Cassazione
civile, sez. III, 25 settembre 2012, n. 16254 sui principi in materia di
responsabilità per inadempimento del professionista
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti nei
termini e limiti di seguito indicati.
Disattendendo il diverso orientamento in base al quale
il proprietario il quale faccia eseguire opere di escavazione nel proprio
fondo ex art. 840 c.c., comma 1, risponde, in
ragione della sua mera qualità di proprietario (da ultimo v. Cass., 28/2/2008, n. 5278), direttamente
del danno che derivi alle proprietà confinanti, anche se ha dato in appalto l'esecuzione delle opere (v. Cass., 20/3/2006, n. 6104; Cass., 10/2/2003, n. 1954; Cass., 20/12/1978,
n. 6119. E già Cass., 19/4/1974, n. 1091), sicchè
l'esistenza del rapporto di appalto può valere per consentire al
committente una eventuale rivalsa nei confronti
dell'appaltatore inadempiente o in colpa, o se del caso a far sorgere una
responsabilità dell'appaltatore verso il terzo danneggiato che può
aggiungersi a quella del proprietario, ma non sostituirla o eliminarla (v. Cass., 15/7/1997, n. 6473), questa
Corte ha già avuto modo di affermare (v.
Cass., 17/1/2012, n. 538) che la suindicata
disciplina non può essere invero intesa quale regola di responsabilità
oggettiva del proprietario committente, ma va interpretata
alla stregua del principio nella giurisprudenza di legittimità del pari enunziato (anche con riferimento all'appalto di opere
pubbliche: v. Cass., 20/9/2011, n. 19132) secondo
cui, poichè nella esecuzione dei lavori appaltati
opera in autonomia con propria organizzazione ed apprestando i mezzi a ciò
necessari, l'appaltatore è di regola esclusivo responsabile dei danni
cagionati a terzi nella esecuzione dell'opera, salva (a parte l'ipotesi di na culpa in eligendo: v.
infra)
la esclusiva responsabilità del committente laddove questi si sia ingerito
nei lavori con direttive vincolanti che abbiano ridotto l'appaltatore al
rango di nudus minister,
ovvero la sua corresponsabilità qualora si sia ingerito con direttive che
soltanto riducano l'autonomia dell'appaltatore.
Ne consegue che non sussiste responsabilità del
committente ove non risulti accertato che questi,
avendo in forza del contratto di appalto la possibilità di impartire
prescrizioni nell'esecuzione dei lavori o di intervenire per chiedere il
rispetto della normativa di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre
particolari modalità di esecuzione dei lavori o particolari accorgimenti
antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro
(v. Cass., 20/9/2011, n. 19132; Cass., 12/7/2006, n. 15782).
La responsabilità del committente può a tale stregua
configurarsi (solo) in caso di riferibilità a lui dell'evento dannoso per
culpa in eligendo (per avere cioè affidato
l'opera ad un'impresa assolutamente inidonea),
ovvero allorquando in base a patti contrattuali l'appaltatore sia stato
ridotto a mero esecutore degli ordini del committente, ed abbia agito quale
nudus minister di
quest'ultimo, attuandone specifiche direttive (v. Cass., 20/9/2011, n. 19132; Cass., 27/5/2011, n. 11757; Cass., 23/4/2008, n. 10588;
Cass., 21/6/2004, n. 11478).
La responsabilità dell'appaltatore è pertanto da
escludersi esclusivamente nell'ipotesi in cui risulti
costituire passivo strumento nelle mani del committente, direttamente e
totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di
iniziativa o vaglio critico (v. Cass., 31/5/2006, n. 12995).
Circostanza quest'ultima che, in presenza (anche solo
del pericolo) di rovina o di gravi difetti dell'opera, giusta la
ripartizione degli oneri probatori in tema di rapporti contrattuali (v.
oltre), incombe all'appaltatore, quale fatto impeditivo
o estintivo dell'altrui pretesa, eccepire e provare (cfr. Cass. Sez. Un.,
30/10/2001, n. 13533) per poter andare indenne da responsabilità
(cfr. Cass., 7/11/1984, n. 5624; Cass., 29/1/1983, n. 821).
In mancanza di tale prova, l'appaltatore è responsabile
ove abbia mantenuto un comportamento violativo
della diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata
cui è tenuto ex art. 1176 c.c., comma 2 e art. 2236 c.c..
Lo specifico settore di competenza in cui rientra
l'attività esercitata richiede infatti la
specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono
tipiche dell'attività necessaria per l'esecuzione dell'attività
professionale in argomento.
La diligenza
richiesta è allora non già quella ordinaria del buon padre di famiglia
(cfr. Cass., 13/1/2005, n. 583) bensì quella
ordinaria del buon professionista (v. Cass., 31/5/2006, n. 12995), e cioè la diligenza
normalmente adeguata in ragione del tipo di attività e alle relative modalità di esecuzione.
Nell'adempimento
dell'obbligazione professionale va infatti
osservata la diligenza qualificata ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2 (che
costituisce aspetto del concetto unitario posto dall'art. 1174 c.c.:
cfr. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass.,
22/12/1999, n. 589), quale modello di condotta che si estrinseca (sia esso
professionista o imprenditore) nell'adeguato sforzo tecnico, con impiego
delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili,
in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento
della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonchè ad evitare possibili eventi dannosi (v. Cass., 31/5/2006, n. 12995. in ordine
all'applicabilità della regola anche in tema di responsabilità
extracontrattuale v.
Cass., 26/3/1990, n. 2428. Per la
distinzione tra "normale concetto di diligenza" e "diligentia quam in
concreto" v. Cass., 22/10/2003, n. 15789).
Come in
giurisprudenza di legittimità si è già avuto modo di porre in rilievo, i
limiti di tale responsabilità sono invero quelli generali in tema di
responsabilità contrattuale (v. Cass., Sez. Un.,
30/10/2001, n. 13533), presupponendo questa l'esistenza della
colpa lieve del debitore, e cioè il difetto dell'ordinaria diligenza.
Al riguardo si è
ulteriormente precisato che il criterio della normalità va valutato con
riferimento alla diligenza media richiesta, ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, avuto riguardo
alla specifica natura e alle peculiarità dell'attività esercitata (cfr.
Cass., 20/7/2005, n. 15255; Cass., 8/2/2005, n. 2538; Cass., 22/10/2003, n. 15789; Cass., 28/11/2001, n. 15124; Cass., 21/6/1983, n. 4245), che impone
di valutarsi la condotta dello specialista (a fortiori se tra i migliori
del settore) non già con minore ma semmai al contrario con maggior rigore
ai fini della responsabilità professionale, dovendo aversi riguardo alla
peculiare specializzazione e alla necessità di adeguare la condotta alla
natura e al livello di pericolosità della prestazione (cfr., con
riferimento al medico sportivo, Cass., 8/1/2003, n. 85; con riferimento
all'otorino v. Cass., 13/4/2007, n. 8826), implicante
scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale (cfr.
Cass., 13/1/2005, n. 583).
In
quanto la diligenza (che,
come sottolineato anche in dottrina, si specifica nei profili della cura,
della cautela, della perizia e della legalità, la perizia in particolare
sostanziandosi nell'impiego delle abilità e delle appropriate nozioni
tecniche peculiari dell'attività esercitata, con l'uso degli strumenti
normalmente adeguati; ossia con l'uso degli strumenti comunemente
impiegati, in relazione all'assunta obbligazione, nel tipo di attività professionale
o imprenditoriale in cui rientra la prestazione dovuta: v. Cass., 31/5/2006, n. 12995) deve
valutarsi avuto riguardo alla natura dell'attività esercitata (art. 1176 c.c., comma 2), al
professionista, e a fortiori allo specialista, è richiesta una diligenza
particolarmente qualificata dalla perizia e dall'impiego di strumenti
tecnici adeguati al tipo di attività da espletarsi.
A tale stregua
l'impegno dal medesimo dovuto, se si profila superiore a quello del comune
debitore, va considerato viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale
esercitata, giacchè il professionista deve
impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard
professionale della sua categoria, tale standard valendo a determinare, in
conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la
corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonchè del relativo grado di responsabilità.
Come si è
osservato in dottrina, il debitore è di regola tenuto ad
una normale perizia, commisurata al modello del buon professionista
(secondo cioè una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità
del soggetto, sicchè deve escludersi che il
debitore privo delle necessarie cognizioni tecniche sia esentato dall'adempiere
l'obbligazione con la perizia adeguata alla natura dell'attività
esercitata), mentre una diversa misura di perizia è dovuta in relazione
alla qualifica professionale del debitore (per il riferimento alla
necessità di adeguare la valutazione alla stregua del dovere di diligenza
particolarmente qualificato, inerente lo svolgimento dell'attività del
professionista, v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 31/5/2006, n. 12995; Cass.,
23/4/2004, n. 19133;
Cass., 4/3/2004, n. 4400) in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri
dello specifico settore professionale.
Ai diversi gradi
di specializzazione corrispondono infatti diversi
gradi di perizia.
Può allora
distinguersi tra una diligenza professionale generica e una diligenza
professionale variamente qualificata, giacchè chi
assume un'obbligazione nella qualità di
specialista, o un'obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto
alla perizia che è normale della categoria (cfr., con riferimento alla
diligenza professionale del medico c.d. "strutturato", Cass., 13/4/2007, n. 8826).
Lo sforzo tecnico
implica anche l'uso degli strumenti materiali normalmente adeguati, ossia
l'uso degli strumenti comunemente impiegati nel tipo di attività
professionale in cui rientra la prestazione dovuta.
La misura della
diligenza richiesta nelle obbligazioni professionali va quindi
concretamente accertata sotto il profilo della responsabilità.
Il professionista
è contrattualmente impegnato al risultato dovuto (v. Cass., 19/5/2004, n. 9471), quello cioè
conseguibile secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alla abilità tecnica e alla sua capacità
tecnico-organizzativa (cfr., con riferimento al medico, Cass., a 13/4/2007,
n. 8826).
Il normale esito della prestazione dipende allora da una
pluralità di fattori, tra cui l'organizzazione dei mezzi adeguati per il
raggiungimento degli obiettivi in condizioni di normalità.
Normalità che risponde dunque ad
un giudizio relazionale di valore, in ragione delle circostanze del caso.
La difficoltà dell'intervento e la diligenza del
professionista vanno valutate in concreto, rapportandole al livello di
specializzazione del professionista e alle strutture tecniche a sua
disposizione, sicchè il medesimo deve, da un
canto, valutare con prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza
professionale, ricorrendo anche all'ausilio di un consulto (se la
situazione non è così urgente da sconsigliarlo); e, da altro canto,
adottare tutte le misure volte ad ovviare alle
carenze strutturali ed organizzative financo
consigliando al committente, se manca l'urgenza di intervenire, di
rivolgersi ad altro professionista (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 5/7/2004, n. 12273. V. anche Cass., 21/7/2003, n. 11316; Cass., 16/5/2000, n. 6318).
Anche per il migliore specialista del settore il
giudizio di normalità va invero calibrato avuto riguardo alle strutture
tecniche con cui è chiamato a prestare la propria opera professionale.
Laddove lo spostamento verso l'alto della soglia di
normalità del comportamento diligente dovuto
determina la corrispondente diversa considerazione del grado dì tenuità
della colpa (cfr. Cass., 4437/82), con corrispondente
preclusione della prestazione specialistica al professionista che
specializzato non è (cfr. Cass., 5/7/2004, n. 12273; Cass., 2428/90).
In ragione della specifica natura e della peculiarità
dell'attività esercitata (cfr. Cass., 20/7/2005, n. 15255; Cass., 8/2/2005, n. 2538; Cass., 22/10/2003, n. 15789; Cass., 28/11/2001, n. 15124;
Cass., 21/6/1983, n. 4245)
l'appaltatore è dunque tenuto a mantenere il comportamento diligente dovuto
per la realizzazione dell'opera commessagli, dovendo adottare tutte le
misure e le cautele necessarie ed idonee per
l'esecuzione della prestazione, secondo il modello di precisione e di
abilità tecnica nel caso concreto richiesto idoneo a soddisfare l'interesse
creditorio.
Ai fini della verifica della esecuzione
a regola d'arte dell'opera (artt. 1176, 1662 c.c.) l'esattezza della
prestazione deve essere allora verificata alla stregua dell'adeguato sforzo
diligente tecnico, e dei risultati che normalmente si realizzano con
l'impiego di tale sforzo.
Trattandosi di opere edilizie da eseguirsi su strutture
o basamenti preesistenti o preparati dal committente o da terzi,
l'appaltatore o il prestatore d'opera incaricato viola in particolare il
dovere di diligenza stabilito dall'art. 1176 c.c., se non verifica, nei
limiti delle comuni regole dell'arte, l'idoneità delle anzidette strutture
a reggere l'opera commessagli, e ad assicurare la buona riuscita della
medesima; ovvero se, accertata l'inidoneità di tali strutture, procede
egualmente all'esecuzione dell'opera (v. Cass.,
31/5/2006, n. 12995; Cass., 9/2/2000,
n. 1449; Casa., 18/3/1980, n. 1781. Cfr.
altresì
Cass.,
22/6/1994, n. 5981, Cass.,
11/1/1989, n. 80;
Cass., 7/4/1987,
n. 3356; Cass.,
25/7/1984, n. 4352; Cass., 20/1/1982, n. 3717).
Anche l'ipotesi della imprevedibilita di difficoltà di esecuzione dell'opera
manifestatesi in corso d'opera derivanti da cause geologiche, idriche e
simili, specificamente presa in considerazione in tema di appalto dall'art. 1664 c.c., comma 2, e legittimante
se del caso il diritto ad un equo compenso in ragione della maggiore
onerosità della prestazione, va in effetti valutata, si è sottolineato in
giurisprudenza di legittimità, sulla base della diligenza media in
relazione al tipo di attività esercitata (v.
Cass., 31/5/2006, n. 12995; Cass., 23/11/1999, n. 12989).
Nè si è mancato di sottolineare che ove l'appaltatore svolga anche i
compiti di ingegnere progettista e di direttore dei lavori, l'obbligo di
diligenza è ancora più rigoroso, essendo egli tenuto, in presenza di
situazioni rivelatrici di possibili fattori di rischio, ad eseguire gli
opportuni interventi per accertarne la causa ed apprestare i necessari
accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza
difetti costruttivi (v. Cass., 31/5/2006, n. 12995; Cass., 18/4/2002, n. 5632).
La maggiore specificazione del contenuto
dell'obbligazione non esclude infatti, come posto
in rilievo in dottrina, la rilevanza della diligenza come criterio
determinativo della prestazione per guanto attiene agli aspetti
dell'adempimento (v. Cass. Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533).
Le obbligazioni professionali sono dunque caratterizzate
dalla prestazione di attività particolarmente qualificata da parte di
soggetto dotato di specifica abilità tecnica, in cui il committente fa
affidamento nel conferirgli l'incarico, al fine del raggiungimento del
risultato perseguito o sperato.
Affidamento tanto più accentuato, in vista dell'esito
positivo nel caso concreto conseguibile, quanto maggiore è la
specializzazione del professionista, e la qualità organizzativa, materiale
e tecnica della struttura operativa di cui si avvale.
Una limitazione della misura dello sforzo diligente
dovuto nell'adempimento dell'obbligazione, e della conseguente
responsabilità per il caso di relativa mancanza o inesattezza, non può farsi
invero discendere nemmeno dalla qualificazione dell'obbligazione del
professionista in termini di "obbligazione di mezzi" (v. Cass., Sez. Un.,
11/1/2008, n. 576; Cass., 13/4/2007, n. 8826), nel caso
peraltro nemmeno configurabile giacchè l'obbligazione
dell'appaltatore è senz'altro di risultato (cfr., Cass., 21/5/2012, n. 8016; Cass., 18/5/2011, n. 10927).
Nè, al fine di salvare la
distinzione dogmatica in argomento, può valere il richiamo a principi
propri di altri sistemi, come quello di common law
della C.d. evidenza circostanziale o res ipsa loquitur (per il quale
v. invece Cass., 16/2/2001, n. 2335; Cass., 19/5/1999, n. 4852, Cass.; 22/1/1999, n. 589).
Come questa Corte ha avuto anche recentemente modo di
precisare, la responsabilità del professionista non può essere invero
desunta automaticamente dal mero inadempimento alla propria obbligazione,
dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal creditore,
ma deve essere valutata alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento
dell'attività professionale (v. Cass., 9/11/2006, n. 23918).
L'inadempimento consegue infatti
alla prestazione negligente, ovvero non improntata alla dovuta diligenza da
parte del professionista ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, adeguata alla
natura dell'attività esercitata e alle circostanze concrete del caso (v.
Cass., 13/4/2007, n. 8826).
La riconduzione dell'obbligazione professionale
nell'ambito del rapporto contrattuale, e della eventuale
responsabilità che ne consegua nell'ambito di quella da inadempimento ex art. 1218 c.c., e segg., ha invero i
suoi corollari anche sotto il profilo probatorio.
Al riguardo questa Corte ha già
più volte enunciato il principio in base al quale l'onere della prova è
ripartito tra le parti nel senso che (0alla luce del principio enunciato in
termini generali da Cass., Sez. Un. 30/10/2001, n. 13533)
in tema di onere della prova dell'inadempimento, il creditore che agisce
per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per
l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo
diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza
dell'inadempimento della controparte, mentre è al debitore convenuto che
incombe di dare la prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto
adempimento (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577;
Cass., 13/4/2007, n. 8826).
Analogo principio è stato posto con riguardo
all'inesatto adempimento, rilevandosi che al creditore istante è
sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per
violazione di doveri accessori, come quello di informazione,
ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità
quantitative o qualitative dei beni), gravando sul debitore l'onere di dimostrare
di avere esattamente adempiuto.
Pertanto, in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c., il creditore ha il mero
onere di allegare il contratto ed il relativo
inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa
del professionista e la relativa gravità (cfr., con riferimento a
differenti ipotesi, Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Nè la distinzione tra
prestazione di facile esecuzione e prestazione
implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà può
d'altro canto valere come criterio di distribuzione dell'onere della prova,
rilevando essa solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e
del corrispondente grado di colpa riferibile al professionista (cfr., con
riferimento al sanitario, Cass., 13/4/2007, n. 8826).
L'imposizione della presunzione dell'onere della prova
in capo al debitore, il cui fondamento si è indicato nell'operare del
principio di c.d. vicinanza alla prova o di riferibilità (v. v. Cass., 9/11/2006, n. 23918; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 23/5/2001, n. 7027; Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533; Cass., 13/9/2000, n. 12103), va ancor
più propriamente ravvisato, come sottolineato anche in dottrina, nel
criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la
prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più
marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista
nell'applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo
estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del
debitore come nel caso specializzato nell'esecuzione di una professione
protetta.
All'art. 2236 c.c., non va conseguentemente
assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell'onere
probatorio, giacchè incombe in ogni caso al
professionista dare la prova della particolare
difficoltà della prestazione, laddove la norma in questione implica
solamente una valutazione della colpa del medesimo, in relazione alle
circostanze del caso concreto (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Appare in effetti incoerente ed
incongruo richiedere al professionista la prova idonea a vincere la
presunzione di colpa a suo carico quando trattasi di prestazione di facile
esecuzione, e addossare viceversa al creditore l'onere di provare "in
modo preciso e specifico" le "modalità ritenute non idonee"
quando l'opera è di particolare o speciale difficoltà (in tal senso v.
invece, con riferimento al settore medico, Cass., 4/2/1998, n. 1127; Cass., 11/4/1995, n. 4152).
Proprio nel caso in cui la prestazione implica cioè la
soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, richiede notevole
abilità, e la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale
complessità, con largo margine di rischio in presenza
di ipotesi non ancora adeguatamente studiate o sperimentate (v. Cass.,
28/5/2004, n. 10297;
Cass., 10/5/2000, n. 5945; Cass.,
19/5/1999, n. 4852; Cass.,
16/11/1988, n. 6220; Cass., 18/6/1975, n. 2439).
Tale soluzione si palesa infatti
ingiustificatamente gravatoria per il creditore,
in contrasto invero con il principio di generale favor per il creditore-danneggiato
cui l'ordinamento è informato (cfr.
Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 20/2/2006, n. 3651).
In tali circostanze è infatti
indubitabilmente il professionista/specialista a conoscere le regole
dell'arte e la situazione specifica -anche in considerazione come nella
specie delle condizioni degli immobili e del terreno- del caso concreto,
avendo pertanto la possibilità di assolvere all'onere di provare
l'osservanza delle prime e di motivare in ordine alle scelte operate in
ipotesi in cui maggiore è la discrezionalità rispetto a procedure
standardizzate.
E' allora da superarsi, sotto il profilo della
ripartizione degli oneri probatori, anche ogni distinzione tra interventi
"facili" e "difficili", in quanto
l'allocazione del rischio non può essere rimessa alla maggiore o minore
difficoltà della prestazione, l'art. 2236 c.c., dovendo essere inteso
come contemplante una regola di mera valutazione della condotta diligente
del debitore (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Va quindi conseguentemente affermato che in ogni caso di
"insuccesso" incombe al professionista dare
la prova della particolare difficoltà della prestazione (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n.577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488), e, in caso
di mancata o inesatta realizzazione dell'opera commissionata,
l'appaltatore, la cui obbligazione è -come detto- senz'altro di risultato è
tenuto a dare la prova che il risultato "anomalo" o anormale
rispetto al convenuto esito della propria prestazione professionale, e
quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata
sull'esperienza, dipende da fatto a sè non
imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità
alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso
concreto.
E laddove tale prova non riesca a dare, secondo la regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c., il medesimo rimane
soccombente.
Senza sottacersi che, in base al principio del nesso di causalità
specifica, in caso di concretizzazione del rischio che la regola violata tende a prevenire non può prescindersi dalla considerazione del comportamento
dovuto e della condotta nel singolo caso in concreto mantenuta, e il nesso
di causalità che i danni conseguenti a quest'ultima astringe rimane invero
presuntivamente provato (cfr.
Cass., Sez. Un.,
11/1/2008, n. 584; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582. E,
da ultimo, Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., 29/8/2011, n. 17685).
Orbene, i suindicati principi sono stati dalla corte di
merito disattesi nell'impugnata sentenza.
In particolare laddove essa è pervenuta a rigettare
l'appello incidentale interposto dai committenti sigg.
Bo. ed altri e sigg. G. ed altri ravvisando
"giustificata" la "percentuale del 20% di corresponsabilità
con l'appaltatore".
Ciò dopo avere invero correttamente premesso che
"In merito alla ritenuta responsabilità di ICZ per le lesioni subite
dagli immobili circostanti allo scavo effettuato, come già rilevato dal
primo giudice, gli accertamenti condotti dal CTU non lasciano adito a dubbi
quanto alla sicura efficienza causale dei lavori in questione nel
determinare, o almeno concorrere a determinare quelle lesioni; il fatto poi
che gli immobili fossero vetusti e dunque non certo in buone condizioni già
a priori, e che altri lavori riguardanti stabili contigui abbiano
contribuito al determinare la situazione di emergenza che impose un
intervento, non toglie che il contributo causale dei lavori eseguiti da ICZ
vi sia stato e sia stato rilevante: e questo indipendentemente dalla
verificazione di cedimenti o franamenti del terreno: il CTU ha evidenziato
l'insufficienza delle misure apprestate ad evitare
lesioni agli immobili prossimi allo scavo; ha inoltre evidenziato ... come l'effettuazione
di un profondo scavo nella prossimità di edifici per di più fatiscenti da
gran tempo ed addossati gli uni agli altri non potesse che essere assai
pericolosa per la stabilità di tali edifici; ed infine come la situazione
di sostanziale contestualità fra il prodursi del danno e l'effettuazione
dello scavo renda ragione del ruolo causale di questo".
Ancora, dopo avere ulteriormente precisato che
l'esistenza di un direttore dei lavori, pur incaricato come tale dalla
committenza, "non significa affatto che
l'appaltatore perda la propria autonomia nell'effettuazione in concreto dei
lavori, e che diventi un mero strumento privo di propria capacità di
determinazione, quanto alle concrete modalità attuative dei lavori, nelle
mani della committenza (e dei tecnici da questa incaricati)"; nonchè dopo avere ulteriormente sottolineato che
"in realtà, questa è responsabile proprio sotto tale profilo, e la
pretesa che la committenza sia in grado di dirigere completamente o quasi
le modalità con le quali l'appaltatore, dotato (si presume) delle
cognizioni tecniche indispensabili per l'effettuazione di opere di notevole
complessità in una situazione per di più di particolare difficoltà, è
chiaramente fuori dalla realtà, la committenza avendo di mira un risultato,
e l'appaltatore, normalmente dotato di ampia autonomia, dovendo curare di
raggiungerlo nel rispetto delle generali regole di diligenza, e di quelle
della specifica attività tecnica demandatagli".
La corte di merito, pur evidenziando che nel caso
l'appaltatore è "un'impresa dotata di autonoma organizzazione e propri
tecnici", tanto da ritenere "largamente prevalente" la
relativa responsabilità, nell'osservare essere per altro verso
"indubbio che i proprietari committenti sapevano in quale situazione
si andava ad operare e dunque non concepibile che
ignorassero i rischi che comportava l'effettuazione di interventi
consimili", è quindi pervenuta a ravvisare la relativa
corresponsabilità nella vicenda in esame per essere conseguentemente
"ragionevole ritenere che dovessero pretendere maggiore attenzione e
modalità operative più prudenti da parte dell'appaltatore".
A tale stregua, pur non facendo discendere la
responsabilità dei committenti alla mera stregua della loro qualità di proprietarì ex art. 840 c.c., comma 1 (alla stregua
di una inammissibile regola di responsabilità
oggettiva), la corte d'appello ha al riguardo argomentato da una ritenuta
condotta colposa nella specie integrata dalla mancata ingerenza da parte
dei medesimi nell'attività propria dell'appaltatore.
Pertanto in ragione della violazione di un ravvisato
obbligo di ingerenza del committente in realtà
insussistente. A fortiori in considerazione della circostanza che al
riguardo essa del tutto prescinde da profili ridondanti in termini di
relativa culpa in eligendo, nonchè
da qualsivoglia accertamento circa la specifica
capacità e possibilità per i medesimi, in forza del contratto di appalto,
dì impartire prescrizioni nell'esecuzione dei lavori o di intervenire per
chiedere il rispetto della normativa di sicurezza, nonchè
di imporre particolari modalità di esecuzione dei lavori o specifici
accorgimenti antinfortunistici la cui mancata adozione si sia rivelata
causa (diretta o indiretta) del sinistro.
Del tutto incongrua risulta
altresì la motivazione dell'impugnata sentenza là dove viene, da un canto,
sottolineato come fosse nella specie "chiaramente fuori dalla
realtà" la possibilità per la committenza di dare indicazioni tecniche
indispensabili per l'effettuazione di opere "di notevole complessità
in una situazione per di più di particolare difficoltà", e, per altro
verso, rimarcato l'autonomia che ha nel caso connotato l'attività dell'appaltatore
|