SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto 20.4.1996 Perrini Pasquale convenne dinanzi al Tribunale di
Bari la cooperativa edilizia Lamione a r.l. e i componenti del suo
consiglio di amministrazione Pesce Luigi, presidente, e D’Innella
Michele e Di Salvatore Cesare Ferdinando consiglieri, perché
fossero condannati in solido a risarcire i danni da lui subiti in L.
1.200.000.000 e fossero liberati i suoi beni dall’ipoteca in favore
della cooperativa, ampiamente garantita da un pignoramento immobiliare.
Dedusse di avere acquistato nel 1969 un suolo in Bitonto, di averlo
lottizzato per realizzare un complesso immobiliare di 24 unità,
di avere proceduto ai lavori relativi e di avere nel 1978 costituito
con altri soci una cooperativa edilizia, che avrebbe dovuto eseguire
una serie di opere di uso comune, delle quali gran parte erano mancate
ed altre erano state eseguite da lui a sue spese.
Era poi accaduto che con la approvazione del regolamento di condominio
si era instaurata una gestione sostanzialmente condominiale dei beni
comuni, con pregiudizi per lui, che era stato gravato di spese
indebitamente.
Aggiunse che altri danni aveva subito per la condotta dolosa o colposa
degli amministratori, a causa della mancata individuazione di imprese
di fiducia, con cui i soci avrebbero dovuto stipulare contratti di
appalto per costruire le ville; della mancata redazione di un programma
edilizio omogeneo, che aveva pregiudicato la uniformità
costruttiva del complesso, incidendo sul valore economico delle singole
proprietà e reso impossibile la costruzione di quattro lotti;
altri danni aveva subito per effetto di ingiunzioni di pagamento per L.
700 milioni, sulla base di ingiustificate delibere assembleari e di una
ipoteca iscritta a suo carico.
Gli amministratori resistettero alla pretesa e proposero domanda
riconvenzionale per L. 1.200.000.000, negando che l’attore avesse
eseguito le opere indicate in citazione, mentre aveva mancato di
versare le quote a suo carico ed aveva avviato un programma sistematico
di denunzie ed esposti, per evidenziare supposti illeciti dell’organo
di amministrazione, che avevano comportato il discredito sociale
professionale posto a fondamento della domanda risarcitoria.
Negarono i convenuti di avere posto in essere condotte dolose o colpose
ed eccepirono la nullità della domanda a causa della sua
genericità, in ordine alle ragioni di danno, nonché la
prescrizione di cui all’art. 2947 c.c.
Nel giudizio si costituì anche la cooperativa, sostanzialmente
aderendo alle difese dei predetti convenuti.
Il Tribunale di Bari con sentenza 19.6.2000 respinse la domanda attrice
e, accogliendo la riconvenzionale, condannò il Perrini al
risarcimento dei danni materiali e morali, in L. 50.000.000 per
ciascuno degli amministratori, e alle spese processuali.
Il Perrini propose appello, che la corte barese con sentenza 19.11.2001
ha respinto, condannando l’appellante alle spese processuali in favore
degli amministratori e della cooperativa, costituiti.
Ha preliminarmente giudicato inammissibile, perché nuova, la
domanda di risarcimento ex artt. 96 c.p.c., 2043 c.c. e 6 par. 1 della
Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, per i supposti danni
patrimoniali e morali lamentati, in conseguenza dei giudizi numerosi ed
inutili che sarebbero stati provocati dalla cooperativa, posto che con
l’atto di appello la richiesta di declaratoria di responsabilità
degli amministratori e della società era stata riferita a quanto
dedotto in primo grado, in cui si era chiesta la condanna ex art. 2395
c.c..
Inammissibile ha del pari giudicato la deduzione di fatti nuovi,
circostanze ed eccezioni e la produzione di documenti, perché
per la prima volta compiute con la comparsa conclusionale; e lo stesso
atto di impugnazione, laddove aveva l’appellante indicato le parti
censurate della sentenza con riguardo al rigetto della sua domanda
risarcitoria ed enunciato le doglianze in modo generico, senza indicare
lo specifico errore della decisione impugnata, nonché con
riferimento al capo che aveva rigettato la domanda di liberazione dal
vincolo ipotecario degli immobili, rimasto inoppugnato.
Ammissibili ha invece giudicato le altre censure, relative
all’accoglimento della domanda riconvenzionale, che ha però
disatteso, ritenendo infondata quella riferita alla pretesa di
risarcimento del danno non patrimoniale – che era stata contestata
sotto il profilo della carenza dei presupposti di cui all’art. 2059
c.c.- dal momento che l’opera diffamatoria, che aveva provocato
discredito morale e sociale agli amministratori, aveva trovato
riscontri probatori e in conferenze risultava la assenza dei
presupposti dell’art. 2059 c.c., essendo consentito al giudice civile
di accertare, anche incidentalmente, la sussistenza di un fatto
penalmente rilevante e consolidato essendo il principio che la tutela
dell’onere e della reputazione della persona è assicurata dalle
disposizioni civili, oltrechè penali, dell’ordinamento,
sicchè anche la diffamazione colposa assume rilievo per il
risarcimento del danno morale, pur in assenza di querela e di sua
rinunzia.
Ha dichiarato infondata la eccezione di genericità della domanda
risarcitoria ed ha giudicato corretta la liquidazione equitativa
compiuta dal primo giudice.
Del pari ha disatteso la doglianza riferita al cumulo – del quale era
stata dedotta la illegittimità- del danno morale con quello
patrimoniale.
Quanto, poi, all’assunto dell’appellante che gli amministratori fossero
in malafede, in particolare con riferimento alla mancata
predisposizione del regolamento condominiale con le tabelle millesimali
e al mancato adeguamento dei bilanci alla reale situazione creditoria
della cooperativa verso il Perrini, la corte territoriale ha
considerato che si era trattato pur sempre di un contrasto sulla misura
della contribuzione dovuta dall’appellante e che, comunque, era
risultata provata la attività posta in essere per la
approvazione delle nuove tabelle di ripartizione delle spese comuni,
che il Perrini aveva, tuttavia, contestato giudizialmente.
Propone ricorso per cassazione con cinque motivi illustrati da memoria
Perrini Pasquale; resistono con controricorso Pesce Luigi, D’Innella
Michele e Di Salvatore Cesare Fernando, che hanno anche proposto
ricorso incidentale condizionato con due motivi; non ha svolto difese
la cooperativa Lamione.
Il ricorrente ha, inoltre, depositato osservazioni scritte di udienza
alle conclusioni del P.M..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente principale denunzia la violazione
dell’art. 345 c.p.c..
Rileva che erronea e contraddittoria è la sentenza impugnata,
laddove afferma che le deduzioni e la richiesta risarcitoria ex artt.
96 c.p.c., 2043 c.c. 111 Cost. e 6 Conv. Europea per i Diritti
dell’Uomo fossero nuove; e ciò in quanto sarebbe la stessa
decisione a dare atto che in sede di precisazione delle conclusioni
erano state richiamate quelle formulate nell’atto di appello, come
reiterata era stata la richiesta di prova testimoniale articolata a
riguardo; mentre, essendosi con l’atto di appello invocata la
declaratoria di responsabilità degli amministratori e della
cooperativa ai sensi dell’art. 2395 c.c., con la conseguente condanna
al risarcimento dei danni, la domanda risarcitoria era rimasta
immutata, non essendo stati alterati l’oggetto sostanziale dell’azione
e i termini della controversia.
Con il secondo motivo si denunzia la violazione dell’art. 342 c.p.c.,
con riguardo alla ritenuta genericità dei motivi di appello.
Assume il ricorrente che in grado di appello il principio della
specificità dei motivi deve essere inteso senza rigori
formalistici, con l’effetto che, respinta la domanda risarcitoria in
primo grado, il giudice di appello può valutare liberamente ex
novo l’intero materiale probatorio, quand’anche l’appellante non abbia
analiticamente censurato l’omessa valutazione di ogni singolo mezzo di
prova.
Con i motivi terzo e quarto sono denunziate, rispettivamente, la
erronea e la falsa applicazione dell’art. 2059 c.c., con riferimento
alla domanda riconvenzionale.
Premesso (terzo mezzo) che per il risarcimento del danno richiesto da
controparte è necessario uno stretto legame tra fatto lesivo e
accertamento della sua antigiuridicità compiuto in sede penale,
rileva che l’affermazione della abusività degli atti e delle
funzioni degli amministratori, in relazione alla impossibilità
di raggiungere lo scopo sociale della cooperativa , era derivata dalle
ingiustizie subite e che nessuna iniziativa penale costoro avevano
assunto nei suoi confronti a tutela del loro onore.
Aggiunge (IV° mezzo) che il danno non patrimoniale suppone un fatto
reato e consiste in un turbamento ingiusto dello stato di animo o in
uno squilibrio o riduzione delle capacità intellettive della
vittima: situazioni nella specie non configurabili.
Contesta che il danno sia in re ipsa e lamenta il diverso trattamento
riservato alla sua pretesa risarcitoria, rispetto a quella avversa, e
la contraddizione della sentenza impugnata laddove, dopo avere ritenuto
inammissibile ogni contenuto nuovo della comparsa conclusionale,
proprio su di essa ha fondato gli argomenti negativi a suo carico.
Con il quinto motivo il ricorrente denunzia la erronea applicazione
degli artt. 1123 e 2395 c.c. e 345 c.p.c..
Deduce di avere lamentato nel giudizio di appello la mancata adozione
da parte degli organi della cooperativa del regolamento condominiale e
delle relative tabelle, nonché di avere mancato di adeguare i
bilanci alla reale situazione creditoria della cooperativa verso di
lui, nonostante le delibere del consiglio di amministrazione fossero
state dichiarate illegittime dal Tribunale di Bari, per violazione dei
criteri di ripartizione prescritti dall’art. 1123 c.c..
A fronte di tale doglianza la sentenza impugnata ha rilevato che dai
verbali di assemblee era risultata tutta l’attività posta in
essere dagli amministratori per l’approvazione delle nuove tabelle,
contro la quale il Perrini aveva opposto contestazioni in via
giudiziale, servendosi di ogni mezzo di tutela offerto
dall’ordinamento, al punto da escludere qualunque ipotesi di danno in
attesa dei giudizi innumerevoli da lui promossi.
Oppone al riguardo il ricorrente che “basterà osservare che
cambiato obtorto collo il criterio di quantificazione delle spese
gravanti sui beni comuni, peraltro di esclusiva proprietà del
dott. Perrini, l’illegittimità complessiva del sistema adottato
da lunghi anni dagli amministratori si sarebbe perpetuato, in assenza
di più efficaci iniziative, che potevano essere ex artt. 392 e
393 c.p., per il Perrini affidate esclusivamente al giudice civile”.
Con il ricorso incidentale condizionato i controricorrenti denunziano
con il primo motivo la violazione dell’art. 2947 c.c. e la omessa e
contraddittoria motivazione sul punto relativo alla eccezione di
prescrizione della pretesa risarcitoria di controparte.
Contestano che il termine di prescrizione possa avere decorrenza dalla
data di cessazione della carica di amministratore, come ritenuto dal
tribunale, e rilevano che quand’anche il dies a quo non fosse quello di
costituzione della società o di approvazione del “regolamento di
costruzione e programma di attività”, avrebbe comunque valore la
circostanza delle reiterate dimissioni degli amministratori, in
relazione alle quali si sarebbe verificata una soluzione di
continuità idonea a far maturare la prescrizione.
Con il secondo mezzo dichiarano di reiterare la istanza di manleva e
garanzia da parte della Cooperativa Lamione per la ipotesi di loro
condanna.
Preliminarmente dei ricorsi va disposta la riunione ai sensi dell’art.
335 c.p.c..
I primi due motivi del ricorso principale possono essere esaminati
congiuntamente, entrambi attenendo a profili processuali, sebbene di
diversa natura, del giudizio di appello.
L’uno e l’altro sono privi di fondamento, sebbene ammissibili,
pretestuosa appalesandosi la eccezione di inammissibilità,
svolta peraltro per tutti i motivi di ricorso, in considerazione del
fatto che la censura è stata formulata in termini,
rispettivamente, di “violazione dell’art. 360 I° c. n. 3 c.p.c., in
relazione all’art. 345 del medesimo codice”; e di “violazione dell’art.
360 I° c. c.p.c. in relazione all’art. 342 c.p.c.”, o per avere
dedotto errores in procedendo, cui l’art. 360 n 3 è estraneo.
Le doglianze hanno, infatti, avuto esplicito riferimento alle norme
processuali del giudizio di appello, di cui è stata denunziata
la violazione, e non ha alcun rilievo il modo espositivo con cui sono
state prospettate nelle rubriche all’uopo formulate, non essendo
ragione sufficiente a determinare la inammissibilità del ricorso
nemmeno la mancata indicazione delle norme, una volta che la
esposizione dei motivi sia coerente e completa e renda possibile al
giudice di legittimità di collegare ad essi le disposizioni da
applicare (Cass. 3997/2003; 4203 e 3941/2002; 3314/2001; 485/1999;
10015/1997).
Né ha maggior pregio la eccezione di inammissibilità,
dedotta sotto l’aspetto che le censure sono state sostanzialmente
proposte in termini di vizio di motivazione e non di violazione di
legge, senza che esso sia stato formalmente dedotto, posto che,
quand’anche ciò fosse vero, la impugnazione, per quanto
testè rilevato, trova egualmente ingresso, una volta che trovi
ragione per essere inquadrata nella tipologia delle censure deducibili
con il ricorso per cassazione.
In realtà i due motivi di gravame in esame ipotizzano vizi del
procedimento, in quanto lamentano l’errore del giudice di appello per
avere, nel primo caso, considerato domanda nuova quella proposta in
sede di precisazione delle conclusioni, in cui si era chiesto” ai sensi
dell’art. 96 c.p.c., 2043 c.c., 111 Cost. e 6 della Convenzione Europea
per i diritti dell’Uomo il riconoscimento dei gravi danni morali e
patrimoniali subiti dal Perrini, danneggiato dai numerosissimi ed
inutili giudizi provocati dalla cooperativa”, e nel secondo per avere
accolto “l’eccezione sollevata preliminarmente dagli appellati di
inammissibilità della impugnazione per mancata specificazione
dei motivi ai sensi dell’art. 342 c.p.c..”
A disattendere le due doglianze è la stessa loro prospettazione,
posto che non nega il ricorrente di avere in primo grado chiesto la
condanna degli amministratori della società a norma dell’art.
2395 c.c. e del pari conferma di non avere specificamente proposto
motivi di appello, assumendo per un verso che il mutamento della causa
petendi incide sulla domanda solo quando “venga(no) alterato(i)
l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia,
così da porre in essere, in definitiva, una pretesa nuova e
diversa per la sua intrinseca essenza da quella fatta valere in primo
grado”; e per l’altro che avendo l’appello carattere devolutivo pieno,
il principio della specificità dei motivi di gravame va inteso
senza rigori formalistici.
Omette però il Perrini di considerare che la formulazione di
richieste risarcitorie estranee a quella avanzata ai sensi dell’art.
2395 c.c. introduce non solo una nuova causa petendi, ma anche un
diverso petitum, l’una e l’altro fondati sulla deduzione di fatti
giustificativi nuovi rispetto a quelli della domanda introduttiva del
giudizio, posto che i gravi danni morali e patrimoniali subiti dal
Perrini erano stati, nella prospettazione delle conclusioni precisate
in appello, collegati ai “numerosissimi ed inutili giudizi provocati
dalla cooperativa”, che per nulla attengono agli atti dolosi o colposi
degli amministratori considerati dall’art. 2395 c.c., peraltro non
riferibili alla cooperativa quale soggetto di diritto, chiamato a
rispondere solo ai sensi delle norme da ultimo invocate (artt. 2043
c.c.; 96 c.p.c., ecc.).
Né contesta il ricorrente quanto la corte territoriale afferma,
con riguardo alla circostanza che in primo grado la
responsabilità dei convenuti sia stata riferita esclusivamente
alla violazione dell’art. 2395 c.c., per cui, al di là del fatto
che la domanda risultava improponibile nei confronti della
società, resta che di essa non fu dedotta altra causa petendi
nelle conclusioni a suo tempo rassegnate, come riportate a ff. 3 e 4
del ricorso, la cui discussione non ha interessato, peraltro, in
appello la liberazione del vincolo ipotecario dei beni di
proprietà del Perrini, la cui domanda il primo giudice aveva
rigettato, con decisione rimasta sul punto inoppugnata, e che avrebbe,
semmai, potuto giustificare, se reiterata, un titolo di
responsabilità della cooperativa, estraneo all’area dell’art.
2395 c.c..
Il ricorrente manca, comunque, del tutto di esplicitare in che modo la
nuova prospettazione risarcitoria possa ritenersi compresa in quella
originaria, tornando, ancora, nelle osservazioni scritte di udienza
alle conclusioni del P.M., a discutere dei “ben trentasei giudizi di
merito e di legittimità” intrapresi per vedersi riconoscere la
illegittimità dei criteri di ripartizione degli oneri
patrimoniali della mai operativa cooperativa, lamentando di essere
stato soccombente “nella causa di responsabilità ex art. 2395
c.c. finalmente avviata contro gli amministratori dell’ente sociale”
nonostante le plurime colpevoli omissioni a loro addebitate, con una
confusa sovrapposizione di fattispecie di responsabilità
processuale, quale è quella ex art. 96 c.p.c. e in via generica
correlabile con i disposti degli artt. 111 Cost. e 6 Convenzione dei
diritti dell’uomo – che peraltro avrebbero dovuto essere fatte valere
nei procedimenti in cui le sue ragioni erano state riconosciute- a
quella prevista dalla norma sostanziale invocata in questo giudizio.
Né ad escludere la novità della domanda può
bastare la circostanza che la Corte di Appello abbia preso atto che il
Perrini aveva nella precisazione delle conclusioni” reiterato la
richiesta di prova testimoniale articolata nel proposto gravame”, in
quanto quella prova egli non ha dedotto nel ricorso, così
incorrendo nella violazione del principio di autosufficienza, in tal
modo avendo impedito di verificare quale attinenza potessero avere le
circostanze articolate con la originaria causa petendi e con i fatti
portati a sostegno di essa e quale collegamento prospettassero tra
quella e la domanda che la sentenza impugnata ha giudicato nuova, in
quanto riferita a disposizioni normative diverse da quelle che
attengono alla gestione societaria.
Per ciò che riguarda, poi, la statuizione circa la
genericità di gran parte dei motivi di appello, censurata con il
II° mezzo di ricorso, è sufficiente a disattenderlo la
considerazione che il ricorrente, dopo avere affermato che per il
carattere devolutivo dell’appello il principio di specificità
dei motivi va inteso senza rigori formalistici, null’altro deduce, in
concreto, omettendo persino di precisare perché i motivi di
appello, giudicati generici, fossero invece specifici, sia pure nel
senso meno formalistico propugnato; e così di contrapporre
concrete critiche alle affermazioni della corte territoriale, secondo
cui egli si era “limitato a ribadire quanto già sostenuto nelle
difese di prime cure, enumerando la copiosa documentazione esibita a
sostegno delle proprie affermazioni (analiticamente esaminata dal
tribunale) ma senza mai convertire le generiche doglianze in valido e
specifico motivo di impugnazione, idoneo ad indicare l’errore che ha
inficiato il fondamento della decisone impugnata”.
Tale motivo, dunque, prima ancora che infondato si appalesa
inammissibile.
Nell’ordine logico si propone, anteriormente all’esame del terzo e del
quarto motivo – che attengono alle conclusioni raggiunte dalla corte di
merito in ordine alla domanda riconvenzionale – quello del quinto, con
il quale Perrini Pasquale, dopo avere denunziato la violazione degli
artt. 1123 e 2395 c.c. e dell’art. 345 c.p.c. , lamenta che la sentenza
impugnata abbia sottovalutato la condotta degli amministratori della
cooperativa, con riferimento al criterio di ripartizione delle spese
condominiali, su cui, pur dando atto che era intervenuta questa corte
di legittimità, accogliendo la sua tesi difensiva, nonché
altre conformi pronunce dell’autorità giudiziaria, che avevano
annullato le delibere societarie pregiudizievoli ai suoi interessi, ha
da un lato negato che egli potesse ritenersi integralmente esonerato da
ogni obbligo di contribuzione e dall’altro osservato che dai verbali
delel assemblee dei soci era risultata tutta l’attività posta in
essere dagli amministratori, per l’approvazione delle nuove tabelle di
ripartizione delle spese comuni, contro la quale il Perrini si era
puntigliosamente servito dei mezzi di tutela offerti dall’ordinamento
giuridico, sì da risultare egli stesso responsabile del danno
subito in attesa degli innumerevoli giudizi promossi.
A fronte di tale premessa, la censura così formulata –
“basterà osservare che, cambiato obtorto collo il criterio di
quantificazione delle spese gravanti sui beni comuni, peraltro di
esclusiva proprietà del dott. Perrini, l’illegittimità
complessiva del sistema adottato, da lunghi anni, dagli amministratori
si sarebbe perpetuato, in assenza di più efficaci iniziative,
che potevano essere ex artt. 392 e 393 c.p. per il Perrini, affidate
esclusivamente al giudice civile: come peraltro ha fatto” – manifesta
la sua intrinseca inconsistenza.
Se, infatti, il fondamento dell’addebito, mosso nei gradi di merito,
come si evince da quanto la sentenza impugnata espone a f.18, è
stato la mala fede “attesa la loro cultura e professionalità che
impediva di ignorare la circostanza affermata da sentenze passate in
giudicato, secondo cui dovevano essere adottati criteri di ripartizione
delle spese comuni secondo il principio di utilità di cui
all’art. 1123 c.c. sicchè gli amministratori e la società
erano tenuti a predisporre un regolamento condominiale con le tabelle
millesimali e ad adeguare i bilanci alla reale situazione creditoria
vantata dalla Lamione nei confronti del Perrini”, nessuna critica
risulta rivolta alle argomentazioni della corte territoriale, che, dopo
avere considerato che il contrasto verteva sulla misura della
contribuzione dovuta dal ricorrente e che era risultata tutta
l’attività degli amministratori per fare approvare le nuove
tabelle di ripartizione, contrastata dai numerosi giudizi proposti da
lui, ha concluso” è comunque certo che dagli atti processuali in
nessun modo risulta(no) la mala fede e la illiceità del
comportamento degli amministratori e della società”.
Affermazione alla quale nulla ha opposto il ricorrente, al di là
della autogiustificazione di avere dovuto assumere le iniziative
giudiziarie per evitare che il sistema adottato dagli amministratori si
perpetuasse, che è del tutto in conferente, sia laddove censura
la conclusione dei giudici di merito sulla assenza di mala fede, sia
laddove lamenta l’accoglimento della domanda riconvenzionale, di cui ai
motivi terzo e quarto.
Con essi viene investito il punto della decisione che ha riguardato la
pretesa risarcitoria degli amministratori, accolta dai giudici di
merito.
La Corte di Appello di Bari ha condiviso l’opinione del tribunale in
ordine al fondamento della affermazione di responsabilità, in
relazione alla condotta “dolosamente diffamatoria” posta in essere, a
loro carico, dal Perrini, attraverso un programma denigratorio e
vessatorio, fatto di numerosi esposti e denunzie e manifestato con
espressioni che avevano procurato discredito morale e sociale e lesione
della reputazione personale a ciascuno di essi; ed ha considerato che,
una volta provata tale lesione, il danno è in re ipsa,
realizzandosi una perdita di tipo analogo a quella indicata dall’art.
1223 c.c., costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore
della persona umana, alla quale il risarcimento deve essere
commisurato, sia pure in termini di danno biologico.
Pertanto ha ritenuto che fosse risarcibile il danno non patrimoniale,
ai sensi dell’art. 2059 c.c., tenuto conto dei principi che regolano i
rapporti tra azione civile e azione penale, i quali consentono di
accertare, anche in via incidentale, la sussistenza di un fatto a
rilevanza penale, e dell’ulteriore principio, consolidato, che la
tutela dell’onere e della reputazione della persona, contenuta nel
vigente ordinamento, consente la qualificazione come illecito civile
della diffamazione colposa e ammette che venga risarcito il danno
morale, anche in mancanza di querela o in caso di rinunzia.
Ha poi accertato il danno patrimoniale nelle attività
supplementari cui gli amministratori erano stati costretti- rispetto ai
già gravosi oneri di gestione- “dovendo rintuzzare ad ogni
piè sospinto gli ingiusti attacchi condotti dall’attore,
così sottraendo tempo ed energie alle attività libero
professionali dai medesimi esercitate”, ed ha altresì
considerato corretta la utilizzazione del criterio equitativo, essendo
proprio nel campo della lesione dei diritti della personalità e
dell’onere che la valutazione equitativa trova frequente applicazione,
sulla base dei parametri riferiti da elementi di carattere soggettivo,
quali la notorietà e la personalità dell’autore e del
soggetto passivo del fatto illecito, e ad elementi di carattere
oggettivo, quali la gravità delle offese.
Ed ha concluso che corretta era stata la affermazione di questi
principi da parte del tribunale, allorché aveva “ravvisato la
sussistenza sia del danno patrimoniale sia del danno morale,
quantificandone il conseguente obbligo risarcitorio ed esponendone
congrua motivazione”.
A fronte di tali argomentazioni il ricorrente, dopo avere rilevato che
il fatto lesivo deve essere antigiuridico e deve essere accertato in
sede penale; che nessuna iniziativa in quella sede gli amministratori
avevano assunto nei suoi confronti e che le sue affermazioni in ordine
ai loro abusi erano conseguite alle ingiustizie subite (III°
motivo), ha osservato che il giudice di primo grado aveva mancato di
trasmettere di ufficio le plurime notitiae criminis al Procuratore
della Repubblica e negato che comunque gli amministratori avessero
ricevuto ingiusti turbamenti nel loro stato d’animo, tali da realizzare
il danno morale, contestando infine che il danno sia in re ipsa
(IV° motivo).
Le deduzioni svolte, che omettono qualunque censura alle valutazioni in
fatto e in diritto concernenti la liquidazione del danno patrimoniale,
per ciò che attiene al non patrimoniale sono assolutamente prive
di indicazioni in ordine alle ragioni giuridiche contrapponibili ai
rilievi della sentenza impugnata, tanto da appalesarsi apodittiche e
generiche.
La corte di merito ha fatto, comunque, corretto uso dei principi
affermati da questo giudice di legittimità e dal giudice delle
leggi, della ricostruzione dell’illecito a rilevanza penalistica, al
punto da non costituire un limite al risarcimento del danno di cui si
tratta, in relazione al quale non interessa che il fatto reato sia
effettivamente esistente in tutti i suoi elementi e che sia punibile,
ma solo che possa astrattamente configurarsi come illecito penale,
tanto da poter maggiormente turbare nella sua materialità e
coscienza sociale, con l’effetto che, quando possa essere configurato
astrattamente come lesione penalmente rilevante, la contemporanea
lesione dell’interesse civile deve essere risarcita in termini di danno
non patrimoniale (Cass. SS. UU. 6651/1982), alla più evoluta
identificazione dell’area di risarcibilità di quest’ultimo, che
ha fatto perdere all’art. 2059 c.c. la funzione sanzionatoria, per
fargli assumere solo quella tipizzante dei singoli casi di
risarcibilità di siffatto pregiudizio, al punto che “ il
riferimento al reato contenuto nell’art. 185 c.p., in coerenza con la
diversa funzione assolta dalla norma non postula più, come si
riteneva per il passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di
reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua
oggettività all’astratta previsione di una figura di reato”
(Corte Cost. 11.7.2003 n. 233).
E a prendere atto di tale evoluzione hanno concorso numerose recenti
decisioni di questa Corte, che hanno ribadito che il danno non
patrimoniale non è più identificabile con il solo danno
morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal
turbamento dell’animo, transeunte, determinato dal fatto illecito
reato, ma deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni
ipotesi in cui si verifichi la ingiusta lesione di un valore inerente
alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale conseguano
pregiudizi non suscettivi di valutazione economica, senza alcuna
soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata
all’art. 185 c.p. (Cass. 16716, 16305, 12124, 8828, 8823, 7283, 7282,
7281/2003); trovando il pregiudizio obiettivo ai diritti che rientrano
nei fondamentali attributi della personalità umana, come il
decoro, il prestigio, la dignità e la salute, ristoro in
applicazione dell’art. 2043 c.c. e fondamento normativo nell’art. 2
Cost., che riconosce i diritti inviolabili della persona, la cui
rilevanza costituzionale è espressa anche attraverso l’immagine,
l’onore, il nome, la reputazione, la riservatezza, al di là,
dunque, dei limiti previsti per il risarcimento dei danni non
patrimoniali derivanti da reato (Corte Cost. 479/1987; 184/1986).
Infondato è, dunque, l’assunto che l’antigiuridicità del
fatto lesivo debba essere accertata in sede penale, mentre è
irrilevante che nessuna iniziativa penalistica abbiano assunto gli
amministratori, come è irrilevante la dedotta circostanza che il
Perrini avesse ritenuto di avere subito ingiustizie, posto che il suo
diritto di critica all’operato della società e dei suoi organi
gestori andava, come non ha mancato di rilevare la corte di merito –
senza che il punto sia stato oggetto di impugnazione – contenuto nel
rispetto del principio del neminem laedere, invece violato con l’uso di
espressioni diffamatorie.
Quanto, infine, alla affermazione che il danno d cui si tratta sia in
re ipsa, la censura proposta, nel momento in cui si limita ad osservare
laconicamente che è sempre richiesta la prova del danno morale,
non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, che,
conformandosi alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 6507/2001;
11103/1998; 2576/1996), ha osservato “che ove il fatto illegittimo
abbia dato luogo ad una lesione della reputazione personale… una volta
provata detta lesione il danno è in re ipsa, in quanto si
realizza una perdita di tipo analogo a quella indicata dall’art. 1223
c.c., costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore
della persona umana, alla quale il risarcimento deve essere commisurato
sia pure in tema di danno biologico”, ed ha aggiunto che non può
revocarsi in dubbio che nella specie vi sia stata la lesione del
prestigio professionale e dell’onere degli amministratori, intaccati
dalla moltitudine di esposti e denunce a firma del Perrini.
Affermazioni, che, lungi dal negare la esigenza della prova del
sofferto danno morale, evidenziano la sufficienza della accertata
lesione della reputazione personale ad integrare, di per sé, la
prova anche della sua riduzione o perdita.
Il ricorso principale va, dunque, respinto, e per l’effetto va
dichiarato assorbito quello incidentale condizionato.
Le spese del processo seguono la soccombenza e si liquidano in Euro
10.100, di cui 100 per esborsi e 10.000 per onorari.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara
assorbito l’incidentale condizionato; condanna il ricorrente principale
alle spese processuali in euro 10.100,00 di cui 100,00 per esborsi e
10.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come
per legge.
Roma, 20.12.2004.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 15 GENNAIO 2005
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