Cassazione
civile, sez. III, 09 ottobre 2012, n. 17143, in materia di
responsabilità medica ed inadempimento
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
Con sentenza del 23/2/2006 la Corte d'Appello di
Napoli respingeva il gravame interposto dai sigg. G.G. e F. C. nei confronti della pronunzia Trib. Ariano
Irpino 20/11/2003 di rigetto della domanda,
proposta contro il sig. R. E. e la Gestione liquidatoria Usl n. (OMISSIS) di Ariano Irpino, di risarcimento dei danni lamentati in
conseguenza della perdita totale ed irreversibile del visus all'occhio
destro e della forte miopia all'occhio sinistro subita dal figlio C. a
causa di fibroplasia retro lenticolare, asseritamente insorta per essere stato il medesimo,
nato pretermine, lasciato per 45 giorni in
incubatrice senza assistenza e senza il necessario controllo della
concentrazione di ossigeno.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il
G. e la F.
propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 3
motivi, illustrati da memoria.
Resistono, con separati
controricorsi, la
Gestione liquidatoria Usl n.
(OMISSIS) di Ariano Irpino ed il R., il quale
ultimo ha presentato anche memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1 motivo i ricorrenti denunziano
violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma
1, n. 3.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente
addossato loro l'onere della prova del nesso di
causalità, laddove questa incombeva invero a controparte.
Lamentano che la corte di merito ha avuto riguardo alla
nozione di nesso di causalità propria del diritto
penale, e non già a quella civilistica, non essendovi ai fini risarcitori
la "certezza assoluta di un rapporto diretto tra omissione ed
evento".
Con il 2 motivo denunziano
violazione e falsa applicazione dell'art. 1176 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma
1, n. 3.
Lamentano non essersi tenuto in considerazione il
difetto di diligenza dei sanitari nella vicenda, invero emergente alla
stregua della stessa cartella clinica.
Con il 3 motivo denunziano
insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto decisivo della
controversia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma
1, n. 5.
Lamentano contraddittorietà della motivazione, giacchè se "il bambino era venuto
alla luce in buone condizioni di salute e se lo stato morboso è di
natura acquisita ed è a genesi multifattoriale ed il neonato venne
sottoposto ad ossigenoterapia, accusò sofferenza perinatale, soffrì di
stress operatorio e di crisi apnoiche recidivanti, gli praticarono
trasfusioni e tenuto conto della prematurità e del basso peso alla nascita,
il piccolo non poteva non essere considerato soggetto a rischio proprio per
le condizioni alla nascita (prematurità e basso peso), l'ossigenoterapia e
la presenza di tutte le vicende patologiche intervenute".
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti per
quanto di ragione nei termini e limiti di seguito indicati.
Giusta principio consolidato
nella giurisprudenza di legittimità, in ipotesi come nella specie di responsabilità da intervento effettuato da medico
c.d. strutturato, in quanto dipendente da struttura sanitaria pubblica o
privata, trova applicazione la disciplina dettata all'art. 1218 c.c., e segg., sia nei
confronti di quest'ultima che del medico (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577;
Cass., 13/4/2007, n. 8826).
Il medico è in
particolare tenuto ad una prestazione improntata
alla diligenza professionale qualificata dalla specifica attività
esercitata ex art. 1176 c.c., comma 2 e art. 2236 c.c., nel cui ambito va distinta
una diligenza professionale generica e una diligenza variamente
qualificata, giacchè chi assume un'obbligazione
nella qualità di specialista, o un'obbligazione che presuppone una tale
qualità, è tenuto alla perizia che è normale della categoria (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826).
Lo specifico
settore di competenza in cui rientra l'attività esercitata richiede infatti la specifica conoscenza ed applicazione delle
cognizioni tecniche che sono tipiche dell'attività necessaria per
l'esecuzione dell'attività professionale.
Come in giurisprudenza di legittimità si è già avuto
modo di porre in rilievo, i limiti di tale responsabilità sono invero
quelli generali in tema di responsabilità contrattuale (v. Cass., Sez. Un.,
30/10/2001, n. 13533), presupponendo questa l'esistenza della
colpa lieve del debitore, e cioè il difetto dell'ordinaria diligenza.
Al riguardo si è ulteriormente precisato che il criterio
della normalità va valutato con riferimento alla diligenza media richiesta,
ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, avuto riguardo
alla specifica natura e alle peculiarità dell'attività esercitata (v.
Cass.,
13/4/2007, n. 8826; Cass.,
20/7/2005, n. 15255; Cass.,
8/2/2005, n. 2538;
Cass.,
22/10/2003, n. 15789; Cass.,
28/11/2001, n. 15124; Cass.,
21/6/1983, n. 4245).
La condotta del medico specialista (a fortiori se tra i
migliori del settore) va esaminata non già con minore ma al contrario
semmai con maggior rigore ai fini della responsabilità professionale,
dovendo aversi riguardo alla peculiare specializzazione e alla necessità di
adeguare la condotta alla natura e al livello di pericolosità della
prestazione (cfr., con riferimento al medico sportivo, Cass., 8/1/2003, n. 85), implicante
scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale (cfr. Cass., 13/1/2005, n. 583).
In quanto la diligenza (che,
come posto in rilievo anche in dottrina, si specifica nei profili della
cura, della cautela, della perizia e della legalità, la perizia in
particolare sostanziandosi nell'impiego delle abilità e delle appropriate
nozioni tecniche peculiari dell'attività esercitata, con l'uso degli
strumenti normalmente adeguati; ossia con l'uso degli strumenti comunemente
impiegati, in relazione all'assunta obbligazione, nel tipo di attività
professionale o imprenditoriale in cui rientra la prestazione dovuta: v. Cass., 31/5/2006, n. 12995) deve
valutarsi avuto riguardo alla natura dell'attività esercitata (art. 1176 c.c., comma 2), al
professionista, e a fortiori allo specialista, è richiesta una diligenza
particolarmente qualificata dalla perizia e dall'impiego di strumenti
tecnici adeguati al tipo di attività da espletarsi.
A tale stregua l'impegno dal medesimo dovuto, se si
profila superiore a quello del comune debitore, va considerato viceversa
corrispondente alla diligenza normale in relazione alla
specifica attività professionale esercitata, giacchè
il professionista deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati
allo standard professionale della sua categoria, tale standard valendo a
determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia
dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per
conseguirlo, nonchè del relativo grado di
responsabilità.
Come si è osservato anche in dottrina, il debitore è di
regola tenuto ad una normale perizia, commisurata al
modello del buon professionista (secondo cioè una misura obiettiva che
prescinde dalle concrete capacità del soggetto, sicchè
deve escludersi che il debitore privo delle necessarie cognizioni tecniche
sia esentato dall'adempiere l'obbligazione con la perizia adeguata alla
natura dell'attività esercitata), mentre una diversa misura di perizia è
dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore (per il
riferimento alla necessità di adeguare la valutazione alla stregua del
dovere di diligenza particolarmente qualificato, inerente lo svolgimento
dell'attività del professionista, v. Cass., 23/4/2004, n. 19133; Cass., 4/3/2004, n. 4400) in relazione
ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore
professionale.
Ai diversi gradi di specializzazione corrispondono infatti diversi gradi di perizia.
Può allora distinguersi tra una diligenza professionale
generica e una diligenza professionale variamente
qualificata.
Chi assume un'obbligazione nella
qualità di specialista, o una obbligazione che presuppone una tale
qualità, è tenuto alla perizia che è normale della categoria (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826).
Lo sforzo tecnico implica anche l'uso degli strumenti
materiali normalmente adeguati, ossia l'uso degli strumenti comunemente
impiegati nel tipo di attività professionale in cui rientra la prestazione
dovuta.
La misura della diligenza richiesta nelle obbligazioni
professionali va quindi concretamente accertata sotto il profilo della
responsabilità.
Con specifico riferimento all'attività ed alla responsabilità del medico c.d.
"strutturato" si è in giurisprudenza di legittimità affermato che
il medico e l'ente sanitario sono contrattualmente impegnati al risultato
dovuto (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577;
Cass., 19/5/2004, n. 9471), quello cioè
conseguibile secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, alla abilità
tecnica del primo e alla capacità tecnico- organizzativa del secondo (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass.,
22/12/1999, n. 589 Cass., n. 2750/98; Cass., 8/1/1999, n. 103).
Il normale esito della prestazione dipende allora da una
pluralità di fattori, quali il tipo di patologia, le condizioni generali
del paziente, l'attuale stato della tecnica e delle conoscenze scientifiche
(stato dell'arte), l'organizzazione dei mezzi adeguati per il
raggiungimento degli obiettivi in condizioni di normalità, ecc..
Normalità che risponde dunque ad
un giudizio relazionale di valore, in ragione delle circostanze del caso.
Emerge evidente, a tale stregua, che il risultato
normalmente conseguibile per i migliori specialisti del settore operanti
nell'ambito di una determinata struttura sanitaria ad alta specializzazione
tecnico-professionale non può considerarsi tale per chi sia viceversa
dotato di minore grado di abilità tecnico- scientifica,
ovvero presti la propria attività presso una struttura con inferiore
organizzazione o dotazione di mezzi (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 5/7/2004, n. 12273), ovvero in
una struttura sanitaria polivalente o "generica", o, ancora, in
un mero presidio di "primo intervento".
Ne consegue che anche per il migliore specialista del
settore il giudizio di normalità va allora calibrato avuto riguardo alla
struttura in cui è chiamato a prestare la propria opera professionale.
Laddove lo spostamento verso l'alto della soglia di normalità del comportamento diligente dovuto determina la
corrispondente diversa considerazione del grado di tenuità della colpa
(cfr. Cass., 7/8/1982, n. 4437), con
corrispondente preclusione della prestazione specialistica al medico che
specializzato non è (cfr. Cass., 5/7/2004, n. 12273; Cass., 26/3/1990, n. 2428).
La difficoltà dell'intervento e la diligenza del
professionista vanno valutate in concreto, rapportandole al livello di
specializzazione del professionista e alle strutture tecniche a sua
disposizione, sicchè il medesimo deve, da un
canto, valutare con prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza
professionale, ricorrendo anche all'ausilio di un consulto (se la
situazione non è così urgente da sconsigliarlo); e, da altro canto, deve
adottare tutte le misure volte ad ovviare alle
carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti
diagnostici e sui risultati dell'intervento, e laddove ciò non sia
possibile, deve informare il paziente, financo
consigliandogli, se manca l'urgenza di intervenire, il ricovero in una
struttura più idonea (v. Cass.,
13/4/2007, n. 8826; Cass.,
5/7/2004, n. 12273. V. anche Cass., 21/7/2003, n. 11316; Cass.,
16/5/2000, n. 6318).
La riconduzione dell'obbligazione professionale del
medico c.d.
strutturato nell'ambito del
rapporto contrattuale (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826), e della
eventuale responsabilità che ne consegua nell'ambito di quella da
inadempimento ex art. 1218 c.c., e segg., ha invero i
suoi corollari anche sotto il profilo probatorio.
Al riguardo questa Corte ha già
più volte enunciato il principio in base al quale quando l'intervento da
cui è derivato il danno non è di difficile esecuzione la dimostrazione da
parte del paziente dell'aggravamento della sua situazione morbosa o
l'insorgenza di nuove patologie è idonea a fondare una presunzione semplice
in ordine all'inadeguata o negligente prestazione, spettando all'obbligato
fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in
modo diligente, e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un
evento imprevisto e imprevedibile (v. Cass. 21/12/1978, n. 6141; Cass. 16/11/1988, n. 6220; 11/3/2002, n. 3492).
Più specificamente, l'onere della prova è stato
ripartito tra le parti nel senso che spetta al medico provare che il caso è
di particolare difficoltà, e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee; ovvero a quest'ultimo
spetta provare che l'intervento è di facile esecuzione e al medico che
l'insuccesso non sia dipeso da suo difetto di diligenza (v. Cass.,
19/4/2006, n. 9085;
Cass.,
11/11/2005, n. 22894; Cass.,
28/5/2004, n. 10297; Cass.,
21/6/2004, n. 11488; Cass.,
16/2/2001, n. 2335; Cass.,
19/5/1999, n. 4852; Cass.,
4/2/1998, n. 1127;
Cass.,
30/5/1996, n. 5005; Cass.,
16/11/1988, n. 6220).
Tale orientamento interpretativo è stato da questa Corte
"riletto" anche alla luce del principio enunciato in termini
generali da Cass., Sez. Un.
30/10/2001, n. 13533, in tema di onere della prova
dell'inadempimento.
Nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le
sezioni semplici, le Sezioni Unite hanno nell'occasione affermato il
principio - condiviso dal Collegio - secondo cui il creditore che agisce
per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte
negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della
circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre è al debitore
convenuto che incombe di dare la prova del fatto estintivo, costituito
dall'avvenuto adempimento.
Analogo principio è stato posto con riguardo
all'inesatto adempimento, rilevandosi che al creditore istante è
sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per
violazione di doveri accessori, come quello di informazione,
ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità
quantitative o qualitative dei beni), gravando sul debitore l'onere di
dimostrare di avere esattamente adempiuto.
Applicando tale principio all'onere della prova nelle
cause di responsabilità professionale del medico si è affermato che il
paziente che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l'inesatto
adempimento dell'obbligazione sanitaria, provare il contratto e allegare
l'inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore
(medico-struttura sanitaria) l'onere di dimostrare che la prestazione è
stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è
dovuto a causa a sè non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile nè prevenibile con la diligenza nel caso dovuta (per il
riferimento all'evento imprevisto ed imprevedibile cfr., Cass., 21/7/2011, n. 15993; Cass., 7/6/2011, n. 12274. E già Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 11/11/2005, n. 22894).
Pertanto, in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c., il paziente- creditore
ha il mero onere di allegare il contratto ed il
relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare
la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità (v.
Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826;
Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 21/6/2004, n. 11488. Da ultimo
v.
Cass., 11/11/2011, n. 23564).
Questa Corte è peraltro pervenuta ad affermare che la distinzione
tra prestazione di facile esecuzione e prestazione
implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non può
valere come criterio di distribuzione dell'onere della prova, bensì
solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del
corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario.
All'art. 2236 c.c., non va conseguentemente
assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell'onere
probatorio, giacchè incombe in ogni caso al
medico dare la prova della particolare difficoltà
della prestazione, laddove la norma in questione implica solamente una
valutazione della colpa del professionista, in relazione alle circostanze
del caso concreto (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Appare in effetti incoerente ed
incongruo richiedere al professionista la prova idonea a vincere la
presunzione di colpa a suo carico quando trattasi di intervento di facile
esecuzione o routinario, e addossare viceversa al
paziente l'onere di provare l'inadempimento quando l'intervento è di
particolare o speciale difficoltà (in tal senso v. invece Cass., 4/2/1998, n. 1127; Cass., 11/4/1995, n. 4152).
Proprio nel caso in cui l'intervento implica cioè la
soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, richiede notevole
abilità, e la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale
complessità, con largo margine di rischio in presenza
di ipotesi non ancora adeguatamente studiate o sperimentate, ovvero oggetto
di sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi ed
incompatibili tra loro (v. Cass.,
28/5/2004, n. 10297; Cass.,
10/5/2000, n. 5945; Cass.,
19/5/1999, n. 4852; Cass.,
16/11/1988, n. 6220; Cass., 18/6/1975, n. 2439). Non anche in ragione
dell'incertezza circa l'esito della tecnica applicata o dell'alta
percentuale di risultati insoddisfacenti, atteso che la difficoltà di prova
non coincide con l'aleatorietà, ben potendo una prestazione tecnicamente di
facile esecuzione presentare una non sicura efficacia terapeutica ovvero un
difficile intervento condurre, in caso di esito positivo, a certa
guarigione: v. Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Tale soluzione si palesa infatti
ingiustificatamente gravatoria per il paziente,
in contrasto invero con il principio di generale favor per il
creditore-danneggiato cui l'ordinamento è informato (cfr.
Cass., 20/2/2006, n. 3651).
In tali circostanze è infatti
indubitabilmente il medico specialista a conoscere le regole dell'arte e la
situazione specifica - anche in considerazione delle condizioni del
paziente - del caso concreto, avendo pertanto la possibilità di assolvere
all'onere di provare l'osservanza delle prime e di motivare in ordine alle
scelte operate in ipotesi in cui maggiore è la discrezionalità rispetto a
procedure standardizzate.
E' allora da superarsi, sotto il profilo della
ripartizione degli oneri probatori, ogni distinzione tra interventi
"facili" e "difficili", in quanto
l'allocazione del rischio non può essere rimessa alla maggiore o minore
difficoltà della prestazione, l'art. 2236 c.c., dovendo essere inteso
come contemplante una regola di mera valutazione della condotta diligente
del debitore (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Va quindi conseguentemente affermato che in ogni caso di
"insuccesso" incombe al medico dare la
prova della particolare difficoltà della prestazione (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Le obbligazioni professionali sono dunque caratterizzate
dalla prestazione di attività particolarmente qualificata da parte di
soggetto dotato di specifica abilità tecnica, in cui il paziente fa
affidamento nel decidere di sottoporsi all'intervento chirurgico, al fine
del raggiungimento del risultato perseguito o sperato.
Affidamento tanto più accentuato, in vista dell'esito
positivo nel caso concreto conseguibile, quanto maggiore è la
specializzazione del professionista, e la preparazione organizzativa e
tecnica della struttura sanitaria presso la quale l'attività medica viene dal primo espletata.
Sotto altro profilo, va posto in rilievo che una
limitazione della misura dello sforzo diligente dovuto nell'adempimento
dell'obbligazione, e della conseguente responsabilità per il caso di
relativa mancanza o inesattezza, non può farsi invero discendere dalla
qualificazione dell'obbligazione in termini di "obbligazione di
mezzi" (v. Cass., Sez. Un.,
11/1/2008, n. 576; Cass., 13/4/2007, n. 8826).
Nè, al fine di salvare la
distinzione dogmatica in argomento, può valere il richiamo a principi
propri di altri sistemi, come quello di common lavi
della c.d. evidenza circostanziale o res ipsa loquitur (per il quale
v. invece Cass., 16/2/2001, n. 2335; Cass., 19/5/1999, n. 4852, Cass.; 22/1/1999, n. 589).
Come questa Corte ha avuto modo di precisare, in tema di
responsabilità del medico per i danni causati al paziente l'inadempimento
del professionista alla propria obbligazione non
può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato
utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei
doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale (v.
Cass., 9/11/2006, n. 23918).
L'inadempimento consegue infatti
alla prestazione negligente, ovvero non improntata alla dovuta diligenza da
parte del professionista (e/o della struttura sanitaria) ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, adeguata alla
natura dell'attività esercitata e alle circostanze concrete del caso.
Secondo la regola sopra ribadita in tema di ripartizione
dell'onere probatorio, provati dal paziente la sussistenza ed il contenuto del contratto, se la prestazione
dell'attività non consegue il risultato normalmente ottenibile in relazione
alle circostanze concrete del caso incombe invero al medico (a fortiori ove
trattisi di intervento semplice o routinario)
dare la prova del verificarsi di un evento imprevedibile e non superabile
con l'adeguata diligenza che lo stesso ha impedito di ottenere.
In caso di mancata o inesatta realizzazione di tale
intervento il medico e la struttura sono conseguentemente tenuti a dare la prova che il risultato "anomalo" o
anormale rispetto al convenuto esito dell'intervento o della cura, e quindi
dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata
sull'esperienza, dipende da fatto a sè non
imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità
alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso
concreto.
L'imposizione, secondo la sopra richiamata regola generale, mediante la previsione della
presunzione dell'onere della prova in capo al debitore, il cui fondamento
si è indicato nell'operare del principio di c.d. vicinanza alla prova o di
riferibilità (v. v. Cass., 9/11/2006, n. 23918; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 23/5/2001, n. 7027; Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533; Cass., 13/9/2000, n. 12103), va ancor
più propriamente ravvisato, come sottolineato anche in dottrina, nel
criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la
prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più
marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista
nell'applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo
estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore
come nel caso specializzato nell'esecuzione di una professione protetta.
Deve dunque conclusivamente affermarsi che il
danneggiato è tenuto a provare il contratto e ad allegare la difformità
della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da
una condotta improntata alla dovuta diligenza.
Mentre al debitore, presunta la colpa, incombe l'onere
di provare che l'inesattezza della prestazione dipende da causa a lui non
imputabile, e cioè la prova del fatto impeditivo
(v. Cass., 2875/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
E laddove tale prova non riesca a dare, secondo la regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c., il medesimo rimane
soccombente.
Orbene, con specifico riferimento all'aspetto funzionale
dell'intervento in oggetto la corte di merito non si è nell'impugnata
sentenza attenuta invero ai suesposti principi.
In particolare laddove ha ritenuto (sulla base invero
del giudizio emergente dalle tre esperite C.T.U.) la condotta dal medico nel caso mantenuta come non integrante ipotesi di
responsabilità, pur in assenza della prova da parte del medesimo, in
ossequio al combinato disposto di cui all'art. 1218 c.c., art. 1176 c.c., comma 2 e art. 2236 c.c., dell'essere tale esito
dovuto a causa a sè non imputabile.
Al riguardo, in violazione della regola di ripartizione
dell'onere della prova nel caso applicantesi, la
corte di merito ha infatti rigettato la domanda
per non avere il danneggiato dato la prova che "lo stato morboso
acquisito dal neonato sia stato causato dall'ossigenazione praticata
nell'incubatrice, senza considerare che la patologia riscontrata nella
specie è a genesi multifattoriale, nel senso che, se può essere provocata
dall'ossigenoterapia, può essere anche causata da tutta una serie di
fattori diversi quali la prematurità, il basso peso alla nascita,
trasfusioni praticate, sofferenza perinatale, stress respiratorio, apnee
recidivanti".
E ciò pur mettendo
(contraddittoriamente) in rilievo fattori che in realtà tali "fattori
furono presenti, sia pure in parte, nella vicenda in esame poichè il piccolo C. accusò sofferenza perinatale,
soffrì di stress respiratori e di crisi apnoiche recidivanti mentre per
prematurità (32 settimane di gestazione invece di 30) e peso presentato
alla nascita (gr. 1.620
in luogo di gr. 1.250) aveva invece superato i
limiti del rischio R.O.P.
indicati nel programma congiunto di neonatologia dell'università di Harvard
1975/1990".
Ancora, la corte di merito ha disatteso i suindicati
principi laddove ha escluso che "i sanitari nella vicenda in esame
abbiano colpevolmente omesso di praticare accertamenti diagnostici che avrebbero
consentito una diagnosi tempestiva della retinopatia ed
una conseguente eliminazione o riduzione degli effetti della malattia, come
invece sostengono gli appellanti nella parte dell'impugnazione in cui si
dolgono che mai al piccolo paziente sarebbe stato esplorato il fondo
oculare attraverso l'esame oftalmoscopico e che neanche al momento delle
dimissioni gli sarebbe stata effettuata o prescritta una visita
oculistica", in quanto "sulla base del protocollo vigente
all'epoca dei fatti" i sanitari non erano "tenuti a sottoporre il
piccolo paziente ad alcuna visita oculistica" ovvero "a
prescriverla all'atto delle dimissioni".
Ancora, laddove ha escluso la configurabilità in capo ai
medesimi "alcuna colpa" per "non aver richiesto una
consulenza oculistica allorquando il neonato
presentò episodio di congiuntivite nel corso della tredicesima giornata di
vita, trattandosi di patologia ben nota ad uno specialista pediatra, dalla
quale, come risulta dalla cartella clinica, il paziente guarì dopo appena
tre giorni (perizia prof. R.)", asserendo che come sottolineato dal
giudice di prime cure la corte di merito osserva che "tale
accertamento involge problematiche collegate alla c.d. causalità omissiva,
su cui si sono pronunciate recentemente le Sezioni Unite della
Cassazione", e che, mentre prima la giurisprudenza "era orientata
nel senso che doveva ritenersi sussistente il nesso di causalità tra
l'evento dannoso e la condotta omissiva del sanitario qualora adottandosi
il comportamento dovuto ed omesso, vi sarebbero state serie ed apprezzabili
probabilità di successo", era venuto ormai ad affermarsi il contrario
orientamento secondo cui il nesso causale può "ritenersi sussistente
soltanto qualora, adottandosi il comportamento omesso, l'evento sarebbe stato
impedito con elevato grado di probabilità vicino alla certezza e cioè in
una percentuale quasi prossima a cento".
Oltre a violare il suindicato principio di c.d.
vicinanza alla prova o di riferibilità, e ancor più propriamente il
criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la
prova, inammissibilmente richiedendo al
danneggiato di fornire una prova rientrante per converso nella sfera di
dominio del medico (l'esecuzione della prestazione consistendo
nell'applicazione di regole tecniche sconosciute al danneggiato in quanto estranee alla comune esperienza, e viceversa
proprie del bagaglio del debitore come nel caso specializzato
nell'esecuzione di una professione protetta), a tale stregua la corte di
merito ha fatto invero erroneamente applicazione nel caso della regola
civilistica in tema di nesso di causalità.
Ha infatti omesso di
considerare che, giusta orientamento già delineatosi (anche) nella
giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 16/10/2007, n. 21619), poi
confermato dalle Sezioni Unite civili di questa Corte, stante la diversità
del regime probatorio applicabile in ragione dei differenti valori sottesi
ai due processi, nell'accertamento del nesso causale in materia civile vige
la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che
non", mentre nel processo penale vige la regola della prova
"oltre il ragionevole dubbio" (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576 ).
Le Sezioni Unte hanno al riguardo in particolare
sottolineato che ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., un evento è da considerare
causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del
secondo, nonchè dal criterio della cosiddetta
causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che
non appaiano - d una valutazione ex ante - del tutto inverosimili (v. Cass., 8/7/2010, n. 16123; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576),
avendo al riguardo questa Corte già avuto modo di precisare che "in
una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la
causalità civile ordinaria, attestata sul versante della probabilità
relativa (o variabile), caratterizzata, specie in ipotesi di reato
commissivo, dall'accedere ad una soglia meno elevata di probabilità
rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede
di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive
(serie ed apprezzabili possibilità, ragionevole probabilità ecc.), senza
che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale,
senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte
giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il
processo civile (e la verifica processuale in ordine all'esistenza del
nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile
tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva,
obbedisce alla logica del più probabile che non" (così Cass., 16/10/2007, n. 21619).
Si è da questa Corte ulteriormente posto in rilievo che
l'adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio
del "più probabile che non") si delinea
invero in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze
probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, sicchè la concorrenza di cause di diversa incidenza
probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione
della specificità del caso concreto, senza limitarsi ad un meccanico e
semplicistico ricorso alla regola del 51%, ma dovendo farsi luogo ad una
compiuta valutazione dell'evidenza del probabile (in tali termini v., da
ultimo, Cass., 21/7/2011, n. 15991, ove così
esemplificato, in tema di danni da trasfusione di sangue infetto: se
"le possibili concause appaiono plurime e quantificabili in misura di
dieci, ciascuna con un'incidenza probabilistica pari al 3%, mentre la
trasfusione attinge al grado di probabilità pari al 40%, non per questo la
domanda risarcitoria sarà per ciò solo rigettata - o geneticamente
trasmutata in risarcimento da chance perduta, dovendo viceversa il giudice,
secondo il suo prudente apprezzamento che trova la sua fonte nella
disposizione di legge di cui all'art. 116 c.p.c.,
valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire,
all'esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni
possibili").
Senza sottacersi che laddove la causa del danno rimanga
alfine ignota, le conseguenze non possono certamente ridondare a scapito
del danneggiato (nel caso, del paziente), ma gravano sul presunto
responsabile che la prova liberatoria non riesca a fornire (nel caso, il
medesimo e/o la struttura sanitaria), il significato di tale presunzione
cogliendosi - come sopra esposto - nel principio di generale favor per il
danneggiato, nonchè della rilevanza che assume al
riguardo il principio della colpa obiettiva, quale
violazione della misura dello sforzo in relazione alle circostanze del caso
concreto adeguato ad evitare che la prestazione dovuta arrechi danno
(anche) a terzi, senza peraltro indulgere a soluzioni radicali, essendo
attribuita la possibilità di liberarsi dalla responsabilità (cfr., in
diverso ambito, Cass., 20/2/2006, n. 3651).
Nè può d'altro canto
trascurarsi che, in caso di concretizzazione del rischio che la regola violata tende a prevenire, in base al principio
del nesso di causalità specifica non può prescindersi
dalla considerazione del comportamento dovuto e della condotta nel singolo
caso in concreto mantenuta, e il nesso di causalità che i danni conseguenti
a quest'ultima astringe rimane invero presuntivamente provato (cfr. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584;
Cass., Sez. Un.,
11/1/2008, n. 582. E, da ultimo, Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., 29/8/2011, n. 17685).
Alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto
dell'impugnata sentenza s'impone pertanto la cassazione in relazione, con
rinvio alla Corte d'Appello di Napoli, che in diversa composizione
procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi
applicazione.
Il giudice di rinvio provvederà anche in
ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte
accoglie il ricorso. Cassa in relazione l'impugnata sentenza e rinvia,
anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'Appello di
Napoli, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 12 giugno
2012.
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