SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Il 31 dicembre 1993 il sig. Lorenzo Patrignani cedette al fratello
Luciano la propria quota di partecipazione nella società Eredi
di Patrignani Solideo di Patrignani Lorenzo & C.. Nel contratto di
canalone fu indicato il prezzo di £. 1.000.000, ma il sig.
Lorenzo Patrignani, assumendo essere stato in realtà pattuito il
maggior corrispettivo di £. 70.000.000, di cui sole £.
17.000.000 effettivamente versato dall'acquirente, con atto notificato
il 24 gennaio 1997 citó in giudizio il fratello dinanzi al
Pretore di Pesaro per sentirlo condannare in proprio favore al
pagamento delle ulteriori rate di prezzo già scadute, ammontanti
a complessive £. 39.000.000, oltre agli interessi ed al
risarcimento del maggior danno per svalutazione monetaria.
Il sig. Luciano Patrignani resistette alla pretesa del fratello ed il
pretore, con sentenza depositata il 4 maggio 1998, avendo ritenuto
inammissibili le prove testimoniali dedotte dall'attore e tardiva la
documentazione da costui prodotta in causa, rigettò la domanda
compensando le spese di lite.
Chiamato a pronunciarsi sull'impugnazione proposta dal sig. Lorenzo
Patrignani, il Tribunale di Pesaro, con sentenza resa pubblica il 26
aprile 2000, confermò integralmente la decisione di primo grado
e condannò l'appellante al pagamento delle spese del gravame.
Ritenne infatti il tribunale che il disposto dell'art. 1417 c.c. non
consentisse di dare ingresso alla prova testimoniale formulata
dall'attore per far valere la simulazione tra le parti senza che fosse
configurabile una ragione di illiceità, del contratto
dissimulato; ed aggiunse che neppure poteva esser presa in
considerazione la documentazione versata in atti a dimostrazione di un
preteso principio di prova scritta, essendo la relativa produzione
intervenuta dopo la precisazione della conclusioni e quindi quando era
ormai scaduto il termine perentorio fissato dall'art. 184 c.p.c..
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il sig.
Lorenzo Patrignani, prospettando tre motivi d'impugnazione.
Il sig. Luciano Patrignani ha resistito Con controricorso illustrato da
successiva memoria.
All'esito dell'odierna udienza il difensore della ricorrente ha anche
depositato osservazioni scritto in replica alle conclusioni del
pubblico ministero.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente, in primo luogo, denuncia la violazione degli artt.
1417 e 2722 c.c. (nonché difetti di motivazione dell'impugnata
sentenza) sostenendo che - contrariamente a quanto ritenuto dal
tribunale - dette norme non impedirebbero di dare la prova per
testimoni di una pattuizione intesa a celare una parte del contatto.
In secondo luogo, lamentando la violazione degli artt. 1414, 1417, 2124
c.c., 112, 115 e 184 c.p.c., il ricorrente afferma che il tribunale
avrebbe dovuto prendere in esame il principio di prova scritta
documentato in atti, giacché nessuna eccezione era stata a suo
tempo sollevata dal convenuto in ordine alla regolarità e
tempestività della relativa produzione.
In terzo luogo, facendo riferimento all'art. 91 c.p.c. si duole della
condanna alle spese dell'appello.
2. Il procuratore generale ha preliminarmente eccepito
l'inammissibilità del primo motivo di ricorso, concernente la
mancata ammissione dei capitoli di prova testimoniale dedotti nel
giudizio di merito, per non essere stati tali capitoli compiutamente
riportati nel ricorso medesimo.
L'eccezione non appare tuttavia fondata.
E' ben noto l'orientamento costante di questa corte secondo cui il
ricorso per cassazione, nel caso in cui si censuri con esso l'omessa
ammissione di prove testimoniali da parte dal giudice di merito, deve
contenere a pena di inammissibilità - in ossequio al principio
di autosufficienza - l'indicazione del capitolato di prova (cfr., tra
le tante, Cass. 9 maggio 2000, n. 5876). Tuttavia occorre rilevare
come, nel presente caso, il vizio dedotto dal ricorrente non afferisca
ad un difetto di motivazione in cui il giudice di merito sarebbe
incorso nel vagliare il contenuto di uno specifico capitolato di prova
testimoniale per decidere sull'inammissibilità o irrilevanza di
esso (nel qual caso è indubbio che il suaccennato principio di
autosufficienza avrebbe reso necessaria l'esposizione nel ricorso del
contenuto di detto capitolato di prova). Il ricorrente qui invece si
duole di un errore di diritto che il giudice di merito avrebbe commesso
escludendo la possibilità stessa per la parte di avvalersi del
mezzo della prova testimoniale in relazione al thema decidendum dedotto
in causa; un asserito errore che, dunque, ha impedito già in
sede di merito qualsiasi esame del concreto contenuto dei capitoli di
prova articolati dall'attore.
Il vizio di legittimità così denunciato non si ricollega
dunque in alcun modo allo specifico contenuto di quei capitoli di
prova, ma si colloca invece su un piano logico preliminare alla
relativa valutazione di merito. Per giudicare dell'esistenza di un tal
vizio non si richiede quindi che questa corte, attraverso la lettura
del ricorso, sia resa edotta del modo in cui la prova è stata
formulata. Perciò la mancata riproduzione dei capitoli di prova
nel ricorso non ne intacca la autosufficienza.
3. Il primo motivo di ricorso è dunque ammissibile. Non è
però fondato.
Questo collegio non ignora l'esistenza di un filone giurisprudenziale,
sviluppatosi nel corso di un notevole arco di tempo, secondo il quale,
nell'ipotesi di simulazione relativa parziale, il contratto conserva
inalterati i suoi elementi, ad eccezione di quello interessato dalla
simulazione, con la conseguenza che, non essendo esso né nullo
nè annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti, gli
elementi negoziali interessati dalla simulazione potrebbero essere
sostituiti o integrati con quelli effettivamente voluti dai contraenti.
Donde la conseguenza che la prova per testimoni della simulazione del
prezzo della vendita non incontrerebbe fra le parti i limiti dettati
dall'art. 1417 c.c., nè contrasterebbe col divieto posto
dall'art. 2722 c.c., in quanto la pattuizione di celare una parte del
prezzo non potrebbe essere equiparata, per mancanza di una propria
autonomia strutturale o funzionale, all'ipotesi di dissimulazione del
contratto. La relativa prova avrebbe, insomma, scopo e natura
semplicemente integrativi, e ció consentirebbe di darla anche
mediante deposizioni testimoniali (si vedano Cass. n. 4366 del 1978, n.
5975 del 1987, n. 526 del 1998, n. 3857 del 1996, n. 11055 del 1999 e
n. 10009 del 2003).
Siffatto orientamento non incontra però il favore di una parte
rilevante della dottrina, la quale afferma invece
l'applicabilità del divieto disposto dall'art. 2722 c.c. alla
pattuizione di un prezzo diverso da quello apparente e sostiene
l'inammissibilità tra le parti della prova per testi di tale
accordo, perché esso comunque integra un fenomeno simulatorio.
Ed, in effetti, gli argomenti sui quali si basa la giurisprudenza sopra
richiamata non paiono in grado di reggere ad un più approfondito
esame critico.
Per una corretta impostazione del problema è opportuno prendere
le mosse dal disposto dell'art. 2722 c.c.. Tale norma esclude che tra
le parti si possa dare per testimoni la prova di un patto aggiunto o
contrario al contenuto di un documento, ove si alleghi che la
stipulazione del patto sia stata anteriore o contemporanea alla
redazione del documento medesimo. Al pari che in tutte le altre
disposizioni sui limiti della prova testimoniale, traspare qui un certo
grado di ragionevole diffidenza del legislatore nei riguardi di un tale
genere di prova, soprattutto quando essa sia volta a sormontare
risultanze assai meno controvertibili quali quelle documentali. E'
chiaro, cioè, l'intento di impedire che rapporti giuridici tra
le parti, quando documentalmente provati, possano essere alterati da
prove per testi, appunto perché quante non offrono la stessa
garanzia di veridicità di quella documentale e perché non
è logico presumere che, una volta scelta la via della
documentazione degli accordi contrattuali tra esse intercorsi, le parti
ne abbiano affidato la modifica ad intesa meramente verbali.
Sicchè ben si comprende anche la ragione del superamento dal
suindicato limite alla prova testimoniale quando, nei casi
specificamente contemplati dal successivo art. 2724, quella negativa
presunzione possa invece essere superata.
Il limite alla prova testimoniale di cui si sta discutendo, per le
ragioni che vi sono sottese, è quindi destinato ad operare in
qualsiasi caso si sostenga esservi una divaricazione tra il contenuto
di un contratto, formalmente consacrato in un documento, ed una diversa
pattuizione, ugualmente pregna di contenuto negoziale, che nel
documento medesimo non sia riportata e di cui, tuttavia, si assuma
osservi stata una stipulazione anteriori o contemporanea.
Il fenomeno della simulazione contrattuale, sia cosa assoluta o
relativa, non esaurisce l'area di possibile applicazione di detto art.
2722, ma sicuramente ne occupa una larga parte. Ed, infatti, nel
disciplinare ex professo i limiti della prova testimoniale dalla
simulazione, il legislatore non ha dettato una disposizione in
sè compiuta ad autosufficiente, ma si è unicamente
preoccupato di chiarire, nell'art. 1417 c.c., che quella prova è
ammessa senza limiti tanto nel caso di domanda proposta da creditori o
da terzi quanto nell'ipotesi in cui, essendo proposta dalle parti, la
domanda sia volta a far valere l'illiceità dal contratto
dissimulato. I limiti cui il citato art. 1417 allude - e che consente
di superare solo nelle suddette particolari situazioni - sono,
ovviamente, quelli dettati dagli artt. 2721 e segg., od in particolare
quelli già sopra richiamati a proposito dai patti aggiunti o
contrari al contenuto di un documento.
Stando così la cose, quando la prova tra le parti della
simulazione di un contratto documentale non riguardi l'illiceità
del contratto dissimulato, è evidente che essa incontra i
suaccennati limiti di prova (vedi anche, in tal senso, Cass. n. 16021
del 2002 e n. 4073 del 1992). Ma appare difficile negare che tali
limiti operino anche in presenza di una simulazione soltanto parziale,
ogni qual volta questa si traduca nell'allegazione di un accordo
ulteriore e diverso da quello risultante dal contratto, comunque
destinato a modificare l'assetto degli interessi negoziali riportato
nel documento sottoscritto dalle parti. Nè certo sarebbe
ragionevole sostenere che la clausola di determinazione del prezzo non
abbia rilevanza centrale nell'economia degli interessi regolati
mediante un contratto di compravendita.
D'altronde, affermare che la pattuizione con cui le parti convengano un
prezzo diverso da quello indicato nel documento contrattuale da esse
sottoscritto non integrerebbe gli estremi di una vera e propria
simulazione, avendo scopo meramente integrativo, non risolve in alcun
modo il problema.
Se anche cosi fosse, infatti, resterebbe comunque difficilmente
eludibile il rilievo per cui una tale pattuizione si pone in contrasto
con il contenuto di un documento contrattuale contestualmente stipulato
e, come tale, ricade nella previsione dell'art. 2722 c.c..
La differenza che l'orientamento giurisprudenziale qui non condiviso
introduce - tra la prova della simulazione, soggetta agli anzidetti
limiti legali, e la prova di patti meramente integrativi del contratto,
che detti limiti non incontrerebbe perché quei patti
difetterebbero di una propria autonomia strutturale o funzionale - non
sembra perciò trovare un sufficiente appiglio: né nella
lettera del citato art. 2722, che ai riferisce ai "patti aggiunti o
contrari al contenuto di un documento", e quindi anche a quelli di
carattere integrativo se essi contengano elementi nuovi o contrastanti
con quelli documentati; nè nella già richiamata ratio
legis, che evidentemente abbraccia ogni ipotesi nella quale si pretenda
di dare, per mezzo di testimoni, la prova di obblighi o diritti di
portata diversa da quanto risulta da accordi consacrati in un documento
e perciò dotati di un grado di certezza non superabile con quel
genere di prova.
E’ dunque corretta l'affermazione del tribunale che ha negato ingresso
alla prova testimoniale dedotta dall'attore (poi appellante) al fine di
dimostrare che le parti avevano pattuito un prezzo di cessione delle
quote sociali diverso da quello documentato.
E’ appena il caso di aggiungere che il giudice di merito ha
altresì chiarito come neppure potesse nella specie invocarsi, al
fine di superare gli anzidetti limiti di ammissibilità dalla
prova testimoniale, il preteso carattere illecito della pattuizione
dissimulata, tale non essendo quella eventualmente volta a frodare il
fisco. A questo aspetto della questione si fa fugacemente accenno nel
ricorso, ma senza formulare una censura dotata del necessario grado di
specificità, onde su di essa non occorre qui ulteriormente
soffermarsi.
4. Neanche il secondo motivo di ricorso é accoglibile.
Il ricorrente afferma che la tardiva produzione di documenti nel
giudizio di primo grado, dopo la scadenza del termine previsto
dall'art. 184 c.p.c., sarebbe dipesa dall'impossibilità di
disporre di tali documenti in epoca precedente. Ma già il
tribunale ha rilevato trattarsi di affermazione del tutto immotivata,
né il ricorrente deduce o dimostra in questa sede di avere
invece fornito in proposito elementi che il tribunale avrebbe omesso di
valutare.
Il medesimo ricorrente sostiene però anche che, in ogni caso,
l'inammissibilità dei documenti tardivamente prodotti non
avrebbe potuto esser rilavata dal primo giudice, posto che nulla la
controparte aveva al riguardo eccepito.
La tesi, però, non ha pregio. L'orientamento giurisprudenziale
talvolta manifestatosi in passato, secondo cui, trattandosi di
disciplina dettata nell'interesse delle parti, l'inosservanza delle
disposizioni che delimitano il momento in cui è possibile
produrre in giudizio documenti deve ritenersi sanata qualora la
controparte non abbia sollevato la relativa eccezione in sede di
discussione dalla causa dinanzi al collegio (cfr., tra le altre, Cass.
n. 12139 del 2002 e n. 3892 del 2002), non può trovare
applicazione anche nei procedimenti - come quello in esame - instaurati
dopo il 30 aprile 1995, regolati dalle nuove disposizioni introdotte
con legge n. 353 del 1990. E' noto, infatti, che con tali nuove
disposizioni il legislatore ha inteso segnare più nette
scansioni tra la fase processuale destinata all'individuazione del
thema decidendum, quella in cui si deve definire il thema probandum ed
il momento della successiva decisione. Assume particolare rilievo, in
un simile contesto, la previsione del novellato art. 184 c.p.c., che
non solo prevede l'eventuale assegnazione alla parti di un termine
entro cui dedurre prove e produrre documenti, ma espressamente
stabilisce il carattere perentorio di detto termine (art. cit., c.
2°). Il che vale a sottrarre siffatto termine alla
disponibilità dello parti, stante il disposto dall'art. 153
c.p.c., come del resto implicitamente e confermato anche dal successivo
art. 184-bis, che contempla la possibilità di rimessione in
termini, ma solo ad istanza della parte interessata ed a condizione che
questa dimostri di essere incorsa nella decadenza per una causa ad essa
non imputabile.
Correttamente, quindi, il pretore ha considerato inutilizzabili i
documenti prodotti dall'attore dopo la scadenza del termine anzidetto,
ed altrettanto correttamente il tribunale ha rigettato il gravame con
cui il medesimo attore si doleva di quella decisione.
Giova aggiungere che dalla motivazione della sentenza di secondo grado
non si deduce che l'appellante abbia poi nuovamente prodotto i medesimi
documenti anche nel giudizio d'appello. Neppure dal ricorso si ricava
con chiarezza se una tale rinnovata produzione vi sia stata, ed in qual
momento: vi si legge di una "documentazione depositata in secondo grado
alla udienza di precisazione delle conclusioni e quindi oltre il
termine di cui all'art. 184 c.p.c."; ma verosimilmente si tratta di un
lapsus, intendendo il ricorrente riferirsi alla tardiva produzione
effettuata in primo grado. Il che, per un verso, mette in dubbio la
stessa ammissibilità della doglianza formulata al riguardo con
l'atto d'appello (giacché non sussisteva comunque una ragione di
rimessione al primo giudice, né quello di secondo grado, in
difetto dei documenti in questione, avrebbe comunque potuto fondare su
di essi l'eventuale accoglimento del gravame del merito) e, per altro
verso, esclude si debba in questa sede affrontare la questione
dell'ammissibilità di documenti nuovi in secondo grado, a norma
dell'art. 345 c.p.c.: questione infatti non espressamente sollevata nel
motivo di ricorso.
5 . L'ultimo motivo di ricorso è manifestamente infondato,
perché la pronuncia del tribunale in tema di spese processuali,
lungi dal contrastare col disposto dell'art. 91 C.p.c., ha fatto
puntuale applicazione del criterio della soccombenza in detta norma
enunciato.
6. Anche in considerazione della relativa novità (rispetto al
precedente panorama giurisprudenziale) della decisione assunta in
ordine al primo motivo di ricorso, stima equo la corte compensare tra
le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del
giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, il 10 dicembre 2003.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 19 MARZO 2004
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