Cass. Civ., sez. I, 4 febbraio 2005 n. 2354,
comunione dei coniugi, investimenti comuni e restituzione somme in caso
di scioglimento della comunione
Con atto di citazione notificato l'11 settembre 1992 Hanna Anna
Nowaczewska conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Udine il
coniuge Giobatta Driussi, dal quale si era separata consensualmente il
30 marzo 1992, chiedendo che si dichiarasse lo scioglimento della
comunione legale dei beni, si condannasse il convenuto a restituirle la
somma di L. 31.000.000, corrispondente alla metà del prezzo
ricavato dalla vendita dell'immobile cointestato sito in Carlino,
piazza San Rocco, si liquidasse in suo favore una somma pari alla
metà del valore dell'altro immobile realizzato su terreno del
Driussi in Carlino, via Canciani n. 4, si procedesse alla divisione di
tutti i mobili e gli arredi della casa familiare ed all’attribuzione
alla stessa attrice della quota dei proventi percepiti dal coniuge per
l'espletamento della propria attività professionale e non
consumati al momento dello scioglimento della comunione legale.
Il Driussi, costituitosi, deduceva che il primo dei due beni indicati
era stato da lui acquistato prima delle nozze con contratto intestato
come preliminare di vendita, ma sostanzialmente qualificabile come atto
di vendita, con danaro proveniente dal suo patrimonio personale, che la
somma ricavata dalla vendita del bene era inferiore a quella indicata
dall'attrice e comunque era stata interamente utilizzata in costanza di
matrimonio da entrambi i coniugi. Quanto alla casa esistente su terreno
di sua proprietà esclusiva, sosteneva che era stata soltanto
ristrutturata durante il matrimonio e che il danaro allo scopo
impiegato proveniva dalla vendita di terreni suoi e della madre.
Chiedeva in via riconvenzionale l'attribuzione di quota delle
retribuzioni percepite dalla moglie e non consumate al momento dello
scioglimento della comunione legale e la divisione degli arredi comuni
asportati dall'attrice all'atto della separazione.
Espletata la necessaria istruttoria e disposta consulenza tecnica di
ufficio, con sentenza del 13 dicembre 2001 - 15 gennaio 2002 il
Tribunale, in parziale accoglimento della domanda, disponeva la
divisione dei beni compresi nella comunione legale, condannava il
Driussi al pagamento della somma di L. 58.029.375, corrispondente alla
metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella
ristrutturazione dell'immobile di sua proprietà esclusiva, con
la rivalutazione monetaria dal 30 marzo 1992 e gli interessi legali
sulla somma via via rivalutata dal 10 settembre 1992 alla data di
pubblicazione della sentenza, oltre gli interessi legali, nonché
al pagamento della somma di L. 3.837.202, oltre gli interessi dal 30
marzo 1992 al saldo, pari alla metà delle somme depositate sui
conti correnti intestati o cointestati al predetto; disponeva la
divisione dei mobili che arredavano la casa coniugale.
Proposto appello dal Driussi, con sentenza del 24 giugno - 13 novembre
2003 la Corte di Appello di Trieste rigettava l'impugnazione.
Affermava in motivazione la Corte territoriale, per quanto in questa
sede rileva, che correttamente il primo giudice aveva ritenuto che
l’originaria domanda di attribuzione di una somma pari alla metà
del valore dell'immobile di proprietà esclusiva del Driussi
fosse stata oggetto di una mera emendatio con la richiesta formulata in
sede di precisazione delle conclusioni di condanna al pagamento della
minor somma corrispondente alla metà del valore indicato dal
consulente tecnico di ufficio quale prezzo corrente dei materiali e
della manodopera impiegati per ristrutturare, durante il regime di
comunione legale, il fabbricato in oggetto, ed altrettanto
correttamente aveva accolto la domanda nel merito, essendo rimasto
accertato che per la ristrutturazione era stato impiegato il ricavato
dalla vendita dell'altro appartamento in comunione, onde la moglie
doveva considerarsi creditrice, in applicazione analogica dell'art. 935
c.c., di una somma corrispondente al valore dei materiali ed al prezzo
della manodopera, come esattamente quantificata dal consulente tecnico
di ufficio.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Driussi
deducendo tre motivi.
Resiste con controricorso la Nowaczewska.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione e falsa
applicazione degli artt. 177, 179, 191, 192, 194, 935, 2697 c.c., 112,
115 e 116 c.p.c., omissione, insufficienza e contraddittorietà
di motivazione, si deduce che la sentenza impugnata ha omesso di
pronunciare sul motivo di impugnazione con il quale il Driussi aveva
dedotto che l'appartamento di piazza san Rocco costituiva un suo bene
personale, in forza dell'accertamento da parte del primo giudice, non
impugnato, che il contratto del 12 novembre 1976 da lui stipulato prima
del matrimonio si configurava come contratto definitivo di vendita, e
che d'altro canto la successiva intestazione comune di detto bene non
integrava né una donazione indiretta, né una simulazione,
né un acquisto alla comunione ope legis ai sensi dell'art. 177
lett. a) c.c., ma soltanto un conferimento alla comunione, comportante,
ai sensi dell' art. 192 comma 3 c.c., il diritto di chiedere la
restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed
impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune.
La censura é infondata, in entrambi i profili prospettati.
Ed invero non è ravvisabile il denunciato vizio di omessa
pronuncia su un motivo di appello, atteso che la Corte territoriale ha
affermato la spettanza alla Nowaczewska della metà del ricavato
della vendita dell'appartamento di proprietà comune,
nell'evidente presupposto che l'avvenuto conferimento in comunione del
bene successivamente venduto comportasse il diritto della predetta alla
metà del prezzo ricavato dalla vendita, e quindi implicitamente
disattendendo l'assunto del Driussi circa il suo diritto ad esigere il
controvalore di detto bene, in quanto conferito alla comunione dal suo
patrimonio personale, in applicazione dell'art. 192 comma 3 c.c..
Che poi la Corte di merito non abbia specificamente analizzato e
confutato le deduzioni svolte dall'appellante in ordine a tale pretesa,
delle quali la medesima Corte ha evidenziato la non chiara
formulazione, non vale ad integrare il vizio di violazione di legge
ulteriormente denunciato. Ed invero una pretesa siffatta, che secondo
quanto precisato nel motivo di ricorso si poneva non come domanda
riconvenzionale, ma come mera eccezione diretta ad opporre alla domanda
avversaria un credito proprio del convenuto in via di compensazione,
appare del tutto priva di fondamento giuridico, configurando la norma
invocata il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal
patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del
patrimonio comune, e non già quello alla ripetizione del valore
degli immobili, provenienti dal patrimonio personale di uno dei
coniugi, conferiti alla comunione, atteso che per effetto della
trasformazione dei beni personali in beni comuni detti beni restano
immediatamente soggetti alla disciplina della comunione, e quindi al
principio inderogabile di cui all'art. 194 comma 1 c.c., che impone che
in sede di divisione l'attivo ed il passivo siano ripartiti in parti
eguali, indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno
dei coniugi agli esborsi necessari per l'acquisto dei beni caduti in
comunione.
Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione
degli artt. 177, 179, 191, 192, 194, 935, 2697 c.c., 112 , 115 e 116
c.p.c., omissione, insufficienza e contraddittorietà della
motivazione, si sostiene che nel respingere l'eccezione di mutatio
libelli - formulata sul rilievo che l'attrice aveva chiesto nell’atto
introduttivo del giudizio una somma pari alla quota del diritto di
proprietà dell'immobile sito in via Canciani n. 4, nell'assunto
che esso fosse ricompreso nella comunione legale, in quanto realizzato
in costanza di matrimonio, mentre in sede di precisazione delle
conclusioni aveva invocato la condanna del convenuto al pagamento della
metà del valore stimato dal consulente tecnico di ufficio quale
prezzo corrente dei materiali e della manodopera impiegati per la
ristrutturazione di detto immobile - la Corte territoriale non solo ha
fornito una motivazione inadeguata, ma non ha tenuto conto che si
trattava di due domande del tutto diverse, essendo diverso il
rispettivo petitum, l'uno a valenza reale e l'altro a valenza
obbligatoria, e diversi gli istituti giuridici di riferimento, tanto
che solo con la domanda da ultimo proposta era stato chiesto anche il
risarcimento del danno da svalutazione monetaria,
Anche tale motivo é infondato.
Ed invero la Corte di Appello ha rilevato, con motivazione congrua e
logica, che una lettura complessiva della domanda formulata nell'atto
introduttivo del giudizio induceva ad escluderne la natura di domanda
di rivendica, in quanto non conteneva alcun riferimento ad un diritto
reale dell'attrice sul bene, così differenziandosi
dall'ulteriore domanda relativa all'immobile cointestato ed oggetto di
vendita, ma poneva quale causa giustificatrice della pretesa l’avvenuta
realizzazione del bene in costanza di matrimonio, e che tale fatto
costitutivo appariva anche alla base della richiesta, formulata in sede
di precisazione delle conclusioni, di pagamento della minor somma
corrispondente alla metà del valore dei materiali e della
manodopera impiegati nell' opera di ricostruzione posta in essere nel
regime di comunione legale.
La motivazione sul punto adottata si sottrae alle censure proposte, in
quanto fondata sul puntuale ed argomentato accertamento
dell’identità del fatto costitutivo della pretesa, in relazione
alla situazione di fatto dedotta in causa, alle finalità
perseguite dalla parte ed alla natura del provvedimento effettivamente
richiesto.
Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli
artt. 177, 179, 191, 192, 194, 935, 1362, 2697 c.c., 112, 115 e 116
c.p.c., omissione, insufficienza e contraddittorietà della
motivazione, si deduce che la sentenza impugnata ha applicato il
principio di diritto secondo il quale il coniuge non proprietario ha un
diritto di credito relativo alla metà dei materiali e della
manodopera impiegati all'atto della costruzione realizzata in regime di
comunione su un terreno di proprietà esclusiva dell'altro
coniuge, non considerando che nella specie l'attrice non aveva affatto
provato che i capitali impiegati per la ristrutturazione dell'immobile
provenissero dal conto comune - atteso che le deposizioni rese al
riguardo erano state del tutto generiche ed imprecise e che dalla
stessa prova orale era emerso che il ricorrente aveva impiegato per
detti lavori le somme ricavate dalla vendita di beni propri e della
madre - ed ha pertanto fondato il proprio giudizio su mere presunzioni.
Si sostiene ancora che il principio di diritto affermato nella sentenza
impugnata, secondo il quale l'attrice sarebbe divenuta creditrice del
marito in applicazione analogica dell'art. 935 c.c., non merita
condivisione in linea teorica, atteso che il diritto di credito del
coniuge non proprietario del suolo si fonda non già su tale
disposizione, ma sull'art. 192 c.c., che disciplina specificamente gli
obblighi restitutori tra i coniugi in regime di comunione, e comunque
non può comportare anche il diritto al rimborso del prezzo della
manodopera, non considerato dall'art. 935 c.c..
Si osserva inoltre che il principio di applicazione automatica
dell'art. 935 c.c. non poteva avere ingresso nella specie, in quanto il
ricorrente non aveva né acquistato il materiale per la
ristrutturazione, che pertanto non era caduto nella comunione ai sensi
dell'art. 177 lett. a) c.c., né utilizzato direttamente la
manodopera, ma aveva solo assunto l'impegno di pagare le imprese cui
aveva affidato i lavori di ristrutturazione.
Si deduce infine che la Corre territoriale non ha preso in esame
l'eccezione del Driussi secondo la quale, ove pure fosse stato provato
l'utilizzo del prezzo ricavato dalla vendita dell'appartamento comune,
al medesimo spettava la restituzione di quanto investito nella
comunione.
Anche tale motivo è infondato, in tutte le sue articolazioni.
In ordine alla prima censura è sufficiente rilevare che la
sentenza impugnata ha motivatamente ritenuto come provato che nella
ristrutturazione dell'immobile di proprietà del Driussi fossero
state impiegate le somme ricavate dalla vendita del bene comune, dando
adeguato conto della concludenza degli elementi raccolti, ed in
particolare delle emergenze della prova testimoniale e della
presunzione determinata dall'accertato contributo offerto dalla moglie
al bilancio familiare con l'attività lavorativa svolta dal 1984
al 1992. Peraltro la circostanza, della quale si lamenta la mancata
considerazione, che il Driussi e la madre avevano venduto propri beni
per far fronte ai lavori di ristrutturazione appare priva del
necessario requisito della decisività, atteso che l'accertato
utilizzo del danaro del coniuge - che unicamente rilevava ai fini del
decidere - non esclude il contemporaneo impiego di altre somme a tale
scopo.
Ogni diversa deduzione diretta a contestare le valutazioni in fatto
svolte sul punto dalla sentenza impugnata ed a sollecitare una diversa
valutazione del materiale probatorio non é chiaramente
proponibile in questa sede.
Anche il secondo profilo di censura é privo di fondamento.
Costituisce invero orientamento consolidato di questa Suprema Corte,
dopo la nota sentenza a sezioni unite n. 651 del 1996, che il principio
generale dell'accessione posto dall'art. 934 c.c., in forza del quale
il proprietario del suolo acquista ipso iure, al momento
dell'incorporazione, la proprietà della costruzione su di esso
edificata, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra
i coniugi, atteso che l'acquisto della proprietà per accessione
avviene a titolo originario, senza l’intervento di una manifestazione
di volontà, mentre gli acquisti cui é applicabile il
disposto dell'art. 177 comma 1 lett. a) c.c. hanno carattere
derivativo, in quanto implicano il pregresso espletamento di
un'attività negoziale; pertanto la costruzione realizzata in
costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale su terreno di
proprietà esclusiva di uno dei coniugi é di
proprietà esclusiva di quest'ultimo, mentre la tutela spettante
al coniuge non proprietario che abbia contribuito alla costruzione
opera non già sul piano del diritto reale, ma sul piano
obbligatorio, nel senso che il coniuge che si é giovato
dell'accessione é tenuto a restituire alla comunione le somme
prelevate dal patrimonio comune per eseguire l'edificazione, ai sensi
dell'art. 192 comma 1 c.c., mentre ove nella costruzione sia stato
impiegato danaro appartenente in via esclusiva all'altro coniuge al
medesimo spetta, ai sensi dell'art. 2033 c.c., il diritto di ripetere
nei confronti del proprietario le somme erogate sia per l'acquisto dei
materiali che per la manodopera (v. Cass. 2004 n. 7060; 1999 n. 8585;
1999 n. 4716; 1998 n. 4076; 1996 n. 4273).
Di tale principio, analogicamente ed a piú forte ragione
applicabile ove non di nuova costruzione si tratti, ma - come nella
specie - di ristrutturazione di un immobile preesistente, la Corte di
merito ha fatto puntuale applicazione, riconoscendo alla moglie il
diritto di ripetere le somme dalla stessa erogate per la realizzazione
dell'opera.
Il terzo profilo di censura è inammissibile, in quanto prospetta
una questione non sollevata nei precedenti gradi.
Il quarto profilo si risolve in una mera riformulazione della doglianza
proposta nel primo motivo, e pertanto va rigettato per le
considerazioni in precedenza svolte.
Il ricorso deve essere in conclusione rigettato.
Segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di
questo giudizio di cassazione, nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi £.
3.100,00, di cui £. 3.000,00 per onorario, oltre le spese
generali e gli accessori come per legge.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio della I sezione
civile il 1° dicembre 2004.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 4 FEBBRAIO 2005
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