarebbe coerente escluderne il bambino: facile inferenza che, se vale a giustificare la titolarità del credito risarcitorio ex contractu da parte del nato affetto da anomalie cagionate direttamene dal sanitario, non supera, ancora una volta, l'ostacolo dell'inesistenza .di un danno-conseguenza per effetto della mancata interruzione della gravidanza. Né può essere sottaciuto, da ultimo, il dubbio che l'affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un'analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall'art.6 1.194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l'obbligo della madre di abortire. E per quanto si voglia valorizzare un metodo antiformalista nella configurazione dell'illecito, valorizzando i principi di solidarietà ex artt. 2 e 3 della Costituzione, occorre pur sempre evitare straripamenti giudiziari influenzati dal fascino, talvolta insidioso, del metodo casistico (case /aw system), nell'ambito di un sistema aperto, quale configurato nella norma generale dell'art. 2043 cod. civ. (con l'espressione introduttiva: "qualunque fatto"...) in cui non si possono operare, a priori discriminazioni tra fatti dannosi che conducono al risarcimento e fatti dannosi che lasciano le perdite a carico della vittima. Il contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un'indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l'assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un'impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l'errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni del feto, all'errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato: conclusione, che non può essere condivisa, ad onta delle fitte volute concettualistiche che la sorreggono, stante la profonda eterogeneità delle situazioni in raffronto e la sostanziale diversità dell'apporto causale nei due casi. Non senza soppesare altresì il rischio di una reificazione dell'uomo,
la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell'integrità
psico-fisica: deriva eugenica, certamente lontanissima dalla teorizzazione
dottrinaria del cd. diritto di non nascere, ma che pure ha animato, ad es.,
il dibattito oltralpe, provocando reazioni nella sensibilità
dell'associazionismo rappresentativo dei soggetti handicappati, anteriormente
all'approvazione della legge Kouchner sopra citata. Ed una chiara negazione
che la vita di un bambino disabile possa mai considerarsi un danno - sul
presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano - è
pure contenuta nella sentenza 28 maggio 1993 della Corte Costituzionale
federale tedesca (BVerfGE 88, 203). Per superare gli ostacoli
frapposti all'affermazione al supposto diritto a non nascere se non sano -
ignoto al vigente ordinamento -i
ricorrenti prospettano, altresì, nell'ambito del secondo motivo, una
concorrente ragione di danno da valutare sotto il profilo dell'inserimento
del nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato
ad accoglierlo. Al riguardo, occorre notare, in via preliminare, che di tale
allegazione non v'è traccia nella sentenza impugnata; onde, si deve ritenere,
in difetto di critica specifica alla sua mancata disamina, che essa sia
formulata per la prima volta nel presente ricorso per cassazione. E tuttavia,
essa non è, perciò stesso, inammissibile, risolvendosi in una mera
argomentazione, volta dare fondamento alla medesima domanda, invariata nei
suoi elementi essenziali costitutivi, svolta ab initio: come tale, immune da preclusioni. Nel merito, essa si rivela peraltro un mimetismo verbale del cd.
diritto a non nascere se non sani; e va quindi incontro alla medesima
obiezione dell'incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore
familiare, con l'unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dell'
interruzione della gravidanza. Si deve dunque ritenere che l'argomentazione, se vale a confutare la
tesi, peraltro già respinta, della irrisarcibilità di un danno senza soggetto
non ancora nato al momento della condotta dalla colposa del medico (cd.
diritto adespota), si palesa del tutto inidonea, per contro, a sormontare
l'impossibilità di stabilire un nesso causale tra quest'ultima e le
sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso la sua vita.
Oltre al fatto di postulare un' irruzione del diritto in un campo da sempre
rimastogli estraneo, mediante patrimonializzazione dei sentimenti, in una
visione pan-risarcitoria dalle prospettive inquietanti. il
ricorso dev'essere dunque accolto limitatamente al primo motivo con rinvio
alla corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo
giudizio, in relazione alla censura accolta, nonché per le spese della
presente fase di legittimità. P.Q.M. Accoglie il primo motivo e rigetta il secondo; Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia
la causa alla Corte d'Appello di Firenze, in diversa composizione, per un
nuovo giudizio ed anche per il regolamento delle spese della fase di
legittimità. Roma, 22 Settembre 2015 |
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