MOTIVI DELLA DECISIONE
4. - I ricorsi principali e incidentale vanno riuniti perché
rivolti contro una sentenza non definitiva e una sentenza definitiva
emesse nel medesimo giudizio.
5. - Va quindi esaminata l’eccezione di inammissibilità dei
ricorsi principali, sollevata dalla curatela sin dai controricorsi, per
non avere la controparte dato dimostrazione del potere di
rappresentanza della banca in capo ai funzionari che congiuntamente
hanno sottoscritto le procure ai difensori (dottori Gianfranco Pino e
Roberto Gambaro quanto al ricorso n. 23608/2000 R.G. e dottori Franco
Scarnecchia e Gianfranco Pino quanto al ricorso n. 434/2003 R.G.).
La banca ha risposto producendo ritualmente documenti a dimostrazione
dell'allegato potere rappresentativo (precisamente: delibera del
Consiglio di amministrazione della Banca di Roma s.p.a. in data 28
dicembre 1998 concernente "Deleghe di poteri: conferimento di poteri di
firma sociale"; delibera del Consiglio di amministrazione del Banco di
Santo Spirito s.p.a. - precedente denominazione della Banca di Roma -
in data 20 luglio 1992 concernente “Attribuzione di poteri di firma di
rappresentanza” a tutti i dirigenti e funzionari indicati nell'elenco
allegato alla stessa delibera; estratto dell’“elenco firme autorizzate”
della Banca di Roma; statuto di quest'ultima), nonché eccependo,
a sua volta, l'inammissibilità del rilievo avversario, in quanto
generico e non argomentato.
La curatela, pur in presenza di detta produzione documentale, con le
successive difese (v., in particolare, la prima memoria ex art. 378
c.p.c.) ha insistito nel suo rilievo, osservando: che l'unica vigente
delibera del Consiglio di amministrazione attributiva dei poteri di
rappresentanza è quella del 28 dicembre 1998, che reca -
letteralmente – “il nuovo testo integrale della “disciplina dei poteri
di firma sociale per gli atti correnti e di ordinaria gestione” come di
eseguito riportato”, cosicché essa supera e sostituisce la
precedente delibera del 1992; che alla delibera del 1998 non è
allegato alcun elenco nominativo dei soggetti investiti del potere
rappresentativo; che, dunque, difetta la prova che i firmatari
congiunti delle procure speciali a ricorrere per cassazione fossero, al
momento della sottoscrizione delle stesse, investiti dal relativo
potere, giacché il loro nome non figura in alcun elenco a quella
data in vigore (risalendo ad epoca precedente - precisamente
all'ottobre 1995 - anche l'estratto dell'“elenco firma autorizzata”
prodotto da controparte), né è provato che,
alternativamente, gli stessi appartenessero, sempre a quella data, a
categorie di dipendenti investiti del potere di firma; che, inoltre,
neppure può farsi qui applicazione dell'orientamento
giurisprudenziale di legittimità che esclude la necessità
della specifica verifica del potere rappresentativo laddove questo sia
già stato esercitato dalla stesse persone, in precedenti gradi
del giudizio, senza che la controparte abbia sollevato in proposito
contestazioni, atteso che, nella specie, la banca nei precedenti gradi
del giudizio non era mai stata rappresentata dagli stessi odierni
autori delle procure ad litem (in primo grado era stata rappresentata
dai sigg. Monsello a Casaleggio, vice direttori dalla filiale di Genova
del Banco di Roma; in appello dai sigg. Bacchetti e Pino,
rispettivamente vice direttore e procuratore della filiale genovese del
Banco, anche dopo l'incorporazione del Banco di Roma nel Banco di Santo
Spirito, quindi denominatosi Banca di Roma; in sede di riassunzione del
processo di appello, interrotto per morte del difensore, dal Presidente
pro tempore).
La banca, con la memoria ex art. 370 c.p.c. depositata il 20 ottobre
2003 (in termini, dato che il 19 ottobre, data di scadenza naturale del
termine di cinque giorni prima dell'udienza di discussione del 24
ottobre, era domenica), a sua volta replica: che l’“attribuzione dei
poteri di rappresentanza” ai suoi funzionari è contenuta nella
delibera del 1992, cui è allegato anche l'elenco nominativo dei
funzionari investiti di tali poteri, nel quale figurano i dott. Pino,
Gambaro e Scarnecchia, firmatari della procure ad litem relative ai
ricorsi per cassazione; tale attribuzione di poteri non è mutata
nel tempo, perché la delibera del 1998 reca soltanto la nuova
"disciplina" dei poteri di firma, ma non l'attribuzione di essi, come
si ricava già dalla intitolazione della delibera ed è
confermato dall'ultimo passaggio della medesima, secondo cui "la
presente deliberazione annulla e sostituisce la precedente disciplina
della firma sociale"; che i contrari rilievi della curatela sono
tardivi, in quanto formulati soltanto con la memoria ex art. 378
c.p.c..
6. - Ad avviso del Collegio, anzitutto non hanno pregio le obiezioni di
genericità e tardività dei rilievi avversari formulati,
dalla ricorrente. Infatti quelle rassegnate, sul punto in esame, con i
controricorsi e le memorie della curatala non sono eccezioni in senso
proprio, bensì mere contestazioni o difese (nessun fatto nuovo
é stato aggiunto, ma semplicemente sono state contestate le
affermazioni di controparte), tempestivamente svolte in limine dalla
parte interessata; né l'originario rilievo di difetto di potere
rappresentativo dei funzionari, sino a quel momento solo assai
genericamente affermato nei ricorsi, avrebbe potuto o dovuto essere
più specifico.
Per l'esame del merito della questione sollevata, è necessario
dare contezza più diffusamente del contenuto della delibera del
Consiglio di amministrazione della Banca di Roma in data 28 dicembre
1998.
L'atto, con il quale il consiglio "delibera […] il nuovo testo
integrale della ‘disciplina dei poteri di firma sociale per gli atti
correnti e di ordinaria gestione’ come di seguito riportato”, premette
anzitutto il testo dell’art. 22 dello statuto sociale, in base al quale
il Presidente ha la rappresentanza legale della società, mentre
“il Consiglio di amministrazione può […] attribuire la firma
sociale a dirigenti, funzionari e dipendenti della Società, con
determinazione dei relativi poteri, dei limiti e delle modalità
di esercizio”.
Stabilisce, quindi, l'attribuzione della firma sociale, in particolare
(punto 2 della delibera), "ai Dirigenti, ai Funzionari, al personale
inquadrato nella IV Area Professionale e ad altro personale
appositamente identificato dalla Banca, in forma comunque abbinata tra
loro, per i seguenti atti; a) cause attive e passive nonché
procedure di qualsiasi natura in qualunque grado davanti a qualsiasi
giurisdizione civile, anche volontaria, penale, amministrativa e
speciale, nonché atti giudiziali, stragiudiziali e negoziali
inerenti e conseguenti comprese le rinunce agli atti, all'azione e ai
danni", e inoltre per una serie di atti di natura sostanziale
specificamente indicati alle lettere successive, tra i quali talune
operazioni di importo unitario superiore a £. 50 milioni e altre
di importo superiore a £. 1.500 milioni (lett. h); mentre per
tutti gli atti correnti e di ordinaria gestione non previsti al punto 2
e per quelli specificatamente previsti alla lett. h) di tale punto, ma
di importo inferiore al limite ivi indicato, alle stesse categorie di
personale la firma è attribuita singolarmente, ossia non in
forma abbinata (punto 3).
Gli ultimi tre capoversi della delibera, infine, recitano:
"La facoltà di firma sociale di cui alla presente disciplina
é esercitata dal personale abilitato nell'ambito delle proprie
autonomie ovvero in esecuzione di delibere adottate da chi ne ha la
facoltà.
Nei confronti dei terzi, comunque, la firma – apposta secondo i limiti
e le modalità sopra previste – fa fede dell’esistenza dei
relativi poteri, indipendentemente dalla unità operativa di
assegnazione.
La presente deliberazione annulla e sostituisce la precedente
disciplina della firma sociale”.
L'esegesi del testo consente anzitutto di sgomberare il campo dalla
tesi di parte ricorrente secondo cui detta delibera si limiterebbe a
sancire la sola
"disciplina" del potere di rappresentanza (volontaria), restando la
individuazione dei soggetti cui tale potere è attribuito
(l’“attribuzione”, cioè, del potere) affidata alla precedente
delibera del Consiglio di amministrazione del Banco di Santo spirito
del 1992 e all'elenco nominativo alla stessa allegato. Il chiaro tenore
dell'ultimo capoverso sopra riportato (“annulla e sostituisce la
precedente disciplina”) e la preliminare definizione dello stesso testo
quale “nuovo testo integrale” di tale disciplina non possono
conciliarsi con la tesi in esame, anche perché sia nell'una che
nell'altra delibera il personale investito dei poteri di rappresentanza
non è individuato nominativamente, bensì per categorie
(dirigenti, funzionari, ecc.) e gli elenchi allegati alla delibera del
1992 hanno, chiaramente, mera funzione ricognitiva (anche tale
delibera, infatti, prevede "l'attribuzione dei poteri firma sociale […]
a tutti i dirigenti e funzionari attualmente abilitati alla firma
sociale nonchè ai quadri attualmente preposti a dipendenze
presso il Banco di Roma - di cui all'allegato elenco che si acquisisce
agli atti del Consiglio al n. 56/92 - che, sotto la […] data del 1°
agosto 1992, diverranno dipendenti della Banca di Roma, società
per azioni”, e che “inoltre - al fine di agevolare la certificazione
dei poteri verso l'esterno - il Consiglio conferma l'attribuzione di
poteri di firma sociale a tutti i dirigenti, funzionari e quadri
attualmente abilitati alla firma sociale presso il Banco di Santo
Spirito, dal 1° agosto 1992 Banca di Roma, società per
azioni - di cui all'allegato elenco che si acquisisce agli atti del
Consiglio al n. 57/92”).
Va osservato, piuttosto, che non è condivisibile neppure la tesi
della curatela controricorrente, secondo cui non sarebbe stata offerta
la prova che i dottori Pino, Gambero e Scarnecchia, autori delle
procure ad litem, appartenessero, alla data delle stesse, a categorie
di dipendenti investiti del potere di firma. Tale prova è,
invece, costituita dall'elenco n. 56/92 allegato alla delibera del
1992, che li menziona nella categoria dei funzionari, mentre nessun
indizio è in atti che essi abbiano perso tale qualità
successivamente.
Ciò non vuol dire, però, che sia stata offerta la prova
della effettiva titolarità, in capo ai detti funzionari, del
potere di rappresentanza processuale della banca.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimità (condiviso, anzi anticipato, dalla dottrina), la
rappresentanza processuale volontaria può essere conferita
soltanto a chi sia investito di un potere rappresentativo di natura
sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, come si evince
dall'art. 77 c.p.c., il quale menziona, come possibili destinatari
dell'investitura processuale, soltanto il "procuratore generale e
quello preposto a determinati affari".
Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 4666 del 1998, seguita da
numerose pronunce conformi, in particolare della Sezione Lavoro), dando
continuità a tale orientamento anche all'esito di una rinnovata
verifica dei suoi presupposti, ne hanno indicato il fondamento nel
principio, stabilito dall'art. 100 c.p.c., dell'interesse ad agire (e a
contraddire), inteso non soltanto come obbiettiva presenza o
probabilità della lite, ma altresì come "appartenenza"
della stessa a chi agisce, "nel senso che la relazione della lite con
l'agente debba consistere in ciò che l'interesse in lite sia
suo". L'art. 77 c.p.c., nel contemplare la possibilità di
attribuire ad altri il potere di stare in giudizio in nome e per conto
dell'interessato, tempera, quindi, il rigore di quel principio, e
l’art. 100 c.p.c., letto in combinazione con il predetto articolo,
indica la "necessità che chi agisce abbia rispetto alla lite una
posizione particolare che la norma stessa non definisce, ma che
può desumersi dalle ipotesi individuate dall'art. 77, sì
da condurre all'affermazione di una regola generale per cui il diritto
di agire spetta a chi abbia il potere di rappresentare l'interessato
[...] o nella totalità dei suoi affari (procuratore generale) o
in un gruppo omogeneo di questi, paragonabile ad un'azienda commerciale
o ad un suo settore (institore)". Tale principi, poi, riguardano anche
la rappresentanza volontaria conferita dal rappresentante legale di
società di capitali, cui si applicano anche a dispetto di
eventuali clausole contrarie dello statuto, le quali sarebbero nulle
per contrasto con norma imperativa attinente all'ordine pubblico
processuale.
Alla luce di detto orientamento - cui il Collegio ritiene di
uniformarsi - quanto qui dedotto da parte ricorrente appare del tutto
insufficiente a supportare la pretesa sussistenza di un valido
conferimento della rappresentanza processuale della banca, per il
presente giudizio, ai funzionari che vi agiscono. Mancano, infatti,
adeguato allegazioni circa la titolarità, da parte loro, di
poteri di rappresentanza sostanziale, riguardanti il rapporto dedotto
in causa, che presentino le caratteristiche sopra indicate (in
concreto, preposizione ad un gruppo omogeneo di affari o settore
aziendale): nel ricorso n. 23608/2000 R.G. vi è semplicemente un
generico cenno alla qualità di "funzionari della Sede di Genova"
della banca e, quanto al ricorso n. 434/2003, è, ancor
più genericamente, indicata (nella procura a margine) la mera
qualità di "quadri direttivi" della banca medesima.
Né la lacuna è colmata dall'esame dei documenti prodotti,
e in particolare della delibera consiliare che disciplina
l'attribuzione della firma sociale, la quale è redatta, come si
é visto, in termini generali.
I ricorsi principali devono, in conclusione, essere dichiarati
inammissibili per difetto del requisito della legittimazione
processuale dei funzionari che hanno sottoscritto le procure ad litem.
7. - Passando all'esame del ricorso incidentale della curatela avverso
la sentenza definitiva, è opportuno premettere le motivazioni
con cui la Corte di appello respinge le richieste del fallimento, alle
quali il ricorso si riferisce.
In sintesi, la Corte di merito:
- riduce a £ 84.943.151 (dalle £. 110.302.064 riconosciute
in primo grado) il complessivo ammontare della rimesse revocabili ex
art. 67 cpv. l. fall., ritenendo, in particolare, l'operatività
della compensazione ex art. 1853 c.c., per complessiva £.
12.314.824, tra i saldi attivi del c/c n. 2651 e quelli passivi del
conto anticipi n. 37421, eseguita dalla banca mediante tre giroconti
dal primo al secondo; osserva, a tal proposito, che non era stato
dimostrato - a differenza di quanto era avvenuto riguardo agli altri
conti anticipi - lo stretto collegamento, a mezzo di mandati
irrevocabili all'incasso, delle operazioni che avevano portato alla
estinzione delle passività del conto anticipi 37421, e che
pertanto, dovendosi ritenere l'autonomia dei due conti, i loro saldi
potevano essere reciprocamente compensati, con conseguente esclusione
della revocabilità delle relative operazioni;
- disattende la domanda del fallimento di vedersi riconosciuto il
maggior danno ex art. 1224 c.c., in quanto la relativa domanda era
stata proposta soltanto in sede di conclusioni finali in primo grado e
la controparte non aveva, né espressamente, nè
tacitamente, accettato il contraddittorio sulla stessa, e si era
opposta, anzi, nella prima difesa esplicita costituita dalla comparsa
conclusionale, alla sua introduzione nel giudizio, mentre all'udienza
di precisazione delle conclusioni era rimasta in silenzio, il che di
per sé non è significativo; e la specifica allegazione e
dimostrazione in giudizio del danno ex art. 1224 c.c. era
indispensabile, perché il credito restitutorio conseguente alla
revoca di pagamenti ha natura di credito di valuta, non di valore;
- respinge, infine, la richiesta della curatela di riconoscimento degli
interessi anatocistici, sul rilievo che sino alla sentenza costitutiva
- ancorché retroattiva alla data della domanda - il credito
conseguente al positivo esperimento dell'azione revocatoria è
incerto, e ciò impedisce che gli interessi primari, per quanto
maturino anche nel corso del giudizio a decorrere dalla domanda
giudiziale, possano considerarsi scaduti - e dunque produrre ulteriori
interessi - prima della pronuncia del giudice.
8. - Con il primo motivo del ricorso incidentale, il curatore del
fallimento, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt.
1853 c.c. e 56 e 67 cpv. legge fall., nonché vizio di
motivazione, lamenta che la sentenza definitiva abbia respinto la
domanda di revoca, ai sensi dell'art. 67 cpv. legge fall., di tre
rimesse per complessive £ 12.314.824, affluite sul conto anticipi
fatture n. 37421 dal conto ordinario n. 2651, avendo ritenuto operante
la compensazione in difetto di prova dello stretto collegamento dei due
rapporti a mezzo di mandati irrevocabili all'incasso. Sostiene il
ricorrente che la Corte, ai fini della valutazione in ordine
all'autonomia dei rapporti, non avrebbe dovuto limitarsi a verificare
la sussistenza o meno dei mandati predetti, ma avrebbe dovuto
incentrare l'attenzione sui rapporti bancari in sé, i quali
avevano in effetti carattere unitario, e l'unitarietà del
complesso rapporto banca-cliente, articolato in un conto corrente
ordinario e più conti anticipi, era riconosciuta dalla stessa
banca, come si ricavava da alcuni capitoli della prova testimoniale da
essa articolata (capitoli che il ricorso riporta testualmente). Inoltre
una banca, quando intenda avvalersi della compensazione tra saldi
attivi e passivi di più conti, deve informare il correntista, e
nella specie la banca non aveva "compensato" i saldi attivi e passivi,
ma aveva effettuato movimenti di valuta da un conto all'altro. Di qui i
vizi di violazione delle norme sopra indicate e di insufficiente
motivazione sul punto dell'autonomia, o meno, dei rapporti tra i quali
è stata applicata la compensazione, nonché di omessa
motivazione sul fatto che la compensazione fosse stata o meno operata
dalla banca.
9. - Le censure riguardanti la motivazione, logicamente preliminari a
quelle di violazione di legge pure dedotte, non possono essere accolte.
La sentenza impugnata, infatti, afferra l'autonomia dei due rapporti in
esame, specificando che, riguardo ad essi, era mancata la prova, invece
fornita riguardo agli altri conti, dello stretto collegamento tra le
relative operazioni a mezzo dei mandati irrevocabili all'incasso. Il
ricorrente lamenta, in sostanza, che la Corte non abbia tenuto conto di
altri elementi (essenzialmente le asserite ammissioni di controparte)
che avrebbero, invece, consentito di affermare quel collegamento per
altra via.
Ma il dovere di motivazione non può essere dilatato sino a
pretendere che la sentenza confuti espressamente tesi in fatto che
neppure la parte interessata abbia prospettato. Il che è quanto
si verifica nel nostro caso, in cui la prospettazione della tesi del
carattere non autonomo dei conti n. 2651 e n. 37421, sulla base della
unitarietà del complesso di tutti i rapporti di conto tra la
banca e la cliente, non era stata sostenuta nel giudizio di merito (o,
quantomeno, ciò non risulta dal ricorso, come invece avrebbe
dovuto, per il principio di autosufficienza dello stesso). Il ricorso,
invero, riporta testualmente il contenuto della terza comparsa
conclusionale in grado di appello, nella quale il punto in questione
veniva discusso, e in essa non vi è traccia della dedotta
configurazione unitaria dei rapporti: si parla, invece, soltanto di
"artificiosità", "illegittimità" e "callido modus
operandi" della banca nell'accreditare le rimesse, relative al
pagamento delle fatture, sul conto corrente ordinario 2651, per poi
girocontarle sul conto anticipi 37421 a decurtazione del suo saldo
passivo, onde impedire alla cliente di disporre del saldo attivo
formatosi sul conto ordinario.
La censura, poi, di omessa motivazione in ordine alla effettiva
intenzione della banca di procedere a compensazione, piuttosto che a
semplici movimenti di valuta da un conto all'altro, sul presupposto -
sembra di capire - della omessa comunicazione di tale intenzione alla
società correntista, è inammissibile perchè deduce
un fatto nuovo, mai discusso nel giudizio di merito.
Disattese le pregiudiziali censure di vizio di motivazione, resta
escluso anche il conseguente lamentato vizio di violazione di legge.
10. - Con il secondo motivo il ricorrente incidentale, denunciando
violazione e falsa applicazione degli artt. 1282 e 1283 c.c. e 345,
primo coma, c.p.c., nonché vizio di motivazione, censura la
sentenza definitiva della corte di appello per aver escluso il diritto
del fallimento agli interessi anatocistici sul credito riconosciutogli
a seguito del positivo esperimento dell'azione revocatoria. Lamenta che
la Corte abbia erroneamente ritenuto che, per poter considerare scaduti
gli interessi primari, agli effetti dell'art. 1283 c.c., occorra che il
credito per capitale sia non soltanto liquido, ma anche “certo”, e che
abbia, quindi, escluso che nella specie ricorresse il requisito della
certezza - a causa delle contestazioni della banca nonché del
carattere costitutivo dell'azione revocatoria - sino al momento della
sentenza di revoca. Sostiene, invece, che non è concepibile che
un credito liquido non sia altresì certo; che l'art. 1282 c.c.,
che disciplina gli interessi nelle obbligazioni pecuniarie, prevede i
soli requisiti della liquidità (nella specie riconosciuta dalla
stessa Corte al credito del fallito) ed esigibilità, non quello
della certezza; che la sentenza in materia di revocatoria fallimentare
è bensì costitutiva, ma ha effetto retroattivo alla data
della demanda; che, infine, la Corte di merito ha ignorato che la
curatela aveva in grado di appello chiesto il riconoscimento degli
interessi anatocistici anche con riguardo al periodo successivo alla
sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 345, primo comma (ult.
parte), c.p.c., ed ha implicitamente disatteso anche quest'ultima parte
della domanda, che pure doveva accogliere sulla base della stessa
(errata) impostazione che essa dava al problema; che sul punto la
motivazione è stata completamente omessa e, per il resto, la
stessa è insufficiente e contraddittoria, perché la
conclusione cui perviene la Corte contrasta con la pur confermata tesi
che gli interessi su un credito liquido maturano anche in corso di
causa e stabilisce un parallelo del tutto inappropriato (quanto
all'affiancamento del requisito della certezza a quelli della
liquidità ed esigibilità del credito) con le regole della
compensazione legale e, infine, perchè il rilievo attribuito
dalla Corte alla mera contestazione del credito da parte del debitore
(che praticamente non manca in nessuna causa) svuoterebbe di contenuto
il già restrittivo art. 1283 c.c..
11. - Il motivo è infondata.
E' pacifico in causa che la sentenza di revoca di pagamenti ha
carattere costitutivo, onde non è qui necessario ripercorrere i
passaggi del conforme, consolidato indirizzo giurisprudenziale.
Il carattere costitutivo della sentenza comporta che soltanto
quest'ultima produce l'effetto caducatorio dell'atto giuridico
impugnato e che soltanto a seguito di essa sorge il conseguente credito
del fallimento alla restituzione di quanto pagato dal fallito, e
finché non é sorto il credito (restitutorio) per
capitale, neppure sorge il credito accessorio degli interessi. Ne
deriva che, sino alla sentenza di revoca del pagamento, non può
parlarsi di interessi scaduti, onde non può farsi luogo
all'anatocismo ai sensi dell'art. 1283, che presuppone la intervenuta
scadenza degli interessi primari. Non è dunque questione di
illiquidità o incertezza soggettiva del credito per (capitale o)
interessi, bensì di mancata scadenza dello stesso.
Il ricorrente fa riferimento alla retroattività della sentenza
di revoca alla data della domanda, ma invano.
Le sentenze costitutive non hanno normalmente efficacia retroattiva,
bensì efficacia ex nunc, ossia dalla data del passaggio in
giudicato, salvo che la legge disponga eccezionalmente in modo diverso
(Cass. 1756/1967, 1968/1969, nonché, in fattispecie di
revocatoria fallimentare, 629/1973 e 2754/1973). Ed effettivamente, con
riguardo alla sentenza di revoca di pagamenti, è consolidato
l'orientamento giurisprudenziale secondo cui gli interessi sul
conseguente credito del curatore rientrano tra gli effetti restitutori
rispetto ai quali la pronuncia retroagisce alla data della domanda
(Cass. 3047/1982, 3657/1984, 3155/1997, 8703/1998, S.U. 437/200,
5843/2001). Del resto, gli interessi (semplici) con tale decorrenza
sono stati riconosciuti dalla sentenza qui impugnata.
Ma la decorrenza degli interessi (retroattiva alla data della domanda)
non va confusa con la scadenza, ossia con la data in cui gli stessi,
dovendo essere pagati dal debitore, diventarlo esigibili. Nell'ipotesi
di credito derivante da pronuncia giudiziale costitutiva, tale data non
può che coincidere con la data della pronuncia stessa - ossia
del passaggio in giudicato (non essendo sufficiente la sola,
provvisoria pronuncia di prima grado, come invece sembra presupporre il
ricorrente) - giacché solo in tale data, perfezionatosi
l'accertamento giudiziale ed il suo effetto costitutivo, sorge il
relativo obbligo (sulla esigibilità dei crediti restitutori alla
data della sentenza costitutiva con effetti retroattivi v., in tema di
risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento, Cass.
2522/1970, 5426/1981 e 3288/1989). Occorre, in altri termini, tenere
distinta la retroattività (eventuale) degli effetti patrimoniali
della sentenza dalla irretroattività della pronuncia
costitutiva.
La sentenza qui impugnata si è sostanzialmente attenuta a tali
principi (il riferimento, invero equivoco, al requisito della certezza
del credito va inteso come riferimento alla esistenza/scadenza) e va
quindi confermata.
12. - Con il terzo motivo il ricorrente incidentale, denunciando
violazione e falsa applicazione degli artt. 184 c.p.c. e 1124, secondo
comma, e 2043 c.c., nonché vizio di motivazione, si duole che la
Corte di appello abbia disatteso, perché tardiva, la domanda di
maggior danno da svalutazione monetaria delle somme oggetto di
rimborso, formulata dal fallimento in sede di conclusioni finali in
primo grado. Deduce che:
1) la Corte ha errato nell'escludere che su detta domanda controparte
avesse accettato il contraddittorio, ritenendo che la mancata
contestazione immediata della novità della domanda non avesse
concretizzato “atteggiamento non oppositorio” - nel senso indicato da
Cass. Sez. Un. 4712/1996 - all'esame della domanda nuova. Infatti il
giudice avrebbe dovuto considerare le peculiarità del caso, e
cioè che: all'udienza di precisazione delle conclusioni era
presente il difensore della banca; le conclusioni erano state dettate a
verbale; all'epoca si riteneva fermo il principio (poi modificato dalla
citata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte) secondo
cui la mancata eccezione di novità della domanda formulata in
sede di conclusioni finali equivaleva ad accettazione del
contraddittorio, sicché la mancata formulazione dell'eccezione,
nella consapevolezza di tali conseguenze, non poteva essere considerato
silenzio privo di effetti;
2) l'obbligazione restitutoria conseguente all'utile esperimento
dell'azione revocatoria fallimentare ha natura di debito di valore,
derivando da atto illecito, onde neppure sarebbe stata necessaria la
formulazione di specifica richiesta di rivalutazione, dovendo questa
essere riconosciuta d'ufficio dal giudice, secondo un orientamento
giurisprudenziale di legittimità che la curatela aveva anche
invocato; la Corte di appello, però, errando, aveva ritenuto di
uniformarsi al prevalente orientamento contrario.
13. - Il motivo va disatteso sotto entrambi i profili.
Quanto al primo, va osservato che le deduzioni del ricorrente si
sostanziano nella pura e semplice richiesta, inammissibile in sede di
legittimità, di ribaltare l'interpretazione data dalla Corte di
merito al comportamento processuale della banca.
Quanto al secondo profilo, si rileva che la prospettazione della
richiesta di rivalutazione monetaria come inerente alla natura di
debito di valore dell'obbligazione della banca, in quanto derivante da
fatto illecito, è inammissibile perché nuova. In
proposito, va considerata la sostanziale diversità, sia per
petitum che per causa petendi, tra la richiesta del maggior danno ai
sensi dell'art. 1224 cpv. c.c. e la richiesta di rivalutazione
concernente un credito di valore (cfr., da ultimo, Cass. 3607/1995,
3108/1999, 888/2002), pretendendo il creditore, nel primo caso, il
ristoro del danno effettivamente subito, e avente la più varia
consistenza (solo eventualmente coincidente con la svalutazione
monetaria), a causa del ritardo nell'adempimento di un'obbligazione
pecuniaria, regolata dal principio nominalistico, e, nel secondo,
l'adeguamento all'effettivo valore della prestazione, costituente
oggetto dell'obbligazione, della determinazione monetaria (variabile
nel temo) di essa. Nella specie, le conclusioni finali rassegnate dalla
curatela nel giudizio di appello contengono esclusivamente la richiesta
di "maggior danno ex art. 1224 secondo comma c.c." (dunque sul
fondamento di un credito di valuta), non la domanda di rivalutazione di
un credito di valore derivante da fatto illecito.
14. - In conclusione, i ricorsi principali vanno dichiarati
inammissibili ed il ricorso incidentale va rigettato; le spese del
giudizio di legittimità vanno compensate tra le parti per la
reciproca soccombenza.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibili i ricorsi
principali n. 23608/2000 R.G. e n. 434/2003 R.G. e rigetta il ricorso
incidentale n. 2859/2003, compensando le spese processuali.
Così deciso in Roma il 24 ottobre 2003.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA L’11 GIUGNO 2004
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