SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 28 luglio 1988 Claudio Gianfelice
conveniva in giudizio dinanzi al tribunale di Avezzano Maria Di
Cristofaro, e premesso:
che è proprietario esclusivo di un cortile, distinto in catasto
alla partita 969, foglio 20, particella n. 446 nel piccolo centro di
Ortucchio;
che al confine con tale corte si trova un fabbricato di
proprietà della convenuta, la quale abusivamente vi aveva aperto
una porta, mediante la quale si accede alla stessa, e inoltre vi aveva
costruito un muretto;
che ella non può rivendicarvi alcun diritto, e in particolare
servitù di passo o di veduta;
tutto ciò premesso, l'attore chiedeva che il tribunale,
espletata la necessaria istruttoria della causa, condannasse la
convenuta alla chiusura della porta nonché all'abbattimento del
muretto, oltre al rimborso delle spese.
Di Cristofaro si costituiva con comparsa di risposta, contestando la
fondatezza delle domande "ex adverso" proposte, e spiegando eccezione
riconvenzionale, con cui rivendicava la servitù di passaggio per
usucapione, oltre che il diritto a tenere il muretto in questione in
virtù anche della sentenza n. 32/87 pronunciata dal pretore di
Pescina in un contenzioso di carattere possessorio, che l'aveva vista
vittoriosa.
Esperita l'istruttoria con l'esame dei testimoni addotti da entrambe le
parti, la causa veniva decisa con sentenza depositata il 21 gennaio
1994, con la quale il giudice dichiarava che la convenuta non avesse la
servitù di passaggio, ma sola quella di veduta; la condannava
all'abbattimento del muretto, e al rimborso di due terzi delle spese,
che compensava per il resto.
Avverso tale sentenza Di Cristofaro proponeva appello dinanzi alla
competente corte territoriale di L'Aquila, la quale, con sentenza del 4
luglio 2000, in parziale riforma di quella impugnata, ha rigettato la
domanda relativa all'abbattimento del muro, confermando le altre
statuizioni, e ha compensato per intero le spese del doppio grado.
Il giudice del riesame ha osservato che la porta esistente nel
fabbricato dell'appellante non costituisce opera stabile e permanente
idonea a potere rappresentare un presupposto necessario per l'acquisto
della servitù di passaggio, in quanto tale elemento, e
cioè le opere visibili e permanenti, deve invece ricadere nel
fondo servente. Quanto al muro ha rilevato che il tribunale non poteva
disporne la rimozione, atteso che il pretore di Pescina in un
precedente giudizio possessorio aveva deciso per la regolarità
del possesso di esso in capo alla ricorrente, e la relativa sentenza
era già passata in giudicato.
Avverso la pronuncia emessa in sede di appello Di Cristofaro ha
proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
Gianfelice non ha svolto alcuna difesa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Col primo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa
applicazione degli artt. 900, 901, 905, 1061, 2727, 2729 e 2697 cc.,
nonché omessa motivazione circa un punto decisivo della
controversia, con riferimento all'art. 350, nn. 3 e 5 c.p.c., in quanto
la corte territoriale non ha considerato che la porta aperta sul
cortile di proprietà dell'intimato era stata realizzata parecchi
anni prima del sorgere della controversia, sicché ormai si era
verificata l'usucapione della servitù di passaggio attraverso lo
stesso. Peraltro parecchi testimoni esaminati nel corso
dell'istruttoria della causa avevano dichiarato che i componenti della
famiglia di Di Cristofaro si erano sempre serviti della porta in
questione per recarsi, attraverso il cortile di controparte,
nell'adiacente via Colle S. Orante. Del resto una porta altra funzione
non può avere se non quella di consentire l'accesso al luogo su
cui essa si apre. Né poteva mai avere lo scopo di consentire la
presa di aria e luce, essendo chiusa da un robusto infisso di legno
senza alcuna apertura intermedia. Inoltre il possesso si presume in
capo a chi detenga un bene o vi eserciti un diritto di carattere reale,
come nella specie, e quindi l'onere della prova del contrario grava su
chi neghi la pretesa rivendicata.
2) Col secondo motivo la ricorrente denunzia omessa e/o contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione
all'art. 360, n. 5 c.p.c., giacché il giudice del riesame non ha
considerato che agli atti di causa era stato evidenziato dalla
ricorrente che l'apertura sulla quale era stata costruito un portone,
ha anche dei gradini e un battuto di cemento, attraverso i quali si
accede dalla corte alla casa di lei e viceversa per recarsi alla via
pubblica, come peraltro era stato bene messo in evidenza dai vari
testimoni escussi, e risulta anche dai fotogrammi prodotti. Né
era necessario per Di Cristofaro aprire quella porta per avere luce e
aria, dal momento che la sua casa è anche munita di finestre e
ballatoi ben sufficienti allo scopo. L'apertura in questione invece era
stata realizzata al preciso fine di attraversare il cortile per
raggiungere la via Colle S. Orante. Inoltre la decisione impugnata si
pone in stridente contrasto con la sentenza pronunciata dal pretore di
Pescina tra le stesse parti il 18 luglio 1987, e nella quale era stato
affermato che la resistente aveva fornito la prova del diritto
rivendicato a passare lungo il cortile dalla porta apertavi nel muro
della sua casa.
Questi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante
l'evidente loro intrinseca connessione.
Essi sono fondati.
Invero la corte di appello ha osservato che la porta non costituisce
opera visibile e permanente, e inoltre era stata aperta sul cosiddetto
fondo dominante, mentre invece per l'usucapione della servitù -
nella specie di passaggio - sarebbe stato necessario che l'opera fosse
stata eseguita sul fondo servente. Pertanto, anche se diversi testimoni
avevano affermato che il passaggio lungo il cortile era stato
esercitato dalla ricorrente per oltre venti anni, tuttavia ella non
potrebbe rivendicare alcuna acquisizione del diritto di passaggio ivi.
Tale assunto non è esatto. Infatti questa Corte rileva che,
fermo restando il presupposto della sussistenza di opere visibili e
permanenti al fine del maturarsi di una servitù, tuttavia basta
che queste sorgano anche soltanto sul fondo dominante, ovvero su quello
servente.
Al riguardo essa più volte ha statuito che "il principio secondo
cui ai fini dell'apparenza della servitù non occorre che le
opere di natura permanente insistano su entrambi i fondi, ma è
sufficiente che si trovino in uno solo di essi, perchè ne sia
visibile la strumentalità rispetto al bisogno del fondo da
considerare come dominante, in modo che possa presumersene la
conoscenza da parte del proprietario dell'altro fondo, attiene solo
all’ubicazione ed alla visibilità delle opere, ma non esclude la
necessità della loro esistenza e del loro carattere permanente
ed univocamente strumentale all'asservimento" (v. sent. 07476 del
4/6/2001 sent. 12197 del 02/12/1997; sent. 11020 del 18/10/1991).
Per quanto poi attiene alla questione del possesso della
servitù, in effetti si presume il diritto in capo a chi lo
eserciti, ai sensi dell'art. 1141 c.c., con la conseguenza che, chi ne
contesti la sussistenza, ha l'onere di provare la mancanza di esso.
Su tali punti perciò la sentenza impugnata non risulta motivata
in modo giuridicamente corretto e adeguato.
3) Col terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1061
c.c., oltre che omessa motivazione circa un punto decisivo della
controversia, relativamente all'art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.,
poiché la corte territoriale non doveva ritenere che le opere
visibili insistessero solamente sul fondo servente, atteso che esse ben
possono sorgere su quello dominante, ed essere ugualmente destinate in
modo inequivoco all'esercizio della servitù, come un cancello,
un portone e quant'altro.
4) Infine col quarto motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa
applicazione dell'art. 2697 c.c., nonché omessa motivazione
circa un punto decisivo della controversia, con riferimento all'art.
360, nn. 3 e 5 c.p.c., dal momento che il giudice di appello avrebbe
dovuto considerare che l'apertura di una porta e l'esercizio del
passaggio attraverso di essa per molti anni non possono essere frutto
di tolleranza per i rapporti di buon vicinato o parentela, ma sono solo
espressione di un diritto acquisito pubblicamente.
Questi altri due motivi, che in parte rimangono assorbiti da quelli
testé esaminati, e che vengono anche illustrati congiuntamente
per l'evidente loro connessione, risultano pure fondati.
Infatti la corte di merito non ha specificato le ragioni, in
virtù delle quali non ha considerato l'esistenza dei suindicati
accessori al portone, per ritenere la sussistenza dei presupposti
necessari al maturarsi dell'usucapione rivendicata. Peraltro il
passaggio sarebbe stato esercitato per parecchi anni dalla resistente,
la quale perciò avrebbe il possesso della pretesa
servitù.
Orbene in tal caso l'onere della prova con cui si neghi l'esistenza del
diritto spetta a chi assume la tolleranza o la mancanza di qualsiasi
esercizio della servitù medesima.
Questo giudizio è in linea con quanto, con giurisprudenza
costante, questa Corte ha più volte statuito, e cioè che
"gli atti di tolleranza, che, secondo l'art. 1144 cod. civ., non
possono servire di fondamento all'acquisto del possesso, sono quelli
che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà
comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente
sull'esercizio del diritto da parte dell'effettivo titolare o
possessore e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di
amicizia o familiarità (o da rapporti di buon vicinato
sanzionati dalla consuetudine), i quali mentre a priori ingenerano e
giustificano la "permissio", conducono per converso ad escludere nella
valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria
sottostante al godimento derivatone. Pertanto nell'indagine diretta a
stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se
un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà
o altro diritto reale sia stata compiuta con l'altrui tolleranza e
quindi sia inidonea all'acquisto del possesso, la lunga durata
dell'attività medesima può integrare un elemento
presuntivo, nel senso dell'esclusione di detta situazione di
tolleranza, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma
di mera amicizia o buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per
sè labili e mutevoli, è più difficile il
mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo" (v. sez.
2 sent. 08194 del 18/06/2001; conf. 199004631 467339 e 4.6.2001 n.
7476.
Su tale punto dunque la sentenza impugnata non risulta motivata in modo
adeguato, oltre che giuridicamente corretto.
Ne deriva che il ricorso va accolto e la sentenza cassata con rinvio
alla corte di appello di Roma, che si uniformerà al seguente
principio di diritto:
< ai fini della sussistenza del requisito dell'apparenza, necessario
per l'acquisto di una servitù per usucapione (o per destinazione
del padre di famiglia) si richiede la presenza di segni visibili,
cioè di opere di natura permanente, obiettivamente destinate
all'esercizio della servitù medesima, che rivelino, per la loro
struttura e funzione, in maniera inequivoca, l'esistenza del peso
gravante sul fondo servente, mentre non è necessario che dette
opere insistano su di esso, essendo sufficiente, ove esse si trovino
sul fondo dominante, che siano visibili dal fondo servente in modo che
possa presumersene la conoscenza da parte del proprietario di
quest'ultimo>.
Infine per quanto concerne le spese di questa fase, esse saranno
regolate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, e rinvia,
anche per le spese, alla corte di appello di Roma.
Roma, 15 ottobre 2004.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 26 NOVEMBRE 2004
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