SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Credito Italiano S.p.a., succeduto all'Unicredito Italiano S.p.a., in
persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliato in Roma, largo del Teatro Valle 6, presso lo studio
dell'avvocato Stefano D'ercole, che lo rappresenta e difende unitamente
agli avvocati Giovanni Mandas, Paolo Dalmartello, Gustavo Minervini, i
primi tre per procura in calce al ricorso, il quarto giusta procura
speciale del Notaio dott. Tommaso Gherardi, depositata in data
30/09/2004, in atti;
- ricorrente -
contro
Stefana Carlino, elettivamente domiciliato in Roma, via Crescenzio 20,
presso lo studio dell'avvocato Alessandro De Belvis, che lo rappresenta
e difende unitamente all'avvocato Valerio Valsierati, giusta delega a
margine del controricorso;
- controricorrente -
nonché contro
Stefana Franco, elettivamente domiciliato in Roma, via Germanico 197,
presso lo studio dell'avvocato Mauro Mezzetti, che lo rappresenta e
difende unitamente agli avvocati Andrea Cornaglia, Guido Chessa
Miglior, giusta procura speciale del Notaio dott. Vittorio Giuia
Marassi, depositata in data 15 giugno 2004, in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 19/01 della Corte d'Appello di Cagliari,
depositata il 15/01/01;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
07/10/04 dal Consigliere Dott. Mario Rosario Morelli;
uditi gli Avvocati Giovanni Mandas, Paolo Dalmartello, Gustavo
Minervini, Alessandro De Belvis, Mauro Mezzetti;
udito il P.M. in persona del sostituto Procuratore Generale Dott.
Raffaele Palmieri che ha concluso per il rigetto del quarto motivo del
ricorso, sub d)1 e d)2.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Credito Italiano S.p.a. ha impugnato per cassazione la sentenza in
data 15 gennaio 2001, con la quale la Corte d’appello di Cagliari, in
riforma della pronunzia di primo grado, ha accolto l’opposizione
proposta da Franco e Carlina Stefana avverso il decreto ingiuntivo su
sua istanza emesso nei confronti dei due predetti intimati, quali
fideiussori della F.A.S. S.p.a., per l'importo complessivo di £.
1.097.415.300 (ed accessori), corrispondente al saldo passivo finale
del conto corrente sul quale sarebbero state effettuate plurime
erogazioni di credito in favore della società garantita.
Con le quattro complesse serie di motivi, di cui si compone l'odierno
ricorso - la cui ammissibilità e fondatezza é contestata
dagli intimati con separati controricorsi - il Credito Italiano critica
in sostanza la Corte di merito per avere, a suo avviso, errato: a) nel
rilevare d’ufficio profili di nullità del contratto da cui trae
origine il debito garantito dagli attuali resistenti; b)
nell'escluderne, in particolare, la validità in relazione alla
clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, anche, per il
periodo anteriore alle note pronunzie della primavera del 1999 (nn.
2374 del 16 marzo, n. 3096 del 30 marzo e successive conformi che, in
contrasto con la precedente giurisprudenza, hanno escluso la
rispondenza di clausole siffatte ad un "uso normativo" ai sensi
dell'art. 1283 c.c.; c) nel ritenere, inoltre, non operative le
garanzie prestate dagli Stefana per il periodo successivo alla data (9
luglio 1992) di entrata in vigore della legge n. 154 del 1992, che ha
prescritto la fissazione di un tetto massimo per la validità
delle fideiussioni omnibus; d) nell'escludere, infine, la debenza
dell'intero credito, azionato con il decreto opposto, per ritenuta (a
torto) carenza di documentazione, imputabile all'istituto, che
consentisse di scorporare dall'importo preteso in via monitoria quello
riferibile a periodo di operatività della fideiussione e
detrarre, dallo stesso, le voci relative alla capitalizzazione
periodica degli interessi.
Su istanza della parte ricorrente, il Primo Presidente ha assegnato la
causa alle Sezioni Unite, ravvisando, in quella sub b), questione di
massima di particolare importanza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La questione di massima, in ragione della cui particolare importanza
gli atti della presente causa sono stati rimessi a queste Sezioni
unite, ai sensi dell'art. 374, cpv, cod. proc. civ. si risolve nello
stabilire se - incontestata la non attualità di un uso normativo
di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del
correntista bancario - sia o non esatto escludere anche che un siffatto
uso preesistesse al nuovo orientamento giurisprudenziale (Cass. 1999 n.
2374 e successive conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole
e motivato contrasto con la precedente giurisprudenza.
2. E', per altro, preliminare all'esame della riferita questione,
quello delle eccezioni pregiudiziali - sollevate, rispettivamente, da
Franco e da Carlino Stefana - di inammissibilità del ricorso
"per difetto di specialità della procura alle liti" e "per
intervenuto giudicato formale sulla sentenza parziale resa dalla Corte
di Cagliari" nel corso del giudizio a quo.
2/1. La prima eccezione - con cui il difetto di specialità, per
"assenza di riferimento al giudizio per cassazione e alla sentenza
impugnanda", è (impropriamente), in particolare, riferito, non
già alla procura rilasciata al difensore (che tali riferimenti
puntualmente, invece, contiene), ma all'atto fonte dei poteri del
soggetto che detta procura ha conferito - è infondata.
Si deduce, infatti, in sostanza, dal resistente che la procura speciale
non sia nella specie riferibile - come ex art. 365 c.p.c. viceversa
dovrebbe - alla parte od a chi ha il potere di rappresentarla, in
quanto sottoscritta "da un dirigente e non dal legale rappresentante
del Credito Italiano ricorrente".
E tale rilievo non coglie nel segno, dacché il dirigente
dell'ente - contrariamente all'avverso assunto - ha conferito il
mandato all’odierna impugnazione nella veste appunto di "legale
rappresentante" del Credito Italiano, così (correttamente) spesa
sulla base dello Statuto dell'ente che, all'art. 29, testualmente
prevede che "la rappresentanza anche [e quindi: non solo] processuale
della società spetta disgiuntamente al Presidente, ai Vice
Presidenti ... nonché ai dirigenti ... con facoltà di
designare mandatari speciali per il compimento di determinate
operazioni e di nominare avvocati munendoli degli opportuni poteri".
2/2. Del pari destituita di fondamento è anche l'ulteriore
eccezione di "giudicato formale interno", che tale vis preclusiva
pretende, con evidente forzatura, di conferire all'ordinanza (del 31
maggio 1999), con la quale la Corte di merito - in via istruttoria e
strumentale alla decisione, non certo decisoria - si è limitata
invece a nominare un C.T.U. per l'espletamento di una perizia
contabile, volta ad accertare, sulla base degli atti, le singole voci
(tra cui quella relativa alla capitalizzazione degli interessi) da cui
risultava il complessivo importo per cui la Banca aveva agito in via
monitoria.
3. Precede ancora, a questo punto, l'esame del primo motivo del
ricorso, con il quale si denunzia la violazione degli artt. 112, 101,
345 cod. proc. civ., in relazione all'art. 1421 cod. civ., in cui si
assume essere incorsa la Corte d’appello nel rilevare d’ufficio la
nullità della clausola anatocistica. Atteso che, con tal mezzo,
si introduce un tema di indagine logicamente preliminare, e
virtualmente assorbente, rispetto a quello sostanziale sulla
validità o meno della clausola stessa nel periodo che qui viene
in rilievo.
Il vizio in procedendo, così prospettato, ad avviso di questo
Collegio, però, non sussiste.
La nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli
interessi (tardivamente dedotta dalle parti solo in comparsa
conclusionale), effettivamente è stata, infatti, rilevata
"d’ufficio" nella fase di gravame. Ma ciò la Corte di Cagliari
ha fatto in corretta applicazione del principio per cui la
nullità, in tutto o in parte, del contratto posto a base della
domanda può essere rilevata, appunto, d’ufficio, anche per la
prima volta in appello (cfr. Cass. n. 2772/98). E' pur vero, per altro,
che il potere che il citato art. 1421 conferisce in tal senso al
giudice (in ragione della tutela di valori fondamentali
dell'ordinamento giuridico) va coordinato con il principio della
domanda, di cui agli artt. 99 e 112 cod. proc. civ., e che le esigenze
a tali principi sottese - rispettivamente di verifica delle condizioni
di fondatezza dell’azione e di immodificabilità della domanda -
possono trovarsi tra loro in contrasto ove, in particolare, alla
pretesa di una parte relativa ad un credito ex contractu si
contrapponga l'eccezione di nullità, dell'altra, che il giudice
ritenga (come nella specie) di integrare con il rilievo di aspetti
della patologia del negozio che la parte, interessata
all’improduttività dei correlativi effetti, non abbia colto (o
non abbia tempestivamente comunque dedotto).
Ma un tale contrasto si risolve sulla base della considerazione che, se
da un lato, il potere - dovere decisionale del giudice, in relazione
alla domanda proposta si estende agli aspetti dell’inesistenza o della
nullità del contratto dedotto dall'attore, la deduzione in tal
senso del convenuto non può costituire, od essere considerata,
domanda giudiziale, non ponendosi in rapporto genetico con il potere -
dovere decisionale del giudice sul punto, che già esiste.
Sia impostata quella deduzione come eccezione, come domanda
riconvenzionale per la declaratoria di nullità, o come motivo di
gravame, si tratta pur sempre di mera difesa, attenendo
all'inesistenza, per mancato perfezionamento o per nullità, del
fatto giuridico, il contratto, dedotto dall'attore a fondamento della
domanda, che dunque non condiziona l'esercizio del potere officioso di
rilievo della nullità fondata su aspetti distinti di patologia
negoziale (Cass. 22.10.1964, n. 5341).
Nella specie deve farsi riferimento alla domanda iniziale, proposta in
via monitoria dal Credito Italiano la quale, se pur rivolta nei
confronti dei fideiussori, ha comunque ad oggetto il pagamento del
saldo del contratto di conto corrente, stipulato dal debitore
principale. Per cui, appunto, non vale a paralizzare la
rilevabilità, da parte del giudice, di aspetti di nullità
di quel contratto il fatto che gli intimati (aventi veste sostanziale
di convenuti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo) abbiano
focalizzato, in particolare, le loro difese su profili, di
invalidità ed inoperatività della fideiussione, da essi
prestata. E ciò a prescindere dalla considerazione che,
eccependo comunque anche l'inesistenza di valida prova del credito
contro di loro azionato, i fideiussori hanno con ciò contestato
in radice lo stesso debito principale.
4. Può ora passarsi all'esame della questione di massima di cui
retro, sub 3.
4/1. Il parametro di riferimento è costituito dall'art. 1283 del
codice civile (Anatocismo) e, in particolare, dall'inciso "salvo usi
contrari" che, in apertura della norma, circoscrive la portata della
regola, di seguito in essa enunciata, per cui "gli interessi scaduti
possono produrre interessi [(a)] solo dalla domanda giudiziale o [(b)]
per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che
si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi".
4/2. Com’è noto, in sede di esegesi della predetta norma, le
richiamate sentenze (nn. 2374, 3096, 3845) della primavera del 1999,
ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del
ventennio precedente (nn. 6631/81; 5409/83; 4920/87; 3804/88; 2444/89;
7575/92; 9227/95; 3296/97; 12675/98), hanno enunciato il principio -
reiteratamente, poi, confermato dalle successive sentenze nn. 12507/99;
6263/01; 1281, 4490, 4498, 8442/02; 2593, 12222, 13739/03, ed al quale
ha dato comunque immediata riscontro anche il legislatore (che, con
l'art. 25 del d.lgs. 4 agosto 1999 n. 342 ha, all'uopo, ridisciplinato
le modalità di calcolo degli interessi su base paritaria tra
banca e cliente) - (principio) per cui gli "usi contrari", idonei ex
art. 1283 c.c. a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli usi
"normativi" in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la
nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui
stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi
nel divieto di cui al citato art. 1283.
4.3. Al di là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere
storico e sistematico, rinvenibili nelle pronunzie del nuovo corso,
destinate più che altro ad avvalorare il "revirement"
giurisprudenziale, emerge dalla motivazione delle pronunce stesse come,
nel suo nucleo logico - giuridico essenziale l'enunciazione del
principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si
ponga come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo
sillogistico. La cui premessa maggiore é espressa, appunto,
dall’affermazione che gli "usi contrari", suscettibili di derogare al
precetto dell'art. 1283 c.c., sono non i meri usi negoziali di cui
all'art. 1340 c.c. ma esclusivamente i veri e propri "usi normativi",
di cui agli artt. 1 e 8 disp. prel. cod. civ., consistenti nella
ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato
comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di
comportamento (non dipendente da un mero arbitro soggettivo ma)
giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che
già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento
giuridico (opinio juris ac necessitatis).
E la cui premessa minore é rappresentata dalla constatazione che
"dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo
adeguati all'inserimento della clausola anatocistica non in quanto
ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o
che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell'ordinamento, ma in
quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in
conformità con le direttive dell'associazione di categoria,
insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione
costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai
servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella
spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente,
consiste l'opinio juris ac necessitatis, se non altro per l'evidente
disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra
interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente".
4/4. Ora di questo sillogismo, che costituisce la struttura portante
del nuovo indirizzo, del quale si sollecita il riesame, neppure la
Banca ricorrente mette in discussione la premessa maggiore, mentre
quanto alla sua premessa minore la contestazione che ad essa si muove,
attiene, sul piano diacronico, al solo profilo della portata
retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla rilevata
inesistenza di un uso normativo in materia di capitalizzazione
trimestrale degli interessi bancari.
Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del '99 abbia
correttamente accertato l'inesistenza attuale, ma erroneamente escluso
l'esistenza pregressa della consuetudine in parola. E si auspica per
ciò, dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che
"la convinzione degli utenti del servizio bancario della
normatività dell'uso di capitalizzazione trimestrale degli
interessi, originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo
tempo" [id est: la consuetudine si è estinta per desuetudine in
relazione al venire meno dell’opinio iuris del comportamento
sottostante] "proprio a seguito di quello stesso processo di mutamento
di prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il
proprio precedente orientamento".
Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente argomenta:
a) che l'opinio iuris della prassi di capitalizzazione degli interessi
dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza
assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai
primi anni 90, non certo retrodatabile all'epoca in cui, in un contesto
radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata, con adesione
degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente
presupposto la normatività:
b) che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che per un
ventennio aveva reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente,
l'esistenza di un uso normativo di capitalizzazione degli interessi
bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito "elemento di
fondazione o consolidazione dell'uso stesso".
Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia però
condividere.
4/5. L'evoluzione del quadro normativo - impressa dalla giurisprudenza
e dalla legislazione degli anni '90, in direzione della valorizzazione
della buona fede come clausola di protezione del contraente più
debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della
trasparenza bancaria, della disciplina dell'usura - ha innegabilmente
avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente (che ha
dato, a sua volta, occasione al revirement giurisprudenziale)
relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzazione
trimestrale degli interessi dovuti alle banche, risolventesi in una non
più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal
contraente forte in danno della controparte più debole.
Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto
logico) che, in precedenza, prassi siffatte fossero percepite come
conformi a ius e che, sulla base di una tale convezione (o opinio
iuris), venissero accettate dai clienti.
Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come
clausole non negoziate e non negoziabili, perché già
predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive
delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che
aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva,
quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla
regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab
initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle
clausole in questione, ad un uso negoziale e non già normativo
(per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell'art. 1283
c.c.), come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e
successive.
4/6. Né è in contrario sostenibile che la "fondazione" di
un uso normativo, relativo alla capitalizzazione degli interessi dovuti
alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa
giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement del 1999.
Anche in materia di usi normativi, così come con riguardo a
norme di condotta poste da fonti - atto di rango primario, la funzione
assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non
può essere altra che quella ricognitiva, dell'esistenza e
dell'effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della
regola stessa.
Discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile
premessa che, in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo,
che si dimostri poi però erronea nel presupporre l'esistenza di
una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva
debba avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone
altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe
la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente
presupponendola, l'avrebbero con ciò stesso creata.
Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con riguardo
alla giurisprudenza (costituita, per altro, da solo dieci tralaticie
pronunzie nell'arco di un ventennio) su cui fa leva l'istituto
ricorrente.
La quale - a prescindere dalla sua idoneità (tutta da dimostrare
e in realtà indimostrata) ad ingenerare nei clienti una "opinio
iuris" del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito
come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati
con la banca - non avrebbe potuto, comunque, conferire
normatività ad una prassi negoziale (che si é dimostrato
essere) contra legem.
4/7. Dell’insuperabile valenza retroattiva dell'accertamento di
nullità delle clausole anatocistiche, contenuto nelle pronunzie
del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche
il legislatore. Il quale - nell'intento di evitare un prevedibile
diffuso contenzioso nei confronti degli istituti di credito - ha
dettato, nel comma 3 dell'art. 25 del già citato d.lgs. n.
342/99, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità
ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite
nei contratti bancari stipulati anteriormente all’entrata in vigore
della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti
commi primo e secondo del medesimo art. 25.
Quella norma di sanatoria è stata, però, com’è
noto, dichiarata incostituzionale, per eccesso di delega e conseguente
violazione dell'art. 77 Cost., dal Giudice delle leggi, con sentenza n.
425 del 2000.
L'eliminazione ex tunc, per tal via, dell’eccezionale salvezza e
conservazione degli effetti delle clausole già stipulate lascia
queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle
leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore,
alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non
possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in
violazione dell'art. 1283 c.c. (cfr. Cass. n. 4490/02).
4/8. Sul punto della rilevata nullità della clausola
anatocistica inserita nel contratto da cui deriva il credito azionato
in via monitoria dall'istituto, la sentenza impugnata resiste dunque a
censura.
5. Non diverso esito hanno anche le residue due doglianze formulate dal
Credito ricorrente.
5/1. In particolare la denuncia di violazione degli artt. 1367 c.c. e
10 l. 154/92 - con la quale si addebita alla Corte territoriale di
avere erroneamente escluso che per le fideiussioni stipulate in data
anteriore alla l. n. 154 cit. il tetto massimo di garanzia, che ne
condiziona l'ulteriore validità, possa essere anche
"unilateralmente" fissato dalla Banca, come nella specie, l'istituto in
concreto avrebbe fatto con lettera del 1976 - si scontra contro
l'accertamento in fatto, operato dai giudici a quibus, quanto alla
riferibilità di quella missiva a fideiussione diversa da quelle
azionate nel presente giudizio. Dal che propriamente
l'inammissibilità della censura in esame per difetto di
interesse.
5/2. A sua volta, anche la statuizione conclusiva della sentenza
d'appello - secondo cui non era risultato, nella specie, possibile
l'accertamento del credito azionato nei confronti dei fideiussori "per
non avere l'istituto assolto pienamente al suo onere probatorio" - si
sottrae al sindacato di legittimità, come sollecitato nella
parte finale del ricorso, per la sua attinenza all'area delle
valutazioni, relative alle risultanze probatorie, riservate alla
discrezionalità di giudizio del giudice del merito.
Né l'istituto ricorrente può fondatamente sostenere che
la rilevazione d’ufficio, solo in fase d’appello, della questione di
nullità della capitalizzazione degli interessi lo abbia
ostacolato nella sua attività difensiva. Poiché la Corte
territoriale - al fine di accertare quanto effettivamente dovuto alla
banca (con detrazione delle voci indebite) - ha disposto apposita
C.T.U.. E, nel corso delle operazioni peritali, l'istituto ha avuto
evidentemente modo di documentare (cosa che secondo i giudici a quibus
non ha fatto in modo compiuto) le proprie ragioni creditorie.
6. Il ricorso va integralmente, pertanto, respinto.
7. La stessa particolare rilevanza della questione centrale,
prospettata con l'odierno ricorso, costituisce giusto motivo di
compensazione tra le parti di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Roma, 7 ottobre 2004.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 4 NOVEMBRE 2004
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