Aggiornamento - Civile

Cass. Civ. sez. II, 26 novembre 2004, n. 22290, sull'acquisto per usucapione di una servitù

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 28 luglio 1988 Claudio Gianfelice conveniva in giudizio dinanzi al tribunale di Avezzano Maria Di Cristofaro, e premesso:
che è proprietario esclusivo di un cortile, distinto in catasto alla partita 969, foglio 20, particella n. 446 nel piccolo centro di Ortucchio;
che al confine con tale corte si trova un fabbricato di proprietà della convenuta, la quale abusivamente vi aveva aperto una porta, mediante la quale si accede alla stessa, e inoltre vi aveva costruito un muretto;
che ella non può rivendicarvi alcun diritto, e in particolare servitù di passo o di veduta;
tutto ciò premesso, l'attore chiedeva che il tribunale, espletata la necessaria istruttoria della causa, condannasse la convenuta alla chiusura della porta nonché all'abbattimento del muretto, oltre al rimborso delle spese.
Di Cristofaro si costituiva con comparsa di risposta, contestando la fondatezza delle domande "ex adverso" proposte, e spiegando eccezione riconvenzionale, con cui rivendicava la servitù di passaggio per usucapione, oltre che il diritto a tenere il muretto in questione in virtù anche della sentenza n. 32/87 pronunciata dal pretore di Pescina in un contenzioso di carattere possessorio, che l'aveva vista vittoriosa.
Esperita l'istruttoria con l'esame dei testimoni addotti da entrambe le parti, la causa veniva decisa con sentenza depositata il 21 gennaio 1994, con la quale il giudice dichiarava che la convenuta non avesse la servitù di passaggio, ma sola quella di veduta; la condannava all'abbattimento del muretto, e al rimborso di due terzi delle spese, che compensava per il resto.
Avverso tale sentenza Di Cristofaro proponeva appello dinanzi alla competente corte territoriale di L'Aquila, la quale, con sentenza del 4 luglio 2000, in parziale riforma di quella impugnata, ha rigettato la domanda relativa all'abbattimento del muro, confermando le altre statuizioni, e ha compensato per intero le spese del doppio grado.
Il giudice del riesame ha osservato che la porta esistente nel fabbricato dell'appellante non costituisce opera stabile e permanente idonea a potere rappresentare un presupposto necessario per l'acquisto della servitù di passaggio, in quanto tale elemento, e cioè le opere visibili e permanenti, deve invece ricadere nel fondo servente. Quanto al muro ha rilevato che il tribunale non poteva disporne la rimozione, atteso che il pretore di Pescina in un precedente giudizio possessorio aveva deciso per la regolarità del possesso di esso in capo alla ricorrente, e la relativa sentenza era già passata in giudicato.
Avverso la pronuncia emessa in sede di appello Di Cristofaro ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
Gianfelice non ha svolto alcuna difesa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Col primo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 900, 901, 905, 1061, 2727, 2729 e 2697 cc., nonché omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento all'art. 350, nn. 3 e 5 c.p.c., in quanto la corte territoriale non ha considerato che la porta aperta sul cortile di proprietà dell'intimato era stata realizzata parecchi anni prima del sorgere della controversia, sicché ormai si era verificata l'usucapione della servitù di passaggio attraverso lo stesso. Peraltro parecchi testimoni esaminati nel corso dell'istruttoria della causa avevano dichiarato che i componenti della famiglia di Di Cristofaro si erano sempre serviti della porta in questione per recarsi, attraverso il cortile di controparte, nell'adiacente via Colle S. Orante. Del resto una porta altra funzione non può avere se non quella di consentire l'accesso al luogo su cui essa si apre. Né poteva mai avere lo scopo di consentire la presa di aria e luce, essendo chiusa da un robusto infisso di legno senza alcuna apertura intermedia. Inoltre il possesso si presume in capo a chi detenga un bene o vi eserciti un diritto di carattere reale, come nella specie, e quindi l'onere della prova del contrario grava su chi neghi la pretesa rivendicata.
2) Col secondo motivo la ricorrente denunzia omessa e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, n. 5 c.p.c., giacché il giudice del riesame non ha considerato che agli atti di causa era stato evidenziato dalla ricorrente che l'apertura sulla quale era stata costruito un portone, ha anche dei gradini e un battuto di cemento, attraverso i quali si accede dalla corte alla casa di lei e viceversa per recarsi alla via pubblica, come peraltro era stato bene messo in evidenza dai vari testimoni escussi, e risulta anche dai fotogrammi prodotti. Né era necessario per Di Cristofaro aprire quella porta per avere luce e aria, dal momento che la sua casa è anche munita di finestre e ballatoi ben sufficienti allo scopo. L'apertura in questione invece era stata realizzata al preciso fine di attraversare il cortile per raggiungere la via Colle S. Orante. Inoltre la decisione impugnata si pone in stridente contrasto con la sentenza pronunciata dal pretore di Pescina tra le stesse parti il 18 luglio 1987, e nella quale era stato affermato che la resistente aveva fornito la prova del diritto rivendicato a passare lungo il cortile dalla porta apertavi nel muro della sua casa.
Questi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante l'evidente loro intrinseca connessione.
Essi sono fondati.
Invero la corte di appello ha osservato che la porta non costituisce opera visibile e permanente, e inoltre era stata aperta sul cosiddetto fondo dominante, mentre invece per l'usucapione della servitù - nella specie di passaggio - sarebbe stato necessario che l'opera fosse stata eseguita sul fondo servente. Pertanto, anche se diversi testimoni avevano affermato che il passaggio lungo il cortile era stato esercitato dalla ricorrente per oltre venti anni, tuttavia ella non potrebbe rivendicare alcuna acquisizione del diritto di passaggio ivi.
Tale assunto non è esatto. Infatti questa Corte rileva che, fermo restando il presupposto della sussistenza di opere visibili e permanenti al fine del maturarsi di una servitù, tuttavia basta che queste sorgano anche soltanto sul fondo dominante, ovvero su quello servente.
Al riguardo essa più volte ha statuito che "il principio secondo cui ai fini dell'apparenza della servitù non occorre che le opere di natura permanente insistano su entrambi i fondi, ma è sufficiente che si trovino in uno solo di essi, perchè ne sia visibile la strumentalità rispetto al bisogno del fondo da considerare come dominante, in modo che possa presumersene la conoscenza da parte del proprietario dell'altro fondo, attiene solo all’ubicazione ed alla visibilità delle opere, ma non esclude la necessità della loro esistenza e del loro carattere permanente ed univocamente strumentale all'asservimento" (v. sent. 07476 del 4/6/2001 sent. 12197 del 02/12/1997; sent. 11020 del 18/10/1991).
Per quanto poi attiene alla questione del possesso della servitù, in effetti si presume il diritto in capo a chi lo eserciti, ai sensi dell'art. 1141 c.c., con la conseguenza che, chi ne contesti la sussistenza, ha l'onere di provare la mancanza di esso.
Su tali punti perciò la sentenza impugnata non risulta motivata in modo giuridicamente corretto e adeguato.
3) Col terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1061 c.c., oltre che omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, relativamente all'art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., poiché la corte territoriale non doveva ritenere che le opere visibili insistessero solamente sul fondo servente, atteso che esse ben possono sorgere su quello dominante, ed essere ugualmente destinate in modo inequivoco all'esercizio della servitù, come un cancello, un portone e quant'altro.
4) Infine col quarto motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., nonché omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento all'art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., dal momento che il giudice di appello avrebbe dovuto considerare che l'apertura di una porta e l'esercizio del passaggio attraverso di essa per molti anni non possono essere frutto di tolleranza per i rapporti di buon vicinato o parentela, ma sono solo espressione di un diritto acquisito pubblicamente.
Questi altri due motivi, che in parte rimangono assorbiti da quelli testé esaminati, e che vengono anche illustrati congiuntamente per l'evidente loro connessione, risultano pure fondati.
Infatti la corte di merito non ha specificato le ragioni, in virtù delle quali non ha considerato l'esistenza dei suindicati accessori al portone, per ritenere la sussistenza dei presupposti necessari al maturarsi dell'usucapione rivendicata. Peraltro il passaggio sarebbe stato esercitato per parecchi anni dalla resistente, la quale perciò avrebbe il possesso della pretesa servitù.
Orbene in tal caso l'onere della prova con cui si neghi l'esistenza del diritto spetta a chi assume la tolleranza o la mancanza di qualsiasi esercizio della servitù medesima.
Questo giudizio è in linea con quanto, con giurisprudenza costante, questa Corte ha più volte statuito, e cioè che "gli atti di tolleranza, che, secondo l'art. 1144 cod. civ., non possono servire di fondamento all'acquisto del possesso, sono quelli che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull'esercizio del diritto da parte dell'effettivo titolare o possessore e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali mentre a priori ingenerano e giustificano la "permissio", conducono per converso ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone. Pertanto nell'indagine diretta a stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l'altrui tolleranza e quindi sia inidonea all'acquisto del possesso, la lunga durata dell'attività medesima può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell'esclusione di detta situazione di tolleranza, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia o buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per sè labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo" (v. sez. 2 sent. 08194 del 18/06/2001; conf. 199004631 467339 e 4.6.2001 n. 7476.
Su tale punto dunque la sentenza impugnata non risulta motivata in modo adeguato, oltre che giuridicamente corretto.
Ne deriva che il ricorso va accolto e la sentenza cassata con rinvio alla corte di appello di Roma, che si uniformerà al seguente principio di diritto:
< ai fini della sussistenza del requisito dell'apparenza, necessario per l'acquisto di una servitù per usucapione (o per destinazione del padre di famiglia) si richiede la presenza di segni visibili, cioè di opere di natura permanente, obiettivamente destinate all'esercizio della servitù medesima, che rivelino, per la loro struttura e funzione, in maniera inequivoca, l'esistenza del peso gravante sul fondo servente, mentre non è necessario che dette opere insistano su di esso, essendo sufficiente, ove esse si trovino sul fondo dominante, che siano visibili dal fondo servente in modo che possa presumersene la conoscenza da parte del proprietario di quest'ultimo>.
Infine per quanto concerne le spese di questa fase, esse saranno regolate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, e rinvia, anche per le spese, alla corte di appello di Roma.
Roma, 15 ottobre 2004.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 26 NOVEMBRE 2004

 


 

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