SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il dr. Sergio Bottega, agente di cambio in Venezia, fu dichiarato
fallito dal tribunale di quella città con sentenza del 7 agosto
1995.
Il curatore del fallimento rilevò che il dr. Bottega, in data 19
aprile 1994, aveva costituito un pegno su titoli di stato, in favore
del Banco di Napoli, a garanzia dello scoperto di un conto corrente a
lui intestato, per un importo di complessive £. 5.484.000.000; ma
che siffatti titoli, posti in gestione centralizzata presso la Banca
d'Italia, nel luglio 1995 erano risultati in parte diversi e di minore
ammontare rispetto a quelli originariamente costituiti in pegno.
Rilevò, inoltre, che il Banco di Napoli, in data 5 maggio 1995,
aveva concesso al dr. Bottega un finanziamento in marchi tedeschi per
un importo corrispondente a £. 2.019.600.000, ma che poi, appreso
della sospensione dell'agente di cambio per irregolarità ad
opera della Consob, aveva revocato l'affidamento ed aveva proceduto
alla vendita dei titoli, così da estinguere le passività
accumulate.
Sulla scorta di tali premesse, con atto notificato il 22 maggio 1998,
il curatore citò in giudizio il Banco di Napoli dinanzi al
tribunale di Venezia e chiese: che fosse dichiarata la nullità o
l'inopponibilità del pegno acceso nell'aprile del 1994 per
mancata individuazione dei titoli che ne avevano formato oggetto; che
fosse accertata l'illiceità della vendita dei suaccennati
titoli, in quanto eseguita per ripianare un debito da finanziamento in
valuta, diverso da quello per il quale il pegno era stato costituito;
che l'atto costitutivo del pegno fosse revocato, sussistendo le
condizioni previste dall'art. 67 della legge fallimentare, con
conseguente condanna del Banco di Napoli a restituire i titoli ricevuti
ed i relativi frutti. Chiese, inoltre, ma in via subordinata, che fosse
revocato, ai sensi del citato art. 67 della legge fallimentare, anche
il pagamento del finanziamento in valuta sopra menzionato e che,
quindi, l'istituto di credito convenuto fosse condannato a
corrispondere al fallimento l'importo di £. 1.988.357.455, oltre
agli interessi ed al risarcimento del danno per svalutazione monetaria.
Il Banco di Napoli, dopo essersi costituito in giudizio per resistere
alle domande contro di esso proposto, con una prima memoria depositata
il 14 novembre 1998 produsse copia dell'estratto conto il cui scoperto
era stato garantito con il pegno costituito in data 19 aprile 1994: con
una successiva memoria del 17 febbraio 1999 depositò copia di
lettere dalle quali risultava la concessione in pegno di ulteriori
titoli, da parte del medesimo dr. Bottega, in data 28 dicembre 1994.
La curatela fallimentare eccepì l'inopponibilità di
questo ulteriore pegno per difetto di data certa.
Il tribunale, con sentenza del 10 marzo 2000, dopo aver rilevato che
l'originario pegno, costituito il 19 aprile 1994, risultava estinto
già nel luglio di quello stesso anno, ritenne che il successivo
contratto di pegno, stipulato tra le medesime parti il 28 dicembre
1994, fosse privo di data certa; ne dichiarò poi d'ufficio la
nullità, per insufficiente determinazione dei titoli dati in
garanzia, o comunque l'inopponibilità al fallimento, con
conseguente condanna del Banco di Napoli alla restituzione dei titoli e
dei frutti.
Il Banco di Napoli propose appello, negando che il giudice avesse il
potere di pronunciarsi d'ufficio sulla validità e
sull'opponibilità di un contratto di pegno diverso da quello cui
la parte attrice si era riferita in citazione. Insistette nel
sostenere, comunque, la validità e la certezza della data del
contratto in questione.
Il fallimento ripropose, anche in forma di appello incidentale, le
domande e le eccezioni tutte già formulate in primo grado.
La Corte d'Appello di Venezia, con sentenza depositata il 24 luglio
2002, premesso che le domande avanzate in primo grado dalla curatela
non erano riferibili al contratto di pegno del 28 dicembre 1994, ha
ritenuto che non potesse il tribunale dichiarare d'ufficio la
nullità di tale contratto senza così violare il principio
di corrispondenza tra quanto richiesto e quanto pronunciato. Esaminando
le domande ribadite in secondo grado dal fallimento, la corte si
è però ugualmente soffermata a valutare se il pegno da
ultimo menzionato avesse o meno il requisito della data certa, e lo ha
escluso ritenendo a tal fine insufficiente il timbro postale apposto su
documenti spediti dalla banca a sé medesima. Ne ha dedotto che
l'estinzione dei debiti del dr. Bottega, mediante la vendita dei titoli
ordinata dal debitore e conseguente accredito del ricavato sul conto
corrente a lui intestato, non potesse trovare nel precedente rapporto
di pegno una valida giustificazione, trattandosi oltre tutto di debiti
non garantiti da quel pegno. Ha perciò giudicato che, ricorrendo
tutte le condizioni a tal fine richieste dall'art. 67, comma 2, l.
fall., dovesse essere accolta la domanda subordinata con cui la
curatela aveva chiesto la revoca del pagamento; e quindi, in parziale
riforma della sentenza di primo grado, dopo aver disatteso le altre
domande del fallimento, ha revocato unicamente l'anzidetto pagamento di
£. 1.988.375.455 ed ha condannato il Banco di Napoli a
corrispondere alla controparte la somma di
€. 1.026.910,20, oltre agli interessi ed alle spese di entrambi i gradi
del giudizio.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il Banco di Napoli,
prospettando due motivi di censura.
Resiste la curatela del fallimento, formulando altresì ricorso
incidentale articolato in sei motivi (l'ultimo dei quali condizionato),
cui il banco di Napoli a propria volta replica con controricorso.
Entrambe le parti, hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi proposti avverso il medesimo provvedimento debbono
preliminarmente essere riuniti, come prescrive l'art. 335 c.p.c..
2. Per ragioni di ordine logico appare preferibile esaminare anzitutto
i primi quattro motivi del ricorso incidentale, che tutti in vario modo
attengono alle domande proposte in via principale dalla curatela del
fallimento nell'atto introduttivo del giudizio al fine ultimo di
conseguire la restituzione dei titoli costituiti in pegno dal dr.
Bottega.
2.1. Il fallimento si duole, in primo luogo, della violazione degli
artt. 112 e 183 c.p.c., nonché 2797 c.c..
La doglianza si riferisce al mancato esame nel merito delle domande con
cui lo stesso fallimento aveva inteso far accertare la nullità,
o l'inopponibilità alla massa, dell'originario pegno costituito
dal dr. Bottega nell'aprile del 1994. Il tribunale, prima, e la corte
d'appello, poi, hanno ritenuto tali domande superate dalla circostanza
che quel pegno si era estinto già nel luglio dello stesso anno,
per avvenuto pagamento del debito a garanzia del quale era sorto. Il
fallimento assume, però, che un'accezione in tal senso non era
stata tempestivamente sollevata dalla difesa di parte convenuta e
censura l'impugnata sentenza sotto due profili: per aver affermato che
l'indicata circostanza integrava un fatto costitutivo della domanda e
non postulava quindi un onere di formale eccezione da parte del
convenuto; per aver ravvisato, comunque, la proposizione implicita
della relativa eccezione nella mera produzione di documenti inerenti
alla situazione del conto corrente acceso dal dr. Bottega presso il
Banco di Napoli.
2.1.1. Il primo dei prospettati profili di doglianza - certamente
ammissibile, perché riferito ad una questione già a suo
tempo prospettata nella comparsa di costituzione in appello del
fallimento - non è fondato (e ciò rende superfluo l'esame
del secondo profilo).
La sopravenuta inesistenza o la cessazione degli effetti di un atto
giuridico costituiscono certamente oggetto di necessaria eccezione da
parte del convenuto, se gli effetti di quell'atto siano stati posti
dall'attore a fondamento di una propria pretesa nei riguardi del
convenuto medesimo. Quando, invece, come nel presente caso, l'azione
sia volta a far accertare l'invalidità o l'inefficacia di un
atto, la circostanza che questo sia tuttora in essere o che lo siano i
suoi effetti costituisce uno dei presupposti indispensabili per dare
senso alla domanda ed all'interesse che la muove. Ne consegue che il
rilievo della compiuta estinzione degli effetti dell'atto, in
quest'ultima ipotesi, se immediatamente ricavabile dalle risultanze
istruttorie, deve essere operato anche d'ufficio e non postula
l'esistenza di una tempestiva eccezione della controparte,
contrariamente a quanto sostenuto dalla curatela fallimentare.
Né varrebbe obiettare che anche la sopravvenuta estinzione del
pegno avrebbe potuto giustificare, in astratto, una domanda di
restituzione dei titoli consegnati alla banca per costituire la
garanzia in concreto non escussa, giacché ciò
implicherebbe, con ogni evidenza, una causa petendi diversa da quella
in concreto prospettata.
E' poi appena il caso di aggiungere che l'ulteriore obiezione avanzata
dalla curatela dal fallimento nella memoria depositata ai sensi
dell'art. 378 c.p.c. - obiezione secondo la quale anche i fatti di per
sé rilevabili d'ufficio ad opera del giudice postulerebbero il
preventivo e tempestivo adempimento dell'onere di allegazione della
parte - configura una doglianza diversa da quella contenuta nel
ricorso, e non può quindi esser presa in esame, essendo
consentito in detta memoria illustrare i motivi d'impugnazione
già prospettati ma non anche introdurre motivi o profili di
censura nuovi.
2.2. Il secondo motivo del ricorso incidentale, con cui si lamenta la
violazione degli artt. 2786 e segg. c.c., oltre che vizi di motivazione
della sentenza impugnata, pone l'accento sul nesso che esisterebbe tra
il primo atto di costituzione di pegno, risalente all'aprile del 1994,
ed il successivo atto del dicembre dello stesso anno.
La corte d'appello, come s'è detto, ha distinto nettamente tali
atti ed ha ritenuto che le domande di nullità ed
inopponibilità del pegno, proposte dal fallimento attore,
fossero riferibili solo al primo di essi (che, tuttavia, aveva orami
cessato di operare), non potendo quindi il giudice pronunciare
d'ufficio anche in ordine al secondo. E tale affermazione la corte ha
corroborato con il rilievo che il pegno del dicembre 1994 non
costituiva una mera variazione di quello precedente, in guisa di "pegno
rotativo", non essendovi corrispondenza tra il valore dei titoli dati
in garanzia nell'uno e nell'altro caso.
Il fallimento obietta che, per realizzarsi la fattispecie del c.d.
"pegno rotativo", è necessario che i beni costituiti in garanzia
al posto di quelli originari abbiano un valore (non già
corrispondente, bensì) non superiore ai primi: donde l'errore, o
comunque il vizio d'insufficiente motivazione, in cui sarebbe incorsa
la corte territoriale.
2.2.1. La censura non coglie nel segno.
Questa corte ha ripetutamente affermato che è legittimo il c.d.
"pegno rotativo", che si realizza quando nella convenzione costitutiva
della garanzia le parti prevedano la possibilità di sostituire i
beni originariamente costituiti in garanzia, con la conseguenza che la
sostituzione posta non determina effetti novativi sul rapporto
iniziale, a condizione che risulti da atti scritti aventi data certa,
che avvenga la consegna del bene e che il bene offerto in sostituzione
abbia un valore non superiore a quello sostituito (Cass., 27 settembre
1999, n. 10685; e Case., 28 maggio 1998, n. 5264).
Ciò che è decisivo, perché possa realizzarsi una
simile situazione e perché possa riconoscersi
l'unitarietà della fattispecie negoziale, é dunque,
anzitutto, l'esistenza di una convenzione che preveda un siffatto
meccanismo di sostituzione dei beni dati in pegno, ferme poi restando
le ulteriori suindicate condizioni. Ma la curatela del fallimento
ricorrente non postula neppure di aver dedotto l'esistenza di una
simile originaria convenzione o, comunque, di aver fornito elementi di
fatto - dei quali la corte di merito avrebbe immotivatamente trascurato
l'esame - idonei a dimostrarla. Anzi, nell'esposizione dei fatti
contenuta nel controricorso, si indica con chiarezza che oggetto del
primo pegno erano unicamente i "titoli che a quell'epoca risultavano
depositatati".
La sola questione del rapporto di valore esistente tra i beni
costituiti in pegno in momenti diversi non appare, pertanto, dotata di
quel carattere di decisività indispensabile per dare fondamento
al dedotto motivo di ricorso.
2.3. Con il terzo mezzo, la curatela, lamentando vizi di motivazione e
la violazione dell'art. 184-bis c.p.c., censura l'interpretazione
meramente letterale data dalla corte d'appello alla domanda di
nullità o revoca del pegno.
Quella domanda, a detta della medesima curatela, pur se contenente
un'indicazione errata circa la data del pegno (19 aprile 1994), avrebbe
dovuto essere logicamente pur sempre riferita al pegno avente ad
oggetto i titoli che poi il Banco di Napoli aveva proceduto a vendere
per soddisfare le proprie ragioni creditorie. Ed, in ogni caso,
poiché il predetto errore nell'indicazione della data del pegno
era dipeso da inesatte comunicazioni provenienti dal medesimo Banco di
Napoli, rettificate solo dopo che era scaduto il termine processuale
utile per modificare la domanda proposta dal fallimento, la corte
territoriale avrebbe dovuto accogliere l'istanza di rimessione in
termini, che non era stata esaminata.
2.3.1. Nemmeno tale motivo di ricorso può essere accolto.
E' principio consolidato quello per cui l'interpretazione della domanda
e l'apprezzamento della sua reale portata costituiscono un'operazione
riservata al giudice di merito, il cui giudizio, risolvendosi in un
tipico accertamento di fatto, è censurabile in sede di
legittimità esclusivamente sotto il profilo del controllo della
motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (cfr., ex
multis, Cass., 3 marzo 2001, n. 3094; e Cass., 14 aprile 1999, n.
3678).
Ora, è vero che, nell'esercizio del potere d'interpretazione o
qualificazione della domanda, il giudice di merito non è
vincolato in modo assoluto dalle parole adoperate dalla parte e non
deve necessariamente attenersi solo alla lettera degli atti in cui le
domande risultino articolate (Cass. 5 ottobre 2002, n. 14303; e Cass.,
20 marzo 1999, n. 2574). Ma non può dubitarsi che la prima e
più pertinente interpretazione resta pur sempre quella che fa
riferimento alle espressioni usate da chi la domanda ha formulato: onde
un'interpretazione che su tale base si fondi, ove non sussistano
elementi di contraddizione o di grave ambiguità semantica, o
comunque tali da far apparire evidente che le parole hanno tradito
l'intenzione di chi le ha adoperate, non può dirsi sol per
questo illogica, insufficiente o contraddittoria.
Nel caso in esame, la corte d'appello ha testualmente richiamato nella
propria sentenza il tenore letterale della domanda formulata dalla
curatela del fallimento, ha sottolineato l'inequivoco riferimento
contenuto in tale domanda all'atto costitutivo di pegno del 19 aprile
1994 ed ha reputato un siffatto riferimento evidentemente troppo
preciso ed esplicito da consentire una diversa e più ampia
lettura. Si tratta, perciò, di una valutazione adeguatamente
motivata, che non può essere rimessa in discussione nell'ambito
del giudizio di legittimità.
Non è poi esatto che la corte d'appello abbia omesso di
pronunciarsi sull'istanza di rimessione in termini, proposta dalla
medesima curatela fallimentare ai sensi dell'art. 184-bis c.p.c.,
risultando invece che tale istanza è stata espressamente
respinta per difetto dei relativi presupposti (si veda l'incipit di
pag. 10 della sentenza impugnata).
2.4. Il quarto motivo del ricorso incidentale si sofferma sull'assunto,
fatto proprio dalla corte d'appello, secondo cui, in difetto di una
domanda della curatela attrice specificamente riferibile al pegno
costituito nel dicembre 1994, male aveva fatto il tribunale a
pronunciare d'ufficio la nullità di tale pegno. Nel denunciare
la violazione dell'art. 1421 c.c., la ricorrente assume invece che,
essendo stata l'esistenza del predetto pegno del dicembre 1994 dedotta
in causa dal Banco di Napoli in via di eccezione, era del tutto
legittimo che il giudice ne rilevasse anche d'ufficio la
nullità.
2.4.1. La doglianza è palesemente infondata.
E' sufficiente al riguardo rilevare come, tanto dalla narrativa
dell'impugnata sentenza quanto dall'esposizione dei fatti contenuta
nelle premesse del medesimo ricorso incidentale, non si ricavi affatto
l'esistenza di un'eccezione del Banco di Napoli, fondata sull'atto di
pegno del dicembre 1994, in forza della quale sarebbero state respinte
le domande della curatala attrice riferite invece al precedente pegno
dell'aprile di quello stesso anno.
S'è già detto che quelle domande sono state disattese in
entrambi i gradi del giudizio di merito - d'ufficio, prima ancora che
per effetto di eccezione di parte convenuta - per avere ormai da tempo
il primo di tali pegni cessato di esplicare ogni effetto a causa
dell'estinzione dei crediti da esso garantiti. L'esistenza del secondo
pegno (quello del dicembre 1994) non ha quindi in alcun modo formato
oggetto di un'eccezione sollevata nella presente causa per paralizzare
le domande proposte in via principale dalla curatela attrice nell'atto
introduttivo del giudizio (e neppure - come meglio si vedrà
esaminando il ricorso proposto dal Banco di Napoli avverso
l'accoglimento della domanda subordinata di revoca dei pagamenti - cosa
risulta decisiva in tale ulteriore prospettiva). Escluso, quindi, che
le domande di parte attrice fossero riferibili a detto secondo pegno,
difettava ogni presupposto perché il giudice adito potesse
dichiararne d'ufficio la nullità o l'inopponibilità.
3. Passando ora all'esame del ricorso principale, proposto dal Banco di
Napoli, va rilevato subito che entrambi i motivi in cui esso si
articola riguardano passi dell'impugnata sentenza concernenti il
secondo dei due pegni cui sopra s'è fatto ripetutamente cenno
(quello datato 28 dicembre 1994).
Come s'è già dianzi più volte ricordato, il
giudice di primo grado, pur escludendo che le domande proposte dal
fallimento attore potessero esser riferite a tale secondo atto di
pegno, aveva ritenuto di poterne dichiarare d'ufficio la nullità
e l'inopponibilità alla massa dei creditori concorsuali. La
corte d'appello é stata però di diverso avviso,
espressamente escludendo l'ammissibilità di una pronuncia
d'ufficio della nullità. Ciò nondimeno, essa ha poi
esaminato l'eccezione della curatela fallimentare circa difetto di data
certa dei documenti in cui era consacrato il menzionato atto di pegno,
ed ha stimato che quei documenti non fossero opponibili al fallimento;
e da tale inopponibilità, come si legge alla pag. 13 (ult.
periodo) dell'impugnata sentenza, ha fatto discendere la conseguenza
per cui "non può nemmeno esser ritenuto sul piano
logico-giuridico che sia fondato l'assunto del Banco secondo il quale
vi sarebbe stata la relativa escussione, con la vendita dei titoli nel
mese di luglio del 1985 (rectius: 1995), peraltro per adempimento di
obbligazioni con lo stesso non garantite (v. il contratto di
finanziamento in valuta del 5.5.1995 e contratto costitutivo di pegno
datato 28.12.1994 a garanzia di scoperti del c/c)". Affermazione che, a
propria volta, prelude all'esame - ed al successivo accoglimento -
della subordinata domanda di revoca (ex art. 67, comma 2, l. fall.)
dell'operazione mediante la quale il Banco di Napoli, venduti i
predetti titoli, ha soddisfatto i propri crediti nei confronti del dr.
Bottega.
Ora, con il primo dei due motivi del ricorso principale, il Banco di
Napoli denuncia la contraddizione in cui la corte territoriale sarebbe
incorsa, dichiarando l'inopponibilità di un atto di pegno che
essa stessa aveva riconosciuto non essere oggetto di alcuna domanda da
parte della curatela attrice, con conseguente violazione del principio
per il quale il giudice non può pronunciare oltre i limiti del
richiesto. Ed il ricorrente aggiunge che analogo vizio inficerebbe la
revoca del pagamento, disposta ai sensi dell'art. 67, secondo comma, l.
fall., giacché la curatela attrice aveva invece fatto
riferimento, nella propria domanda subordinata, alla diversa ipotesi
contemplata dal primo comma di detto articolo.
Il secondo motivo del medesimo ricorso principale investe, invece, il
merito della questione trattata dalla corte d'appello nei termini sopra
riferiti. Il ricorrente, denunciando la violazione dell'art. 2704 c.c.,
insiste infatti nel sostenere che l'apposizione del timbro postale sul
corpo stesso del documento contenente la dichiarazione negoziale vale a
conferire data certa a tale dichiarazione; e comunque si duole della
mancata ammissione della prova testimoniale dedotta a conferma della
data figurante sull'atto.
3.1. Il ricorso così articolato - che ben può essere
esaminato unitariamente - è in massima parte inammissibile e,
per il resto, infondato.
3.1.1. Il profilo d'inammissibilità investe le censure rivolte
contro la dichiarazione d'inopponibilità al fallimento dell'atto
di pegno del quale ora si discute. Occorre infatti considerare che
l'ampio excursus con cui la corte veneta ha argomentato il proprio
convincimento in ordine al difetto di data certa del documento
contrattuale cui prima s'è fatto cenno non mette capo ad alcun
decisum che specificamente riguardi questo tema (ciò che,
effettivamente, sarebbe stato inconciliabile con la precedente
affermazione della stessa corte circa l'impossibilità di
dichiarare d'ufficio la nullità di quell'atto, non toccato da
alcuna domanda di parte attrice; tanto meno si sarebbe potuto allora
dichiararne d'ufficio l'inopponibilità).
Quel che forma oggetto di decisione della corte d'appello è
soltanto la revoca, ex art. 67, comma 2, l. fall., dell'operazione
solutoria con cui la banca ha soddisfatto il proprio credito nei
confronti del dr. Bottega. Ma tale pronuncia, benché l'impugnata
sentenza sembri anzitutto farla discendere dai precedenti rilievi in
tema d'inopponibilità al fallimento dell'atto di pegno, per
difetto di data certa dell'atto medesimo, si fonda anche su
un'ulteriore e diversa ragione, del tutto indipendente da quei
precedenti rilievi.
La corte d'appello, infatti, ha espressamente affermato che il
pagamento, poi revocato, realizzato "con la vendita dei titoli nel mese
di luglio del 1985 (rectius: 1995)", non ha rapporto con il pegno di
cui si discute, essendo intervenuto "peraltro per l'adempimento di
obbligazioni con lo stesso non garantite", e tale affermazione é
documentata col richiamo al contratto di finanziamento in valuta da cui
il credito poi estinto ha avuto origine, da un lato, e quello all'atto
costitutivo di pegno del dicembre 1994, dall'altro (si veda l'impugnata
sentenza, pag. 13, in fine).
Stando così le cose, appare evidente che tale ultimo rilievo
costituisce un'autonoma ratio decidendi, di per sé sola idonea a
sorreggere la conclusione per la quale il contratto di pegno in
questione non ostava all'accoglimento della domanda di revoca del
pagamento realizzato mediante la vendita dei titoli, avendo la corte di
merito accertato un difetto di corrispondenza tra le obbligazioni
così estinte e quelle che il pegno era volto a garantire. Una
ratio decidendi, questa, non specificamente impugnata dal ricorrente,
che rende perció di fatto del tutto irrilevante la discussione
sulla certezza della data di un atto di pegno, in quanto tale non
oggetto di domande né di pronunce specifiche, e che - come la
corte d'appello ha insindacabilmente accertato - non ha attinenza con
il debito il cui pagamento é stato revocato dalla corte
d'appello.
3.1.2. Quanto, invece, alla pronuncia di revoca di tale pagamento, le
censure della banca ricorrente sono ugualmente inammissibili, laddove
enunciano un'errata interpretazione del citato art. 67, comma 2, legge
fall., senza in alcun modo specificare in che cosa il denunciato errore
di diritto consisterebbe; e sono prive di fondamento laddove lamentano
un vizio di extrapetizione, giacché, viceversa, dalla stessa
narrativa dell'impugnata sentenza con chiarezza si desume come la
curatela del fallimento avesse espressamente proposto, sia pure in via
subordinata, anche una domanda di revoca dei pagamenti espressamente
fondata sulla previsione del secondo comma dell'articolo sopra
menzionato.
4. Le considerazioni appena svolte esonerano dall'esame del sesto
motivo del ricorso incidentale, proposto dalla curatela del fallimento
solo in via condizionata.
5. Resta però ancora da prendere in considerazione il quinto
motivo di detto ricorso incidentale, col quale la curatela lamenta che
la corte d'appello avrebbe violato l'art. 345 c.p.c., perché ha
riformato il quantum delle spese processuali liquidate dal tribunale
laddove il Banco di Napoli, nel proprio appello, si era lamentato
unicamente del fatto che tali spese fossero state poste a suo carico.
5.1. Anche quest'ultima doglianza non è fondata.
Il giudice del gravame, quando riformi (sia pure solo parzialmente) la
sentenza di primo grado, é tenuto a statuire sul carico delle
spese ed a liquidarle con riguardo all'intero giudizio. Non é
quindi prospettabile un giudicato parziale o alcuna altra preclusione
che investa unicamente il quantum delle spese precedentemente liquidate
dal primo giudice, non essendo ancora definito se e da chi esse siano
dovute.
Ne deriva che non incorre in un vizio di ultrapatizione il giudice
d'appello il quale, nel pronunciare sulle spese di entrambi i gradi del
giudizio, provvede ex novo a liquidare anche quelle del primo grado,
pur in assenza di uno specifico gravame della parte sul punto.
Per il resto, l'entità della liquidazione delle spese operata
nel presente caso dalla corte veneta sfugge ad ogni possibile sindacato
di legittimità, non essendo stata prospettata alcuna violazione
delle tariffe forensi.
6. Il rigetto di entrambi i ricorsi induce a compensare tra le parti le
spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La corte, riuniti i ricorsi, li rigetta e compensa tra le parti le
spese del giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, il 20 ottobre 2003.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 5 MARZO 2004
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