Nuovo orientamento sulla natura della presupposizione

 

La giurisprudenza costantemente  definisce la presupposizione come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in  considerazione - pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali – dai  contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e  l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o  verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde -  integrandolo - all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro.

Secondo questo orientamento deve tuttavia escludersi che possano essere  ricondotti alla presupposizione fatti e circostanze  ascrivibili alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio  significato di causa concreta, quale interesse che l'operazione contrattuale è diretta a  soddisfare (cfr. Cass., 8/5/2006, n. 10490). I cd. presupposti causali assumono infatti rilievo  già sul piano dell'interesse che giustifica l'impegno contrattuale, e pertanto appunto la causa  dello stesso.

Alla presupposizione non possono  essere propriamente ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed in particolare la qualità del  bene, giacché in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo  difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell'inadempimento.

Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione

 dalle parti vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, giacché a

 parte il rilievo che non vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente

 figura, la presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in  cui i fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una  clausola condizionale.

 Estranei alla presupposizione vanno a fortioriri tenuti i motivi, quali meri impulsi psichici alla  stipulazione concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano  dal contenuto del contratto, laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il contratto  è funzionailizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se  essi sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in rilievo l'istituto della  presupposizione, giacché l'interesse comune integra appunto la causa concreta del contratto.

Alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo di categoria unificante assumente specifico significato laddove nell'ambito delle circostanze  giuridicamente influenti sul contratto ad essa si riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti  e circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione,  assumono (per entrambe le parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo riconoscimento da  parte dell'altra) un'importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale.

 Circostanze che, pur senza essere - come detto - dedotte specificamente quale condizione del

 contratto, e pertanto rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed oggettivo

 presupposto di efficacia in base al significato proprio del negozio determinato alla stregua dei

 criteri legali d'interpretazione, assumenti valore determinante per il mantenimento del vincolo  contrattuale (es. l'ottenimento dello sperato finanziamento).

 Il relativo difetto legittima allora le parti non già a domandare una declaratoria di invalidità o  di inefficacia del contratto, ne' a chiederne la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art.  1256 c.c., art. 1463 c.c. e ss.) della prestazione (contra. v. peraltro Cass., 22/9/1981, n. 5168  ), bensì all'esercizio del potere di recesso ( anche qualora il presupposto obiettivo del

 contratto sia già in origine inesistente o impossibile a verificarsi).

 

Cass. civ., sez. III, Sentenza n. 12235 del 2007,

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 Con atto di citazione ritualmente notificato nel 1992 il Comune di Genova conveniva le Acciaierie

 di Cornigliano s.p.a. (poi Ilva s.p.a.) e la Ilva s.p.a. (poi Iritecna s.p.a. e quindi Fintecna

 s.p.a.) avanti al Tribunale di Genova per ivi sentir pronunziare la risoluzione per eccessiva

 onerosità sopravvenuta o per presupposizione del contratto stipulato il 7/5/1976 con la società

 Italsider s.p.a. (poi Fintecna s.p.a.), cui dal maggio 1985 era subentrata la società Cogea s.p.a.

 (poi Acciaierie di Cornigliano s.p.a.), di permuta dell'area di mq. 13.326 in Genova - Cornigliano

 (con accesso dalla via Francesco Rolla) di proprietà Italsider con un quantitativo di mc. 200

 milioni di acqua trattata da costruendo depuratore di acque nere, o proveniente da altre fonti

 sostitutive, da fornirsi con consegne uniformemente ripartite in 20 anni a decorrere dal settembre

 1977.

 Esponeva al riguardo che sin dall'entrata in funzione il depuratore in questione non aveva potuto

 rifornire come pattuito lo stabilimento siderurgico Oscar Senigaglia, a causa di imprevisti ed

 imprevedibili scarichi abusivi di portata tale da determinare l'impossibilità per il medesimo di

 erogare acqua industriale con le stabilite caratteristiche.

 Nella resistenza delle convenute società, che in via riconvenzionale chiedevano accertarsi e

 dichiararsi l'inadempimento dell'Amministrazione comunale, con conseguente condanna della medesima

 al pagamento degli importi corrisposti agli acquedotti privati per la fornitura sostitutiva nonché

 a rifornire lo stabilimento siderurgico della quantità d'acqua pattuita e al risarcimento dei

 danni; riunito il procedimento con altri (due) avanti al medesimo tribunale instaurati nel 1993

 dall'A.M.G.A. (Azienda Mediterranea Gas e Acqua s.p.a., già Azienda Municipalizzata Gas ed Acqua)

 nei confronti della società Ilva s.p.a. e della società Acciaierie di Cornigliano s.p.a., per ivi

 sentirle condannare al pagamento delle somme dovute a titolo di corrispettivo per la fornitura di

 acqua effettuata in loro favore nei periodi di rispettiva competenza, con sentenza emessa nel 1998

 l'adito giudice rigettava le domande del Comune e dell'A.M.G.A., nonché quelle di A risarcimento

 danni proposte in via riconvenzionale dalle convenute, e dichiarava inammissibile la domanda di

 manleva, condannando il Comune a rimborsare alla società Acciaierie di Cornigliano s.p.a. e

 all'Uva s.p.a. gli importi già corrisposti agli acquedotti privati per le forniture sostitutive,

 con le conseguenti disposizioni in ordine alla regolazione delle spese. I gravami, interposti con

 separati atti dal Comune e dall'A.M.G.A. e poi riuniti all'esito della riassunzione del processo

 successivamente all'interruzione disposta in ragione della fusione per incorporazione della

 Iritecna s.p.a. nella Fintecna s.p.a., con costituzione di quest'ultima, venivano dalla Corte

 d'Appello di Genova rigettati con sentenza del 20/9/2002.

 Avverso la detta sentenza della corte di merito il Comune di Genova propone ora ricorso per

 cassazione affidato a 5 motivi, illustrati da memoria.

 Resistono con controricorso le società Uva s.p.a. e Fintecna s.p.a., che hanno anch'esse

 presentato memoria.

 La società A.M.G.A. non ha svolto attività difensiva. MOTIVI DELLA DECISIONE

 Con il 1^ motivo l'Amministrazione ricorrente de- ( nunzia violazione e falsa applicazione degli

 artt. 1467, 1552, 1362, 1363, 1366, 1374 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,

 nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della

 controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c.,

 comma 1, n. 5.

 Lamenta che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto non applicabile l'istituto della

 presupposizione, nel caso concernente il presupposto implicito del contratto determinante la

 volontà negoziale che, salvo i casi eccezionali specificamente previsti, l'impianto di depurazione

 de quo fosse in grado di produrre acqua trattata della qualità convenuta rispondente a determinate

 caratteristiche chimico-fisiche, argomentando dalla circostanza che l'eventualità della mancata

 produzione di acqua depurata era stata specificamente ed espressamente prevista in contratto

 laddove si era indicato che in relazione alle eventuali fonti sostitutive "nessuna alea dovesse

 gravare su Italsider", non essendovi pertanto alcuno "spazio per l'integrazione del contratto

 nell'ottica del bilanciamento delle prestazioni secondo l'economia interna dello stesso".

 Deduce essere non revocabile in dubbio, considerando correttamente quale scopo dello stipulato

 contratto de quo il risparmio di acqua potabile a favore di usi civili per preservare le già

 carenti risorse idriche (per il Comune) e l'utilizzazione dell'acqua depurata per evitare il

 rischio di contingentamento in caso di siccità (per l'Italsider), che la circostanza disattesa dai

 giudici di merito costituisce presupposto implicito del contratto, non risultando invero

 spiegabile "per quale ragione il Comune - che ben avrebbe potuto espropriare l'area per un costo

 irrisorio (a quel tempo determinabile secondo i criteri di cui alla L. n. 865 del 1971) - avrebbe

 dovuto assumersi il rischio di vedersi esposto ad un totale stravolgimento delle prestazioni

 contrattuali, rappresentato dall'obbligo di fornitura di acqua potabile in luogo dell'acqua per

 mero uso industriale, con aumento dell'onere per la P.A. dagli originari L. 600 milioni (valore di

 permuta), a L. 26 miliardi (per capitale e interessi)".

 In considerazione della causa (di permuta), della durata (ventennale) e della natura (ad

 esecuzione differita) del contratto, il corretto funzionamento dell'impianto costituisce

 ineludibile presupposto dell'accordo in questione, invero non escluso dalla previsione

 dell'eventuale - limitato e temporaneo - malfunzionamento dell'impianto, giacché laddove le parti

 si fossero rappresentate, avuto riguardo anche alla lunga durata del contratto, la situazione di

 "impossibilità assoluta di effettuare la depurazione dell'acqua con le pattuite caratteristiche"

 non si sarebbero invero indotte a stipulare un contratto "il cui sinallagma era fondato

 sull'equivalenza economica delle prestazioni (trattandosi appunto di permuta) e la cui

 distribuzione dei rischi era necessariamente da ricondurre e da riportare a quel determinato tipo

 contrattuale". Con il 2^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1467, 1552,

 1362, 1363, 1366, 1374 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché omessa,

 insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato

 dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

 Si duole che nell'interpretare il contratto la corte di merito abbia erroneamente escluso che il

 mancato funzionamento del depuratore sia da considerarsi circostanza straordinaria ed

 imprevedibile ai sensi dell'art. 1467 c.c., il fenomeno dell'enorme quantità di scarichi abusivi

 essendosi verificato solamente in epoca successiva alla stipulazione del contratto, una prima

 volta nel 1985 e poi nel 1989, vanamente avendo tentato di ovviarvi, anche con una denuncia alla

 locale Procura della Repubblica.

 Lamenta non potersi considerare al riguardo in qualche modo rilevante la circostanza che il

 controllo sull'inquinamento delle acque rientra nelle proprie competenze amministrative, venendo

 altrimenti a sovrapporsi il suo ruolo di autorità di controllo con quello di parte del contratto

 di permuta in oggetto, laddove l'esercizio dei poteri pubblicistici non può invero riverberare in

 chiave d'interpretazione di un contratto di diritto comune. Lamenta la contraddittorietà della

 motivazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui, dopo essersi ritenuto rientrare nell'alea

 normale del contratto il rischio dell'immissione di scarichi abusivi nelle condotte adducenti al

 depuratore, risulta alle parti di contratti commutativi attribuito il potere di assumere,

 reciprocamente o unilateralmente, un determinato rischio, rendendo eonseguentemente per tale

 aspetto aleatorio il negozio. Deduce altresì che il rischio di fornire comunque l'acqua, anche in

 caso di guasti e/o fermate dell'impianto, contrattualmente posto a suo carico, costitusce

 questione altra e diversa da quella relativa. ad un "assoluto ed indefinito stravolgimento delle

 prestazioni originariamente previste a titolo di permuta in conseguenza di un evento fuori

 dall'ordinario", giacché il ricorso alle "fonti sostitutive" era stato nella specie concepito come

 rimedio "eccezionale", tendente a riparare circostanze contingenti e necessariamente limitate nel

 tempo che avessero inciso sulla regolare attività dell'impianto.

 Si duole non essersi nell'impugnata sentenza tenuto conto che il valore delle prestazioni dedotte

 in contratto (e cioè il costo a me. dell'acqua, da un canto, e il valore di mercato dell'area

 all'epoca determinato in L. 600 milioni, da altro canto) era successivamente venuto a risultare

 fortemente squilibrato, giacché la prestazione a suo carico era ascesa ad un valore di più di L.

 26 miliardi (per capitale ed interessi). E l'imprevedibilità deve essere valutata anche con

 riferimento ad un evento che ecceda la normale distribuzione dei rischi in relazione alla

 "dimensione" assunta da evento già esistente al momento della conclusione del contratto. Si duole,

 ancora, che nel considerare contrattualmente previsto un concorso della controparte (nella misura

 del 30% del prezzo dell'acqua) solamente in caso di eventi di forza maggiore, la corte di merito

 abbia violato le norme in tema di obbligazioni alternative, "risultando evidente che le

 prestazioni di fornitura di acqua potabile aveva natura necessariamente sostitutiva e non

 alternativa rispetto alla fornitura di acqua depurata per uso industriale". Con il 3^ motivo

 denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1366, 1374 e 1375 c.c. in relazione

 all'art. 1467 c.c. in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché omessa, insufficiente

 o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o

 rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 .p.c., comma 1, n. 5.

 Lamenta che l'interpretazione del contratto da parte della corte di inerito disattende il criterio

 della buona fede contrattuale, cui occorre fare ricorso a fini interpretativi (art. 1366 c.c.) per

 valutare il comportamento delle parti anche in fase esecutiva (art. 1375 c.c.), "non solo per dare

 significato al regolamento, ma anche per bilanciare le prestazioni secondo l'economì a interna del

 contratto", laddove nell'impugnata sentenza si perviene ad affermare che "tutto il rischio sarebbe

 stato da addossarsi alla sola parte pubblica, mentre la parte privata sarebbe stata in ogni caso

 garantita di ogni e qualunque evento che avesse inciso sull'equilibrio delle prestazioni.

 Con il 4^ motivo l'Amministrazione ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt.

 1559, 1562, 1563, 1564, 1569, 1570 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché

 omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia

 prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

 Si duole che "Con riguardo alla posizione AMGA (ed alle conseguenze che se ne traggono a suffragio

 dell'intepretazione propugnata dal Giudicante)", la corte di merito abbia affermato che "avrebbe

 dovuto competere all'acquedotto comunale dimostrare che furono Italsider, poi Ilva e poi

 Acciaierie di Cornigliano a richiedere la fornitura di acqua sostitutiva, non essendo sufficiente

 la circostanza che l'acqua sia di fatto pervenuta allo stabilimento siderurgico", ingiustificato

 ravvisando "in assenza di un impegno di Amga in proposito" il fatto della "prosecuzione delle

 forniture per anni senza alcuna interruzione, nonostante i mancati pagamenti" e conseguentemente

 ritenendo "suffragata la tesi secondo cui la fornitura di acqua sostitutiva da parte di AMGA sia

 avvenuta in adempimento degli accordi contrattuali assunti dal Comune, che sarebbe quindi tenuto

 al relativo pagamento".

 Lamenta l'illogicità e la contraddittorietà di tale argomentare, giacché la corte di merito ha

 "posto a premessa del proprio ragionamento quella che in realtà avrebbe dovuto esserne la

 conseguenza".

 Sostiene al riguardo che "prima avrebbe dovuto accertarsi l'obbligo del Comune di fornire acqua

 sostitutiva in ogni caso di malfunzionamento dell'impianto - qualunque ne fosse la causa - e solo

 successivamente stabilirsi che per tale ragione la fornitura dell'Amga andava riguardata come

 esecuzione di tale obbligo". Deduce che la somministrazione può trovare fonte anche in fatti

 concludenti, e che non è al riguardo significativa la circostanza che l'Amga non abbia mai

 richiesto il pagamento della fornitura somministrata, atteso che ai sensi dell'art. 1562 c.c. solo

 nella somministrazione a carattere periodico il prezzo è corrisposto all'atto delle singole

 prestazioni, laddove nel caso si tratta viceversa di somministrazione "continuativa", senza cioè

 soluzione di continuità.

 Lamenta che, formulata dall'A.M.G.A. la richiesta di pagamento, in unica soluzione, alle due

 società somministrate con la domanda introduttiva dei giudizi oggetto di successiva riunione, la

 corte di merito "non si è peritata, sul punto, di argomentare la propria posizione se non sulla

 base di una precostituita supposizione, la quale ... avrebbe dovuto seguire (e non precedere) il

 positivo accertamento che la prestazione di A.M.G.A. fosse effettuata su incarico del Comune".

 I motivi, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono infondati.

 Il ricorrente si duole della erronea considerazione "del presupposto implicito del contratto,

 determinante la volontà di entrambi i contraenti" in questione, e quindi del "corretto esercizio

 del depuratore e la conseguente fornitura di acqua con le pattuite caratteristiche

 chimico-fisiche", riguardato sia sotto il profilo della presupposizione che dell'eccessiva

 onerosità sopravvenuta del contratto de quo.

 Contratto che nell'impugnata sentenza risulta qualificato in termini di permuta, tale venendo

 anche dall'odierno ricorrente considerato nell'articolazione logico-giuridica delle proprie

 doglianze. Sotto il primo profilo il ricorrente in particolare si duole che la corte di merito

 abbia escluso, violando la legge ed illogicamente motivando, la ricorrenza nel caso della figura  della presupposizione, da rinvenirsi allorquando "una determinata situazione di fatto o di diritto  (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del  loro consenso - pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali -  come presupposto condizionante il negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa),  richiedendosi pertanto a tal fine: 1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; 2)  che l'evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti (e in ciò la  presupposizione differisce dalla condizione); 3) che si tratti di un presupposto obiettivo,  consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto  indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto  di una specifica obbligazione (Cass. 31.10.1989, n. 4554; tra le più recenti, Cass. 21.11.2001 n.  14629). Sicché la "presupposizione è ... configurabile quando dal contenuto del contratto risulti  che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente all'esistenza di una data  situazione di fatto che assurga a presupposto comune e determinante della volontà negoziale, la  mancanza del quale comporta la caducazione del contratto stesso, ancorché a tale situazione,  comune ad entrambi i contraenti, non si sia fatto espresso riferimento" (Cass. 9.11.1994, n.  9304)".

 Orbene, la presupposizione - vale anzitutto osservare - non è invero prevista da alcuna norma di

 legge, ma costituisce un principio dogmatico (di matrice tedesca) contestato da gran parte della

 dottrina, che vi ravvisa una condizione non sviluppata del negozio o un motivo non assurto a

 clausola condizionale, ma accolto in giurisprudenza anche di legittimità, ove viene costantemente  definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in  considerazione - pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali – dai  contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e  l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o  verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde -  integrandolo - all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro (v. Cass.,

 23/9/2004, n. 19144;  Cass., 4/3/2002, n. 3052; Cass., 21/11/2001, n. 14629; Cass., 8/8/1995, n. 8689).

 Va al riguardo ulteriormente precisato che, come posto in rilievo da una parte della dottrina, la

 presupposizione costituisce in realtà un fenomeno articolato, cui vengono ricondotti fatti e

 circostanze sia di carattere obiettivo che valorizzati dalla volontà delle parti.

 A tale figura può riconoscersi invero significato pregnante solamente laddove se ne individui un

 autonomo e specifico rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi - essenziali o accidentali -

 del contratto.

 A tale stregua deve pertanto escludersi che possano ad essa ricondursi fatti e circostanze

 ascrivibili alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio

 significato di causa concreta, quale interesse che l'operazione contrattuale è diretta a

 soddisfare (cfr. Cass., 8/5/2006, n. 10490). I cd. presupposti causali assumono infatti rilievo

 già sul piano dell'interesse che giustifica l'impegno contrattuale, e pertanto appunto la causa

 dello stesso.

 Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di invalidità del contratto (e su tale

 piano, diversamente che in passato, da una parte della dottrina viene ora propriamente ricondotto

 il classico esempio del balcone affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento

 riconducibile all'interesse dalle parti concretamente inteso realizzare con la stipulazione del

 contratto e pertanto alla causa del medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con la venuta

 meno della medesima, per la conseguente invalidità del negozio ). Alla presupposizione non possono  essere propriamente ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed in particolare la qualità del  bene, giacché in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo  difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell'inadempimento.

 La circostanza che il bene sia idoneo all'uso previsto dall'acquirente costituisce invero una

 gualità giuridica dell'oggetto, la cui mancanza se del caso (in quanto cioè trattisi di qualità

 dovuta) rileva sul piano dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di

 inadempimento (ad es. la perdita della qualità di edificabilità del terreno promesso in vendita

 per atto della P.A., con conseguente impossibilità della prestazione legittimante la risoluzione

 del contratto: cfr. Cass., 19/3/1981, n. 1635).

 Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione

 dalle parti vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, giacché a

 parte il rilievo che non vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente

 figura, la presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in  cui i fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una  clausola condizionale.

 Estranei alla presupposizione vanno a fortioriri tenuti i motivi, quali meri impulsi psichici alla  stipulazione concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano  dal contenuto del contratto, laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il contratto  è funzionailizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se  essi sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in rilievo l'istituto della  presupposizione, giacché l'interesse comune integra appunto la causa concreta del contratto.

Come correttamente osservato in dottrina, alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo di categoria unificante assumente specifico significato laddove nell'ambito delle circostanze  giuridicamente influenti sul contratto ad essa si riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti  e circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione,  assumono (per entrambe le parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo riconoscimento da  parte dell'altra) un'importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale.

 Circostanze che, pur senza essere - come detto - dedotte specificamente quale condizione del

 contratto, e pertanto rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed oggettivo

 presupposto di efficacia in base al significato proprio del negozio determinato alla stregua dei

 criteri legali d'interpretazione, assumenti valore determinante per il mantenimento del vincolo  contrattuale (es. l'ottenimento dello sperato finanziamento).

 Il relativo difetto legittima allora le parti non già a domandare una declaratoria di invalidità o  di inefficacia del contratto, ne' a chiederne la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art.  1256 c.c., art. 1463 c.c. e ss.) della prestazione (contra. v. peraltro Cass., 22/9/1981, n. 5168  ), bensì all'esercizio del potere di recesso ( anche qualora il presupposto obiettivo del

 contratto sia già in origine inesistente o impossibile a verificarsi). Nel caso di specie il

 ricorrente, che non ha esercitato il recesso, non deduce la violazione della causa o dell'oggetto

 o della condizione del contratto, ma lamenta invero l'erroneità della ravvisata esclusione di

 rilevanza nel caso proprio della specifica figura della presupposizione, dolendosi che la corte di

 merito non abbia accolto il prospettato riverberarsi sul relativo profilo causale.

 Sul piano della validità del contratto,dunque. Ovvero, secondo ulteriore ed alternativa

 impostazione, su quello della inefficacia del contratto laddove i fatti e le circostanze che la

 integrano determinano l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione. Orbene, va al riguardo

 affermato che in base al significato del contratto - accertato facendo esercizio dei poteri loro

 spettanti - i giudici del merito hanno invero escluso, dandone congrua motivazione, che nel caso

 le parti abbiano assegnato rilievo, quale specifico presupposto oggettivo, all'idoneità al normale

 funzionamento dell'impianto di depurazione in questione.

 A fronte della questione già in sede di gravame di merito oggetto di censura da parte dell'allora

 appellante Comune, la corte d'appello ha infatti al riguardo posto in rilievo che "la semplice

 lettura delle premesse e dell'art. 2 del contratto evidenzia come, a fronte dell'impegno dell'Ilva

 spa di trasferire al Comune la proprietà di un consistente appezzamento di terreno di sua

 proprietà e di garantirne il funzionamento, l'Ente locale avesse assunto l'obbligo di fornire alla

 società, ripartiti uniformementente in un ventennio, duecento milioni di metri cubi di acqua

 trattata e depurata nell'impianto realizzando "o eventualmente proveniente in tutto o in parte da

 altre fonti sostitutive" con le modalità ed alle condizioni nel contratto in seguito elencate".

 Altresì sottolineando essere "evidente come una tale prospettazione dei reciproci obblighi, con

 l'aggiunta nel quadro complessivo della fornitura costante di ossigeno al depuratore a prezzo di

 costo, accollasse al Comune il rischio di avvenimenti successivi che per malfunzionamento

 dell'impianto determinassero il ricorso per la fornitura di acqua a risorse esterne a quelle

 offerte dal depuratore e, quindi, in realtà attribuissero al Comune l'onere di apprestare e

 realizzare un impianto idoneo ad evitare il verificarsi di una tale onerosa eventualità ...

 infatti, sebbene alle condizioni che saranno in seguito meglio illustrate, la fornitura di acqua

 sostitutiva si presentava in contratto non come subordinata, ma, semplicemente, come alternativa a

 quella depurata".

 Se ne è quindi tratto che "l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e nell'ambito

 delle obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione di

 prevedibili scarichi abusivi industriali che, per la zona in cui il medesimo era collocato e per

 la rete di fognature che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione

 diligente di chiunque avesse dovuto interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un soggetto

 come il Comune di Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e

 frequente degli scarichi abusivi ... cioè il Comune, accettando di fornire gratuitamente, ed anche

 per la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella depurata, dimostrava così di essere ben

 consapevole che un qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi abusivi era certamente uno

 dei più semplici da prevedere, avesse determinato il malfunzionamento del depuratore impedendo

 l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non avrebbe potuto impedire, ciò nonostante,

 l'esecuzione del contratto, pur se ciò avesse determinato un notevole aggravio economico della sua

 prestazione ... a questo fine appare significativo osservare come in un apposito paragrafo (punto

 C dell'art. 5) fossero state precisamente determinate le caratteristiche chimico-fisiche minime

 dell'acqua da fornire e come al punto A dello stesso articolo fosse stato posto a carico del

 Comune l'obbligo di realizzare la tubatura idonea a permettere la consegna uniforme dell'acqua

 proveniente da fonti sostitutive".

 Il rischio della fornitura sostitutiva, si sottolinea nell'impugnata sentenza, era stato cioè

 assunto come rischio ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in

 ogni caso, alla società conferente il terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante

 dal malfunzionamento dell'impianto di depurazione. Tanto più che, comunque, "nulla prova la natura  inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, ne' in se

 stessi, come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, ne' nelle

 loro dimensioni, mentre in tale contesto (tra l'altro i malfunzionamenti sembrano essere iniziati

 nel 1985 e proseguiti a partire dal 1989) non vi sono in causa elementi minimi idonei che

 consentano di affidare ad un tecnico l'incarico di verificare la possibilità di fronteggiare con

 adeguata progettazione od opportuni aggiustamenti tecnici la predetta situazione continuando a

 fornire acqua depurata idoena ad usi industriali.

 Tale interpretazione della corte di merito risulta invero correttamente operata e congruamente

 motivata, in conformità ai principi più sopra richiamati, da essa con tutta evidenza emergendo

 come l'idoneità dell'impianto di depurazione al normale funzionamento nella specie in realtà

 inerisca alla qualità giuridica del bene. A tale stregua, pertanto, quale presupposto intrinseco

 della prestazione dall'Amministrazione comunale nel caso contrattualmente assunta, il cui difetto

 se del caso diversamente rileva, alla stregua di quanto sopra esposto, sul piano

 dell'inadempimento.

 La censura del ricorrente non può trovare d'altro canto accoglimento nemmeno riguardando

 l'inidoneità al normale funzionamento del depuratore de quo sotto il profilo dell'eccessiva

 onerosità sopravvenuta della prestazione.

 Va al riguardo anzitutto esclusa l'ammissibilità della prospettazione dell'eccessiva onerosità

 sopravvenuta della prestazione quale conseguenza del venir meno della presupposizione. Pur se in

 passato da questa Corte in effetti non sempre respinta (v. Cass., 17/5/1976, n. 1738), va al

 riguardo osservato che - come in dottrina non si e invero mancato di porre in rilievo - il

 riferimento alla presupposizione viene a far inammissibilmente ridondare l'eccessiva onerosità sul

 piano dell'interpretazione del contratto, laddove essa viceversa rileva a prescindere dalla

 volontà delle parti, quale rimedio dall'ordinamento concesso in reazione all'alterazione non già

 dei presupposti specifici ( valorizzati appunto dalla presupposizione ) bensì dei presupposti

 generici del contratto, subordinandone cioè il mantenimento alla persistenza delle normali

 condizioni di mercato e di vita sociale su di esso incidenti.

 L'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (diversamente dalla più sopra evocata

 impossibilità sopravvenuta della prestazione, quale rimedio all'alterazione del cd. sinallagma

 funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta ) non incide sulla causa del contratto, non

 impedendo l'attuazione dell'interesse con esso concretamente perseguito, ma trova diversamente

 fondamento nell'esigenza di contenere entro limiti di normalità l'alea dell'aggravio economico

 della prestazione, salvaguardando cioè la parte dal rischio di un relativo eccezionale

 aggravamento economico derivante da gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici. Mentre

 nei contratti a titolo gratuito l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra il valore

 originario della prestazione ed il valore successivo, trattandosi come nella specie di contratto

 oneroso(pennuta), l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle

 prestazioni, laddove una prestazione non trova più sufficiente remunerazione in quella

 corrispettiva (v. Cass., 13/2/1995, n. 1559).

 Atteso un tanto, risponde invero a principio recepito che, per poter ai sensi dell'art. 1467 c.c.

 determinare la risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive ad esecuzione continuata o

 periodica ovvero ad esecuzione differita, l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione

 deve essere determinata dal verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili.

 Il carattere della straordinarietà è di natura obiettiva, qualificando un evento in base

 all'apprezzamento di elementi (come la frequenza, le dimensioni, l'intensità, ecc.) suscettibili

 di misurazione, tali pertanto da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni

 quantomeno di ordine statistico (v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/2/2001, n. 2661; Cass.,

 9/4/1994, n. 3342).

 Il carattere della imprevedibilità deve essere valutato secondo criteri obiettivi, riferiti ad una

 normale capacità e diligenza media, avuto riguardo alle circostanze concrete del caso sussistenti

 al momento della conclusione del contratto (v. Cass., 13/2/1995, n. 1559), non essendo invero

 sufficiente l'astratta possibilità dell'accadimento.

 L'accertamento da parte del giudice di merito della sussistenza o meno dei caratteri di

 straordinarietà ed imprevedibilità degli eventi che hanno determinato l'eccessiva onerosità di una

 delle prestazioni corrispettive previste in contratti ad esecuzione differita spetta peraltro al

 giudice di merito, ed è insindacabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione

 (v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/2/2001, n. 2661).

 Orbene, il Comune ricorrente basa la propria odierna impugnazione sulla distinzione tra meri "casi

 eccezionali specificamente previsti" di variazione e "impossibilità assoluta di effettuare la

 depurazione dell'acqua con le pattuite caratteristiche" quale fattore di alterazione

 dell'"equivalenza economica delle prestazioni (trattandosi appunto di permuta)".

 A parte il rilievo che nell'adombrare siffatta prospettazione omette di considerare che il

 mutamento di valore concerne nel caso entrambe le prestazioni, laddove in presenza di contratto

 come nella specie oneroso l'aggravio consiste - come sopra esposto- nella sopravvenuta

 sproporzione tra i valori delle prestazioni corrispettive, e non già nella sopravvenuta

 sproporzione tra il valore originario ed il valore successivo della singola prestazione (viceversa

 rilevante per i contratti a titolo gratuito), dovendo pertanto considerarsi non solamente il

 valore della pretazione a suo carico in ragione del diverso costo dell'acqua oggetto di fornitura

 ma anche il valore dei beni immobili ricevuti in permuta con relativa valutazione comparativa in

 ragione dei rispettivi attualizzati valori che non risulta nel caso invero compiuta, va osservato

 che diversamente da quanto dal medesimo lamentato la corte di merito ha invero esaminato e

 specificamente disatteso l'argomento secondo cui si sia nel caso trattato di un evento

 imprevedibile.

 Nel sottolineare che il fenomeno dell'allaccio abusivo di scarichi era al contrario senz'altro

 prevedibile, a fortiori per chi - come appunto l'odierno ricorrente - è addirittura investito ex

 lege della funzione pubblica di controllare e monitorare nonché regolare in concreto gli

 interventi in materia, anche avvalendosi dei poteri di competenza quale soggetto di diritto

 pubblico ("da ciò consegue come l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e

 nell'ambito delle obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in

 funzione di prevedibili scarichi abusivi industriali che, per la zona in cui il medesimo era

 collocato e per la rete di fognature che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito

 della previsione diligente di chiunque avesse dovuto interessarsi alla sua realizzazione e tento

 più di un soggetto come il Comune di Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare il

 fenomeno notorio e frequente degli scarichi abusivi"), non configurandosi invero al riguardo il

 pericolo di commistione di funzione e di ruoli paventato dal ricorrente, la corte di merito ha

 invero posto in rilievo come nel caso le parti abbiano espressamente preso in considerazione

 l'eventualità del non corretto funzionamento dell'impianto di depurazione, specificamente

 prevedendo in contratto una prestazione sostitutiva ("il Comune, consapevole che l'Italsider non

 intendeva correre alcun rischio relativo a inadeguatezze dell'impianto di depurazione, circa

 l'entità e la qualità dell'acqua da ricevere in contropartita della cessione del terreno, se ne è

 accollato totalmente il carico anche economico, chiedendo un contributo del 30%, come subito dopo

 nel contratto specificato, nel solo caso in cui il ricorso a fonti sostitutive fosse reso

 necessario da cause di forza maggiore consistenti in eventi naturali, tra cui pacificamente non

 rientrano gli scarichi abusivi di cui si tratta;

 ... dunque, non essendo indicati limiti al minor rendimento ed essendo anzi addirittura prevista

 la continuità dell'erogazione anche per il caso di fermata del depuratore e per i casi di forza

 maggiore dovuti ad eventi naturali, non sembra sostenibile, di fronte all'obbligo inderogabile di

 rifornire uniformemente l'impianto, senza rischio alcuno per l'Italsider, la tesi per cui possa

 ritenersi caso eccettuato od imprevedibile quello di inidoneità permanente dell'impianto alla

 depurazione dell'acqua a causa di un evento tra l'altro così prevedibile come quello degli

 scarichi abusivi, sia pure di rilievo").

 Costituisce d'altro canto principio recepito in giurisprudenza di legittimità quello per il quale

 nei contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione continuata o periodica o differita,

 ciascuna parte assume su di se il rischio degli eventi che alterino il valore economico delle

 rispettive prestazioni, entro i limiti rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi

 pertanto da ciascun contraente presente al momento della stipulazione per gli eventi non

 imprevedibili alla stregua della dovuta diligenza (v. Cass., 23/11/1999, n. 12989).

 Orbene, in esplicazione dei poteri ad essi spettanti i giudici di merito hanno nel caso accertato

 essere stato tale fenomeno invero contrattualmente previsto e regolato "il Comune, accettando di

 fornire gratuitamente, ed anche per la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella

 depurata, dimostrava così di essere ben consapevole che un qualunque evento, tra i quali quello

 degli scarichi abusivi era certamente uno dei più semplici da prevedere, avesse determinato il

 malfunzionamento del depuratore impedendo l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non

 avrebbe potuto impedire, ciò nonostante, l'esecuzione del contratto, pur se ciò avesse determinato

 un notevole aggravio economico della sua prestazione ... a questo fine appare significativo

 osservare come in un apposito paragrafo") (punto C dell'art. 5) fossero state precisamente

 determinate le caratteristiche chimico-fisiche minime dell'acqua da fornire e come al punto A

 dello stesso articolo fosse stato posto a carico del Comune l'obbligo di realizzare la tubatura

 idonea a permettere la consegna "uniforme" dell'acqua proveniente da fonti sostitutive ... cioè il

 rischio della fornitura sostitutiva era stato assunto come rischio ordinario del contratto, con la

 conseguenza che non poteva attribuirsi, in ogni caso, alla società conferente il terreno, neppure

 una parte dell'onere economico derivante dal mal-funzionamento dell'impianto di depurazione ...

 d'altra parte e comunque, nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile

 degli scarichi in effetti verificatisi, ne' in se stessi, come risultanti degli scarni rapportini

 in atti, riferibili agli anni 1990-1991, ne' nelle loro dimensioni ...".

 Nè può d'altro canto nella specie assegnarsi in qualche modo rilievo alla tesi dottrinaria secondo

 cui la sopravvenienza di circostanze pur prevedibili rende comunque eccessivamente gravosa, e

 pertanto inesigibile, l'adempimento della prestazione, giacché come si è al riguardo da altra

 parte della dottrina correttamente obiettato si viene in tal caso a vertere in tema

 d'inadempimento, e non già di alterazione dell'economia contrattuale. Infondata è del pari la

 doglianza concernente il dedotto vizio di motivazione.

 Va anzitutto osservato che in base a fermo principio di questa Corte l'interpretazione del

 contratto è riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di

 legittimità solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di

 motivazione (v. Cass. 21 aprile 2005, n. 8296).

 Il sindacato di legittimità può avere pertanto ad oggetto non già la ricostruzione della volontà

 delle parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del

 quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di

 verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (v. Cass., 29/7/2004, n.

 14495). Pur non mancando qualche pronunzia di segno diverso (v. Cass., 10/10/2003, n. 15100;

 Cass., 23/12/1993, n, 12758), costituisce orientamento consolidato quello secondo cui in tema di

 interpretazione del contratto ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il

 primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni

 utilizzate, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi quando la

 comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia

 talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa. Il rilievo da assegnare alla

 formulazione letterale dovendo essere peraltro verificato alla luce dell'intero contesto

 contrattuale, e le singole clausole considerate in correlazione tra loro, procedendosi al relativo

 coordinamento ai sensi dell'art. 1363 c.c., giacché per "senso letterale delle parole" va intesa

 tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola

 che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto

 composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al

 fine di chiarirne il significato (v. Cass., 25/10/2006, n. 22899; Cass., 22/12/2005, n. 28479;

 Cass., 24/11/2005, n. 24813; Cass., 2/4/2004, n. 6513).

 Se è vero che l'elemento letterale assume funzione fondamentale, la valutazione del complessivo

 comportamento delle parti costituisce peraltro un canone non già sussidiario bensì necessario ed

 indefettibile, in quanto le singole clausole, da interpretare le une per mezzo delle altre senza

 arrestarsi alla relativa considerazione atomistica, neppure quando il loro senso possa ritenersi

 compiuto, debbono essere raccordate al complesso dell'atto, e l'atto deve essere esaminato

 valutando il complessivo comportamento delle parti. In questo progressivo ampliamento dell'oggetto

 dell'interpretazione assume allora rilievo anche il comportamento delle parti successivo alla

 conclusione del contratto, purché sia un comportamento comune, ovvero un comportamento unilaterale

 (anche tacitamente) accettato dall'altra parte, atteso che, così come comune è l'intenzione delle

 parti, quale fondamentale parametro di interpretazione, del pari comune deve essere il

 comportamento delle parti quale parametro di valutazione della volontà da esse manifestata (v.

 Cass., 9/2/2007, n. 2901; Cass., 25/10/2006, n. 22899).

 Orbene, nel caso in esame, di tali principi la corte di merito ha nell'impugnata sentenza fatto

 corretta e puntuale applicazione, con motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici, in

 particolare là dove, nel condividere e confermare l'avviso del giudice di prime cure, ha ritenuto

 che il contratto sia stato dalle parti stipulato senza che venissero "indicati limiti al minor

 rendimento ed essendo anzi addirittura prevista la continuità dell'erogazione anche per il caso di

 fermata del depuratore e per i casi di forza maggiore dovuti ad eventi naturali", espressamente

 escludendo, "di fronte all'obbligo inderogabile di rifornire uniformemente l'impianto, senza

 rischio alcuno per l'Italsider", la possibilità di ritenersi "caso eccettuato od imprevedibile

 quello di inidoneità permanente dell'impianto alla depurazione dell'acqua a causa di un evento tra

 l'altro così imprevedibile come quello degli scarichi abusivi, sia pure di rilievo".

 Interpretazione che la corte di merito ha ravvisato "convalidata dal comportamento del Comune

 successivo alla stipula del contratto, posto che pur nel verificarsi degli eventi cd.

 imprevedibili fin dal 1985 e poi dal 1989, il medesimo solo in prossimità dell'azione giudiziaria

 contestò i suoi obblighi così come sopra definiti, chiedendo in precedenza ancora con lettera del

 12/10/90 la comunicazione da parte appellata degli elementi contabili necessari per il pagamento

 da parte sua delle forniture di acqua". Al riguardo sottolineando come tale condotta sia

 logicamente spiegabile in considerazione delle necessità in cui l'Amministrazione comunale "si

 trovava di rinnovare le rete fognaria previa realizzazione di un depuratore", e quindi

 nell'interesse ad "acquisire il terreno Italsider, ottimamente collocato, ai fini del miglior

 utilizzo economico dell'impianto", oltre che nella sfiducia ... sulle sue capacità di produrre

 acqua depurata della qualità richiesta pur in presenza di eventi prevedibili come quello degli

 scarichi abusivi industriali. E specificamente escludendo, ancora, la rilevanza in contrario della

 durata e dell'esecuzione differita del contratto, in quanto il Comune, "pur partendo, in accordo

 con la controparte, dalla valutazione della natura commutativa del contratto (art. 7 e

 dichiarazioni di valore ai fini fiscali)", si è "esplicitamente ed implicitamente accollato il

 rischio di un suo sbilanciamento in favore dell'Italsider, prendendo atto dell'esigenza

 inderogabile della medesima di non dover correre alcun inconveniente rispetto alla fornitura di

 acqua concordata, anche sotto il profilo economico, se non e parzialmente per il caso di forza

 maggiore dovuta ad eventi naturali".

 A tale stregua l'impugnata decisione si sottrae invero alle censure mosse dalla ricorrente,

 dovendo al riguardo farsi d'altro canto richiamo al consolidato principio secondo cui in materia

 di interpretazione del contratto la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica esige la

 specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati, e del modo attraverso il quale si è

 realizzata la violazione, mentre la denunzia del,1^ vizio di motivazione implica la

 puntualizzazione dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice

 del merito.

 Nessuna delle due censure può invece risolversi in una critica del risultato interpretativo

 raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente

 interpretazione. Per non soggiacere al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili,

 quella data dal giudice al contratto non deve d'altronde essere l'unica interpretazione possibile,

 o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni;

 sicché quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili)

 non è consentito alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di

 merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (v. Cass.,

 25/10/2006, n. 22899; Cass., 2/5/2006, n. 10131). Quanto alla buona fede, la quale distintamente

 rileva come criterio di integrazione (art. 1375 c.c.) e quale criterio di interpretazione del

 contratto (art. 1366 c.c.), assumendo significati diversi (nel primo caso, di canone di condotta o

 correttezza), nella specie risulta indubbiamente evocata quale criterio ermeneutico. Alla stregua

 della formulata censura i suindicati principi non risultano dal ricorrente tuttavia osservati.

 Esso si limita infatti a dedurre genericamente che "con il ricorso al principio

 dell'interpretazione secondo buona fede si possono arricchire le acquisizioni cui si perviene

 attraverso l'operazione ermeneutica sul dato testuale, mediante integrazione, utilizzando cioè

 tutti gli elementi che, rispetto a quanto è oggetto di formalizzazione esteriorizzata dai

 contraenti, consentono di ricostruirne la volontà effettiva: si tratta, in altri termini, di

 rapportare il dato testuale, nel concorso di tutti gli elementi valutativi a disposizione

 dell'interprete, alla buona fede intesa come buona regola di condotta, al fine di effettuare

 un'operazione di controllo che, nell'ambito strettamente interpretativo, consenta di verificare

 l'esigibilità dell'adempimento a carico di ciascuna parte, in relazione alle circostanze

 sopravvenute e a una valutazione dell'economia dell'affare attenta ad una razionale distribuzione

 dei rischi ... . Il principio di buona fede garantisce un equilibrio fra gli interessi dei

 contraenti conseguente con le finalità in vista delle quali si sono assunti gli impegni ed in

 coerenza appunto con l'assetto contrattuale ... la buonafede si pone nel sistema come limite

 interno di ogni statuizione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita,

 concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo, rispetto alla

 fisionomia apparente ...".

 Per poi, dopo aver esaminato altri profili al riguardo ravvisati interessanti in chiave di

 interpratazione del contratto de quo, genericamente concludere: "Il paradosso della sentenza

 impugnata è invece quello che discende dalla constatazione (invero incomprensibile) secondo cui

 tutto il rischio sarebbe stato da addossarsi alla sola parte pubblica, mentre la parte privata

 sarebbe stata in ogni caso garantita di ogni e qualunque evento che avesse inciso sull'equilibrio

 delle prestazioni".

 A tale stregua risulta invero omessa l'indicazione di quali aspetti (non suscitare e non speculare

 su falsi affidamenti; non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella

 controparte) in cui si specifica il significato di obbligo di lealtà che la buona fede assume

 quale criterio legale d'intepretazione del contratto risulterebbero nella specie violati, la cui

 osservanza avrebbe condotto la corte di merito all'adozione di altra e diversa decisione.

 Orbene, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, tale

 censura appare allora finalizzata piuttosto, ma inammissibilmente, a sollecitare una diversa

 lettura delle risultanze di causa, in contrasto proprio con il fermo principio di questa Corte

 secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale

 possano sottoporsi all'attenzione dei giudici della Corte di Cassazione tutti gli elementi di

 fatto già considerati dai giudici del merito a da costoro asseritamente in termini erronei

 valutati, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento di quegli stessi elementi già

 sottoposti al vaglio del giudice di seconde cure (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass. n. 12984

 del 2006).

 Quanto infine alla doglianza secondo cui la corte di merito non ha nel caso ravvisato la

 sussistenza di un contratto di somministrazione (in particolare "continuativa" e non già a

 carattere periodico), quale fonte della fornitura di acqua nel caso erogata dall'AMGA, precisato

 anzitutto che la stessa - per non impingere nel divieto di cui all'art. 81 cpv. c.p.c. deve

 intendersi formulata con stretto riferimento alla considerazione della detta prestazione quale

 modalità alternativa dell'obbligazione a carico del Comune in virtù dello stipulato contratto di

 permuta de quo, tenuto conseguentemente al relativo pagamento - ovvero quale contratto da

 quest'ultima del tutto autonomo, va al riguardo sottolineato che, come sopra esposto, la corte di

 merito ha dato logica e congrua motivazione della relativa considerazione, la censura del

 ricorrente invero profilandosi in termini di sostanziale - e in sede di legittimità non consentita

 - contrapposizione ermeneutica.

 Con il 5^ motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 62

 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché omessa, insufficiente o

 contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o

 rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

 Si duole che la corte di merito abbia confermato la sentenza di 1 grado anche sotto il profilo

 della mancata ammissione della richiesta C.T.U. volta ad accertare il mancato funzionamento

 dell'impianto di depurazione, e in particolare i dettagli del fenomeno dell'impossibilità di

 produzione della convenuta acqua industriale. Il motivo è in parte inammissibile e in parte

 infondato. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, qualora con il ricorso per cassazione

 siano denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal

 rifiuto del giudice di merito di darvi ingresso pur se ritualmente richiesti, e in particolare

 l'omessa ammissione di consulenza tecnica, il ricorrente ha l'onere di indicare specificamente

 tali mezzi, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonché di dimostrare

 sia l'esistenza di un nesso eziologico tra l'omesso accoglimento dell'istanza e l'errore

 addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell'errore, sarebbe stata diversa, così da

 consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (v. Cass.,

 22/2/2007, n. 4178; Cass., 12/6/2006, n. 13556; Cass., 1/4/2004, n. 6396; Cass., 16/6/2003, n.

 9616; Cass., 19/7/2002, n. 10573; Cass., 12/5/2000, n. 6115). Nel caso, il ricorrente ad un tanto

 non provvede, non ponendo invero questa Corte in grado di valutare se e quali ragioni della

 ritenuta indispensabilità delle indagini tecniche ai fini della decisione (cfr. Cass., 22/3/2005,

 n. 6178; Cass., 2/1/2002, n. 10; Cass., 20/11/2000, n. 14979, V. anche Cass., 8/172004, n. 88),

 siano state nel caso prospettate ed immotivatamente disattese. Pacifico essendo che il ricorso da

 parte del giudice di merito all'ausilio del consulente tecnico d'ufficio è meramente facoltativo e

 rimesso al suo potere discrezionale, con la conseguenza che le valutazioni in merito non

 necessitano di motivazione ed esulano dal controllo di legittimità (v. Cass., 25/7/2006, n. 16980;

 Cass., 3/3/2005, n. 4652; Cass., 16/7/2003, n. 11143; Cass., 9/5/2002, n. 6641; Cass., 17/1/2001,

 n. 583); e che d'altro canto la consulenza tecnica non costituisce in linea di massima mezzo di

 prova bensì strumento di valutazione della prova acquisita, ma può assurgere al rango di fonte

 oggettiva di prova quando si risolve nell'accertamento di fatti rilevabili unicamente con

 l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (v. Cass., 19/1/2006, n. 1020; Cass.,

 30/11/2005, n. 26083), va osservato che nell'impugnata sentenza il giudice del merito ha per

 converso spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto di non disporre nel caso la c.t.u., ponendo

 in rilievo che "nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli

 scarichi in effetti verificatisi, ne' in se stessi, come risultanti dagli scarni rapportini in

 atti, riferibili agli anni 1990-1991, ne' nelle loro dimensioni", sicché in "in tale contesto ...

 non vi sono in causa elementi minimi idonei che consentano di affidare ad un tecnico l'incarico di

 verificare la possibilità di fronteggiare con adeguata progettazione od opportuni aggiustamenti

 tecnici la predetta situazione continuando a fornire acqua depurata idonea ad usi industriali".

 All'infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso. Le spese, liquidate come da

 dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M.

 La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di

 cassazione, che liquida in Euro 5.100,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari di avvocato, in favore

 di ciascuno dei controricorrenti, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

 Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2007.

 Depositato in