Aggiornamento - Civile




Cass. Civ., sez. III, 15 luglio 2005, n. 15022, nega la categoria danno esistenziale come categoria atipica di danni

 

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 360 n. 3 e 4 c.p.c.,

nonché la falsa applicazione degli artt. 2943, 2697 cc. e 115 c.p.c., per avere la corte di appello

posto a fondamento della propria decisione un fatto prescritto, non provato dal Ministero della difesa

e dalla documentazione da quest’ultimo proposta.

 

Lamentano i ricorrenti che il Ministero della difesa abbia richiesto agli eredi F. una somma corrispondente all’importo che lo stesso sostiene, ma non prova, di aver versato all’Inail, soltanto allorché tale asserito diritto era ormai prescritto.

 

2. Ritiene questa Corte che il motivo sia in parte inammissibile ed in parte infondato.

 

Va, infatti, osservato che la sentenza impugnata non ha esaminato il punto se il diritto dell’malI fosse prescritto e se questa prescrizione fosse stata eccepita.

 

Quindi, in merito a detta questione da una parte non sussiste la soccombenza dei ricorrenti, e conseguentemente l’interesse all’impugnazione, e dall’altra la questione appare nuova e come tale Inammissibile.

 

E’ giurisprudenza pacifica di questa Corte che i motivi del ricorso per Cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in Cassazione questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase del merito e non rilevabili di ufficio (Cass. 10.5.1995, a. 5106; Cass. 8.7.1994, n. 6426).

 

2.2. Ove, invece, la questione fosse stata effettivamente proposta in sede di appello, non essendosi sul punto pronunziato il giudice di appello, la censura poteva essere proposta solo sotto il profilo della violazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’an. 360 n. 4 c.p.c..

 

Infatti in questa ipotesi si tratterebbe della violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che deve essere fatta valere esclusivamente a nonna dell’an. 360 n. 4 c.p.c. (nullità della sentenza e del procedimento) e non come violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 n. 3c.p.c, ed a maggior ragione come vizio motivazionale a nonna dell’an. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. SU. 14.1.1992, n. 369, Cass. 25.9.l996,n. 8468).

 

3.1 La corte di merito ha ritenuto che dovesse tener conto, ai fini del danno patrimoniale degli attori, di quanto corrisposto dall’INAIL a titolo di rendita, oggetto dell’esercizio dell’azione di surroga dell’istituto assicuratore nei confronti del responsabile Ministero (lett. del 18.6.1986, dell’Inail inviata al Ministero della difesa, dalla quale risulta peraltro la pendenza del giudizio instaurato dall’Istituto nei confronti dell’Amministrazione ed avente ad oggetto la richiesta ex art. 1916, cc.). Essendo stata costituita la rendita per il danno patrimoniale ed essendo stata esercitata l’azione di surroga da parte dell’INAIL, non era necessario, ai fini della detrazione dalla somma liquidata a titolo di risarcimento di quanto corrisposto dall’Istituto ed a questo dovuto dal Ministero responsabile, che fosse fornita la prova dell’avvenuto pagamento da parte del Ministero all’INAIL. Ciò infatti attiene ai rapporti tra questi ultimi due soggetti, mentre nei confronti dei danneggiati, la sola corresponsione della rendita e la surogazione esercitata dall’assicuratore sociale nei confronti del responsabile, comporta che l’assicuratore sia succeduto nei diritti dell’assicurato.

 

3.2. Invero, nel caso di esercizio da parte dell’INAIL dell’azione di surroga (che rappresenta una peculiare forma di successione a titolo particolare nel diritto di credito del danneggiato) nei confronti del responsabile del danno, il credito del leso si trasferisce all’istituto previdenziale per la quota corrispondente all’indennizzo assicurativo da questo corrisposto, con la conseguenza che l’infortunato perde la legittimazione all’azione risarcitoria solo entro tale limite, conservando il diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno fosse solo in pane coperto dalla detta prestazione assicurativa (in tal senso vedi Cass., SU., n. 2639 del 1987; Cass. civ., 12/11/1996, n. 9874; Cass. 18.4.1997, n. 3361).

 

3.3. La configurabilità in concreto di una siffatta residuale posta risarcitoria inerisce al merito che il giudice a quo ha correttamente considerato nella sua pronuncia, statuendo che ai danneggiati compete l’importo risarcitorio quantificato in sentenza, decurtato dalla somma capitalizzata relativa alla rendita vitalizia costituita dall’INAIL. Di talchè il pagamento di un eventuale residuo a favore dell’infortunato a titolo risarcitorio risulta in linea con l’intento di evitare ogni illegittima locupletazione.

 

4.1. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la nullità ed inefficacia della sentenza, per insufficiente, errata ed illogica motivazione, ex art. 360 n. 4 e 5 c.p.c., nonchè violazione dell’an. 360 n. 3, per falsa applicazione degli artt. 1223, 2043 e 2056 c.c., art. 2 e 32 Cost.. Lamentano i ricorrenti che nella fattispecie la sentenza impugnata, provvedendo a detrarre dalla somma dovuta a titolo risarcitorio dal Ministero la rendita corrisposta a titolo indennitario dall’INAIL, abbia erratamente effettuato l’applicazione del principio di compensatici lucri cum damno, ammesso solo nell’ipotesi in cui pregiudizio ed incremento patrimonialedipendano dallo stesso fatto, mentre tanto non si è verificato nella fattispecie.

 

Secondo i ricorrenti la rendita Inail non dipende dal fatto illecito, ma da un titolo diverso che in detto evento trova la condizione per spiegare efficacia.

 

In ogni caso ritengono i ricorrenti che la corte di appello avrebbe dovuto tener conto che il danno alla capacità di lavoro generica, intesa come menomazione potenziale, inerente alla lesione della salute della persona, rientra nel danno biologico e, quindi, non è coperta dalla rendita dellINAIL. 5.1. Ritiene questa Corte che il motivo è infondato e che lo Stesso va rigettato.

 

E’ vero che in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, il principio della “compensatio lucri cum damno” può trovare applicazione solo nel caso in cui il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, quali suoi effetti contrapposti, mentre non opera allorché la prestazione ricevuta dal danneggiato ripete la sua fonte e la sua ragione giuridica da un titolo diverso ed indipendente dall’illecito stesso, il quale costituisce soltanto la condizione perché questo titolo spieghi la sua efficacia, senza che il correlativo effetto di incremento patrimoniale eventualmente conseguito dall’infortunato possa incidere sul “quantum “ del risarcimento dovuto dal danneggiante (Cass. 10.2.1999,11. 1135).

 

5.2. Tuttavia, allorchè detta prestazione sia eseguita nei confronti del danneggiato da un assicuratore (nella specie: sociale), il quale abbia diritto di surroga nei confronti del danneggiante, con l’esercizio della surrogazione il danneggiato creditore perde la titolarità del credito ed in essa succede l’assicuratore surrogatosi.

 

 

Indipendentemente da quale sia la natura giuridica di detta surroga(segnatamente se essa costituisca surrogazione rientrante nell’art. 1203, n. 5, come si discute in dottrina), è pacifico anche in giurisprudenza che essa comporti l’acquisto a titolo derivativo dei diritti dell’assicurato contro il responsabile.

 

Il principio fissato dall’an. 1916 cc. in tema di assicurazione privata contro i danni, in forza del quale la surrogazione dell’assicuratore nei diritti dell’assicurato contro il terzo responsabile consegue al pagamento dell’indennità, subisce nel campo delle assicurazioni sociali - ove gli obblighi assicurativi sono caratterizzati da certezza ed inderogabilità, oltre ad articolarsi in una molteplicità di prestazioni non sempre quantificabili immediatamente in danaro - i necessari adattamenti, nel senso che per il verificarsi dell’indicato subingresso dell’istituto assicuratore(nella specie: Inail) basta la semplice comunicazione al terzo responsabile dell’ammissione del danneggiato all’assistenza prevista dalla legge, accompagnata dalla manifestazione della volontà di esercitare il diritto di surroga, con la conseguenza che in tale momento va calcolato l’indennizzo spettante all’assicurato ai fini della sua detrazione dall’importo complessivo del risarcimento del danno (Cass. 4/12/1997, n. 12327).

 

5.3. In altri termini detta detrazione non è conseguenza dell’applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, non essendo lo stesso applicabile, stante le due diverse fonti della prestazione (per il danneggiante: il fatto illecito; per l’assicuratore: l’assicurazione), ma dell’istituto della surroga, il cui esercizio da parte dell’assicuratore comporta la perdita della titolarità del credito del danneggiato nei confronti del responsabile (nella parte in cui è stato soddisfattodall’assicuratore) e l’acquisto dello stesso da parte dell’assicuratore. Ciò corrisponde anche a corretti principi di allocazione del danno nell’ambito della responsabilità aquiliana. Il responsabile del danno ingiusto è tenuto al risarcimento del danno.

 

Se l’assicuratore sociale provvede al pagamento degli indennizzi di competenza, ma ciononostante non provvede alla surroga e, quindi, non vi è successione nel credito del danneggiato, quest’ultimo rimane creditore ed il danneggiante non potrà giovarsi del pagamento dell’assicuratore, per ridurre il suo carico risarcitorio, scaricandolo sull’assicuratore e, quindi, stante le modalità di calcolo dei contributi, su quella parte di collettività che al pagamento degli stessi sia tenuta. Rimarranno da regolare i rapporti interni tra danneggiato ed assicuratore: ma a questi rapporti è estraneo il danneggiante debitore.

 

Qualora, invece, risulti esercitata la surrogazione, va effettuata ladetrazione di quanto pagato dall’assicuratore, poiché da un lato il danneggiato ha perso la titolarità del diritto di credito in parte qua ed in essa è subentrato l’assicuratore, e dall’altra non è giustificabile, sempre nella struttura dell’illecito civile, che il danneggiante paghi una prima volta nei confronti del danneggiato ed una seconda in sede di surrogazione nei confronti dell’assicuratore.

 

5.4. Ne consegue che nella fattispecie correttamente la sentenza impugnata ha rilevato che, avendo l’INAIL corrisposto la rendita ai danneggiati capitalizzata nel novembre del 1985 in L. 220.464.228 e che la stessa era superiore al danno patrimoniale a questi spettanti nella stessa data nella misura di L. 207 milioni, e che dalla lettera dell’INAIL del 18.6.1986 emerge non solo che questi aveva manifestato la volontà di surrogarsi ai danneggiati, ma anche che era stato instaurato un giudizio nei confronti del Ministero a nonna dell’an. 1916 cc., nulla andava più corrisposto agli attori dal Ministero.

 

6. Inconferente, e come tale inammissibile, è la censura secondo cui il giudice di appello non avrebbe tenuto conto che il danno da perdita di capacità lavorativa generica rientra nel danno biologico.

 

Infatti non risulta dalla sentenza impugnata che sia stata posta una questione in merito a tale voce di danno o più genericamente in tema di danno biologico, avendo la corte di merito riconosciuto in favore degli attori il danno patrimoniale nella misura suddetta (già soddisfatto dalla rendita capitalizzata corrisposta dalL’INAIL) ed il danno morale nella misura di L. 60 milioni per la Q. ed in

 

L. 82.032000 per ciascuno dei figli.

 

7. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano laviolazione dell’an. 360 n. 4 e 5 c.p.c. per l’inesistenza e la nullità della sentenza per omessa o apparente motivazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cosi. e 132 c.p.c. Assumono i ricorrenti che la sentenza impugnata abbia provveduto alla liquidazione dei danni patrimoniali, senza alcuna motivazione e segnatamente senza tener conto che non tutti i fratelli avevano effettivamente percepito dall’INAIL le stesse somme; che la somma capitalizzata dall’INAIL nel 1985 era pari a L. 147 milioni e non a L. 220 milioni, come erratamente ritenuto dal giudice di appello.

 

8.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia inammissibile. Il giudice di appello, infatti, non ha provveduto ad una rideterminazione del danno patrimoniale, rispetto a quella effettuata dal giudice di primo grado (essendosi poi limitato solo a detrarre quanto già corrispostodall’INAIL in relazione al danno patrimoniale come liquidato dal tribunale), ma ha ritenuto che le censure mosse in sede di appello avverso la ritenuta esiguità di detta liquidazione erano generiche, rispetto agli analitici criteri di determinazione indicati dal tribunale e non oggetto di contestazione specifica.

 

A fronte di questa decisione del giudice di appello, i ricorrenti avrebbero esclusivamente potuto, in questa sede di sindacato di legittimità, non rimettere in discussione l’entità del danno patrimoniale, che peraltro attiene ad una valutazione di merito, ma solo dolersi - con adeguata argomentazione -che i motivi di appello, così come formulati, non fossero generici sul punto.

 

Ne consegue che, essendo detto motivo inconferente rispetto alla statuizione contenuta dalla sentenza, perché adduce in questa sede di legittimità argomentazioni di merito che dovevano essere prospettate al giudice di appello, e non argomentazioni perdimostrare che la censura in appello in merito all’entità del danno patrimoniale non era generica, il motivo va dichiarato inammissibile.

 

8.2. Infatti la proposizione, con il ricorso per Cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 n. 4 c.p.c., con conseguente inammissibilità - rilevabile anche d’ufficio - del ricorso stesso (Cass. 13/10/1995, n. 10695).

 

8.3. Quanto alla censura di errata individuazione della rendita corrisposta dall’NAIL nel 1985, essa è egualmente inammissibile poiché si risolve in una censura di travisamento del fatto.

 

Il travisamento del fatto non può costituire motivo di ricorso per Cassazione, poichè, risolvendosi in un’inesatta percezione da partedel giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395, n. 4, C.p.c. (Cass. 30.1.2003, n. 1512; Cass. 27.1.2003, n. 1202; Cass. n. 1143 del 2003).

 

9. Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2, 32, 29, 30 e 31 Cost. per non avere la sentenza impugnata accolto la domanda di maggior risarcimento del danno iure proprio, sotto il profilo del danno morale ed esistenziale, subito dalla moglie e dai figli, a seguito della perdita del congiunto, tenuto conto della giovane età della vedova, nel 1975 di anni 34 e dei figli, rispettivamente di anni 11, 9 e 5.

 

Lamentano i ricorrenti che il F. aveva all’epoca della morte anni 37, mentre i familiari avevano perso non solo l’assistenza materiale, ma anche morale dello stesso,nonchè la figura rispettivamente del marito e del padre, con conseguente danno alla loro esistenza; che non era stata valutata dal giudice di merito la violazione dell’intangibilità del rapporto parentale, tutelato dagli artt. 2, 29 e 30 Cost.; che già in sede di appello, e segnatamente nella comparsa conclusionale, essi - nel ribadire la non adeguatezza del danno morale già specificamente censurata - avevano sostenuto che essa era ravvisabile nel disagio anche morale in cui si erano venuti a trovare i vari attori per la perdita del congiunto e che il tribunale avrebbe dovuto tenere in considerazione la tenerissima età dei figli e la giovane età della vedova; che le somme liquidate a titolo di danno morale erano di gran lunga inferiori a quelle previste dalle tabelle del tribunale di Roma, pari ad euro 100.000 per la vedova e ad euro 120.000 per ciascun figlio.

 

10.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia parzialmente fondato e vada accolto per quanto di ragione.

 

Osserva questa Corte che nella liquidazione equitativa del “danno non patrimoniale derivante da fatto illecito il giudice di merito deve tener conto delle effettive sofferenze patite dall’offeso, della gravità dell’illecito di rilievo penale e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da rendere la somma liquidata adeguata al particolare caso concreto (Cass. 6 ottobre 1994, n. 8177).

 

Segnatamente, come lamentato dai ricorrenti, la sentenza impugnata non da atto, nel confermare la liquidazione sul punto di danno non patrimoniale effettuata dal primo giudice, che questi avesse tenuto conto nella liquidazione del danno, anche dello sconvolgimento delle abitudini di vita del nucleo familiare e nella procurata assenza della fondamentale e necessaria figura paterna, proprio nel periodo della vita nella quale essa è più necessaria.

 

10.2. Come questa Corte ha osservato (Cass. 3 1.5.2003, n. 8828; Cass. 3 1.5.2003, n. 8827; cfr. anche Cass. 16525/2003; Cass. 10482/04) nel vigente assetto ordinamentale (nel quale assume posizione preminente la costituzione, che all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo), il danno non patrimoniale di cui all’an. 2059 c.c., non può più essere identificato (secondo la tradizionale, restrittiva lettura dell’an. 2059 c.c. in relazione all’art. 185 c.p.) soltanto con il danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento dell’animo transeunte, determinati da fatto illecito integrante reato. A seguito di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 u.c., fondata sul principio c.d. della “drittwirkung”, le norme costituzionali, che attengono a valori inviolabili della persona umana, non solo hanno efficacia precettiva nei confronti dello Stato, ma sono anche immediatamente efficaci nei rapporti privatistici.

 

Pertanto nell’ambito del danno non patrimoniale, di cui all’an. 2059 c.c., rientra, oltre al tradizionale danno morale subiettivo nei casi previsti dalla legge, anche ogni ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, dalla quale lesione conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata principalmente all’art. 185 c.p..

 

8.3. Tale interpretazione, decisamente da condividere, ha riportato la responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal codice vigente tra danno patrimoniale ( art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale ( art. 2059 cc.), con la conseguenza che lo stesso danno biologico, quale danno alla salute, rientrando a pieno titolo anorma dell’an. 32 Cost., tra i valori della persona umana considerati inviolabili dalla Costituzione, trova la sua tutela non nell’art. 2043 c.c., ma nell’an. 2059 c.c..

 

Sennonchè, mentre per il risarcimento del danno patrimoniale, con il solo riferimento al “danno ingiusto”, la clausola generale e primaria di cui all’an. 2043 c.c. comporta un’atipicità dell’illecito, come esattamente affermato a seguito degli arresti della S.C. n. 550 e 501 del 1999, eguale principio di atipicità non può essere affermato in tema di danno non patrimoniale risarcibile.

 

Infatti la struttura dell’art. 2059 c.c. limita il risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge.

 

La lettura suddetta, costituzionalmente orientata, della Corte di legittimità, ha in buona sostanza ritenuto che, non potendo il legislatore ordinario, per il principio della gerarchia delle fonti, porre limiti alla risarcibilità di valori della persona umana, nella misura e nei casi in cui sono considerati inviolabili dalla Costituzione, anche a detti valori va riconosciuta la tutela minima, e cioè quella risarcitoria.

 

10.4. Cosi interpretando l’an. 2059 cc., si è rimasti nella tipicità del danno non patrimoniale, in quanto si è ritenuto che esso sia risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge ordinaria, ma anche nel caso di lesioni di specifici valori costituzionalmente garantiti della persona.

 

La conseguenza di ciò è che ai fini dell’art. 2059 c.c. non può farsi riferimento ad una generica categoria di “danno esistenziale” (dagli incerti e non definiti confini), poichè attraverso questa via si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione dell’apparente tipica figura categoriale del “danno esistenziale”, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini specifici della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 cc., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valoridella persona, ritenuti inviolabili dalla norma costituzionale.

 

Pertanto il risarcimento del danno non patrimoniale, fuori dalla ipotesi di cui all’an. 185 c.p. e delle altre minori ipotesi legislativamente previste, attiene solo all’ipotesi specifiche di valori costituzionalmente garantiti (la salute, la famiglia, la reputazione, la libertà di pensiero, ecc), ma in questo caso non vi è un generico danno non patrimoniale “esistenziale”, ma un danno da lesione di quello specifico valore di cui al referente costituzionale.

 

Non è sufficiente, quindi, come per il danno patrimoniale, che sussista una lesione di una posizione giuridica considerata meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, sia pure a fini diversi da quelli risarcitori, ma è necessario, ai fini della risarcibilità ex ml. 2059 c.c., che tale lesione attenga a valori della persona umana che la Costituzione dichiari inviolabili, e, come tali, oggetto almeno della tutela minima, che è quella risarcitoria.

 

Ciò comporta che nel caso in esame vada rigettato il motivo di ricorso nella pane in cui lametita il mancato risarcimento del danno esistenziale.

 

10.5. Diverso è il problema per il danno da perdita del rapporto parentale.

 

L’interesse al risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, per la definitiva perdita del rapporto parentale, si concreta nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Esso si colloca nell’area del danno non patrimoniale di cui all’an. 2059 c.c., in raccordo con le suindicate norme della Costituzione e si distingue sia dall’interesse al “bene salute” (protetto dall’an. 32 e tutelato attraverso il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale (protetto dall’art. 2 Cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo).

 

10.6. Il danno patrimoniale da uccisione di congiunto, quale tipico danno conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse (non è in re ipsa) e come tale deve essere allegato e provato da chi chiede il risarcimento relativo. Tuttavia, trattandosi di pregiudizio che si proietta nel futuro, è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni, sulla base degli elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire.

 

La sua liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti, le esigenze di quest’ultimi, rimaste definitivamente compromesse.

 

 

107. Nella fattispecie va accolta, nei temiini che si diranno, la censura relativa alla mancata liquidazione del “danno morale” (rectius: danno non patrimoniale) da perdita del congiunto.

 

Anzitutto va osservato che tanto non introduce una questione nuova relativa al danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale.

 

Infatti nell’accezione giurisprudenziale corrente antecedentemente agli arresti della S.C. n. 8827 ed 8828/2003 si era giunti ad un’equiparazione tra il concetto di danno morale e danno non patrimoniale di cui all’an. 2059 c.c., con la conseguenza che la richiesta di risarcimento del danno morale equivaleva alla richiesta del risarcimento di tutto il danno previsto dall’an. 2059, sotto i diversi profili che il caso concreto presentava.

 

Conseguentemente la sola richiesta di risarcimento del “danno morale” tout-court e non del “danno morale soggettivo ‘contingente”, se proposta prima del suddetto intervento chiarificatore della Corte di legittimità, non va necessariamente limitata solo a quest’ultimo, ma dovrà il giudice di merito accertare, nell’interpretazione della domanda, se sussiste detta limitazione e quindi detta volontà abdicativa, ovvero se il danneggiato abbia inteso adottare la locuzione di “danno morale” come sinonimo di “danno non patrimoniale”, e cioè relativo a profili di pregiudizio non limitato al mero dolore.

 

Ciò vale tanto più se si considera che molte delle cd. tabelle applicate per la liquidazione del “danno morale da morte o lesioni in favore dei congiunti” negli ultimi anni hanno aumentato i parametri base di liquidazione rispetto al passato proprio per tener conto dei pregiudizi non patrimoniali diversi dal lutto vero e proprio e quindi dalla sofferenza personale transeunte.

 

10.9. Sennonchè proprio quest’ultima osservazione, se da una pane corrobora il punto che il danneggiato, con la richiesta di liquidazione del danno morale, possa non aver ritenuto di limitare la richiesta di risarcimento alla sola sofferenza soggettiva e transeunte, ma abbia adottato la locuzione come sinonimo di danno non patrimoniale, dall’altra comporta che il giudice di merito dovrà evitare le duplicazioni risarcitorie.

 

Infatti, costituendo nel contempo flmzioni e limiti del risarcimento del danno alla persona la riparazione del pregiudizio effettivamente subito, se le c.d. tabelle, che il giudice adotta come parametro base per la liquidazione del danno morale da perdita o da lesione di congiunto, già hanno scontato in sede di redazione il pregiudizio non patrimoniale (o impropriamente detto morale) della perdita del rapporto parentale, ovviamente questo profilo del danno non patrimoniale non potrà essere ricalcolato in modo autonomo (salvo che non si proceda ad una precedente depurazione dello stesso dato dall’importo-base del danno morale), rimanendo fermo ed acquisito il principio che il giudice di merito non può procedere ad un’applicazione automatica del risultato tabellare, ma deve personalizzare lo stesso al caso concreto.

 

11.1. Ne consegue che è affetta dai denunziati vizi e va cassata sul punto la sentenza impugnata, che si è limitata a confermare la statuizione del primo giudice in merito alla liquidazione del ‘danno morale” senza considerare se con tale originaria richiesta si fosse inteso limitare il risarcimento solo al danno morale soggettivo transeunte, ovvero ci si riferisse ad ogni forma di danno non patrimoniale conseguente alla perdita del congiunto, ed in quest’ultimo caso, se la somma liquidata comportasse un adeguato ristoro anche del danno da perdita della figura rispettivamente del marito e del padre, in relazione alle peculiarità del caso e segnatamente alla giovanissima età dei superstiti.

 

10.2. Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della corte di appello di Roma, si uniformerà ai suddetti principi di diritto e provvedere anche sulle spese di questo giudizio di Cassazione.

 

P.Q.M.

 

 

Accoglie, per quanto di ragione, il quarto motivo di ricorso e rigetta i restanti. Cassa, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma.

 

Cosi deciso in Roma, il 16 febbraio 2005.

 

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2005.