Cassazione
– Sezioni unite civili – sentenza 23 ottobre – 19 dicembre 2007, n.
26724, in
materia di nullità virtuale, responsabilità
precontrattuale per violazione dei
doveri di informazione degli intermediari finanaziari
Svolgimento
del processo
Il
21 agosto 1995 il presidente del Tribunale di Torino,
accogliendo il ricorso proposto dall’Istituto Bancario San Paolo (cui
è poi
succeduta la San Paolo IMI s.p.a., e che in prosieguo sarà
comunque indicato
solo come San Paolo), ingiunse con decreto alla Fin. Com. Valori s.r.l.
(in
prosieguo Fincom) di pagare all'istituto ricorrente la somma di
£.
4.371.350.619, costituente il saldo debitorio di un conto corrente al
quale
accedeva una linea di credito per operazioni in valuta e per operazioni
su
titoli derivati. Col medesimo decreto fu altresì ingiunto alla
Edilcentro
Immobiliare s.r.l. (in prosieguo Edilcentro) il pagamento di £
1.500.000.000 ed
al sig. Lorenzo Grattarola il pagamento di £ 2.500.000.000, in
forza delle
garanzie da costoro a suo tempo prestate.
Gli ingiunti proposero separate opposizioni, poi riunite. Oltre a
sollevare
contestazioni sulla ritualità del procedimento monitorio,
sull'addebito della
commissione di massimo scoperto, sulla decorrenza e sulla misura degli
interessi convenzionali applicati, essi eccepirono l'invalidità
dei contratti
stipulati, in quanto estranei all'oggetto sociale della Fincom, e
negarono che
ai crediti della banca derivanti dall'esecuzione di detti contratti
competesse
azione per il pagamento, trattandosi dì negozi assimilabili al
gioco o alla
scommessa e perciò rientranti nella previsione dell'art. 1933
c.c. Sostennero
poi che il passivo accumulato sul conto
era frutto di operazioni finanziarie nel compimento delle quali
l'istituto di
credito era venuto meno ai doveri impostigli dall'art. 6 dell'allora
vigente
legge n. 1 del 1991, perché aveva suggerito investimenti
estremamente rischiosi
senza adeguata informazione per il cliente ed in eccesso rispetto alle
disponibilità finanziarie del medesimo e perché aveva
agito in conflitto
d'interessi con il cliente medesimo. La Fincom chiese perciò
anche, in via
riconvenzionale, la condanna in proprio favore del San Paolo al
risarcimento
dei danni. La sola Edilcentro eccepì inoltre l'invalidità
della concessa
fideiussione, sia perché estranea al proprio oggetto sociale,
sia perché
rilasciata da un amministratore, il già menzionato sig.
Grattarola, che versava
in conflitto d'interessi essendo al tempo stesso anche amministratore
della
Fincom.
In corso di causa gli opponenti eccepirono altresì la
nullità dei contratti dai
quali le perdite erano scaturite, per violazione delle norme imperative
contenute nell'art. 6 della citata legge n. 1, ed anche il sig.
Grattarola
formulò domanda di risarcimento dei danni.
L'opposizione fu accolta dal tribunale, con conseguente revoca del
decreto
ingiuntivo, solo per i profili attinenti alla commissione di massimo
scoperto
ed alla decorrenza degli interessi. Le ulteriori ragioni addotte dagli
opponenti non furono invece ritenute fondate ed i medesimi opponenti
furono
perciò condannati al pagamento del debito capitale indicato nel
ricorso
monitorio, oltre agli interessi al tasso convenzionale richiesto.
I gravami proposti contro tale decisione dalla Fincom, dalla Edilcentro
e dal
sig. Grattarola furono riuniti e rigettati dalla Corte d'appello di
Torino con
sentenza depositata il 10 novembre 2001.
La corte piemontese ritenne infondata l'eccezione di nullità dei
contratti
aventi ad oggetto le operazioni finanziarie in questione osservando che
le
violazioni dedotte in causa riguardavano la condotta prenegoziale
dell'istituto
di credito, oppure obblighi legali accessori afferenti all'adempimento
dei
contratti già conclusi, ma non potevano riflettersi sulla
validità di detti
contratti. Escluse che alle menzionate operazioni potesse applicarsi la
previsione dell'art. 1933 c.c., rientrando esse tra quelle che l'art.
23 della
legge n. 1 del 1991 espressamente sottrae alla citata previsione del
codice.
Stimò inammissibili, perché generiche, le doglianze
riguardanti la ritualità
del procedimento monitorio e la misura degli interessi debitori.
Negò che le
più volte richiamate operazioni finanziarie potessero dirsi
estranee
all'oggetto sociale della Fincom e considerò che, comunque, non
vi era prova
dell'ipotizzata mala fede dell'istituto di credito in ordine
all'asserita
estraneità di dette operazioni all'oggetto sociale. Per analoghe
ragioni la
corte giudicò infondata anche l'eccezione di estraneità
della fideiussione
prestata della Edilcentro all'oggetto sociale di quest'ultima
società, ed
escluse la configurabilità della situazione di conflitto di
interessi in cui
l'amministratore si sarebbe trovato nel rilasciare fideiussione per
debiti di
altra società appartenente al medesimo gruppo. Quanto, infine,
alle domande di
risarcimento dei danni, la corte d'appello dichiarò
inammissibile quella
proposta tardivamente, solo in corso di causa, dal sig. Grattarola;
reputò
invece ammissibile, nei soli limiti dell'originaria formulazione,
quella
proposta dalla Fincom, ma non fondata, per difetto di prova del nesso
causale
tra il danno sofferto da detta società e l'asserita situazione
di conflitto
d'interessi in cui l'istituto di credito avrebbe agito e per essere
rimasto
indimostrato che i funzionari di detto istituto avevano istigato il
cliente a
compiere operazioni eccessivamente rischiose. Seguì la condanna
in solido degli
appellanti alle spese del grado, comprensive di compensi professionali
liquidati però non secondo i dettami della tariffa forense,
ritenuta inapplicabile
alla stregua dei principi desumibili dal Trattato dell'Unione europea,
bensì
sulla base dei parametri posti dall'art. 2233, secondo comma, c.c.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, articolato
in otto
motivi ed illustrato con memoria, la Fincom, la Edilcentro ed il sig.
Grattarola.
Ha resistito con controricorso e memoria il San Paolo.
Con ordinanza n. 3683 del 16 febbraio 2007, la prima sezione civile di
questa
corte ha rilevato che, nella sentenza della stessa prima sezione del 29
settembre 2005, n. 19024, è stato escluso che l'inosservanza
degli obblighi
informativi stabiliti dall'art. 6 della legge n. 1 del 1991 possa
cagionare la
nullità del negozio, poiché quegli obblighi informativi
riguardano elementi
utili per la valutazione della convenienza dell'operazione e la loro
violazione
non dà luogo a mancanza del consenso, e perché la
nullità del contratto per
contrarietà a norme imperative postula una violazione attinente
ad elementi
intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al
contenuto
del contratto, e non invece all'illegittimità della condotta
tenuta nel corso
delle trattative ovvero in fase di esecuzione, a meno che questa
sanzione non
sia espressamente prevista anche in riferimento a dette ipotesi. Nella
citata
ordinanza della prima sezione è stato però manifestato il
dubbio che il
principio dianzi ricordato, quantunque corrispondente ad un
tradizionale filone
giurisprudenziale, non sia coerente con i presupposti da cui muovono
molteplici
altre decisioni di questa corte: la quale ha ravvisato ipotesi di
nullità c.d.
virtuale del contratto in caso di mancanza di autorizzazione a
contrarre o di
mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti, in
caso di
contratti concepiti in modo da sottrarre una delle parti agli obblighi
di
controllo su di essa gravanti o da consentire l'aggiramento di divieti
a
contrarre, ed in caso di circonvenzione d'incapace. Situazioni, queste,
nelle
quali è appunto la violazione di norme imperative concernenti la
fase
precontrattuale o le modalità esecutive del rapporto
contrattuale a venire in
evidenza. D'altronde - ha osservato ancora l'ordinanza - il
tradizionale
principio di non interferenza delle regole di comportamento con quelle
di
validità del negozio, cui la citata sentenza n. 19024/05 si
ispira, appare
incrinato da molteplici recenti interventi del legislatore, che
assegnano
rilievo al comportamento contrattuale delle parti anche ai fini della
validità
del contratto: tali l'art. 9 della legge n. 192 del 1998, in tema di
abuso di
dipendenza economica nei contratti di subfornitura di attività
produttive,
l'art. 52, comma terzo, del codice del consumo (d. lgs. n. 206 del
2005), in
tema di contratti stipulati telefonicamente, l'art. 34 del citato
codice, in
tema di clausole vessatorie, l'art. 7 del d. lgs. n. 231 del 2002, in
tema di
clausola di dilazione dei termini di pagamento, e l'art. 3 della legge
n. 287
del 1990, in tema di clausole imposte con abuso di posizione dominante.
Il ricorso è stato perciò rimesso alle sezioni unite, sia
per dirimere il
ravvisato contrasto di giurisprudenza sull'interferenza tra regole di
comportamento e regole di validità del contratto, sia comunque
perché si tratta
di questione di massima e di particolare importanza.
Motivi
della decisione
1.
Il primo motivo del ricorso tocca
la questione di diritto per la cui risoluzione sono state investite le
sezioni
unite.
I ricorrenti, lamentando la violazione dell'art. 1418 c.c. e dell'art.
6 della
legge 2 gennaio 1991, n. 1, nonché vizi di motivazione
dell'impugnata sentenza,
criticano la corte d'appello per aver affermato che la violazione delle
prescrizioni con cui il citato art. 6 impone determinati comportamenti
agli
intermediari finanziari nei riguardi dei propri clienti, incidendo tali
prescrizioni sul momento prenegoziale o su quello esecutivo ma non sul
contenuto del contratto, non potrebbe determinarne la nullità.
Altrimenti -
argomentano i ricorrenti - non sarebbe mai possibile far discendere la
nullità
del contratto dalla violazione di norme imperative che pongono limiti
alla
libertà delle parti con riferimento a situazioni esterne al
negozio, come ad
esempio quelle concernenti la qualità dei contraenti o i
presupposti e le
procedure del contrarre; ma, viceversa, vi sono molteplici casi (per
esempio:
mancanza di autorizzazione allo svolgimento dell'attività
d'intermediazione
mobiliare, difetto di adempimenti preliminari in materia valutaria, e
simili)
in cui la violazione di norme non attinenti al contenuto del negozio
è stata ritenuta
sufficiente a provocare la nullità.
La sentenza impugnata è poi anche censurata per avere
erroneamente ritenuto che
le violazioni contestate alla banca riguardassero soltanto
attività
prenegoziali o esecutive di contratti già conclusi. Quelle
violazioni invece -
a parere dei ricorrenti - concernevano comportamenti incidenti sulla
formazione
del consenso delle parti, e quindi sul contenuto dell'accordo che del
contratto
è uno degli elementi essenziali.
1.1. Prima di affrontare la questione controversa, giova
premettere che,
nell'ambito del giudizio di merito, è stato accertato come le
operazioni
finanziarie dalle quali trae origine il credito azionato in causa,
poste in
essere dal San Paolo su disposizione della Fincom e corredate dalle
garanzie
fideiussorie della Edilcentro e del sig. Grattarola, rientrino, per il
loro
oggetto e per le loro modalità negoziali ed attuative, tra
quelle cui si
applicava, al tempo dei fatti di causa, la disciplina della legge 2
gennaio
1991, n. 1 (in seguito abrogata e sostituita prima dal d. lgs 23 luglio
1996,
n. 415, e poi dal d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, con successive
modificazioni). Tale premessa, che appunto deriva essenzialmente da un
accertamento in punto di fatto circa le caratteristiche di dette
operazioni, è ovviamente
destinata a restare ferma anche nel presente giudizio di
legittimità.
1.2. Ciò posto, è utile brevemente ricordare
che l'art. 6 della citata
legge n. 1 del 1991 detta "principi generali e regole di
comportamento" cui l'intermediario deve uniformarsi nei rapporti con il
cliente. La norma, dopo aver enunciato il dovere di diligenza,
correttezza e
professionalità nella cura degli interessi di quest'ultimo
(lett. a) e dopo
aver posto a carico dell'intermediario il preliminare obbligo di
pubblicare e trasmettere
un documento contenente informazioni circa le proprie attività e
la relativa
regolamentazione, nonché circa il proprio eventuale gruppo di
appartenenza
(lett. b), stabilisce che i diversi servizi alla cui prestazione
l'intermediario si obbliga verso il cliente debbono essere disciplinati
da un
contratto scritto (perciò destinato ad assolvere alla funzione
c.d. di
"contratto quadro" rispetto alle singole successive attività
negoziali in cui l'espletamento di quei servizi si esplicherà),
contratto di
cui la stessa norma indica il contenuto minimo necessario ed una copia
del
quale deve essere trasmessa al cliente (lett. c). Segue poi una serie
di regole
legali, per la gran parte volte a disciplinare la prestazione dei
servizi
ipotizzati nel contratto: l'intermediario deve preventivamente
acquisire, sulla
situazione finanziaria del cliente, le informazioni rilevanti ai fini
dello
svolgimento dell'attività (know your customer rule)
(lett. d); deve
tenere costantemente informato il cliente sulla natura, sui rischi e
sulle
implicazioni delle operazioni e su qualsiasi altro fatto necessario per
il
compimento di scelte consapevoli (lett. e); non deve consigliare
né effettuare
operazioni con frequenza non necessaria o di dimensioni inadeguate alla
situazione finanziaria del cliente (suitability rule) (lett. f);
non
può, salvo espressa autorizzazione scritta, effettuare con il
cliente o per suo
conto operazioni nelle quali egli abbia, direttamente o indirettamente,
un
interesse conflittuale (lett. g); deve dotarsi di adeguate procedure di
controllo interno (lett. h). Siffatte regole di comportamento, in
esecuzione di
quanto previsto dalla disposizione della lettera a) sopra citata, sono
state
poi ulteriormente precisate dalla Consob con proprio regolamento (reg.
n. 5386
del 1991).
Dal "contratto quadro", cui può darsi il nome di contratto
d'intermediazione finanziaria e che per alcuni aspetti può
essere accostato
alla figura del mandato, derivano dunque obblighi e diritti reciproci
dell'intermediario e del cliente. Le successive operazioni che
l'intermediario
compie per conto del cliente, benché possano a loro volta
consistere in atti di
natura negoziale, costituiscono pur sempre il momento attuativo del
precedente
contratto d'intermediazione. Gli obblighi di comportamento cui alludono
le
citate disposizioni dell'art. 6 della legge n. 1 del 1991 (non
diversamente,
del resto, da quelli previsti dall'art. 21 del più recente d..
lgs. n. 58 del
1998), tutti in qualche modo finalizzati al rispetto della clausola
generale
consistente nel dovere per l'intermediario di comportarsi con
diligenza,
correttezza e professionalità nella cura dell'interesse del
cliente, si
collocano in parte nella fase che precede la stipulazione del contratto
d'intermediazione finanziaria ed in altra parte nella fase esecutiva di
esso.
Attiene evidentemente alla fase prenegoziale l'obbligo di consegnare al
cliente
il documento informativo menzionato nella lettera b) della citata
disposizione
dell'art. 6, ed attiene sempre a tale fase preliminare il dovere
dell'intermediario di acquisire le informazioni necessarie in ordine
alla
situazione finanziaria del cliente, come prescritto dalla successiva
lett. d),
così da poter poi adeguare ad essa la successiva
operatività. Ma doveri
d'informazione sussistono anche dopo la stipulazione del contratto
d'intermediazione, e sono finalizzati alla sua corretta esecuzione:
tale è il
dovere di porre sempre il cliente in condizione di valutare appieno la
natura,
i rischi e le implicazioni delle singole operazioni d'investimento o di
disinvestimento, nonché di ogni altro fatto necessario a
disporre con
consapevolezza dette operazioni (art. cit., lett. e), e tale è
il dovere di
comunicare per iscritto l'esistenza di eventuali situazioni di
conflitto
d'interesse, come condizione per poter eseguire ugualmente l'operazione
se
autorizzata (lett. g). Né può seriamente dubitarsi che
anche l'obbligo
dell'intermediario di tenersi informato sulla situazione del cliente,
in quanto
funzionale al dovere di curarne diligentemente e professionalmente gli
interessi, permanga attuale durante l'intera fase esecutiva del
rapporto e si
rinnovi ogni qual volta la natura o l'entità della singola
operazione lo
richieda, per l'ovvia considerazione che la situazione del cliente non
è
statica bensì suscettibile di evolversi nel tempo. Attengono poi
del pari al
momento esecutivo del contratto i doveri di contenuto negativo posti a
carico
dell'intermediario: quelli di non consigliare e di non effettuare
operazioni di
frequenza o dimensione eccessive rispetto alla situazione finanziaria
del
cliente (lett. f).
1.3. I ricorrenti sostengono che, nella specie, il San
Paolo ha violato
alcune delle disposizioni sopra ricordate. L'istituto bancario,
infatti,
avrebbe suggerito, e poi direttamente eseguito in veste di controparte,
operazioni nelle quali aveva un interesse conflittuale con quello della
cliente
Fincom (con violazione, dunque, della lett. g del citato art. 6), ed
avrebbe
consigliato ed eseguito operazioni eccessivamente rischiose, se
rapportate alla
situazione patrimoniale della medesima Fincom (con violazione, dunque,
della
lett. f del medesimo articolo).
Su tale presupposto i ricorrenti affermano che i contratti mediante i
quali il
San Paolo ha, di volta in volta, compiuto dette operazioni sono da
ritenere
nulli, in quanto contrari a norme imperative, non potendosi condividere
l'assunto della corte d'appello secondo cui la violazione delle norme
sopra
richiamate potrebbe generare, eventualmente, una responsabilità
risarcitoria o
esser causa di risoluzione dei contratti in questione, ma non anche
determinarne la nullità ai sensi dell'art. 1418 c.c.
È specificamente su questo punto, come già accennato, che
è stato sollecitato
l'intervento in chiave nomofilattica delle sezioni unite.
Giova però preliminarmente chiarire, a tal proposito, che nel
caso in esame non
si ravvisa la necessità di comporre un contrasto
giurisprudenziale derivante
dalla presenza di precedenti difformi decisioni delle sezioni semplici
sulla
questione di diritto appena riferita, perché le diverse
decisioni menzionate
nell'ordinanza di rimessione hanno ad oggetto questioni diverse,
nessuna della
quali (ad eccezione di quella trattata nella sentenza del 29 settembre
2005, n.
19024, di cui si dirà) investe specificamente il tema della
presente causa. La
circostanza che tutte o alcune tra tali precedenti sentenze possano,
per certi
aspetti, risultare più o meno coerenti con principi di diritto
sottesi ad altre
pronunce non è sufficiente ad identificare un contrasto di
giurisprudenza in
senso proprio. Essa è però certamente sintomo del fatto
che ci si trova in
presenza di una questione di massima e particolare importanza, appunto
perché
chiama in causa profili di principio: ciò che, d'altronde,
è confermato anche
dall'incertezza affiorata sul punto nella giurisprudenza di merito.
Nel prosieguo della presente sentenza non ci si soffermerà
perciò tanto
sull'esame dei singoli precedenti di questa corte in cui l'ordinanza di
rimessione ha ravvisato il preteso contrasto di giurisprudenza, ma si
affronterà direttamente la questione controversa, muovendo
dall'unico
precedente in termini già prima ricordato. Va da sé che
le conclusioni cui si
perverrà, nella misura in cui risulteranno idonee a fornire
chiarimenti su
questioni di principio suscettibili altresì di riflettersi su
decisioni aventi
oggetto ed ambiti diversi, potranno giovare a meglio definire la
giurisprudenza
di questa corte in termini anche più generali.
1.4. Si deve certamente convenire - ed anche l'impugnata
sentenza
d'altronde ne conviene - sul fatto che le norme dettate dal citato art.
6 della
legge n. 1 del 1991 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite)
hanno
carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo
nell'interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma
anche
nell'interesse generale all'integrità dei mercati finanziari
(come è ora reso
esplicito dalla formulazione dell'art. 21, lett. a, del d. lgs n. 58
del 1998,
ma poteva ben ricavarsi in via d'interpretazione sistematica già
nel vigore
della legislazione precedente), si impongono inderogabilmente alla
volontà
delle parti contraenti.
Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare
che la
violazione di una o più tra dette norme comporta la
nullità dei contratti
stipulati dall'intermediario col cliente. È ovvio che la loro
violazione non
può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze - e se ne
dirà - ma non è
detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del
contratto.
Innanzitutto, è evidente che il legislatore - il quale certo
avrebbe potuto
farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a
farlo
- non ha espressamente stabilito che il
mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase
genetica
del contratto e produce l'effetto radicale della nullità
invocata dai
ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di
nullità
stabiliti dalla legge ai quali allude il terzo comma dell'art. 1418 c.c.
Neppure i casi di nullità contemplati dal secondo comma
dell'articolo da ultimo
citato, però, sono invocabili nella situazione in esame.
È vero che tra questi
casi figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicati
dall'art.
1325, e che il primo di tali requisiti è l'accordo delle parti.
Ma, ove pure si
voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri
di
comportamento dell'intermediario sopra ricordati siano idonei ad
influire sul
consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo
sostenere
che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso
- se pur
di essi si possa parlare - non determinano la nullità del
contratto, bensì solo
la sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste
dagli artt. 1427
e segg. c.c.
Resta però da considerare l'ipotesi che, in casi come quello di
cui qui si
discute, la nullità possa dipendere dall'applicazione della
disposizione
dettata dal primo comma del citato art. 1418: che si possa,
cioè, predicare la
nullità (c.d. virtuale) del contratto perché contrario a
norme imperative, tali
essendo appunto le norme dettate dall'art. 6 della legge n. 1 del 1991.
1.5. La domanda che si è appena formulata ha
ricevuto già una motivata
risposta negativa nella menzionata sentenza n. 19024 del 2005,
pronunciata
dalla prima sezione di questa corte, la quale, dopo aver affermato che
la
nullità del contratto per contrarietà a norme imperative
postula violazioni
attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi
alla
struttura o al contenuto del contratto, ha escluso che
l'illegittimità della
condotta tenuta nel corso delle trattative prenegoziali ovvero nella
fase
dell'esecuzione del contratto stesso possa esser causa di
nullità,
indipendentemente dalla natura delle norme con le quali siffatta
condotta contrasti,
a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista. Donde la
conclusione
che né l'inosservanza degli obblighi informativi stabiliti
dall'art. 6 della
legge n. 1 del 1991, né la violazione da parte
dell'intermediario del divieto
di effettuare operazioni con o per conto del cliente qualora abbia un
interesse
conflittuale (a meno che non abbia comunicato per iscritto la natura e
l'estensione del suo interesse nell'operazione ed il cliente abbia
preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto
all'operazione) sono
idonee a cagionare nullità.
L'ordinanza di rimessione chiama ora le sezioni unite a valutare se
tali
affermazioni, e l'impianto argomentativo ad esse sotteso, debbano o
meno esser
tenute ferme, anche alla luce di un esame sistematico che tenga conto
di
orientamenti giurisprudenziali manifestati da questa stessa corte in
campi
diversi, nonché delle tendenze legislative emerse in questo ed
in altri
settori, dai quali potrebbero eventualmente scaturire indicazioni di
segno
contrario a quelle espresse in subjecta materia dalla sentenza
n. 19024
del 2005.
1.6. Il cardine intorno al quale ruota la sentenza da
ultimo citata è
costituito dalla riaffermazione della tradizionale distinzione tra
norme di
comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto:
la violazione
delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa
del
rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera
responsabilità e
può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in
una forma di
non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli
specifici
obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla
genesi
dell'atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a
provocarne la
nullità.
Che tale distinzione, sovente ribadita anche dalla dottrina, sia
fortemente
radicata nei principi del codice civile è difficilmente
contestabile. Per
persuadersene è sufficiente considerare come dal fondamentale
dovere che grava
su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede -
immanente
all'intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di
solidarietà
fondato sull'art. 2 della Costituzione, e sottostante a quasi tutti i
precetti
legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi
compresi
quelli qui in esame) - il codice civile faccia discendere conseguenze
che
possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla
sopravvivenza
dell'atto (come nel caso dell'annullamento per dolo o violenza, della
rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e
che in
ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o
precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente
mai
considerate tali da determinare la nullità radicale del
contratto (semmai
eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile), ancorché
l'obbligo dì
comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente
carattere
imperativo. E questo anche perché il suaccennato dovere di buona
fede, ed i
doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati
alle
circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio,
a
requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di
verificare secondo
regole predefinite.
L'assunto secondo il quale, nella moderna legislazione (anche per
incidenza
della normativa europea), la distinzione tra norme di validità e
norme di
comportamento starebbe tuttavia sbiadendo e sarebbe in atto un fenomeno
di
trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di
validità
dell'atto non è sufficiente a dimostrare il già avvenuto
sradicamento
dell'anzidetto principio nel sistema del codice civile.
È possibile che una tendenza evolutiva in tal senso sia
effettivamente presente
in diversi settori della legislazione speciale, ma - a parte la
considerazione
che molte delle disposizioni invocate a sostegno di questo assunto sono
posteriori ai fatti di causa, e non varrebbero quindi a dimostrare che
già a
quell'epoca il legislatore avesse abbandonato la tradizionale
distinzione cui
s'è fatto cenno - un conto è una tendenza altro conto
è un'acquisizione. E va
pur detto che il carattere sempre più frammentario e sempre meno
sistematico
della moderna legislazione impone molta cautela nel dedurre da singole
norme
settoriali l'esistenza di nuovi principi per predicarne il valore
generale e
per postularne l'applicabilità anche in settori ed in casi
diversi da quelli
espressamente contemplati da singole e ben determinate disposizioni.
D'altronde, non si è mai dubitato che il legislatore possa
isolare specifiche
fattispecie comportamentali, elevando la relativa proibizione al rango
di norma
di validità dell'atto, ma ciò fa ricadere quelle
fattispecie nella già
ricordata previsione del terzo (non già del primo) comma del
citato art. 1418.
Si tratta pur sempre, in altri termini, di disposizioni particolari,
che, a
fronte della già ricordata impostazione del codice, nulla
consente di elevare a
principio generale e di farne applicazione in settori nei quali
analoghe previsioni
non figurano, tanto meno quando - come nel caso in esame - l'invocata
nullità
dovrebbe rientrare nella peculiare categoria delle cosiddette
nullità di
protezione, ossia nullità di carattere relativo, che già
di per sé si pongono
come speciali.
1.7. Quanto appena osservato, naturalmente, non esaurisce
affatto il
tema, perché occorre ancora chiedersi se una regola diversa non
viga proprio
nello specifico settore del diritto dei mercati finanziari. Prima di
rispondere
a questo quesito, e restando per un momento ancora sul piano dei
principi
generali, giova però aggiungere che tanto l'impugnata sentenza
della Corte
d'appello di Torino, quanto la più volte menzionata sentenza di
questa Corte n.
19024 del 2005, sembrano individuare le norme imperative la cui
violazione
determina la nullità del contratto essenzialmente in quelle che
si riferiscono
alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle
parti.
Ma - si obietta - la giurisprudenza ha in passato spesse volte
individuato
ipotesi di nullità nella violazione di norme che invece
riguardano elementi
estranei a quel contenuto o a quella struttura: per esempio, in caso di
mancanza di una prescritta autorizzazione a contrarre o di clausole
concepite
in modo da consentire l'aggiramento di divieti a contrarre (cfr., tra
le altre,
Cass. 19 settembre 2006, n. 20261; Cass. 10 maggio 2005, n. 9767; Cass.
16
luglio 2003, n. 11131) o di mancanza di necessari requisiti soggettivi
di uno
dei contraenti (cfr., tra le altre, Cass. 3 agosto 2005, n 16281; Cass.
18
luglio 2003, n. 11247; Cass. 5 aprile 2001, n. 5052; Cass. 15 marzo
2001, n,
3753; e Cass. 7 marzo 2001, n. 3272) oppure in caso di contratti le cui
clausole siano tali da sottrarre una delle parti agli obblighi di
controllo su
di essa gravanti (cfr. Cass. 8 luglio 1983, n. 4605), ed inoltre in
caso di
circonvenzione d'incapace (cfr. Cass. 23 maggio 2006, n, 12126; Cass. 27 gennaio 2004, n. 1427; e Cass. 29 ottobre
1994, n. 8948).
Tralasciando la circonvenzione d'incapace, con riferimento alla quale
occorrerebbe forse rimeditare se ed entro quali limiti
l'illiceità penale della
condotta basti a giustificare l'ipotizzata nullità del contratto
sotto il
profilo civile, tali esempi (ed altri analoghi che si potrebbero fare)
stanno
certamente a dimostrare che l'area delle norme inderogabili, la cui
violazione
può determinare la nullità del contratto in
conformità al disposto dell'art.
1418, comma 1, c.c., è in effetti più ampia di quanto
parrebbe a prima vista
suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo. Vi
sono
ricomprese sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in
presenza o in
difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente
o
indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come
è il caso
dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al
riguardo
richiesta dalle legge, o in mancanza dell'iscrizione di uno dei
contraenti in
albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro
legittimazione a
stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta,
in
determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il
contratto
viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto
con la norma
imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità
dell'atto per ragioni -
se così può dirsi - ancor più radicali di quelle
dipendenti dalla contrarietà a
norma imperativa del contenuto dell'atto medesimo.
Neppure in tali casi, tuttavia, si tratta di norme di comportamento
afferenti
alla concreta modalità delle trattative prenegoziali o al modo
in cui è stata
data di volta in volta attuazione agli obblighi contrattuali gravanti
su una
delle parti, bensì del fatto che il contratto è stato
stipulato in situazioni
che lo avrebbero dovuto impedire. E conviene anche osservare che, pur
quando la
nullità sia fatta dipendere dalla presenza nel contratto di
clausole che
consentono o suggeriscono comportamenti contrari al precetto di buona
fede o ad
altri inderogabili precetti legali, non è il comportamento in
concreto tenuto
dalla parte a provocare la nullità del contratto stesso,
bensì il tenore della
clausola in esso prevista.
1.8. Tanto chiarito, sul piano generale, è tempo di
tornare alla domanda
se, nello specifico settore dell'intermediazione finanziaria, sia
eventualmente
riscontrabile un principio di segno diverso, tale cioè da
derogare al criterio
di distinzione sopra tracciato tra norme di comportamento e norme di
validità
degli atti negoziali e da condurre ad una differente conclusione.
La risposta dev'essere negativa.
In detto settore non è dato assolutamente rinvenire indici
univoci
dell'intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole
di
comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d'informazione
dell'altro contraente, alla stregua di regole di validità degli
atti.
La difesa di parte ricorrente ha inteso trarre argomento dalla
previsione di
nullità dei contratti di prestazione a distanza dei servizi
finanziari,
contemplata dall'art. 16, quarto comma, del d. lgs 19 agosto 2005, n.
190, per
il caso in cui il fornitore ostacoli l'esercizio del diritto di recesso
da
parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi
eventualmente
pagate, oppure violi gli obblighi informativi precontrattuali in modo
da alterare
significativamente la rappresentazione delle caratteristiche del
servizio. Ma,
oltre ad essere di molto successiva ai fatti di causa, detta previsione
resta
sistematicamente isolata nel nostro ordinamento e presenta evidenti
caratteri
di specialità, che non consentono di fondare su di essa nessuna
affermazione di
principio.
Se si ha poi riguardo, in modo particolare, al tenore letterale delle
norme
dettate per disciplinare l'attività ed i contratti delle
società
d'intermediazione mobiliare, si constata immediatamente come il
legislatore
abbia espressamente ipotizzato alcune ipotesi di nullità,
afferenti alla forma
ed al contenuto pattizio dell'atto (art. 8, ult. comma, della legge n.
1 del
1991, ed ora all'art. 23, commi 1, 2 e 3, ed art. 24, ult. comma, del
d. lgs.
n. 58 del 1998), nessuna delle quali appare tuttavia riconducibile alla
violazione delle regole di comportamento gravanti sull'intermediario in
tema di
informazione del cliente e di divieto di operazioni in conflitto
d'interessi o
inadeguate al profilo patrimoniale del cliente medesimo. Situazioni,
queste
ultime, che il legislatore ha invece evidentemente tenuto in
considerazione per
i loro eventuali risvolti in tema di responsabilità, laddove ha
espressamente
posto a carico dell'intermediario l'onere della prova di aver agito con
la
necessaria diligenza (art. 13, ult. comma, della legge n. 1 del 1991,
ora
sostituito dall'art. 23, ult. comma, del d. lgs. n. 58 del 1998).
Né giova appellarsi alla valenza generale dell'interesse alla
correttezza del
comportamento degli intermediari finanziari, per i riflessi che ne
possono
derivare sul buon funzionamento dell'intero mercato. Alla tutela di
siffatto
interesse sono preordinati il sistema dei controlli facenti capo
all'autorità
pubblica di vigilanza ed il regime delle sanzioni che ad esso accede,
ma nulla
se ne può dedurre in ordine alla pretesa nullità dei
singoli contratti sul
piano del diritto civile, tanto più che questa dovrebbe pur
sempre logicamente
esser concepita in termini di nullità di protezione, ossia di
nullità relativa
(come infatti indicano le citate disposizioni del d. lgs n. 58 e del d.
lgs. n.
190, con riguardo ai casi in cui la nullità è
effettivamente contemplata), e
già questo, in difetto di qualsiasi norma che espressamente lo
preveda, rende
problematico ogni ancoraggio alla figura generale della nullità
configurata dal
primo comma dell'art. 1418 c.c.
È significativo, d'altronde, che al descritto quadro normativo,
per lo
specifico profilo ora considerato, il legislatore non abbia mai
avvertito la
necessità di apportare modifiche di rilievo da quando fu emanata
la legge n. 1
del 1991, nonostante le ripetute rivisitazioni di tale normativa sino
al
recentissimo del d. lgs. 17 settembre 2007, n. 164, che ha recepito la
direttiva n. 2004/39/Ce e che del pari si è astenuto
dall'estendere l'esplicita
previsione di nullità alla violazione delle regole di
comportamento
contrattuale e precontrattuale di cui si sta discutendo.
1.9. Così stando le cose, la tesi secondo cui il
mancato rispetto dei
surriferiti doveri comportamentali dell' intermediario nella fase
prenegoziale
o in quella attuativa del rapporto sarebbe idoneo a riflettersi sulla
validità
genetica del contratto stipulato con il cliente, priva com'è di
base testuale e
di supporti sistematici, potrebbe nondimeno conservare una qualche
plausibilità
solo ove risultasse l'unica in grado dì rispondere all'esigenza
- sicuramente
presente nella normativa in questione e coerente con la previsione
dell'art.
47, comma 1, Cost. - di incoraggiare il risparmio e garantirne la
tutela. Ma è
evidente che così non è, perché non può
ragionevolmente sostenersi che la
suaccennata esigenza implichi necessariamente la scelta, da parte del
legislatore, del mezzo di tutela consistente proprio nel prevedere la
nullità
dei contratti nelle situazioni in discorso, così travolgendo sia
il discrimine
tra regole di comportamento e regole di validità sia quello tra
vizi genetici e
vizi funzionali del contratto.
Richiamando la distinzione già prima tracciata tra gli obblighi
che precedono
ed accompagnano la stipulazione del contratto d'intermediazione e
quelli che si
riferiscono alla successiva fase esecutiva, può subito rilevarsi
come la
violazione dei primi (ove non si traduca addirittura in situazioni tali
da determinare
l'annullabilità - mai comunque la nullità - del contratto
per vizi del
consenso) è naturalmente destinata a produrre una
responsabilità di tipo
precontrattuale, da cui ovviamente discende l'obbligo per
l'intermediario di
risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l'avvenuta
stipulazione del
contratto. Infatti, per le ragioni già da tempo poste in luce
dalla migliore
dottrina e puntualmente riprese dalla citata sentenza di questa Corte
n. 19024
del 2005 - alla quale si intende su questo punto dare continuità
- la
violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello
svolgimento
delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non
soltanto
nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia
stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto
concluso
sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta
vittima del
comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del
danno deve
essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio
economico
prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona
fede,
salvo che sia dimostrata l'esistenza di ulteriori danni che risultino
collegati
a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e
diretto.
La violazione dei doveri dell'intermediario riguardanti invece la fase
successiva alla stipulazione del contratto d'intermediazione può
assumere i
connotati di un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento)
contrattuale: giacché quei doveri, pur essendo di fonte legale,
derivano da
norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli
effetti il
regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che l'eventuale
loro
violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza
dei
principi generali sull'inadempimento contrattuale, può, ove
ricorrano gli
estremi di gravità postulati dall'art. 1455 c.c., condurre anche
alla
risoluzione del contratto d'intermediazione finanziaria in corso.
Si possono ovviamente avere opinioni diverse sul grado di efficacia
della
tutela in tal modo assicurata dal legislatore al risparmio dei
cittadini, che
negli ultimi anni sempre più ampiamente viene affidato alle cure
degli
intermediari finanziari. Ma non si può negare che gli strumenti
di tutela
esistono anche sul piano del diritto civile, essendo poi la loro
specifica
conformazione giuridica compito del medesimo legislatore le cui scelte
l'interprete non è autorizzato a sovvertire, sicché il
ricorso allo strumento
di tutela della nullità radicale del contratto per violazione di
norme di
comportamento gravanti sull'intermediario nella fase prenegoziale ed in
quella
esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali
o di
regole sistematiche che lo prevedano, non è giustificato.
1.10. Da ultimo, va preso in considerazione un ulteriore
rilievo, su cui
insistono particolarmente i ricorrenti, i quali sostengono che gli
obblighi per
l'intermediario di non effettuare (oltre che di non consigliare)
operazioni inadeguate
alla situazione patrimoniale del cliente e di non effettuare operazioni
in
conflitto di interessi col cliente medesimo, rispettivamente
contemplati dalle
lettere f) e g) del citato art. 6, integrano veri e propri doveri di
non fare,
la cui violazione si traduce nella stipulazione di altrettanti
contratti
vietati da norma imperativa: il che, per quanto sopra detto, dovrebbe
colpire
alla radice gli atti vietati, rendendoli illeciti e perciò nulli.
A siffatto rilievo si deve però opporre che, come già in
precedenza chiarito,
il compimento delle operazioni di cui si tratta, ancorché queste
possano a loro
volta consistere in atti di natura negoziale (ma è significativo
che la norma
le definisca col generico termine di "operazioni"), si pone pur
sempre come momento attuativo di obblighi che l'intermediario ha
assunto
all'atto della stipulazione col cliente del "contratto quadro". Il
divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d'interessi
attiene,
perciò, anch'esso - lo si è già notato - alla fase
esecutiva di detto
contratto, costituendo, al pari del dovere d'informazione, una
specificazione
del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità
nella cura
degli interessi del cliente. Il modo stesso in cui la norma è
formulata e l'esplicito
accostamento dei suaccennati doveri di informazione e di cura
dell'interesse
del cliente, nel compimento delle singole operazioni, denota come il
legislatore abbia qui sempre voluto contemplare obblighi di
comportamento
precontrattuali e contrattuali, non già regole di
validità del contratto (sia
esso il contratto d'intermediazione finanziaria o i singoli negozi con
cui a
quello vien data esecuzione); ed è appena il caso di osservare
che, sotto tal
profilo, è del tutto irrilevante la circostanza che l'operazione
compiuta
dall'intermediario sia consistita nel procurarsi da terzi i valori o
gli
strumenti finanziari ordinatigli dal cliente oppure nel fornirli egli
stesso,
trattandosi di varianti esecutive che non incidono sull'obbligo di
diligenza
cui l'intermediario è tenuto e che, ai fini del presente
discorso, lasciano
intatta la natura esecutiva dell'operazione da lui compiuta.
1.11. In conclusione, va perciò enunciato il
principio per cui la
violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta
esecuzione delle
operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla
prestazione
dei servizi d'investimento finanziario può dar luogo a
responsabilità
precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove
tali
violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la
stipulazione
del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi
rapporti tra
le parti; può invece dar luogo a responsabilità
contrattuale, ed eventualmente
condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di
violazioni
riguardanti le operazioni d'investimento o disinvestimento compiute in
esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione. In
nessun
caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione
dei
suaccennati doveri di comportamento può però determinare
la nullità del
contratto d'intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti,
a norma
dell'art. 1418, comma 1, c.c.
L'impugnata sentenza della corte d'appello non si è discostata
da siffatto
principio ed il primo motivo di ricorso non può perciò
trovare accoglimento.
2. Sul tema del risarcimento del danno derivante dalla
violazione delle
menzionate regole di comportamento dell'intermediario occorrerà
poi ritornare,
quando si esamineranno il sesto ed il settimo motivo del ricorso (infra,
punto 3). Prima, però, è necessario sgomberare il campo
dalle questioni
sollevate con i motivi dal secondo al quinto, che appaiono logicamente
preliminari ma nessuno dei quali - può anticiparsi - risulta
fondato.
2.1. Col secondo motivo i ricorrenti denunciano la
violazione dell'art.
1933 c.c., nonché vizi di omessa pronuncia e difetti di
motivazione. Affermano
che la disposizione dettata dal citato art. 1933, in forza dì
quando stabilito
dall'art. 23 della legge n. 2 del 1991, risulta inapplicabile ai soli
contratti
uniformi a termine stipulati nei mercati regolamentati. Essa, quindi,
contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d'appello, avrebbe dovuto
trovare
applicazione nel caso di specie, in cui si trattava di contratti non
corrispondenti ad alcuno dei tipi previsti dalla normativa secondaria
di
settore, stipulati al di fuori del mercato di borsa.
2.1.1. La doglianza non è meritevole di
accoglimento.
È assorbente rilevare, in proposito, anzitutto che la mera
presenza in un
contratto di un intento speculativo o di un certo grado di alea
non vale a
renderlo assimilabile ad un giuoco o ad una scommessa, cui sia
applicabile il
regime giuridico dettato dal citato art. 1933 c.c.; inoltre che, quando
pure di
vero e proprio gioco o scommessa si tratti, l'anzidetta norma è
invocabile solo
a condizione che vi sia stata partecipazione consapevole al gioco o
alla
scommessa di tutte le parti del rapporto (cfr., in argomento, Cass. 2
settembre
2004, n. 17689).
Ciò premesso, occorre subito osservare che l'acquisto e la
vendita a termine di
valuta e le altre operazioni finanziarie di cui nel presente caso si
discute,
pur comportando sicuramente un certo grado di alea e pur potendo essere
anche
ispirati da intenti speculativi da parte di chi quelle operazioni abbia
disposto, non sono di per sé necessariamente riducibili ad una
scommessa sul
futuro andamento dei tassi di cambio, potendo altrettanto
ragionevolmente
fungere da strumenti di stabilizzazione del rischio. In punto di fatto,
sulla
base di un accertamento di merito che in questa sede non è
consentito rivedere,
la corte d'appello ha considerato non inverosimile che l'istituto di
credito
fosse persuaso che "le operazioni intraprese potessero costituire
semplice
ricopertura di partite contrapposte intrattenute con altro operatore, e
dunque
non con finalità di pura sorte" (sentenza impugnata, pagg.
20-21).
Questo accertamento, già da solo, vale ad escludere che il San
Paolo fosse
consapevole di essere entrato con la Fincom in un rapporto di gioco o
scommessa, o almeno esclude che secondo l'apprezzamento del giudice di
merito
di ciò sia stata raggiunta la prova; e tanto basta a rendere non
applicabile
nella fattispecie in esame della previsione del citato art. 1933.
2.2. Il terzo motivo di ricorso è volto a
denunciare la violazione degli
artt. 633 e 125 c.p.c, oltre che vizi di motivazione dell'impugnata
pronuncia.
Negano infatti i ricorrenti che le censure da loro formulate nell'atto
d'appello in ordine alla ritualità dell'ingiunzione ed al
difetto di valida
pattuizione di interessi convenzionali fossero generiche, in rapporto
alle
apodittiche affermazioni contenute su tali punti nella sentenza di
primo grado.
2.2.1. Neppure tale doglianza è meritevole di
accoglimento.
Va premesso che i rilievi riguardanti; la ritualità del
procedimento monitorio
sono superati dall'intervenuta revoca del decreto ingiuntivo e dal
fatto che la
condanna al pagamento di una somma di denaro è stata pronunciata
all'esito di
un giudizio di opposizione da considerarsi, per questo profilo, del
tutto
equivalente ad un ordinario giudizio di cognizione.
Quanto agli altri rilievi, va detto che l'inammissibilità di
motivi d'appello
che si sostanzino nel generico richiamo alle difese di primo grado non
è sanata
dall'asserita insufficienza della motivazione in base alla quale quelle
difese
siano state rigettate dal giudice a quo. Vi osta pur sempre il
principio
della specificità dei motivi di gravame: principio che assolve
alla duplice
funzione di delimitare l'estensione del riesame domandato e di
indicarne le
ragioni concrete, e perciò postula la specificazione, sia pure
in forma
succinta, degli errori attribuiti alla sentenza di primo grado, ivi
compreso
eventualmente quello consistente proprio nell'insufficienza della
motivazione
posta a sostegno della decisione di rigetto.
2.3. L'asserita estraneità all'oggetto sociale
"della Fincom delle
operazioni in compiute dal suo amministratore forma oggetto del quarto
motivo
di ricorso, con cui nuovamente si denunciano vizi di motivazione della
sentenza
impugnata e la violazione dell'art. 2384-bis c.c. (ancora
vigente
all'epoca dei fatti di causa).
Sostengono in particolare i ricorrenti che male ha fatto la corte
d'appello a
stimare comprese dette operazioni nella previsione formale dell'oggetto
sociale, quale indicato nell'atto costitutivo della Fincom, senza tener
conto
delle caratteristiche concrete delle operazioni medesime, aventi
finalità
meramente speculative, e della loro abnorme dimensione. Avrebbe dovuto
inoltre
la corte territoriale valutare l'eccepita nullità del
suaccennato oggetto
sociale, in quanto esso comprendeva attività di collocamento di
valori
mobiliari riservate esclusivamente alle società
d'intermediazione o agli altri
soggetti a tal fine abilitati.
Denunciano poi ancora i ricorrenti l'errore in cui la sentenza
impugnata
sarebbe incorsa nel porre a loro carico l'onere della prova della mala
fede del
terzo, a termini del citato art. 2384-bis, e nel non considerare
gli
elementi dai quali, in concreto, la buona fede del San Paolo risultava
esclusa,
tenuto anche conto dello specifico obbligo d'informazione circa le
condizioni
economiche del cliente posto a carico dell'intermediario dall'art. 6
dell'allora vigente legge n. 1 del 1991.
2.3.1. Neanche queste censure colgono nel segno.
L'asserita nullità, totale o parziale, dell'oggetto sociale di
una società può
eventualmente riflettersi, a vario titolo, sulla legittimità o
sulla liceità
degli atti compiuti dall'amministratore per darvi attuazione, ma in
nessun modo
comporta che quegli atti siano ultra vires e ricadano
perciò nella
previsione del citato art. 2384-bis, giacché tale norma
unicamente
postula il confronto tra gli atti compiuti e la sfera di
operatività desumibile
dall'oggetto sociale, indipendentemente dalla liceità di questo.
L'accertamento compiuto dalla corte d'appello, laddove ha escluso che
le
operazioni di cui si discute avessero il carattere esteriore di
operazioni di
pura sorte, ha perciò stesso anche negato la loro intrinseca
estraneità
all'oggetto sociale, che quella tipologia di azioni espressamente
prevedeva. E
si tratta di una valutazione di merito non suscettibile di essere
censurata in
questa sede, perché congruamente motivata.
A quest'ultimo riguardo giova solo ancora osservare che la
necessità di operare
il confronto con l'oggetto sociale tenendo conto della concreta
configurazione
dell'attività svolta impedisce che attività comprese
nella previsione
dell'oggetto sociale medesimo, quale risultante dall'atto costitutivo
della
società, possano esser considerate eccedenti solo per profili di
ordine
quantitativo. L'ovvia necessità di affidamento dei terzi, ai
quali non è di
regola certo possibile compiere siffatte delicate ed opinabili
valutazioni di
tipo quantitativo, è sufficiente ad escludere che un profilo di
tal genere
possa integrare il giudizio di estraneità postulato dalla citata
disposizione
del codice civile. Aggiungasi poi - e sarebbe forse già da solo
argomento
decisivo - che l'onere della prova dell'assenza di buona fede del
terzo,
ipotizzata dal citato art. 2384-bis, è a carico della
società, come si
evince dal chiaro disposto dell'art. 9 della prima direttiva europea in
materia
societaria (direttiva n. 68/151 del 9 marzo 1968), in attuazione della
quale
detto articolo del codice fu emanato. Anche l'accertamento del mancato
raggiungimento di tale prova, motivatamente compiuto dalla corte di
merito, non
è in questa sede censurabile.
2.4. Doglianze in parte analoghe alle precedenti, ma
riferite
all'eccepita estraneità della fideiussione all'oggetto sociale
della garante
Edilcentro, sono alla base del quinto motivo di ricorso, nel quale si
fa però
anche questione della violazione degli artt. 1394 e 2391 c.c.,
insistendosi nel
sostenere che l'amministratore di detta società, in quanto
altresì
amministratore della debitrice principale Fincom, si trovava in
situazione di
conflitto d'interessi.
2.4.1. Richiamate preliminarmente le considerazioni svolte
a proposito
del precedente motivo di ricorso, è al profilo dell'eccepito
conflitto
d'interessi che occorre ora aver riguardo.
Le doglianze della ricorrente sono condivisibili nella parte in cui
sottolineano come, per escludere il dedotto conflitto d'interessi
dell'amministratore, gli eventuali benefici compensativi che una
società
appartenente ad un gruppo possa ricavare da atti compiuti a vantaggio
della
capogruppo, ove questi appaiano (almeno in prima istanza) svantaggiosi
per la
controllata, debbono essere provati da chi quei benefici compensativi
allega e
non da chi denuncia la situazione di conflitto (cfr. Cass. 11 dicembre
2006, n.
26325; e Cass. 24 agosto 2004, n. 16707).
Resta, però, che la corte d'appello ha affermato la non
conoscibilità della
situazione di conflitto d'interessi da parte del San Paolo, e si tratta
di una
valutazione di merito che la ricorrente non censura in modo adeguato,
limitandosi a contrapporre ad essa il proprio opposto convincimento. Il
che non
è sufficiente ad evidenziare vizi di motivazione che
giustifichino la
cassazione dell'impugnata sentenza, dovendo tali vizi consistere non
già nella
mera asserita opinabilità della valutazione espressa dal
giudice, bensì
nell'evidenziazione di ben individuati difetti logici insiti nella
valutazione
medesima.
3. Sgombrato così il campo dalle censure volte a
mettere in discussione
la validità del rapporto negoziale dedotto in lite e delle
garanzie
fideiussorie che vi accedono, è tempo di tornare al tema della
violazione delle
più volte richiamate regole di condotta dettate dall'art. 6
della legge n. 1
del 1991 - ma questa vola per gli eventuali profili risarcitori che ne
possano
conseguire - addebitati dai ricorrenti al San Paolo nell'instaurazione
e
nell'esecuzione di tale rapporto. È appunto su questo tema che
si soffermano il
sesto ed il settimo motivo di ricorso.
3.1. In particolare, col settimo motivo - che ragioni di
ordine logico
suggeriscono di anteporre al sesto - vien messa in discussione la
declaratoria
d'inammissibilità totale della domanda di risarcimento dei danni
proposta dal
sig. Grattarola e quella d'inammissibilità parziale dell'analoga
domanda
risarcitoria formulata dalla Fincom.
Secondo i ricorrenti, che denunciano la violazione degli artt. 183 e
189 c.p.c,
nonché vizi di motivazione della sentenza impugnata, entrambi
tali decisioni
sono errate, perché la corte d'appello non ha considerato che i
fatti posti a
base della pretesa risarcito-ria puntualizzata in corso di causa dalla
Fincom
erano già contenuti nella prospettazione originaria, e quindi
non integravano
un'inammissibile mutatio libelli, e che - anche con riferimento
alla
domanda del sig. Grattarola - la tacita accettazione del
contraddittorio ad
opera della controparte avrebbe dovuto precludere la declaratoria
d'inammissibilità di dette domande.
3.2. Il sesto motivo riguarda, invece, il mancato
accoglimento di quella
parte della domanda di risarcimento dei danni avanzata dalla Fincom che
la
corte d'appello ha stimato ammissibile, siccome proposta sin da
principio in
via riconvenzionale nell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo.
La domanda era fondata su due addebiti rivolti al San Paolo: l'aver
suggerito
operazioni poi eseguite direttamente in qualità di controparte
versando in
conflitto d'interessi, e l'aver suggerito operazioni eccessivamente
rischiose.
La corte territoriale ne ha escluso 1'accoglibilità sotto il
primo profilo in
base a due distinte ed autonome argomentazioni: perché non era
stata raggiunta
la prova (ed appariva anzi inverosimile) che il danno del cliente non
si
sarebbe prodotto se l'operazione fosse stata eseguita tramite altro
intermediario, anziché direttamente in proprio dal San Paolo, e
perché
l'operare in conflitto d'interessi nella fase prenegoziale può
generare un
obbligo di risarcimento del danno in capo all'istituto di credito, ma
solo
entro i limiti del cosiddetto interesse negativo (id quod interest
contractus non fuisset), che però non era stato nella specie
provato.
Quanto al secondo addebito, la corte torinese ha ritenuto non
dimostrato che le
operazioni rivelatesi poi svantaggiose per il cliente fossero
conseguenza di
suggerimenti formulati dai funzionari del San Paolo.
Siffatta pronuncia - secondo i ricorrenti - è frutto di errata
applicazione
degli artt. 6 e 13 della legge n. 1 del 1991, oltre ad esser motivata
in modo
insufficiente e contraddittorio. La corte d'appello non avrebbe infatti
compreso che il conflitto d'interessi non risiedeva nel modo e nei
termini in
cui le operazioni di cui si discute erano state compiute dal San Paolo,
bensì
nella decisione stessa di compierle. Il San Paolo, infatti, in forza
dei doveri
impostigli dalla sua qualità d'intermediario finanziario,
avrebbe dovuto
sconsigliare in proposito il cliente, anziché incoraggiarlo, ed
i guadagni
lucrati dall'intermediario già di per sé dimostrano
l'esistenza del contestato
nesso di causalità tra l'operare del San Paolo in conflitto
d'interessi ed il
danno del cliente. Lamentano poi ancora i ricorrenti che la corte
d'appello non
abbia tenuto conto, a questo riguardo, dell'inversione dell'onere della
prova
posta dall'art. 13, ultimo comma, della citata legge n. 1 del 1991,
né del
fatto che le concrete modalità con cui le operazioni in valuta
sono state
attuate denotano come, nel porle in essere, il San Paolo non si sia
attenuto
all'obbligo di ricercare le migliori condizioni per il cliente. Viene
infine
contestata l'attendibilità delle deposizioni testimoniali rese
dai funzionari
dell'istituto di credito e la loro stessa capacità a deporre.
3.3. I due riferiti motivi di ricorso appaiono
fondati, per alcuni
profili, ed infondati per altri.
3.3.1. Quanto ai profili processuali, conviene subito
chiarire che non
possono trovare autonomo spazio censure concernenti pretesi vizi della
motivazione del provvedimento impugnato, giacché, con
riferimento a detti
profili, questa corte è anche giudice del fatto.
Venendo poi all'esame dei denunciati errores in procedendo,
occorre
ribadire il principio secondo cui il regime di preclusioni, introdotto
nel
codice di rito dalla legge n. 353 del 1990, è inteso non solo a
tutela
dell'interesse di parte ma anche dell'interesse pubblico al corretto e
celere
andamento del processo, con la conseguenza che la tardività di
domande,
eccezioni, allegazioni e richieste deve essere rilevata d'ufficio dal
giudice
indipendentemente dall'atteggiamento processuale della controparte al
riguardo
(cfr. tra le altre, Cass., 27 luglio 2006, n. 17152; e Cass. 11 maggio
2005, n.
9875).
Questo rilievo è sufficiente a far considerare prive di ogni
fondamento le
censure riguardanti, in modo specifico, la pronuncia
d'inammissibilità della
domanda di risarcimento dei danni tardivamente proposta dal sig.
Grattarola.
Non può infatti da alcun punto di vista ritenersi che detta
domanda fosse, sia
pur solo implicitamente, già contenuta nell'atto introduttivo
del giudizio,
giacché in quell'atto - diversamente da quello di opposizione a
decreto
ingiuntivo spiccato dalla Fincom - nessuna domanda riconvenzionale
appare esser
stata avanzata e non si vede davvero come le argomentazioni ivi
formulate
possano esser poste al servizio di un petitum risarcitorio del
tutto
inespresso.
Non altrettanto è invece a dirsi per la Fincom, che una domanda
riconvenzionale
di risarcimento dei danni ebbe sin da principio a formulare,
sicché, per quel
che la riguarda, gli aspetti di novità riscontrati dalla corte
d'appello
attengono unicamente alla causa petendi, che in corso di
giudizio
sarebbe stata inammissibilmente ampliata in quanto all'addebito mosso
al San
Paolo di aver consigliato operazioni in conflitto d'interesse ed
eccessivamente
rischiose si è aggiunto quello di avere eseguito siffatte
operazioni, non
adeguate alle risorse finanziarie del cliente.
Sennonché, premesso che il divieto di mutatio libelli
è essenzialmente
funzionale al rispetto dell'altrui diritto di difesa ed all'esigenza di
ordinato e celere svolgimento del processo, onde la novità della
domanda va
apprezzata non tanto in relazione al tenore letterale delle espressioni
adoperate dalla parte quanto alla diversità dei temi
eventualmente introdotti
in causa, all'effetto di sorpresa che per la controparte possa
derivarne ed
alla necessità di un ampliamento del thema probandum che
nel giudizio
possa prodursi, il raffronto tra l'impostazione difensiva presente
nell'atto
introduttivo e la formulazione finale della domanda risarcitoria
avanzata dalla
Fincom dimostra come non di una domanda nuova si sia trattato,
bensì di una
semplice e consentita migliore enunciazione della stessa domanda.
Certamente nessuna novità di rilievo è ravvisabile
nell'aver qualificato le
operazioni di cui si discute come sproporzionate, anziché
eccessivamente
rischiose, trattandosi soltanto di una più puntuale definizione
di un concetto
già implicito nella precedente espressione. Quanto, poi,
all'aver fatto
riferimento all'attività svolta dal San Paolo in esecuzione di
tali operazioni,
e non solo all'averle suggerite, non può trascurarsi che sin dal
primo atto
difensivo della Fincom la fase esecutiva è stata espressamente
richiamata
nell'ambito di un comportamento del San Paolo complessivamente
descritto come
non conforme ai precetti legali già più volte sopra
ricordati: ragione per la
quale lo scarto tra la prima e la successiva formulazione di detta
domanda,
identico essendo il petitum risarcitorio, non ha comportato
l'enunciazione di ragioni di pretesa diverse e tali da richiedere
indagini e
difese che già non fossero sin da principio comprese
nell'orizzonte della
causa.
Sotto il profilo da ultimo considerato, dunque, la doglianza contenuta
nel
ricorso merita accoglimento, e ciò conduce ad individuare una
prima ragione di
cassazione dell'impugnata sentenza, rendendosi necessario procedere, in
sede di
rinvio, all'esame del profilo di domanda risarcitoria della Fincom
infondatamente dichiarato inammissibile: quello concernente,
cioè, l'asserito
compimento da parte del San Paolo di operazioni sproporzionate per
frequenza e
dimensioni alla situazione patrimoniale della cliente Fincom.
Dovrà perciò valutare il giudice di rinvio: se le
operazioni di cui si tratta
avessero quelle negative caratteristiche d'inadeguatezza di cui i
ricorrenti si
lagnano; se, in conseguenza delle anzidette caratteristiche e tenuto
conto di
quanto disponeva l'art. 6 del regolamento Consob n. 8850 del 1994 a
quel tempo
in vigore, il San Paolo avrebbe dovuto astenersi dal porle in essere;
se e
quali danni, ove l'indicato obbligo di astensione fosse ravvisabile, la
Fincon
abbia sofferto a causa della violazione di esso.
3.3.2. La statuizione del giudice d'appello deve invece
restare ferma -
e si entra così nell'esame del sesto motivo di ricorso - nella
parte in cui ha
dichiarato non fondato il profilo della pretesa risarcitoria che si
basava sul
presupposto secondo cui il San Paolo avrebbe anche suggerito alla
Fincom di
compiere le sproporzionate operazioni di cui si è prima parlato.
La corte d'appello ha escluso, in punto di fatto, che quei suggerimenti
vi
siano stati o che abbiano avuto un qualche significativo rilievo,
e le
doglianze formulate dai ricorrenti a questo riguardo non colgono nel
segno.
Esse si risolvono in una denuncia dell'inattendibilità dei testi
escussi in
istruttoria e nell'assunto secondo cui tali testi (o almeno alcuni di
loro)
avrebbero dovuto esser dichiarati incapaci a deporre a norma dell'art.
246
c.p.c. Sotto il primo aspetto appare però evidente come un
siffatto tipo di
doglianza sconfini nel giudizio di merito e non possa, di conseguenza,
trovare
ingresso in cassazione; sotto il secondo aspetto è sufficiente
osservare che la
veste di dipendenti o funzionari del San Paolo, i quali hanno
materialmente
mantenuto col cliente i rapporti da cui sono scaturite le pretese
risarcitorie
discusse in causa, non basta a rendere i testi titolari di un interesse
che ne
giustificherebbe la personale partecipazione al giudizio, e quindi non
determina la loro l'incapacità a deporre.
3.3.3. Sono viceversa condivisibili ulteriori profili di
doglianza
contenuti nel sesto motivo di ricorso, che attengono al rigetto della
domanda
di risarcimento dei danni per operazioni compiute dall'intermediario in
situazione di asserito conflitto d'interessi.
La corte d'appello, come si è ricordato, non si è
soffermata a valutare se
sussistesse o meno la situazione di conflitto d'interessi denunciata
dalla
difesa degli odierni ricorrenti, poiché ha escluso che,
comunque, vi fosse la
prova della dannosità dell'eventuale conflitto. E lo ha escluso
sulla base
della considerazione che le operazioni in questione, se anche compiute
con un
diverso intermediario, non avrebbero dato risultati differenti.
Un tale ragionamento non considera però che, in presenza di una
situazione di
conflitto di interessi non rivelata al cliente, o comunque in difetto
di
autorizzazione espressa del cliente medesimo, la disposizione contenuta
nella
lett. g) dell'art. 6 della dell'allora vigente legge n. 1 del 1991
(diversamente da quanto ora prevede il comma 1-bis, lett. a e b,
dell'art. 21 del d. lgs n. 58 del 1998) faceva espresso ed assoluto
divieto
all'intermediario di dar corso all'operazione. Perciò, alla
stregua di quella
norma, o si sarebbe dovuto ritenere che il tipo di operazione era tale
da
escludere in radice il lamentato conflitto d'interessi - ma la corte
d'appello
non ha formulato un accertamento in tal senso - o non sì sarebbe
potuto
altrimenti far leva su dette modalità operative al solo fine di
negare ogni
possibile nesso causale tra l'operazione eventualmente implicante un
conflitto
di interessi ed i danni sofferti dal cliente. Infatti, se la situazione
di
conflitto fosse configurabile, non sarebbero le concrete e specifiche
modalità
esecutive a venire in questione, ma il compimento stesso
dell'operazione che
non avrebbe dovuto affatto aver luogo. Ai fini dell'individuazione di
un
eventuale danno risarcibile subito dal cliente e del nesso di
causalità tra
detto danno e l'illegittimo comportamento imputabile all'intermediario,
assumono rilievo le conseguenze del fatto che l'intermediario medesimo
non si
sia astenuto dal compiere un'operazione dalla quale, in quelle
circostanze,
avrebbe dovuto astenersi (sempre che, s'intende, risulti provato che
nel caso
in esame, aveva l'obbligo di astenersene), non quelle derivanti dalle
modalità
con cui l'operazione è stata in concreto realizzata o avrebbe
potuto esserlo
ipoteticamente da altro intermediario.
Neppure è poi esatto, con riferimento alla seconda ed autonoma ratio
decidendi formulata a questo riguardo dalla corte d'appello, che
quel danno
s'identifichi con il mero interesse negativo da responsabilità
precontrattuale
(di cui non è stata fornita la prova). Non è infatti
precontrattuale la
responsabilità in cui incorre l'intermediario che compia
operazioni in
conflitto d'interesse, quando dovrebbe astenersene, ma si tratta invece
- come
già dianzi chiarito - di una vera e propria
responsabilità da non corretto
adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del rapporto
contrattuale d'intermediazione finanziaria in essere con il cliente:
quindi di
una responsabilità contrattuale, con riferimento alla quale il
richiamo alla
nozione di interesse negativo appare fuor di luogo.
Anche sotto questo ulteriore profilo l'impugnata sentenza deve essere
perciò
cassata ed occorre dare corso ad un giudizio di rinvio volto,
innanzitutto, ad
accertare: se nelle operazioni in questione fosse o meno davvero
ravvisabile un
interesse del San Paolo confìggente con quello della Fincom
(tenendo peraltro
conto che siffatto interesse non potrebbe in nessun caso identificarsi
con
quello alla percezione del compenso per l'opera prestata
dall'intermediario,
che è fisiologicamente presente in qualsiasi operazione
d'intermediazione
finanziaria non gratuita); se, in caso di risposta positiva al
precedente
quesito, il San Paolo abbia omesso di informare del conflitto la Fincom
e di
farsi eventualmente autorizzare al compimento delle descritte
operazioni; se,
in conseguenza di quanto sopra, fosse configurabile un obbligo del San
Paolo di
astenersi dal compimento di dette operazioni; se e quali danni la
Fincom abbia
risentito per il fatto che il suindicato obbligo di astensione, ove
sussistente, sia stato violato dall'intermediario.
4. La cassazione dell'impugnata sentenza per le ragioni
sopra illustrate
sub 3.3.1. e 3.3.3. (assorbenti rispetto ad ogni altro
rilievo)
interessa anche i fideiussori Edilcentro e sig. Grattarola, per gli
eventuali
riflessi che ne possano derivare sulla loro posizione debitoria nei
confronti
della banca creditrice, dovendosi nel giudizio di rinvio anche
riesaminare se,
alla luce della diversa ampiezza riconosciuta alla domanda risarcitoria
proposta in via riconvenzionale dalla Fincom, restino pur sempre valide
le
considerazioni di tipo processuale in base alle quali la corte
d'appello ha
escluso che l'ipotetico accoglimento di detta domanda riconvenzionale
possa
giovare ai fideiussori in virtù del meccanismo di compensazione
eventualmente
innescato dalla contrapposizione di reciproche ragioni creditorie della
stessa
Fincom e del San Paolo.
5. Resta assorbito l'esame dell'ultimo motivo di ricorso,
concernente la
statuizione dell'impugnata sentenza in tema di spese processuali.
6. Il giudice di rinvio, identificato nella stessa Corte
d'appello di
Torino, ma in diversa composizione, provvedere anche sulle spese del
giudizio
di legittimità.
PQM
La
Corte, pronunciando a sezioni unite, accoglie il sesto ed
il settimo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione,
dichiara
assorbito l'ottavo motivo e rigetta i restanti, cassa l'impugnata
sentenza in
relazione alle censure accolte e rinvia la causa alla Corte d'appello
di
Torino, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in
ordine
alle, spese del giudizio di legittimità.