Cass. Civ. sez. I, 4 ottobre 2005, n. 19354,
ammette la categoria del danno esistenziale (fattispecie da ritardata
pronuncia
di sentenza di divorzio)
Motivi
della decisione
Con il
primo motivo di impugnazione, lamenta il ricorrente omessa,
insufficiente,
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in
relazione all’an. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., assumendo:
a) che non
può non definirsi erronea la motivazione dell’impugnato decreto
là dove,
apoditticamente, si afferma che il danno esistenziale rientri de plano
in quello
biologico, omettendosi qualsivoglia ulteriore considerazione in ordine
alla
configurabilità e sussistenza, nella specie, di una diversa
figura di danno,
connessa agli effetti pregiudizievoli determinatisi nella vita di
relazione del
ricorrente ed, in particolare, relativi alla di lui possibilità
di
ricostituirsi un nucleo familiare legittimo;
b) che,
nel caso in esame, l’irragionevole durata della procedura intesa ad
ottenere la
caducazione degli effetti civili del precedente matrimonio ha
determinato l’impossibilità
per il B. di contrarre un nuovo vincolo coniugale, per ciò solo
gravemente
compromettendo un suo diritto fondamentale;
c) che,
a tal fine, il ricorrente ha altresì fornito prova cena e
concreta delle
proprie allegazioni attraverso la dichiarazione sostitutiva di
notorietà di
Manuela z. in data 22.5.2002, dalla quale si evince come la consolidata
relazione intrapresa con il ricorrente sin dal 1996 fosse stata dalla
medesima
dichiarante interrotta a seguito dell’ulteriore rinvio della procedura
di
divorzio, comunicatole nell’estate del 2000;
d) che,
del resto, nessuna prova diversa da quella fornita avrebbe potuto dare
il
ricorrente stesso, secondo le regole processuali applicabili, laddove
la libera
valutazione, da parte del giudice, della dichiarazione sostitutiva
dell’atto di
notorietà deve in concreto ammettersi in quei particolari casi
nei quali, come
nella specie, tale dichiarazione venga resa non da una parte ma da un
terzo.
Con il
secondo motivo di impugnazione, del cui esame congiunto con il
precedente si
palesa l’opportunità involgendo ambedue la trattazione di
questioni
strettamente connesse, lamenta il ricorrente violazione e falsa
applicazione di
norme di diritto, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
assumendo:
a) che
la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza di carenza probatoria
in
ordine alle difese svolte dal medesimo ricorrente per non avere
quest’ultimo
richiesto l’audizione, in qualità di teste, della sopra nominata
Z.;
b) che
il tenore letterale dell’an. 3, comma quinto, della legge n. 89 del
2001
persuade del fatto che la norma, elencando e descrivendo in modo
dettagliato
quelle che sono le facoltà istruttorie riconosciute alle parti,
ha inteso
escludere in capo ad esse la possibilità di dedurre prove
testimoniali e,
conseguentemente, di richiederne la relativa assunzione.
I due
motivi non sono fondati.
Giova,
al riguardo, premettere come la figura del danno “esistenziale” sia
stata
elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, anche di questa Corte
(Cass. 7
giugno 2000, n. 7713 e Cass. 10 maggio 2001, n. 6507, là dove,
con riguardo
alla tutela di pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione di
diritti
fondamentali della persona, diversi dalla salute, collocati alvertice
della
gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti e la cui violazione
non può
rimanere senza “la minima delle sanzioni - risarcimento del danno - che
l’ordinamento appresta per la tutela di un interesse”, si è
fatto riferimento
ad una categoria di danno, appunto “esistenziale od alla vita di
relazione”,
capace di ostacolare “le attività realizzatrici della persona
umana”), per
sopperire alle lacune, riscontrate in tema di protezione civilistica
degli
attributi e dei valori della persona medesima, connesse
all’impossibilità di
giovarsi dell’art. 185 c.p. (e di liquidare perciò il relativo
danno morale)
quante volte non risultasse concretizzata una fattispecie di reato,
mentre,
nella materia de qua, poichè il legislatore è intervenuto
enunciando
espressamente la possibilità di riconoscere il danno “non
patrimoniale” al di
fuori dai limiti posti dall’art. 2059 c.c. (art. 2, primo comma, della
legge n.
89 del 2001), appare evidente come il pregiudizio esistenziale
costituisca una
“voce”del danno indicato da ultimo (Cass. 5 novembre 2002, n. 15449),
conformemente, del resto, a quanto riconosciuto, in via di principio,
da questa
stessa Corte, là dove figura affermato che, nel vigente assetto
dell’ordinamento,
in cui assume posizione preminente la Costituzione, che, all’art.. 2,
riconosce
e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, il danno non patrimoniale
deve
essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi di
ingiusta
lesione di un valore inerente alla persona umana, costituzionalmente
protetto,
dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione
economica,
onde esso non si identifica e non si esaurisce nel danno morale
soggettivo,
costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento transeunte
dell’animo
(Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e n. 8828; Cass. 18 novembre 2003, n.
17429;
Cass. 12 dicembre 2003, n. 19057; Cass. 15 gennaio 2005, n. 729),
ovvero, con
specifico riguardo al tema dell’equa riparazione ai sensi della legge
n. 89 del
2001, dagli stati d’ansia, dal patimento e dal disagio interiore
connessi al
protrarsi nel tempo dell’attesa di una decisione vertente su un bene
della vita
reclamato dal soggetto interessato, ma comprende altresì il
pregiudizio che dalla
durata irragionevole dell’attesa di giustizia si riflette sulla vita di
relazione del medesimo soggetto (Cass. 17 aprile 2003, n. 6168).
In
questi termini, l’assunto della Corte territoriale, la quale, dopo aver
reputato “innegabile” il danno non patrimoniale connesso al ritardo
nell’emanazione di un provvedimento relativo allo “stato” della
persona” ed
avere, perciò, liquidato al 11., in via equitativa, la somma di
euro 1.000,00
per ciascuno dei tre anni oltre l’anno e mesi due stimato come il tempo
di ragionevole
durata del procedimento in esame, ha quindi affermato che “Il cd. danno
esistenziale non costituisce...un autonomo titolo di danno”, non
soggiace di
per sè a censura, indipendentemente, poi, tenuto conto della
palese ininfluenza
della circostanza in questa sede, dal fatto che la stessa Corte abbia
ricondotto tale danno nell’ambito di quello “biologico” ed abbia
ritenuto
quest’ultimo, nella specie, “indimostrato’.
Peraltro,
poiché la richiamata sentenza delle Sezioni Unite di questa
Corte n. 1338 del
2004, malgrado abbia compiuto una semplificazione degli oneri
probatori, ha
tuttavia espressamente riferito il danno non patrimoniale, il quale non
può
essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla
durata
ragionevole del processo, all’afflizione causata dall’esorbitante
attesa della
decisione, ovvero al patema d’animo, all’ansia ed alla sofferenza
morale che
non occorre dimostrare, sia pure attraverso elementi presuntivi,
trattandosi di
conseguenze (non patrimoniali appunto) che possono reputarsi presenti
secondo
l’id quod plerumque accidit ed essendo normale che l’anomala lunghezza
di un
processo le produca in capo alla parte che vi è coinvolta,
laddove, del resto,
il danno cd. “esistenziale’, concretandosi in una modificazione
dell’agire del
singolo, è agevolmente accertabile altresì in via
oggettiva, ovvero sulla base
di indici più sicuri (si pensi al cambiamento dei propri usi di
vita sociale,
delle proprie scelte abituali e così via) di quelli che
suggeriscono l’esistenza
di un danno morale soggettivo, del tutto correttamente il Giudice di
merito ha
ritenuto che “L’inopinato caducarsi del novello progetto matrimoniale
del B. in
conseguenza della eccessiva durata della procedura di divorzio non
appare
suffragato da alcuna prova seria, tale non potendosi considerare la
dichiarazione di certa Manuela Z. in data 22 maggio 2002 (costei
avrebbe deciso
di troncare la relazione sentimentale instaurata con il B.
allorchè,
nell’estate del 2000, le fu comunicato l’ulteriore rinvio della causa
di
divorzio)”, senza che, d’altra parte, si verta nell’ambito dell’art. 76
del
D.P.R. n. 445 del 2000 e che la predetta Z. sia stata indicata quale
teste
sulle circostanze contenute nella dichiarazione stessa. A tale
riguardo,
infatti, conviene notare:
a) che
alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà posta in
essere da un
terzo estraneo alla lite deve attribuirsi la stessa rilevanza assegnata
alla
scrittura proveniente da un terzo appunto (Cass. 7 agosto 2004, n.
15306), onde
tale dichiarazione, non configurandosi come prova tipica, non riveste
la piena
efficacia delle prove documentali e può costituire semplicemente
un indizio
suscettibile di integrare il fondamento della decisione in concorso con
altre
risultanze istruttorie delle quali occorre valutare la rilevanza,
restando così
rimessa al prudente apprezzamento, insindacabile in sede di
legittimità se
adeguatamente motivato, del giudice di merito (Cass. 14 agosto 2001, n.
11105;
Cass. 3 agosto 2002, n. 11652; Cass. 27 luglio 2004, n. 14122), il
quale,
quindi, nella specie, del tutto correttamente non ha considerato “la
dichiarazione di certa Manuela z. in data 22 maggio 2002”, di per
sè sola, come
una “prova seria”;
b) che,
del resto, parimenti incensurabile si palesa il rilievo della Corte
territoriale in ordine alla circostanza che “la predetta Z. (non)
è stata
indicata quale teste sulle circostanze contenute nella dichiarazione
stessa”,
atteso che la formulazione dell’art. 3, quinto comma, della legge n. 89
del
2001 non esclude che i mezzi di prova attraverso i quali ricostruire i
fatti
rilevanti ai fini del decidere siano, e restino, quelli “tipici” di
ogni
procedimento il quale, come accade in materia di equa riparazione, pur
articolandosi nelle forme della Camera di consiglio; (art. 3, quarto
comma,
della già citata legge n. 89/001), non realizzi un’espressione
di giurisdizione
volontaria (così da rendere possibile al giudice di assumere
informazioni sui
fatti in modo tendenzialmente libero e di ricorrere a mezzi di prova
anche “atipici”),
ma abbia per oggetto un conflitto di posizioni tra le parti applicato a
diritti
soggettivi, ovvero costituisca l’espediente normativo per dare vita ad
una
forma processuale semplificata ed alternativa rispetto a quella
ordinaria, ma
volta a fmalità di accertamento e/o di condanna che sono
analoghe od identiche,
onde dal catalogo delineato dagli artt. 2699 e seguenti c.c. e dagli
artt. 191
e seguenti c.p.c., ivi comprendendo, quindi, altresì la prova
testimoniale, le
parti e la corte di appello (quest’ultima nell’esercizio dei suoi
poteri
ufficiosi) possono attingere senza limitazioni particolari, tanto
più in un
caso, come quello di specie, in cui le nonne sul procedimento di
equariparazione, contenute nel richiamato art. 3 della legge n.
89/2001, non
recano alcuna esplicita disposizione in contrario.
Il
ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
La
sorte delle spese del giudizio di Cassazione segue il dettato dell’art.
385,
primo comma, c.p.c., liquidandosi tali spese in euro 1.500,00 per
onorario,
oltre le spese prenotate a debito.
P.Q.M.
La Corte rigetta il
ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore del
controricorrente
delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate in euro 1.500,00 per
onorario, oltre le spese prenotate a debito.
Così
deciso in Roma, il 17maggio2005.
Depositato
in Cancelleria il 4 ottobre 2005.
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