Cass.
Civ.,
sez. III, 15 luglio 2005, n. 15022, nega la categoria danno
esistenziale come categoria
atipica di danni
Motivi
della decisione
1. Con
il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione
dell’art. 360
n. 3 e 4 c.p.c.,
nonché
la falsa applicazione degli artt. 2943, 2697 cc. e 115 c.p.c., per
avere la
corte di appello
posto a
fondamento della propria decisione un fatto prescritto, non provato dal
Ministero della difesa
e dalla
documentazione da quest’ultimo proposta.
Lamentano
i ricorrenti che il Ministero della difesa abbia richiesto agli eredi
F. una
somma corrispondente all’importo che lo stesso sostiene, ma non prova,
di aver
versato all’Inail, soltanto allorché tale asserito diritto era
ormai
prescritto.
2.
Ritiene questa Corte che il motivo sia in parte inammissibile ed in
parte
infondato.
Va,
infatti, osservato che la sentenza impugnata non ha esaminato il punto
se il
diritto dell’malI fosse prescritto e se questa prescrizione fosse stata
eccepita.
Quindi,
in merito a detta questione da una parte non sussiste la soccombenza
dei
ricorrenti, e conseguentemente l’interesse all’impugnazione, e
dall’altra la questione
appare nuova e come tale Inammissibile.
E’
giurisprudenza pacifica di questa Corte che i motivi del ricorso per
Cassazione
devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano
già comprese
nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo
prospettabili per la
prima volta in Cassazione questioni nuove o nuovi temi di contestazione
non
trattati nella fase del merito e non rilevabili di ufficio (Cass.
10.5.1995, a.
5106; Cass. 8.7.1994, n. 6426).
2.2.
Ove, invece, la questione fosse stata effettivamente proposta in sede
di
appello, non essendosi sul punto pronunziato il giudice di appello, la
censura
poteva essere proposta solo sotto il profilo della violazione del
principio di
cui all’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’an. 360 n. 4 c.p.c..
Infatti
in questa ipotesi si tratterebbe della violazione della corrispondenza
tra il
chiesto ed il pronunciato, che deve essere fatta valere esclusivamente
a nonna
dell’an. 360 n. 4 c.p.c. (nullità della sentenza e del
procedimento) e non come
violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art.
360 n.
3c.p.c, ed a maggior ragione come vizio motivazionale a nonna dell’an.
360 n. 5
c.p.c. (Cass. SU. 14.1.1992, n. 369, Cass. 25.9.l996,n.
8468).
3.1 La
corte di merito ha ritenuto che dovesse tener conto, ai fini del danno
patrimoniale degli attori, di quanto corrisposto dall’INAIL a titolo di
rendita, oggetto dell’esercizio dell’azione di surroga dell’istituto
assicuratore nei confronti del responsabile Ministero (lett. del
18.6.1986,
dell’Inail inviata al Ministero della difesa, dalla quale risulta
peraltro la
pendenza del giudizio instaurato dall’Istituto nei confronti
dell’Amministrazione ed avente ad oggetto la richiesta ex art. 1916,
cc.).
Essendo stata costituita la rendita per il danno patrimoniale ed
essendo stata
esercitata l’azione di surroga da parte dell’INAIL, non era necessario,
ai fini
della detrazione dalla somma liquidata a titolo di risarcimento di
quanto
corrisposto dall’Istituto ed a questo dovuto dal Ministero
responsabile, che
fosse fornita la prova dell’avvenuto pagamento da parte del Ministero
all’INAIL. Ciò infatti attiene ai rapporti tra questi ultimi due
soggetti,
mentre nei confronti dei danneggiati, la sola corresponsione della
rendita e la
surogazione esercitata dall’assicuratore sociale nei confronti del
responsabile, comporta che l’assicuratore sia succeduto nei diritti
dell’assicurato.
3.2.
Invero, nel caso di esercizio da parte dell’INAIL dell’azione di
surroga (che
rappresenta una peculiare forma di successione a titolo particolare nel
diritto
di credito del danneggiato) nei confronti del responsabile del danno,
il
credito del leso si trasferisce all’istituto previdenziale per la quota
corrispondente all’indennizzo assicurativo da questo corrisposto, con
la
conseguenza che l’infortunato perde la legittimazione all’azione
risarcitoria
solo entro tale limite, conservando il diritto ad ottenere nei
confronti del
responsabile il residuo risarcimento ove il danno fosse solo in pane
coperto
dalla detta prestazione assicurativa (in tal senso vedi Cass., SU., n.
2639 del
1987; Cass. civ., 12/11/1996, n. 9874; Cass. 18.4.1997, n. 3361).
3.3. La
configurabilità in concreto di una siffatta residuale posta
risarcitoria
inerisce al merito che il giudice a quo ha correttamente considerato
nella sua
pronuncia, statuendo che ai danneggiati compete l’importo risarcitorio
quantificato in sentenza, decurtato dalla somma capitalizzata relativa
alla
rendita vitalizia costituita dall’INAIL. Di talchè il pagamento
di un eventuale
residuo a favore dell’infortunato a titolo risarcitorio risulta in
linea con
l’intento di evitare ogni illegittima locupletazione.
4.1.
Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la
nullità ed
inefficacia della sentenza, per insufficiente, errata ed illogica
motivazione,
ex art. 360 n. 4 e 5 c.p.c., nonchè violazione dell’an. 360 n.
3, per falsa
applicazione degli artt. 1223, 2043 e 2056 c.c., art. 2 e 32 Cost..
Lamentano i
ricorrenti che nella fattispecie la sentenza impugnata, provvedendo a
detrarre
dalla somma dovuta a titolo risarcitorio dal Ministero la rendita
corrisposta a
titolo indennitario dall’INAIL, abbia erratamente effettuato
l’applicazione del
principio di compensatici lucri cum damno, ammesso solo nell’ipotesi in
cui
pregiudizio ed incremento patrimonialedipendano dallo stesso fatto,
mentre
tanto non si è verificato nella fattispecie.
Secondo
i ricorrenti la rendita Inail non dipende dal fatto illecito, ma da un
titolo
diverso che in detto evento trova la condizione per spiegare efficacia.
In ogni
caso ritengono i ricorrenti che la corte di appello avrebbe dovuto
tener conto
che il danno alla capacità di lavoro generica, intesa come
menomazione
potenziale, inerente alla lesione della salute della persona, rientra
nel danno
biologico e, quindi, non è coperta dalla rendita dellINAIL. 5.1.
Ritiene questa
Corte che il motivo è infondato e che lo Stesso va rigettato.
E’ vero
che in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, il principio
della
“compensatio lucri cum damno” può trovare applicazione solo nel
caso in cui il
vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta
del fatto
illecito, quali suoi effetti contrapposti, mentre non opera
allorché la prestazione
ricevuta dal danneggiato ripete la sua fonte e la sua ragione giuridica
da un
titolo diverso ed indipendente dall’illecito stesso, il quale
costituisce
soltanto la condizione perché questo titolo spieghi la sua
efficacia, senza che
il correlativo effetto di incremento patrimoniale eventualmente
conseguito
dall’infortunato possa incidere sul “quantum “ del risarcimento dovuto
dal
danneggiante (Cass. 10.2.1999,11. 1135).
5.2.
Tuttavia, allorchè detta prestazione sia eseguita nei confronti
del danneggiato
da un assicuratore (nella specie: sociale), il quale abbia diritto di
surroga
nei confronti del danneggiante, con l’esercizio della surrogazione il
danneggiato creditore perde la titolarità del credito ed in essa
succede
l’assicuratore surrogatosi.
Indipendentemente
da quale sia la natura giuridica di detta surroga(segnatamente se essa
costituisca surrogazione rientrante nell’art. 1203, n. 5, come si
discute in
dottrina), è pacifico anche in giurisprudenza che essa comporti
l’acquisto a
titolo derivativo dei diritti dell’assicurato contro il responsabile.
Il
principio fissato dall’an. 1916 cc. in tema di assicurazione privata
contro i
danni, in forza del quale la surrogazione dell’assicuratore nei diritti
dell’assicurato contro il terzo responsabile consegue al pagamento
dell’indennità, subisce nel campo delle assicurazioni sociali -
ove gli
obblighi assicurativi sono caratterizzati da certezza ed
inderogabilità, oltre
ad articolarsi in una molteplicità di prestazioni non sempre
quantificabili
immediatamente in danaro - i necessari adattamenti, nel senso che per
il
verificarsi dell’indicato subingresso dell’istituto assicuratore(nella
specie:
Inail) basta la semplice comunicazione al terzo responsabile
dell’ammissione
del danneggiato all’assistenza prevista dalla legge, accompagnata dalla
manifestazione della volontà di esercitare il diritto di
surroga, con la
conseguenza che in tale momento va calcolato l’indennizzo spettante
all’assicurato ai fini della sua detrazione dall’importo complessivo
del risarcimento
del danno (Cass. 4/12/1997, n. 12327).
5.3. In
altri termini detta detrazione non è conseguenza
dell’applicazione del
principio della compensatio lucri cum damno, non essendo lo stesso
applicabile,
stante le due diverse fonti della prestazione (per il danneggiante: il
fatto
illecito; per l’assicuratore: l’assicurazione), ma dell’istituto della
surroga,
il cui esercizio da parte dell’assicuratore comporta la perdita della
titolarità del credito del danneggiato nei confronti del
responsabile (nella parte
in cui è stato soddisfattodall’assicuratore) e l’acquisto dello
stesso da parte
dell’assicuratore. Ciò corrisponde anche a corretti principi di
allocazione del
danno nell’ambito della responsabilità aquiliana. Il
responsabile del danno
ingiusto è tenuto al risarcimento del danno.
Se
l’assicuratore sociale provvede al pagamento degli indennizzi di
competenza, ma
ciononostante non provvede alla surroga e, quindi, non vi è
successione nel
credito del danneggiato, quest’ultimo rimane creditore ed il
danneggiante non
potrà giovarsi del pagamento dell’assicuratore, per ridurre il
suo carico
risarcitorio, scaricandolo sull’assicuratore e, quindi, stante le
modalità di
calcolo dei contributi, su quella parte di collettività che al
pagamento degli
stessi sia tenuta. Rimarranno da regolare i rapporti interni tra
danneggiato ed
assicuratore: ma a questi rapporti è estraneo il danneggiante
debitore.
Qualora,
invece, risulti esercitata la surrogazione, va effettuata ladetrazione
di
quanto pagato dall’assicuratore, poiché da un lato il
danneggiato ha perso la
titolarità del diritto di credito in parte qua ed in essa
è subentrato
l’assicuratore, e dall’altra non è giustificabile, sempre nella
struttura
dell’illecito civile, che il danneggiante paghi una prima volta nei
confronti
del danneggiato ed una seconda in sede di surrogazione nei confronti
dell’assicuratore.
5.4. Ne
consegue che nella fattispecie correttamente la sentenza impugnata ha
rilevato
che, avendo l’INAIL corrisposto la rendita ai danneggiati capitalizzata
nel
novembre del 1985 in L. 220.464.228 e che la stessa era superiore al
danno
patrimoniale a questi spettanti nella stessa data nella misura di L.
207
milioni, e che dalla lettera dell’INAIL del 18.6.1986 emerge non solo
che
questi aveva manifestato la volontà di surrogarsi ai
danneggiati, ma anche che
era stato instaurato un giudizio nei confronti del Ministero a nonna
dell’an.
1916 cc., nulla andava più corrisposto agli attori dal Ministero.
6.
Inconferente, e come tale inammissibile, è la censura secondo
cui il giudice di
appello non avrebbe tenuto conto che il danno da perdita di
capacità lavorativa
generica rientra nel danno biologico.
Infatti
non risulta dalla sentenza impugnata che sia stata posta una questione
in
merito a tale voce di danno o più genericamente in tema di danno
biologico,
avendo la corte di merito riconosciuto in favore degli attori il danno
patrimoniale nella misura suddetta (già soddisfatto dalla
rendita capitalizzata
corrisposta dalL’INAIL) ed il danno morale nella misura di L. 60
milioni per la
Q. ed in
L.
82.032000 per ciascuno dei figli.
7. Con
il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano laviolazione dell’an.
360 n.
4 e 5 c.p.c. per l’inesistenza e la nullità della
sentenza per omessa o
apparente motivazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cosi. e 132
c.p.c.
Assumono i ricorrenti che la sentenza impugnata abbia provveduto alla
liquidazione dei danni patrimoniali, senza alcuna motivazione e
segnatamente
senza tener conto che non tutti i fratelli avevano effettivamente
percepito
dall’INAIL le stesse somme; che la somma capitalizzata dall’INAIL nel
1985 era
pari a L. 147 milioni e non a L. 220 milioni, come erratamente ritenuto
dal
giudice di appello.
8.1.
Ritiene questa Corte che il motivo sia inammissibile. Il giudice di
appello,
infatti, non ha provveduto ad una rideterminazione del danno
patrimoniale,
rispetto a quella effettuata dal giudice di primo grado (essendosi poi
limitato
solo a detrarre quanto già corrispostodall’INAIL in relazione al
danno
patrimoniale come liquidato dal tribunale), ma ha ritenuto che le
censure mosse
in sede di appello avverso la ritenuta esiguità di detta
liquidazione erano
generiche, rispetto agli analitici criteri di determinazione indicati
dal
tribunale e non oggetto di contestazione specifica.
A
fronte di questa decisione del giudice di appello, i ricorrenti
avrebbero
esclusivamente potuto, in questa sede di sindacato di
legittimità, non
rimettere in discussione l’entità del danno patrimoniale, che
peraltro attiene
ad una valutazione di merito, ma solo dolersi - con adeguata
argomentazione
-che i motivi di appello, così come formulati, non fossero
generici sul punto.
Ne
consegue che, essendo detto motivo inconferente rispetto alla
statuizione
contenuta dalla sentenza, perché adduce in questa sede di
legittimità
argomentazioni di merito che dovevano essere prospettate al giudice di
appello,
e non argomentazioni perdimostrare che la censura in appello in merito
all’entità del danno patrimoniale non era generica, il motivo va
dichiarato
inammissibile.
8.2.
Infatti la proposizione, con il ricorso per Cassazione, di censure
prive di
specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata è
assimilabile alla
mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 n. 4 c.p.c.,
con
conseguente inammissibilità - rilevabile anche d’ufficio - del
ricorso stesso
(Cass. 13/10/1995, n. 10695).
8.3.
Quanto alla censura di errata individuazione della rendita corrisposta
dall’NAIL nel 1985, essa è egualmente inammissibile
poiché si risolve in una
censura di travisamento del fatto.
Il
travisamento del fatto non può costituire motivo di ricorso per
Cassazione,
poichè, risolvendosi in un’inesatta percezione da partedel
giudice di
circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in
contrasto con
quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore
denunciabile con
il mezzo della revocazione ex art. 395, n. 4, C.p.c. (Cass. 30.1.2003,
n. 1512;
Cass. 27.1.2003, n. 1202; Cass. n. 1143 del 2003).
9. Con
il quarto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione degli
artt. 2,
32, 29, 30 e 31 Cost. per non avere la sentenza impugnata accolto la
domanda di
maggior risarcimento del danno iure proprio, sotto il profilo del danno
morale
ed esistenziale, subito dalla moglie e dai figli, a seguito della
perdita del
congiunto, tenuto conto della giovane età della vedova, nel 1975
di anni 34 e
dei figli, rispettivamente di anni 11, 9 e 5.
Lamentano
i ricorrenti che il F. aveva all’epoca della morte anni 37, mentre i
familiari
avevano perso non solo l’assistenza materiale, ma anche morale dello
stesso,nonchè la figura rispettivamente del marito e del padre,
con conseguente
danno alla loro esistenza; che non era stata valutata dal giudice di
merito la
violazione dell’intangibilità del rapporto parentale, tutelato
dagli artt. 2,
29 e 30 Cost.; che già in sede di appello, e segnatamente nella
comparsa
conclusionale, essi - nel ribadire la non adeguatezza del danno morale
già
specificamente censurata - avevano sostenuto che essa era ravvisabile
nel
disagio anche morale in cui si erano venuti a trovare i vari attori per
la
perdita del congiunto e che il tribunale avrebbe dovuto tenere in
considerazione la tenerissima età dei figli e la giovane
età della vedova; che
le somme liquidate a titolo di danno morale erano di gran lunga
inferiori a
quelle previste dalle tabelle del tribunale di Roma, pari ad euro
100.000 per
la vedova e ad euro 120.000 per ciascun figlio.
10.1.
Ritiene questa Corte che il motivo sia parzialmente fondato e vada
accolto per
quanto di ragione.
Osserva
questa Corte che nella liquidazione equitativa del “danno non
patrimoniale
derivante da fatto illecito il giudice di merito deve tener conto delle
effettive sofferenze patite dall’offeso, della gravità
dell’illecito di rilievo
penale e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da
rendere
la somma liquidata adeguata al particolare caso concreto (Cass. 6
ottobre 1994,
n. 8177).
Segnatamente,
come lamentato dai ricorrenti, la sentenza impugnata non da atto, nel
confermare la liquidazione sul punto di danno non patrimoniale
effettuata dal
primo giudice, che questi avesse tenuto conto nella liquidazione del
danno,
anche dello sconvolgimento delle abitudini di vita del nucleo familiare
e nella
procurata assenza della fondamentale e necessaria figura paterna,
proprio nel
periodo della vita nella quale essa è più necessaria.
10.2.
Come questa Corte ha osservato (Cass. 3 1.5.2003, n. 8828; Cass. 3
1.5.2003, n.
8827; cfr. anche Cass. 16525/2003; Cass. 10482/04) nel vigente assetto
ordinamentale (nel quale assume posizione preminente la costituzione,
che
all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo), il
danno
non patrimoniale di cui all’an. 2059 c.c., non può più
essere identificato
(secondo la tradizionale, restrittiva lettura dell’an. 2059 c.c. in
relazione
all’art. 185 c.p.) soltanto con il danno morale soggettivo, costituito
dalla
sofferenza contingente e dal turbamento dell’animo transeunte,
determinati da
fatto illecito integrante reato. A seguito di una lettura
costituzionalmente
orientata dell’art. 2059 u.c., fondata sul principio c.d. della
“drittwirkung”,
le norme costituzionali, che attengono a valori inviolabili della
persona
umana, non solo hanno efficacia precettiva nei confronti dello Stato,
ma sono
anche immediatamente efficaci nei rapporti privatistici.
Pertanto
nell’ambito del danno non patrimoniale, di cui all’an. 2059 c.c.,
rientra,
oltre al tradizionale danno morale subiettivo nei casi previsti dalla
legge,
anche ogni ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di valori
della
persona costituzionalmente garantiti, dalla quale lesione conseguano
pregiudizi
non suscettivi di valutazione economica, senza soggezione al limite
derivante
dalla riserva di legge correlata principalmente all’art. 185 c.p..
8.3.
Tale interpretazione, decisamente da condividere, ha riportato la
responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità
prevista dal codice
vigente tra danno patrimoniale ( art. 2043 c.c.) e danno non
patrimoniale (
art. 2059 cc.), con la conseguenza che lo stesso danno biologico, quale
danno
alla salute, rientrando a pieno titolo anorma dell’an. 32 Cost., tra i
valori
della persona umana considerati inviolabili dalla Costituzione, trova
la sua
tutela non nell’art. 2043 c.c., ma nell’an. 2059 c.c..
Sennonchè,
mentre per il risarcimento del danno patrimoniale, con il solo
riferimento al
“danno ingiusto”, la clausola generale e primaria di cui all’an. 2043
c.c.
comporta un’atipicità dell’illecito, come esattamente affermato
a seguito degli
arresti della S.C. n. 550 e 501 del 1999, eguale principio di
atipicità non può
essere affermato in tema di danno non patrimoniale risarcibile.
Infatti
la struttura dell’art. 2059 c.c. limita il risarcimento del danno non
patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge.
La
lettura suddetta, costituzionalmente orientata, della Corte di
legittimità, ha
in buona sostanza ritenuto che, non potendo il legislatore ordinario,
per il
principio della gerarchia delle fonti, porre limiti alla
risarcibilità di
valori della persona umana, nella misura e nei casi in cui sono
considerati
inviolabili dalla Costituzione, anche a detti valori va riconosciuta la
tutela
minima, e cioè quella risarcitoria.
10.4.
Cosi interpretando l’an. 2059 cc., si è rimasti nella
tipicità del danno non
patrimoniale, in quanto si è ritenuto che esso sia risarcibile
non solo nei
casi espressamente previsti dalla legge ordinaria, ma anche nel caso di
lesioni
di specifici valori costituzionalmente garantiti della persona.
La
conseguenza di ciò è che ai fini dell’art. 2059 c.c. non
può farsi riferimento
ad una generica categoria di “danno esistenziale” (dagli incerti e non
definiti
confini), poichè attraverso questa via si finisce per portare
anche il danno
non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso
l’individuazione
dell’apparente tipica figura categoriale del “danno esistenziale”, in
cui
tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla
norma ai
fini specifici della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre
tale
situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè
è necessitata
dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 cc., che rimane
soddisfatta
dalla tutela risarcitoria di specifici valoridella persona, ritenuti
inviolabili dalla norma costituzionale.
Pertanto
il risarcimento del danno non patrimoniale, fuori dalla ipotesi di cui
all’an.
185 c.p. e delle altre minori ipotesi legislativamente previste,
attiene solo
all’ipotesi specifiche di valori costituzionalmente garantiti (la
salute, la
famiglia, la reputazione, la libertà di pensiero, ecc), ma in
questo caso non
vi è un generico danno non patrimoniale “esistenziale”, ma un
danno da lesione
di quello specifico valore di cui al referente costituzionale.
Non
è
sufficiente, quindi, come per il danno patrimoniale, che sussista una
lesione
di una posizione giuridica considerata meritevole di tutela da parte
dell’ordinamento, sia pure a fini diversi da quelli risarcitori, ma
è
necessario, ai fini della risarcibilità ex ml. 2059 c.c., che
tale lesione
attenga a valori della persona umana che la Costituzione dichiari
inviolabili,
e, come tali, oggetto almeno della tutela minima, che è quella
risarcitoria.
Ciò
comporta che nel caso in esame vada rigettato il motivo di ricorso
nella pane
in cui lametita il mancato risarcimento del danno esistenziale.
10.5.
Diverso è il problema per il danno da perdita del rapporto
parentale.
L’interesse
al risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto,
per la
definitiva perdita del rapporto parentale, si concreta nell’interesse
all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca
solidarietà
nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e
piena esplicazione
delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito
della peculiare
formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è
ricollegabile
agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Esso si colloca nell’area del danno non
patrimoniale
di cui all’an. 2059 c.c., in raccordo con le suindicate norme della
Costituzione e si distingue sia dall’interesse al “bene salute”
(protetto
dall’an. 32 e tutelato attraverso il risarcimento del danno biologico),
sia
dall’interesse all’integrità morale (protetto dall’art. 2 Cost.
e tutelato
attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo).
10.6.
Il danno patrimoniale da uccisione di congiunto, quale tipico danno
conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse (non è
in re ipsa) e
come tale deve essere allegato e provato da chi chiede il risarcimento
relativo. Tuttavia, trattandosi di pregiudizio che si proietta nel
futuro, è
consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni,
sulla base
degli elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire.
La sua
liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto
dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di
convivenza e di ogni
ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno
ampia del nucleo
familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei
singoli superstiti,
le esigenze di quest’ultimi, rimaste definitivamente compromesse.
107.
Nella fattispecie va accolta, nei temiini che si diranno, la censura
relativa
alla mancata liquidazione del “danno morale” (rectius: danno non
patrimoniale)
da perdita del congiunto.
Anzitutto
va osservato che tanto non introduce una questione nuova relativa al
danno non
patrimoniale da perdita del rapporto parentale.
Infatti
nell’accezione giurisprudenziale corrente antecedentemente agli arresti
della
S.C. n. 8827 ed 8828/2003 si era giunti ad un’equiparazione tra il
concetto di
danno morale e danno non patrimoniale di cui all’an. 2059 c.c., con la
conseguenza che la richiesta di risarcimento del danno morale
equivaleva alla
richiesta del risarcimento di tutto il danno previsto dall’an. 2059,
sotto i
diversi profili che il caso concreto presentava.
Conseguentemente
la sola richiesta di risarcimento del “danno morale” tout-court e non
del
“danno morale soggettivo ‘contingente”, se proposta prima del suddetto
intervento chiarificatore della Corte di legittimità, non va
necessariamente
limitata solo a quest’ultimo, ma dovrà il giudice di merito
accertare,
nell’interpretazione della domanda, se sussiste detta limitazione e
quindi
detta volontà abdicativa, ovvero se il danneggiato abbia inteso
adottare la
locuzione di “danno morale” come sinonimo di “danno non patrimoniale”,
e cioè
relativo a profili di pregiudizio non limitato al mero dolore.
Ciò
vale tanto più se si considera che molte delle cd. tabelle
applicate per la
liquidazione del “danno morale da morte o lesioni in favore dei
congiunti”
negli ultimi anni hanno aumentato i parametri base di liquidazione
rispetto al
passato proprio per tener conto dei pregiudizi non patrimoniali diversi
dal
lutto vero e proprio e quindi dalla sofferenza personale transeunte.
10.9.
Sennonchè proprio quest’ultima osservazione, se da una pane
corrobora il punto
che il danneggiato, con la richiesta di liquidazione del danno morale,
possa
non aver ritenuto di limitare la richiesta di risarcimento alla sola
sofferenza
soggettiva e transeunte, ma abbia adottato la locuzione come sinonimo
di danno
non patrimoniale, dall’altra comporta che il giudice di merito
dovrà evitare le
duplicazioni risarcitorie.
Infatti,
costituendo nel contempo flmzioni e limiti del risarcimento del danno
alla
persona la riparazione del pregiudizio effettivamente subito, se le
c.d.
tabelle, che il giudice adotta come parametro base per la liquidazione
del
danno morale da perdita o da lesione di congiunto, già hanno
scontato in sede
di redazione il pregiudizio non patrimoniale (o impropriamente detto
morale)
della perdita del rapporto parentale, ovviamente questo profilo del
danno non
patrimoniale non potrà essere ricalcolato in modo autonomo
(salvo che non si
proceda ad una precedente depurazione dello stesso dato
dall’importo-base del
danno morale), rimanendo fermo ed acquisito il principio che il giudice
di
merito non può procedere ad un’applicazione automatica del
risultato tabellare,
ma deve personalizzare lo stesso al caso concreto.
11.1.
Ne consegue che è affetta dai denunziati vizi e va cassata sul
punto la
sentenza impugnata, che si è limitata a confermare la
statuizione del primo
giudice in merito alla liquidazione del ‘danno morale” senza
considerare se con
tale originaria richiesta si fosse inteso limitare il risarcimento solo
al
danno morale soggettivo transeunte, ovvero ci si riferisse ad ogni
forma di
danno non patrimoniale conseguente alla perdita del congiunto, ed in
quest’ultimo caso, se la somma liquidata comportasse un adeguato
ristoro anche
del danno da perdita della figura rispettivamente del marito e del
padre, in
relazione alle peculiarità del caso e segnatamente alla
giovanissima età dei
superstiti.
10.2.
Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della corte di
appello di
Roma, si uniformerà ai suddetti principi di diritto e provvedere
anche sulle
spese di questo giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
Accoglie,
per quanto di ragione, il quarto motivo di ricorso e rigetta i
restanti. Cassa,
in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza e rinvia, anche
per le
spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della corte di
appello di
Roma.
Cosi
deciso in Roma, il 16 febbraio 2005.
Depositato
in Cancelleria il 15 luglio 2005.
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