Cassazione civile sez. un., 28/01/2021, n.2061 Leasing la legge n.
124/2017 (art. 1, commi 136 -140) non ha effetti retroattivi
Leasing la legge n.
124/2017 (art. 1, commi 136 -140) non ha effetti retroattivi e
trova, quindi, applicazione per i contratti di leasing finanziario in cui i
presupposti della risoluzione per l'inadempimento dell'utilizzatore
(previsti dal comma 137) non si siano ancora verificati al momento della
sua entrata in vigore; sicchè, per i contratti
risolti in precedente e rispetto ai quali sia intervenuto il fallimento
dell'utilizzatore soltanto successivamente alla
risoluzione contrattuale, rimane valida la distinzione tra leasing di
godimento e leasing traslativo, dovendo per quest'ultimo social -tipo
negoziale applicarsi, in via analogica, la disciplina di cui all'art. 1526 c.c. e
non quella dettata dall'art. 72 -quater l. fall.,
rispetto alla quale non possono ravvisarsi, nella specie, le condizioni per
il ricorso all'analogia legis, né essendo
altrimenti consentito giungere in via interpretativa ad una applicazione
retroattiva della l. n. 124/2017.
FATTI DI CAUSA
1. - La
Dobank S.p.A., quale mandataria
della UniCredit Leasing S.p.A. - sulla premessa:
a) di aver concesso, nel 2002,
in locazione finanziaria alla (OMISSIS) s.r.l. un
capannone industriale; b) che il contratto era venuto a scadere il 7 maggio
2014 e la società utilizzatrice non aveva esercitato il diritto di opzione,
nè corrisposto le ultime rate dovute in base al
programma contrattuale; c) che essa società concedente aveva, quindi,
chiesto, "a norma della clausola risolutiva contenuta nel contratto di
leasing", il pagamento delle rate insolute e, successivamente,
ottenuto l'emissione di decreto ingiuntivo per il relativo importo; d) che
la società utilizzatrice veniva dichiarata fallita il 10 maggio 2016, sicchè essa Dobank, oltre a
rivendicare il bene concesso in leasing, aveva chiesto l'insinuazione al
passivo fallimentare dell'importo di Euro 70.799,91, di cui Euro 61.045,95
per canoni scaduti e non pagati (e il residuo per interessi moratori); e)
che l'istanza relativa all'ammissione del credito per rate insolute veniva
rigettata dal giudice delegato in ragione del fatto che, essendosi risolto
il rapporto prima della dichiarazione di fallimento, doveva ritenersi
applicabile l'art. 1526 c.c.,
in forza del quale al concedente era dovuto soltanto "un equo compenso
per l'uso della cosa" (nella specie non ritualmente domandato); f)
che, peraltro, avendo l'utilizzatrice versato, nel corso del rapporto, un
ammontare ben superiore a quello corrispondente all'equo compenso
calcolato, il giudice delegato aveva ordinato al concedente di restituire
alla curatela fallimentare la (sola) differenza - faceva opposizione, ai
sensi del R.D. n. 267 del 1942, art. 98 (di seguito: L. Fall.), allo stato passivo reso esecutivo
con decreto del novembre 2016, chiedendo, in via principale, l'ammissione
del proprio credito per Euro 70.779,91.
2.1.2. - Il motivo è, invece, infondato quanto alla
doglianza che predica, in termini assoluti e dogmatici, la non risolubilità
per inadempimento, in forza di clausola risolutiva espressa, del contratto
di leasing traslativo intercorso tra le parti in quanto
contratto di durata già giunto alla sua naturale scadenza.
In questi termini giova rammentare che, alla luce della
giurisprudenza di questa Corte - seppur maturata in contesti
e fattispecie diverse (mandato (Cass., 6
giugno 2018, n. 14623); locazione (Cass., 17
luglio 2008, n. 19695; Cass., 28
novembre 2008, n. 28416; Cass., 9
luglio 2009, n. 16110; Cass., 22
dicembre 2015, n. 25740; Cass., 20
dicembre 2019, n. 34158); appalto (Cass., 6
aprile 2011, n. 7878)) -, è possibile enucleare un principio più
generale (la cui tenuta deve, comunque, essere testata nelle vicende singolari),
per cui la cessazione di efficacia di un contratto, per lo spirare del
termine di durata, non preclude, di per sè, la
possibilità di far valere rimedi risolutori, azionabili per un
inadempimento concretatosi anteriormente alla scadenza naturale del
contratto medesimo.
E tanto non solo in ragione dell'alterità, nonchè priorità degli effetti nel tempo, della
risoluzione rispetto ad altra causa di cessazione del contratto, ma,
altresì, in forza del potere di autonomia privata del contraente non inadempiente
- che trova rispondenza anche nella consentita alternativa
dei rimedi (adempimento e risoluzione) e nella prevalenza di quello
risolutorio alla stregua di quanto disposto dall'art. 1453 c.c.,
primi due commi -, il quale, in ragione della cessazione fisiologica del
termine di durata del contratto, sarebbe privato della possibilità di far
valere l'inadempimento altrui.
Questo, peraltro, non elide quella verifica, caso per
caso - della cui necessità dà conto l'ordinanza interlocutoria
n. 5022 del 2020 -, dell'ammissibilità della domanda di risoluzione di un
contratto di durata, per l'inadempimento delle relative obbligazioni, pur a
fronte della cessazione del rapporto per altra causa, successiva
all'inadempimento (segnatamente, per la intervenuta scadenza naturale),
dovendo sussistere un concreto ed attuale interesse alla tutela azionata,
che, di regola, non potrebbe darsi (come evidenzia la stessa ordinanza
interlocutoria citata) ove, essendo la pretesa circoscritta all'adempimento
dei corrispettivi insoluti o al risarcimento del danno, trovi immediato
rilievo il regime dettato dall'art. 1458 c.c.,
comma 1, secondo periodo, per cui gli effetti della risoluzione non si
estendono alle prestazioni già eseguite.
Ciò che, infatti, verrebbe a sterilizzare le conseguenze
liberatorie e restitutorie che normalmente discendono dalla disciplina
(caratterizzata dalla retroattività) della risoluzione in forza del
medesimo art. 1458 c.c.,
comma 1, primo periodo in tal modo rendendo non
altrimenti utile una siffatta domanda giudiziale, perchè
dal suo eventuale accoglimento non potrebbe discendere alcun effetto che
non si sia già prodotto (cessazione del rapporto) o che non sia
conseguibile con la domanda di adempimento (della controprestazione non
eseguita) e con la generale azione di danno ex art. 1218
c.c., in quanto autonomamente proponibile rispetto a quella
risoluzione.
Tuttavia, sotto il profilo degli effetti risolutori del
leasing traslativo per cui è causa (gli unici ad
essere ormai rilevanti all'esito dello scrutinio della censura che precede,
sub p. 2.1.1.), il perimetro della presente impugnazione non comprende
l'alternativa anzidetta, ma ne esibisce una diversa, che è scolpita, da un
lato, dall'applicazione, già effettuata dal giudice del merito, dell'art. 1526 c.c. al
contratto inter partes
(norma che prevede la restituzione, da parte del concedente, delle rate
versate e la corresponsione, da parte dell'utilizzatore, di un equo
compenso, oltre all'eventuale risarcimento del danno) e, dall'altro,
dell'operatività, invocata dalla società concedente, ricorrente per
cassazione, dell'art. 72-quater L. Fall. (che dà rilievo all'eventuale credito
in favore del concedente risultante dalla differenza tra quanto ricavato
dalla vendita o altra allocazione del bene e il credito contrattuale
residuo) e, dunque, tra rimedi che si atteggiano, entrambi, in termini
differenti e ulteriori rispetto a quelli (adempimento e risarcimento del
danno ex art. 1218
c.c.) correlati alle conseguenze ordinariamente disposte dall'art. 1458 c.c. in
ipotesi di contratto ad esecuzione periodica o continuata.
Ne consegue che, per dichiarare infondate le censure
veicolate con il mezzo in esame, non occorre attendere l'esito dello
scrutinio del terzo motivo di ricorso, incentrato proprio sul tema (oggetto
del contrasto giurisprudenziale la cui risoluzione è stata rimessa a queste
Sezioni Unite) dell'applicabilità, nel caso di specie, dell'art. 1526 c.c. ovvero
dell'art. 72-quater
L. Fall..
3. - Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa
applicazione dell'art. 1526 c.c. e art. 72-quater
L. Fall., per
aver il Tribunale erroneamente ritenuto applicabile, nella fattispecie, l'art. 1526 c.c.,
non venendo in rilievo un'ipotesi di risoluzione del contratto, bensì di
sua cessazione per essere giunto a naturale scadenza; il che, del resto,
avrebbe impedito anche l'applicazione dell'art. 72-quater
L. Fall., che presuppone l'efficacia
del contratto alla data di dichiarazione del fallimento.
Ad avviso della ricorrente, nel caso in esame, integrante
un "tertium genus"
rispetto alle ipotesi anzidette, avrebbe dovuto trovare applicazione la regolamentazione pattizia, che
consentiva al concedente di ottenere, oltre la restituzione del bene, il
pagamento dei canoni scaduti.
3.1. - Il motivo è inammissibile.
Una volta, infatti, che vi è stata definitiva conferma,
all'esito dello scrutinio del motivo che precede, della statuizione del
decreto impugnato in punto di risoluzione del
contratto di leasing, tra le parti intercorso, per attivazione della
clausola risolutiva espressa, non può più avere ingresso la doglianza che
muove dal diverso presupposto che detta risoluzione non abbia rilievo e si
verta ancora in ipotesi di cessazione dell'efficacia del contratto medesimo
per essere giunto alla sua naturale scadenza.
4. - Con il terzo mezzo è prospettata,
ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa
applicazione della L. n. 124 del
2017.
La società ricorrente sostiene che, a seguito della
tipizzazione del contratto di leasing ad opera
della L. n. 124 del
2017 (art. 1, commi 136-140) - all'esito di un percorso
normativo iniziato proprio con l'introduzione, nel 2006, dell'art. 72-quater
L. Fall., proseguito con l'art. 169-bis
L. Fall. in tema di concordato
preventivo dell'utilizzatore e con la L. n. 208 del
2015 in materia di locazione finanziaria di immobili
adibiti ad uso abitativo -, sarebbe venuta meno la distinzione tra leasing
traslativo e di godimento, essendo stata ascritta al contratto una
disciplina unitaria, la quale, a differenza di quanto previsto dall'art. 1526 c.c.,
consente al concedente di pretendere dall'utilizzatore non già un equo
compenso, ma di trattenere i canoni pagati, pretendere il pagamento di
quelli scaduti e non pagati, ed esigere quelli ancora da scadere, più il
prezzo di opzione.
Il superamento della tradizionale anzidetta distinzione
comporterebbe che gli effetti della risoluzione di un
contratto non soggetto, ratione temporis, alla L. n. 124 del 2017 dovranno trovare la
propria disciplina di riferimento in quella dettata dall'art. 72-quater
L. Fall., quale norma da applicare in
via analogica in luogo del non più richiamabile, analogicamente, art. 1526 c.c..
4.1. - Il motivo, come detto, introduce il tema oggetto
del contrasto di giurisprudenza rilevato dall'ordinanza interlocutoria
n. 5022 del 2020 della Terza Sezione civile e rimesso all'esame di queste
Sezioni Unite.
4.1.1.
- La Sezione
rimettente dà conto del diritto vivente formatosi sulla distinzione, in
seno al contratto di leasing finanziario (o locazione finanziaria), tra
leasing di godimento (in cui il rapporto ha essenzialmente una funzione di
finanziamento a scopo, per l'appunto, di godimento e, quindi, con una
previsione dei canoni su base eminentemente corrispettiva di tale scopo,
essendo marginale ed accessoria la pattuizione relativa al trasferimento del bene alla
scadenza dietro pagamento del prezzo d'opzione) e leasing traslativo (in
cui il rapporto è indirizzato anche al trasferimento del bene, in ragione
di un apprezzabile valore residuo di esso al momento della scadenza
contrattuale, notevolmente superiore al prezzo d'opzione, mostrando i
canoni anche la consistenza di corrispettivo del trasferimento medesimo) e
della affermata diversità di regole applicabili all'una o all'altra
fattispecie negoziale, avendo la giurisprudenza di questa Corte ribadito,
per circa un trentennio, in modo affatto costante e coeso (a partire dalle
coeve decisioni del 13 dicembre 1989, n. 5569, n. 5571, n. 5573 e n. 5574;
con l'avallo poi della sentenza n. 65 del 7 gennaio 1993 di queste Sezioni
Unite), che gli effetti della risoluzione per inadempimento del contratto
di leasing traslativo sono regolati per analogia dall'art. 1526 c.c..
Orientamento, questo, che non è mutato anche a seguito
dell'introduzione, ad opera
del D.Lgs. n. 5 del 2006, dell'art. 72-quater L. Fall., ascrivendosi la disciplina di tale
norma non già al profilo della risoluzione del contratto di leasing, bensì
del suo scioglimento quale conseguenza del fallimento dell'utilizzatore
(tra le altre, Cass., 29
aprile 2015, n. 8687; Cass., 9
febbraio 2016, n. 2538).
Invero, come ancora evidenzia l'ordinanza n. 5022 del
2020, la fermezza dell'indirizzo in esame si rinviene anche in epoca
successiva all'entrata in vigore della L. n. 124 del
2017, la quale, all'art. 1, commi da 136 a 140 "ha
dettato una disciplina organica ed unitaria del leasing, superando la
distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo", sebbene le
decisioni in tal senso non prendano posizione sulla portata e sugli effetti
di detta legge (Cass., 19
febbraio 2018, n. 3945; Cass., 18
giugno 2018, n. 15975; Cass., 12
febbraio 2019, n. 3965).
Un siffatto diritto vivente - come detto, costante e
coeso per circa un trentennio - è stato invece contrastato da una serie di
pronunce di questa Corte (a partire da Cass., 29
marzo 2019, n. 8980, seguita poi da: Cass., 20
agosto 2019, n. 18545; Cass., 30
settembre 2019, n. 24438; Cass., 28
ottobre 2019, n. 27545), inclini a valorizzare, in via
interpretativa, proprio la novella legislativa del 2017, giungendo alla
conclusione che, in ragione dell'innovazione del quadro normativo di
riferimento (già inciso dal citato art. 72-quater
L. Fall., ma anche da ulteriori
settoriali interventi legislativi), l'art. 1526 c.c. non
possa trovare applicazione nel caso di risoluzione per inadempimento dei contratti
di leasing, traslativi o di godimento che siano, in quanto è stata
superata, per l'appunto, la tradizionale distinzione, di origine pretoria, tra leasing traslativo e di godimento, quale
figure ora accomunate in una regolamentazione unitaria e a vocazione
generale anche quanto ai stabiliti effetti della risoluzione per
inadempimento dell'utilizzatore.
Secondo tale più recente indirizzo, gli effetti delle
novità normative si "riverberano... anche sui contratti cui esse non
sarebbero applicabili ratione temporis:
non già per effetto di una non consentita applicazione retroattiva, ma per
effetto di una "interpretazione storico-evolutiva, secondo cui una
determinata fattispecie negoziale (...) non può che essere valutata sulla
base dell'ordinamento vigente, posto che l'attività ermeneutica non può
dispiegarsi "ora per allora, ma all'attualità"";
e ciò sul presupposto che, sino al definitivo accertamento contenuto nella
sentenza passata in giudicato, non si siano esauriti i relativi effetti.
Donde, il principio per cui le conseguenze della
risoluzione dei contratti di leasing, antecedente al fallimento
dell'utilizzatore e sottratti ratione temporis all'efficacia diretta della L. n. 124 del
2017, debbano essere disciplinate in via analogica dall'art. 72-quater
L. Fall., che
esibisce la medesima regolamentazione di quella poi fatta propria dalla
novella più recente.
4.1.2. - I dubbi sulla tenuta di quest'ultimo
orientamento sono dall'ordinanza interlocutoria
della Terza Sezione compendiati in due distinti "quesiti", che
interrogano altrettante "questioni preliminari "di
sistema"", come detto riassumibili nella possibilità, o meno, di predicare
l'applicazione analogica (attraverso l'interpretazione
"evolutiva") di una norma sopravvenuta rispetto alla fattispecie
concreta che dovrebbe disciplinare.
Nella specie,
infatti, le norme che si pretenderebbero espressive di un principio
generale (l'art. 72-quater L. Fall. e la L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140) sono entrate in
vigore molto tempo dopo la risoluzione del contratto di leasing oggetto del presente giudizio (la legge del 2017 anche dopo la
dichiarazione di fallimento dell'utilizzatore); risoluzione avvenuta, come
detto, in un quadro di "diritto vivente" consolidato nel senso
della distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento, con
conseguente applicabilità analogica dell'art. 1526 c.c. alla risoluzione del primo.
4.1.2.1. - Assume, pertanto, la Terza Sezione
civile che la giurisprudenza, e massimamente quella di legittimità
nell'esercizio della sua funzione nomofilattica,
concorre nella formazione della norma da applicare e, come tale, è tenuta a
rispettare il principio (discendente dalla CEDU,
ma recepito anche nell'ordinamento comunitario in
forza dell'art. 6 TUE)
della certezza del diritto, nei suoi tre corollari: "il principio di irretroattività delle norme; il principio di
tutela del legittimo affidamento ed il principio di salvaguardia dei
diritti quesiti".
Trattasi, del resto, di principi condivisi da questa
stessa Corte allorchè, sia pure in materia
processuale, ha affermato che il mutamento di un orientamento consolidato
su una certa interpretazione delle norme di rito trova giustificazione solo
quando quell'interpretazione sia "manifestamente arbitraria e
pretestuosa (...) atteso che l'affidabilità, prevedibilità e uniformità
dell'interpretazione delle norme processuali costituisce
imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia
del processo" (Cass., S.U., 6
novembre 2014, n. 23675).
Di qui, pertanto, il primo quesito di diritto posto
dall'ordinanza interlocutoria: "se
l'interpretazione dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, commi
136-140, secondo cui tale norma
imporrebbe di abbandonare (anche per i fatti avvenuti prima della sua
entrata in vigore) il tradizionale orientamento che applica alla
risoluzione del contratto di leasing traslativo l'art. 1526 c.c., sia coerente coi principi comunitari di certezza del diritto e
tutela dell'affidamento".
4.1.2.2. - Il secondo quesito (strettamente correlato al
primo) involge la legittimità di un procedimento di applicazione analogica
definita "diacronica", "per effetto della quale la norma da
applicare per analogia al caso concreto potrebbe anche non esistere al
momento di realizzazione della fattispecie, purchè
esista al momento della decisione".
Procedimento che - ad avviso della sezione rimettente
"parrebbe di assai dubbia compatibilità coi
principi già ricordati di certezza del diritto e tutela
dell'affidamento". In ogni caso, anche a voler ritenere ammissibile
tale peculiare tipo di analogia (che l'orientamento più recente definisce
come "interpretazione storico-evolutiva"), l'ordinanza interlocutoria solleva il dubbio che l'art. 72-quater
L. Fall. possa applicarsi alla
fattispecie concreta all'esame della Corte, dal momento che a venire in
rilievo in quest'ultima sono gli effetti di una risoluzione del contratto
anteriore al fallimento, e non già gli effetti dello scioglimento del
contratto, ad opera del curatore, in conseguenza del fallimento medesimo.
L'interrogativo che, quindi, pone l'ordinanza n. 5022 del
2020 è "se possa applicarsi in
via analogica, anche solo per analogia iuris, una
norma inesistente al momento in cui venne ad
esistenza la fattispecie concreta non prevista dall'ordinamento; ed in caso
affermativo se, con riferimento al caso di specie, tale norma da applicarsi
in via analogica possa ravvisarsi nell'art. 72-quater L. Fall.".
4.2. - Ritengono queste Sezioni Unite che non possa darsi
seguito all'orientamento giurisprudenziale più recente, inaugurato dalla
sentenza n. 8980 del 2019, e che, dunque, debba assicurarsi continuità al
diritto vivente di risalente formazione (ma, come detto, ribadito anche da
pronunce successive a quella portatrice di overruling),
che ha costantemente tratto dall'art. 1526 c.c.,
in forza di interpretazione analogica, la
disciplina atta a regolare gli effetti della risoluzione per inadempimento
di contratto di leasing (traslativo) verificatasi
prima dell'entrata in vigore della L. n. 124 del
2017 e del fallimento dell'utilizzatore resosi
inadempiente.
Queste le ragioni che convincono di dover risolvere nei
termini appena evidenziati l'ingeneratosi
contrasto di giurisprudenza, conseguendone, quindi, l'infondatezza del
motivo di ricorso in esame.
4.3. - Giova precisare sin d'ora, in termini più generali
(o di sistema) che, ai fini dell'approdo nomofilattico
che si ritiene di privilegiare, non è affatto in
discussione la forza propulsiva dell'attività interpretativa rimessa al
giudice, anche nella sua declinazione di ermeneutica c.d. evolutiva (o
storico-evolutiva), affinchè l'ordinamento giuridico
risponda, in ogni momento, alle esigenze cangianti della realtà
socio-economica di riferimento, nei confronti della quale l'interprete deve
sempre tendere lo sguardo attento a cogliere l'emersione di nuove ed
effettive esigenze meritevoli di tutela.
E l'anzidetto canone interpretativo - che si coordina con
gli altri (letterale, teleologico, sistematico) per guidare lo svolgimento
dell'interpretazione giuridica, così da costituire un complesso di criteri
filtranti la "lettura" delle norme, le quali,
in quanto modelli deontici di condotta, necessitano di trovare concreta
attuazione e, quindi, di essere immerse nella realtà viva e mutevole
dell'ordinamento - può ben esplicare la propria modalità operativa anche
nutrendosi del diritto positivo di più recente conio, successivo, dunque,
all'assetto regolatorio pertinente alla
disciplina da interpretare, gettando su di essa un luce retrospettiva
capace di disvelarne senso e orientamento anche
differenti da quelli sino ad allora affermati, ove rispondenti alle predette
esigenze.
Nè l'interpretazione giuridica
così dinamicamente modulata si rende disarmonica con il disegno legislativo
degli ultimi tre lustri volto - attraverso le varie riforme del processo
civile di legittimità (da cui le disposizioni, introdotte o novellate,
dell'art. 360-bis c.p.c., n. 1, art. 363 c.p.c., art. 374 c.p.c., comma 3,
e art. 384 c.p.c., comma 1) - ad implementare lo spazio
vitale della funzione nomofilattica della Corte
di cassazione sempre più nell'ottica valoriale della certezza del diritto e
della sicurezza giuridica, a presidio di un trattamento uniforme dei
cittadini dinanzi al giudice, quale precipitato immediato del principio di
eguaglianza, così da accreditare il "precedente" come regola
"forte" di decisione di casi a venire e, dunque, elevandolo a
criterio e misura della prevedibilità e calcolabilità riguardo alla
decisione di controversie future.
Al "precedente", infatti, è affidato quel grado
di stabilità che il dinamismo propulsivo dell'ordinamento giuridico,
alimentato dal mutamento dei fattori ambientali (socio-economici) regolati,
rende, comunque, solo tendenziale e che l'evoluzione giurisprudenziale sa,
per l'appunto, cogliere in un incessante riequilibrio delle condizioni atte
a garantire tutela ai beni/interessi che, come detto, a buon
ragione la reclamino in termini di effettività proprio attraverso lo jus dicere.
Tuttavia, non può l'attività di interpretazione
delle norme, come tale, superare quei limiti che si impongono nel suo
svolgimento e che danno la misura della distinzione di piani sui quali
operano, rispettivamente, il legislatore e il giudice, tanto da non potersi
collocare il "precedente" stesso, seppure proveniente dal giudice
di vertice del plesso giurisdizionale (e, dunque, anche se integrativo del
parametro legale: art. 360 bis c.p.c., n. 1), allo stesso livello della
cogenza che esprime, per statuto, la fonte legale (cfr. anche Corte Cost.,
sent. n. 230 del 2012), alla quale il giudice è (soltanto)
soggetto (art. 101 Cost.,
comma 2).
Il legislatore, infatti, "introduce nell'ordinamento
un quid novi che rende obbligatorio per tutti un
precetto o una regola di comportamento"; il giudice, come detto,
"applica al caso concreto la legge intesa secondo le comuni regole
dell'ermeneutica (Corte Cost. n. 155 del 1990) e in tal modo ne disvela il significato corretto, pur sempre insito
nella stessa, in un dato momento storico, quale espressione di un
determinato contesto sociale e culturale" (Cass., S.U.,
n. 4135/2019).
E' in tal senso, pertanto, che la funzione assolta dalla
giurisprudenza è di natura "dichiarativa", giacchè
riferita ad una preesistente disposizione di
legge, della quale è volta a riconoscere l'esistenza e l'effettiva portata,
"con esclusione formale di un'efficacia direttamente creativa" (Cass., 25
febbraio 2011, n. 4687; Cass., S.U.,
24 aprile 2004, n. 21095).
4.3.1. - Sicchè, l'attività
interpretativa giudiziale, sia pure a vocazione, per l'appunto,
"evolutiva", è segnata, anzitutto, dal limite di tolleranza ed
elasticità dell'enunciato, ossia del significante testuale della
disposizione che ha posto, previamente, il
legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove
necessariamente la dinamica dell'inveramento
della norma nella concretezza dell'ordinamento ad opera della
giurisprudenza stessa (Cass., S.U.,
11 luglio 2011, n. 15144; Cass., S.U.,
22 giugno 2018, n. 16957; Cass., S.U.,
31 ottobre 2018, n. 27755).
Ciò consente di affermare, anzitutto, che, al fine di
poter colmare l'eventuale lacuna che l'ordinamento esibisca rispetto alla
disciplina di un caso concreto, il procedimento analogico (o
interpretazione/integrazione analogica) esige (art. 12
preleggi, comma 2) che la disposizione (analogia legis) o lo stesso "principio generale
dell'ordinamento" (analogia iuris), che a quel
caso forniranno la regula iuris
in quanto si possa ravvisare la "eadem ratio" - ossia la medesima ragione giustificativa
che legittima il ricorso al procedimento stesso, ciò implicando il
riconoscimento a monte di un rapporto di similitudine fondato sulla
comunanza di elementi (giuridici o fattuali), strutturali e/o funzionali,
rilevanti devono essere presenti all'interno dell'ordinamento (quali norme
frutto dell'attività interpretativa svolta) nel momento in cui il giudice
si trova a doverli applicare, non potendo egli fare opera creativa nei
termini appena evidenziati.
4.3.2. - Inoltre, non può l'interpretazione delle norme
da parte del giudice "interferire sul terreno della vigenza della
legge che è connessa alla sua entrata in vigore come dalla stessa
predeterminata con regole generali (artt. 10, 11,
14 e 15 disp. gen.) o specifiche vincolanti per
l'interprete" (così la citata Cass., S.U.,
n. 4135/2019).
Ai fini del presente scrutinio viene in rilievo la regola
dettata dal citato art. 11 "preleggi"
("la legge non dispone che per l'avvenire"), in forza della quale, ove non sia il legislatore stesso a
disporre in via retroattiva - e ciò può avvenire espressamente (anche
tramite norma di interpretazione autentica) ovvero implicitamente (la
retroattività essendo anche desumibile, se inequivocabile, in via interpretativa
dalla disposizione interessata) -, un tale potere non è esercitabile dal
giudice, neppure per il tramite del procedimento analogico, essendo
l'efficacia temporale della fonte disponibile solo per il legislatore e
pure per esso in termini tali da non poterne fare uso arbitrario (tra le
molte, Corte Cost., sentenze n. 104 e n. 194 del 2018; Cass., S.U.,
13 novembre 2019, n. 29459 e Cass., S.U., 7
maggio 2020, n. 8631).
L'efficacia retroattiva di una norma è, infatti,
attributo eccezionale di essa, che deroga, per l'appunto, alla regola posta
dal richiamato art. 11, la quale, sebbene non
assistita da garanzia costituzionale (giacchè a
tale livello l'irretroattività della legge trova presidio immediato
soltanto nella materia penale: art. 25 Cost.),
fonda pur sempre un vincolo tendenziale nell'attività dello stesso
legislatore, che non può debordare (Cass., S.U., n. 8631 del 2020, citata)
da quei limiti (seppure non assoluti, ma bilanciabili con altri principi
costituzionali) che il Giudice delle leggi ha inteso come "valori di
civiltà giuridica", tra cui, eminentemente, "il rispetto del
principio di ragionevolezza", "la tutela dell'affidamento
legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di
diritto", "la coerenza e la certezza dell'ordinamento
giuridico", "il rispetto delle funzioni costituzionalmente
riservate al potere giudiziario" (tra le molte, sentenze n. 397 del
1994, n. 209 del 2010, n. 308 del 2013, n. 69 del 2014).
Limiti, o almeno alcuni dei quali (la certezza del
diritto e la tutela dell'affidamento), che sono ritenuti cogenti (e non
solo per legislatore, ma anche per il formante giurisprudenziale) pure in
ambito di diritto sovranazionale, sia Eurounitario
(come, in particolar modo, messo in risalto dalla stessa ordinanza interlocutoria n. 5022 del 2020, che ha richiamato le
sentenze della Corte di giustizia del 14 aprile 1970, in causa C-68/69;
del 7 luglio 1976,
in causa C-7/76; del 16 giugno 1998, in causa C-162/96), che convenzionale.
Ambito, quest'ultimo, nel quale, peraltro, si rende
maggiormente aderente al thema decidendum la tutela somministrata, più che dall'art.
6 CEDU (giacchè rilevante essenzialmente allorquando
la legge retroattiva venga ad influenzare indebitamente controversie nelle
quali è parte lo Stato o, comunque, ad alterare il principio di parità
delle armi), dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa
Convenzione, nella lata accezione che la stessa Corte EDU fornisce della
protezione della proprietà (attraverso la nozione di "bene"
inteso come diritto patrimoniale: tra le altre, Corte EDU, sentenza del 7 giugno 2012,
Centro Europa s.r.l. c. Italia), per l'incidenza pregiudizievole della
norma retroattiva sul legittimo affidamento di rilevanza economica che il
privato possa aver maturato in virtù della (interpretazione
giurisprudenziale, nella specie, della) legislazione previgente.
4.3.2.1. - Tuttavia, proprio in
riferimento alla tutela del legittimo affidamento nella sicurezza giuridica
e della certezza del diritto (che, nei termini sopra precisati, sono anche
parte dello statuto del precedente nomofilattico),
la garanzia costituzionale cessa con l'entrata in vigore della legge, non
potendosi estendere sino a coprire modificazioni pro futuro dell'assetto
normativo vigente.
Ciò che, del resto, è affermazione di
principio che si rinviene anche nella giurisprudenza della Corte di
Giustizia dell'Unione Europea, che sovente ha ritenuto che il principio del
legittimo affidamento "non può
essere esteso fino a impedire, in generale, che una nuova disciplina si
applichi agli effetti futuri di situazioni sorte sotto l'impero della disciplina
anteriore" (sentenza 29 giugno 1999, in C-60/98; sentenza 3 settembre 2015,
A2A, C-89/14; sentenza 26 maggio 2016, in C-260/14 e C-261/14).
Con l'avvento della nuova legge si pone, dunque, un
problema di effetti intertemporali rispetto alla disciplina previgente,
che, se non regolati quest'ultimi direttamente dal
legislatore tramite disposizioni che modulano la transizione dalla vecchia
disciplina alla nuova (e, dunque, intervengono sui profili di eventuale ultrattività della prima o retroattività della
seconda), sono da risolversi in base alla teoria del c.d. "fatto
compiuto", che questa Corte da tempo risalente ha inteso seguire in
modo costante (tra le altre, Cass., S.U., 12 dicembre 1967, n. 2926, Cass.,
20 marzo 1969, n. 858, Cass., 11 luglio 1975, n. 2743, Cass., 29
aprile 1982, n. 2705; Cass., 28
aprile 1998, n. 4327, Cass., 28
settembre 2002, n. 14073, Cass., 3
luglio 2013, n. 16620, Cass., 2
agosto 2016, n. 16039, Cass., 13
ottobre 2016, n. 20680, Cass., 14
ottobre 2019, n. 25826, Cass., S.U., n. 29459 del 2019, citata).
La retroattività normativa, infatti, è da apprezzarsi
come sussistente allorquando una disposizione di
legge introduca, sulla base di una nuova qualificazione giuridica di fatti
e rapporti già assoggettati all'imperio di una legge precedente, una nuova
disciplina degli effetti che si sono già esauriti sotto la legge
precedente, ovvero una nuova disciplina di tutti gli effetti di un rapporto
posto in essere prima dell'entrata in vigore della nuova norma, senza
distinzione tra effetti verificatisi anteriormente o posteriormente alla
nuova disposizione, pur essendo possibile separare ontologicamente gli uni
dagli altri e non sussistendo tra i medesimi un rapporto di inerenza o
dipendenza.
Non è dato, invece, ravvisare la retroattività di una
norma allorchè essa disciplini status, situazioni
e rapporti che, pur costituendo lato sensu
effetti di un pregresso fatto generatore (previsti
e considerati nel quadro di una diversa normazione),
siano distinti ontologicamente e funzionalmente (indipendentemente dal loro
collegamento con detto fatto generatore), in quanto suscettibili di una
nuova regolamentazione mediante l'esercizio di poteri e facoltà non
consumati sotto la precedente disciplina.
E tanto si verifica mediante la
sopravvenuta introduzione di nuovi presupposti, condizioni e facoltà per il
riconoscimento di diritti e obblighi inerenti al pregresso fatto
generatore, ovvero mediante la sopravvenuta soppressione o limitazione dei
presupposti, condizioni e facoltà per il riconoscimento suddetto, se ancora
non avvenuto definitivamente.
4.4. - Sulla scorta di tali più generali premesse
occorre, quindi, considerare che, sino al momento dell'entrata in vigore
della L. 4 agosto
2017, n. 124 (e, segnatamente, del suo art. 1, commi 136-140), il leasing è rimasto sostanzialmente
un contratto soltanto socialmente tipico, articolato in distinte forme e
strutture dalla pratica commerciale, unificate dall'operazione di finanziamento
volta a consentire ad un soggetto (il c.d. utilizzatore o lessee) il godimento di un bene (transitorio o
finalizzato al definitivo acquisto del bene stesso) grazie all'apporto
economico di un soggetto abilitato al credito (il c.d. concedente o lessor) il quale, con proprie risorse finanziarie,
consente all'utilizzatore di soddisfare un interesse che, altrimenti, non
avrebbe avuto la possibilità o l'utilità di realizzare, attraverso il
pagamento di un canone che si compone, in parte, del costo del bene e, in
parte, degli interessi dovuti al finanziatore per l'anticipazione del
capitale (così Cass., S.U., 5
ottobre 2015, n. 19785).
In questo contesto, pertanto, è
sorta e si è sviluppata la distinzione tra leasing traslativo e di
godimento (come innanzi ricordata), che porta come conseguenza rilevante quella
della diversificazione delle rispettive discipline in caso di risoluzione
del contratto per inadempimento dell'utilizzatore.
Nel leasing di godimento, la risoluzione non si estende
alle prestazioni già eseguite, secondo quanto disposto dall'art. 1458 c.c.,
comma 1, secondo periodo, in tema di contratti ad
esecuzione continuata e periodica, riscontrandosi piena sinallagmaticità
tra le reciproche prestazioni; sicchè,
l'utilizzatore è tenuto a restituire il bene, mentre il concedente ha
diritto a mantenere le rate riscosse, oltre al risarcimento del danno per
l'inadempimento verificatosi.
Nel leasing traslativo, la risoluzione resta soggetta
all'applicazione in via analogica delle disposizioni di cui all'art. 1526 c.c.,
con riguardo alla vendita con riserva della proprietà, per cui
l'utilizzatore è obbligato alla restituzione del bene e il concedente alla
restituzione delle rate riscosse, avendo, però, diritto ad
un equo compenso per la concessione in godimento del bene e il suo
deprezzamento d'uso, oltre al risarcimento del danno.
La ragione di questa distinzione nella disciplina degli
effetti risolutori tra le due figure di leasing è quella
di far fronte, nel caso di leasing traslativo, all'esigenza di porre
un limite al dispiegarsi dell'autonomia privata là dove questa venga,
sovente, a determinare arricchimenti ingiustificati del concedente, il
quale, seguendo lo schema da lui predisposto, si troverebbe a conseguire
(la restituzione del bene e l'acquisizione delle rate riscosse, oltre,
eventualmente, il risarcimento del danno, ossia) più di quanto avrebbe
avuto diritto di ottenere per il caso di regolare adempimento del contratto
da parte dell'utilizzatore stesso (tra le molte, Cass., 4 luglio
1997, n. 6034).
Ed è questa l'esigenza che, del pari, costituisce la
ragione giustificativa della complessiva disciplina recata dall'art. 1526 c.c. in
tema di vendita con riserva di proprietà, come del resto si evince già
dalla Relazione del Ministro Guardasigilli al codice civile del 1942, ivi
declinandosi chiaramente l'intento di ovviare, nella fase patologica del
rapporto, agli abusi della prassi commerciale nei confronti della posizione
del compratore e, al tempo stesso, a fornire equilibrata tutela pure al
venditore, attraverso la previsione dell'equo compenso e del risarcimento
del danno, anche in quest'ultimo caso, però, avendo di mira, attraverso la
previsione dell'istituto della riduzione della penale eccessiva, l'equità
contrattuale e il contrasto ad ogni indebita locupletazione ingenerata dall'autonomia privata.
4.5. - La legge del 2017 è stata preceduta,
comunque, da taluni interventi legislativi, ma di portata eminentemente
settoriale, volti a regolare aspetti o modelli peculiari
del leasing finanziario, come gli effetti dello scioglimento del contratto
a seguito del fallimento dell'utilizzatore (art. 72-quater
L. Fall., introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006 (dal 1 settembre 2021, D.Lgs. n. 14 del 2019, art. 177 recante "Codice
della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della L. 19 ottobre
2017, n. 155") ovvero gli effetti dello scioglimento del
medesimo contratto nell'ambito del concordato preventivo (art. 169 bis,
comma 5, L. Fall., come introdotto
dal D.L. n. 83 del
2015, convertito, con modificazioni, nella L. n. 132 del
2015), nonchè la disciplina di una
specifica tipologia di leasing, quello di immobile da adibire ad abitazione
principale (L. n. 208 del
2015, art. 1, commi 74-80).
La L. n. 124 del
2017, art. 1, commi 136-140, superando, quindi, la logica
della regolamentazione specifica e settoriale, ha
fornito una tipizzazione legale del contratto di leasing finanziario in
termini di fattispecie generale e unitaria (facendo convergere in un unico
tipo il leasing di godimento e quello traslativo: segnatamente in tal senso
il comma 136), mutuandone morfologia e funzione da un radicato substrato
economico-sociale, così da plasmare in disciplina positiva l'esperienza
lungamente maturata nel contesto regolatorio
dell'autonomia privata, alimentato, costantemente, anche dall'attività
ermeneutica della giurisprudenza.
La regolamentazione tipica si
sofferma, anzitutto, sul profilo dell'inadempimento dell'utilizzatore,
stabilendo (comma 137) che "(c)ostituisce
grave inadempimento... il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o
due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i
leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi
o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione
finanziaria".
Le conseguenze dell'inadempimento dell'utilizzatore
"ai sensi del comma 137", in termini di risoluzione del contratto
sono dettate dal comma 138, che (allineandosi, nella sostanza anche se con
talune differenze, ai pregressi assetti regolatori
specifici e settoriali), prevede che "il concedente ha diritto alla
restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all'utilizzatore quanto
ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai
valori di mercato, dedotte la somma pari all'ammontare dei canoni scaduti e
non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in
linea capitale, e del prezzo pattuito per l'esercizio dell'opzione finale
di acquisto, nonchè le spese anticipate per il
recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario
alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente
nei confronti dell'utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita
o altra collocazione del bene è inferiore
all'ammontare dell'importo dovuto dall'utilizzatore a norma del periodo
precedente".
Il successivo comma 139 regola una specifica procedura
per la vendita o la riallocazione del bene concesso in godimento, nel
rispetto dei valori di mercato e in base a
"criteri di celerità, trasparenza e pubblicità adottando modalità tali
da consentire l'individuazione del migliore offerente possibile, con
obbligo di informazione dell'utilizzatore".
Infine, il comma 140 fa salva la disciplina settoriale,
sia quella dettata dall'art. 72-quater
L. Fall., sia
quella del leasing immobiliare per abitazione principale, di cui alla L. n. 208 del
2015.
4.5.1.
- La disciplina recata dalla L. n. 124 del
2017 non ha, però, carattere retroattivo, essendo essa
priva degli indici che consentono di riconoscerle efficacia regolativa per
il passato, non avendo in tal senso disposto lo stesso legislatore, nè proponendosi la novella di operare una interpretazione autentica di un assetto legale
precedente, in quanto essa interviene, in modo innovativo, a colmare una
lacuna ordinamentale circa la disciplina del
contratto di locazione finanziaria, cui soltanto il formante giurisprudenziale
aveva posto rimedio attraverso l'integrazione analogica di cui si è già
detto.
L'efficacia della
legge del 2017 è, dunque, pro-futuro, senza che il legislatore si sia,
però, preoccupato di dettare una disciplina intertemporale, avuto riguardo
ai rapporti contrattuali in corso di svolgimento al momento della sua
entrata in vigore. Disciplina che, pertanto, occorre individuare in
forza del già ricordato principio (o teoria) del c.d. "fatto
compiuto", che, come detto, questa Corte ha enunciato come regolatore
delle interferenze dello jus superveniens
sui rapporti giuridici suscettibili di esservi incisi e, tra questi, quelli
di durata, tra cui, per l'appunto, il contratto di leasing.
4.5.1.1. - Deve ritenersi che l'applicazione della nuova
legge è consentita, nei confronti di contratto di leasing finanziario
concluso antecedentemente alla sua entrata in vigore (e che sia sussumibile
nella fattispecie delineata dal comma 136; là dove, di norma, tale
riscontro è positivo, giacchè detta fattispecie
negoziale mutua morfologia e funzione del tipo dalla realtà
socio-economica), allorchè, ancora in corso di
rapporto, non si siano ancora verificati i presupposti (legali o
convenzionali) della risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore: ossia
non si sia verificato, prima dell'entrata in vigore di detta legge, il
fatto generatore degli effetti giuridici derivanti dalla applicazione
del diritto previgente.
La nuova regolamentazione (e,
segnatamente, quella dettata dai commi 137 e 138) incide, sul piano funzionale,
sullo svolgimento del rapporto negoziale, ma non anche, sul piano genetico,
sulla fattispecie che lo origina (ossia, investe il contratto non come
"fatto storico", quanto come regolamento programmatico di
interessi),
disciplinandone il profilo patologico
dell'inadempimento
dell'obbligazione fondamentale
gravante sull'utilizzatore, quella del pagamento dei canoni (c.d.
inadempimento finanziario), tipizzando rigidamente la misura della gravità
della condotta idonea a determinare la risoluzione del contratto di leasing
e sottraendo al giudice quella valutazione che l'art. 1455 c.c.,
quale norma generale, declina in termini elastici. Valutazione,
quest'ultima, che, però, rimane necessaria (non solo per l'inadempimento
che concerne il lato del concedente, ma anche) per inadempimenti
dell'utilizzatore diversi da quello scolpito dal comma 137, riguardanti, ad
esempio, il lato gestionale (utilizzo,
manutenzione, conservazione, etc.) del bene concesso in leasing.
In altri termini, il "fatto compiuto" è, nella
specie, quello che genera la responsabilità del debitore (l'utilizzatore)
ai sensi dell'art. 1218 c.c. e
cioè l'inadempimento - quale evento attinente al rapporto - che è idoneo a
legittimare, come effetto, la risoluzione del contratto; inadempimento che
la L. n. 124 del
2017 tipizza (plasmandolo come presupposto settoriale) in
guisa tale da determinare il discrimine tra il
"prima" e il "dopo" ai fini dell'applicazione
della novella.
E il comma 137 - al pari del successivo comma 138, che
disciplina gli effetti della risoluzione contrattuale in modo indefettibilmente collegato (per dettato normativo)
all'inadempimento declinato dal comma 137 - è norma imperativa, non avendo
altrimenti ragione d'essere la tipizzazione ex lege
della gravità dell'inadempimento (ancorata al mancato pagamento di un certo
numero di canoni mensili o trimestrali) a fronte di possibili deroghe pattizie (del resto, quasi sempre
presenti nella prassi commerciale), che attribuiscono al concedente il
potere risolutivo per il mancato pagamento di un solo canone o, comunque,
di inadempimenti di carattere finanziario ben meno gravi di quello
contemplato dalla norma anzidetta.
Questo, peraltro, comporta l'inefficacia ex nunc della clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.),
apposta a contratto di leasing in corso che non
abbia ancora maturato i presupposti della risoluzione ai sensi del citato
comma 137, ove calibrata in termini diversi e meno favorevoli per
l'utilizzatore di quanto previsto dalla legge con norma imperativa per
l'inadempimento di tipo finanziario.
La novella legislativa, dunque, viene a condizionare la
stessa autonomia contrattuale delle parti nel senso di impedire alla
clausola contraria alla sopravvenuta norma non derogabile (in pejus, in quanto stabilita a
tutela dell'utilizzatore stesso) di operare dal momento di entrata in
vigore di quest'ultima, ossia di giustificare effetti del regolamento
contrattuale che non si siano già prodotti.
Nè, del resto, la stessa
clausola risolutiva espressa, in contrasto con lo jus
superveniens a carattere imperativo, sarebbe,
come tale, in grado di poter determinare quelle peculiari conseguenze della
risoluzione disciplinate dal menzionato comma 138, in quanto queste, come detto, sono dalla legge correlate
allo specifico fatto-inadempimento previsto dal comma 137.
4.6. - Non può,
dunque, la L. n. 124 del 2017 trovare applicazione per il
passato, ossia per i contratti di leasing finanziario in cui si siano già
verificati, prima della sua entrata in vigore, presupposti della
risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore (essendo, quindi, stata
proposta domanda giudiziale di risoluzione ex art. 1453
c.c. o avendo il concedente dichiarato di avvalersi della
clausola risolutiva espressa ex art. 1456
c.c.), con la conseguenza che gli effetti risolutori non
potranno essere, per detti contratti, quelli disciplinati dall'art. 1, comma 138 della medesima legge (ai quali si correla,
poi, il procedimento di vendita o riallocazione del bene regolato dal
successivo comma 139).
4.6.1. - Nè è predicabile
l'esito - fatto proprio dall'orientamento giurisprudenziale inaugurato
dalla citata Cass. n. 8980
del 2019 - di una applicazione
analogica della disciplina dettata dall'art. 72-quater
l.f., in caso di scioglimento di
contratto di leasing ad opera del curatore nell'ambito di procedura
fallimentare, siccome assunta in guisa di principio generale proprio alla
luce, retrospettiva, della novella legislativa del 2017 e in forza del
comune denominatore, tra le due fattispecie, rappresentato dalla
attribuzione al concedente del diritto alla restituzione del bene concesso
in godimento e all'utilizzatore o alla curatela del ricavato della vendita
o di altra allocazione del bene medesimo, detratto l'ammontare del credito
residuo (nella portata specificamente stabilita per ciascuna fattispecie
interessata).
E' jus receptum
(tra le altre, Cass., 9
febbraio 2016, n. 2538, Cass., 13
febbraio 2017, n. 3750, Cass., 7
settembre 2017, n. 20890, Cass., 15
settembre 2017, n. 21476, Cass., 12
giugno 2018, n. 15202, Cass., 18
giugno 2018, n. 15975, Cass., 17
aprile 2019, n. 10733, Cass., 24
gennaio 2020, n. 1581) che l'art. 72-quater
L. Fall.,
introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006 - sebbene quanto agli
effetti da essa regolati ha superato la distinzione tra leasing di
godimento e leasing traslativo, assumendo a proprio fondamento una
disciplina unitaria del leasing improntata alla causa del contratto di
finanziamento - è norma, di natura eccezionale, a valenza e portata endoconcorsuale, presupponendo lo scioglimento, per
volontà del curatore e quale conseguenza del fallimento, del contratto
ancora pendente a quel momento.
Sicchè, la norma fallimentare
mantiene salda la distinzione strutturale esistente tra la nozione di
risoluzione contrattuale e quella di scioglimento del contratto, quale
facoltà riconosciuta ad una pluralità di rapporti
pendenti tra il contraente ed il fallito, tra i quali, per l'appunto, anche
il leasing, che rientra nel novero dei contratti che - al momento
dell'apertura del concorso - restano sospesi secondo la regola generale di
cui all'art. 72, comma
1, L. Fall..
Del resto, proprio nell'ambito di detta distinzione, si
apprezza la diversità di tutela somministrata dai due istituti, quello
dello scioglimento contrattuale volto a riconoscere tendenzialmente solo
una tutela restitutoria e non anche risarcitoria (secondo quanto si evince
anche dall'art. 72, comma
4 L. Fall.), come invece accorda il
rimedio generale della risoluzione per inadempimento, la cui azione potrà
essere coltivata nei confronti della procedura ove promossa prima della
dichiarazione di fallimento, dovendo il contraente far valere le
conseguenti pretese restitutorie e di risarcimento del danno ai sensi
degli artt. 92 e ss. L. Fall.,
come stabilito dal citato art. 72, comma 5.
Ed è proprio in ragione di tutte le evidenze appena
elencate che il "diritto vivente" ha escluso - in assenza di una eadem ratio
e di simili elementi, strutturali e/o funzionali, rilevanti - che la
disciplina dettata dall'art. 72-quater
L. Fall. potesse trovare applicazione
analogica in caso di contratto di leasing finanziario risolto, per
inadempimento dell'utilizzatore, prima del fallimento di quest'ultimo,
avendo invece rinvenuto la disposizione idonea a colmare la lacuna ordinamentale, in coerenza con i criteri di cui
all'art. 12 preleggi, in quella generale codicistica dell'art. 1526 c.c.,
in ipotesi di leasing traslativo.
Ma tale giuridica configurazione dell'art. 72-quater
l.f. non
ha subito una trasmutazione con l'avvento della disciplina di cui
alla L. n. 124 del
2017, art. 1, comma 136-140, la quale, anzi, al citato
comma 140 ha
stabilito che "(r)estano ferme le previsioni
di cui al R.D. 16
marzo 1942, n. 267, art. 72-quater (...)", con ciò
ribadendo la specialità della norma fallimentare e la sua portata circoscritta
all'ambito di specifica pertinenza.
L'assunto, quindi, che l'art. 72-quater
l.f. possa
costituire la disposizione applicabile analogicamente ad un contratto di
leasing finanziario risolto prima dell'entrata in vigore della L. n. 124 del
2017, art. 1, commi 136-140, (ma pur sempre nella vigenza
della stessa norma fallimentare, altrimenti si avrebbe, secondo quanto
innanzi detto, una illegittima attivazione del procedimento analogico, in
quanto fondata su disposizione non presente nell'ordinamento) trova
sostegno - come, peraltro, diffusamente argomentato dal pubblico ministero
con le proprie conclusioni scritte - non già in una interpretazione
(storico) evolutiva delle norme implicate, bensì in una operazione
disallineata rispetto ai criteri posti dall'art. 12 preleggi
e avente carattere di dissimulata applicazione retroattiva della
stessa L. n. 124 del
2017, quale esito che, stante l'efficacia pro futuro di essa, è
inibito al formante giurisprudenziale per le ragioni dianzi esposte.
Per i contratti di
leasing traslativo, che non siano soggetti, ratione
temporis, alla regolamentazione
della legge anzidetta, resta, dunque, valida la soluzione adottata dal
diritto vivente di individuare, per analogia legis,
nella disposizione dell'art. 1526 c.c. la disciplina della risoluzione per inadempimento
dell'utilizzatore, essendo comunque sorretta da una ratio
giustificativa rispondente all'esigenza di dare equilibrato assetto alle
posizioni delle parti di un contratto atipico, forgiato da una risalente
prassi commerciale e al quale il formante giurisprudenziale ha fornito
stabilità di assetto e certezza applicativa (fattori che quella stessa
prassi richiede per un suo ordinato sviluppo), rimasto tale sino
all'entrata in vigore della novella legislativa del 2017, che ha tipizzato
legalmente (nei termini sopra precisati) la figura, unitaria, della
locazione finanziaria.
4.7. - Nè la giurisprudenza di
questa Corte che, da circa un trentennio, ha rinvenuto nell'applicazione
analogica dell'art. 1526 c.c. la
norma parametro di regolamentazione del leasing
traslativo, quale traducente il regolamento pattizio social-tipico, è
rimasta sorda a talune critiche provenienti dalla dottrina e a certe
sollecitazioni dei giudici di merito, rivolte, in particolare, a dare, per
contro, significativo rilievo alla causa di finanziamento che sostanzia
(effettivamente, anche se non in modo del tutto assorbente) l'operazione
commerciale in esame e, con ciò, a vitalizzare la sintesi degli interessi
delle parti in una causa concreta che quell'orientamento consolidato
verrebbe a mortificare.
Nello stesso "diritto vivente" si coglie,
infatti, la maturata consapevolezza di quale sia la declinazione di quella
causa in concreto e, quindi, dell'interesse del concedente di ottenere, nel caso di risoluzione contrattuale per
inadempimento dell'utilizzatore, "l'integrale restituzione della somma
erogata a titolo di finanziamento, con gli interessi, il rimborso delle
spese e gli utili dell'operazione; non quello di ottenere la restituzione
dell'immobile, che normalmente non rientrava fra i beni di sua proprietà
alla data della conclusione del contratto, nè
costituiva oggetto della sua attività commerciale" (Cass., 17
gennaio 2014, n. 888).
Di qui, anzitutto il rilievo per cui l'equo compenso, ai
sensi dell'art. 1526 c.c.,
comma 1 comprende la remunerazione del godimento
del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come
nuovo e il logoramento per l'uso, ma non include il risarcimento del danno
spettante al concedente, che, pertanto, deve trovare specifica
considerazione (Cass., 24 giugno 2002, n. 9162, Cass., 2 marzo
2007, n. 4969, Cass., 8
gennaio 2010, n. 73, Cass., 24
gennaio 2020, n. 1581) e, secondo la sua ordinaria
configurazione di danno emergente e di lucro cessante (art. 1223 c.c.,
che impone che il danno patrimoniale sia integralmente ristorato, in
applicazione del principio di indifferenza), tale da porre il concedente
medesimo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se
l'utilizzatore avesse esattamente adempiuto (Cass. n. 888
del 2014 - che, tra l'altro, evoca al riguardo, sebbene
soltanto in guisa di utile supporto ermeneutico e non già come diritto
positivo applicabile alla fattispecie, la Convenzione Unidroit sul leasing finanziario
internazionale stipulata ad Ottawa il 28 maggio 1988 e ratificata
dalla L. n. 259 del
1993 - e Cass. n. 15202
del 2018, citate).
4.7.1. - Il risarcimento del danno del concedente può,
però, essere oggetto di determinazione anticipata attraverso una clausola
penale ai sensi dell'art. 1382 c.c. e
in questo senso si è, del resto, dispiegata l'autonomia privata nella
costruzione, in base a modelli standardizzati, del
social-tipo "contratto di leasing",
come risulta dalla stessa casistica oggetto di cognizione giudiziale, anche
da parte di questa Corte di legittimità.
In tale contesto, quindi, si è
fatta applicazione dell'art. 1526 c.c.,
comma 2 e del principio, già contemplato dall'art. 1384 c.c. (di
cui la prima disposizione è un portato specifico), della riduzione
equitativa, ad opera del giudice, della penale che, sebbene comunque
lecita, si palesi manifestamente eccessiva, così da ricondurre l'autonomia
contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela e
riequilibrando, quindi, la posizione delle parti, avendo pur sempre
riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento integrale (Cass., S.U.,
13 settembre 2005, n. 18128).
Ecco, dunque, che la complessiva operazione - originatasi
in seno all'autonomia privata e sussunta,
attraverso l'analogia, nell'art. 1526 c.c. -
trova la sua compiuta regolamentazione attraverso
la peculiare rilevanza che viene ad assumere dello stesso art. 1526 c.c.,
il comma 2 ossia la norma che disciplina la clausola penale (c.d. clausola
di confisca) e, quindi, il risarcimento del danno spettante in base ad essa
al concedente in ipotesi di risoluzione del contratto di leasing traslativo
per inadempimento dell'utilizzatore.
Ed è attraverso lo spettro filtrante di detta
disposizione che la giurisprudenza di questa Corte ha potuto selezionare
quali delle clausole standardizzate dall'autonomia privata fosse o meno meritevole di tutela alla luce della ratio di evitare indebite locupletazioni
in capo al concedente e rispondente, quindi, ad un equilibrato assetto
delle posizioni delle parti contrattuali.
Pertanto, si è ritenuto
manifestamente eccessiva la penale che, mantenendo in capo al concedente la
proprietà del bene, gli consente di acquisire i canoni maturati fino al
momento della risoluzione, ciò comportando un indebito vantaggio derivante
dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene (tra le
molte, Cass., 27
settembre 2011, n. 19732, nonchè la
citata Cass. n. 1581
del 2020).
E' stata, invece, reputata coerente con la previsione
contenuta nell'art. 1526 c.c.,
comma 2 la penale inserita nel contratto di
leasing traslativo prevedente l'acquisizione dei canoni riscossi con
detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell'importo ricavato dalla
futura vendita del bene restituito (tra le altre, le citate Cass. n. 15202
del 2018 e Cass. n. 1581
del 2020, nonchè Cass., 28
agosto 2019, n. 21762 e Cass., 8
ottobre 2019, n. 25031).
Trattasi, dunque, di patto che, quale espressione di una
razionalità propria della realtà socio-economica,
ha trovato origine e sviluppo nell'ambito dell'autonomia privata, il cui
regolamento è stato, per un verso, assunto dal legislatore a parametro di
una disciplina dapprima solo settoriale e specifica (tra cui quella dettata
dall'art. 72-quater
L. Fall.) e poi, da un dato momento in
avanti, generale (con la L.
n. 124 del 2017) e, per altro verso, dalla giurisprudenza a metro di
rispondenza alla ratio della disciplina applicata
analogicamente al contratto di leasing traslativo.
4.7.2. - In tale prospettiva va allora considerato
che, ove la vendita o altra allocazione sul mercato del bene
concesso in leasing non avvenga, non vi può essere (come precisato da Cass. n. 15202
del 2018, citata) "in concreto una locupletazione
che eluda il limite... ai vantaggi perseguiti e legittimamente conseguibili
dal concedente in forza del contratto".
Per cui resta fermo il diritto
dell'utilizzatore "di ripetere l'eventuale maggior valore che dalla
vendita del bene (a prezzo di mercato)" ricavi il concedente,
"rispetto alle utilità che (quest'ultimo)... avrebbe tratto dal contratto
qualora finalizzato con il riscatto del bene" (quale tutela già
settorialmente tipizzata legalmente, come detto, dallo stesso art. 72-quater
L. Fall.). Con l'ulteriore
puntualizzazione che, nel caso in cui la clausola penale non faccia
riferimento ad una collocazione del bene a prezzi di mercato, essa
"dovrà esser letta negli stessi termini alla luce del parametro della
buona fede contrattuale, ex art. 1375
c.c." (così ancora Cass. n. 15202
del 2018).
Se, invece, il contratto preveda una clausola penale
manifestamente eccessiva (acquisizione dei canoni riscossi e mantenimento
della proprietà del bene: c.d. clausola di confisca), essa, ai sensi dell'art. 1526 c.c.,
comma 2, andrà ridotta dal giudice, anche
d'ufficio (ove, naturalmente, la penale stessa sia stata fatta oggetto di
domanda ovvero dedotta in giudizio come eccezione - in senso stretto - nel
rispetto delle preclusioni di rito: Cass., 12
settembre 2014, n. 19272), nell'esercizio del potere correttivo
della volontà delle parti contrattuali affidatogli dalla legge, al fine di
ristabilire in via equitativa un
congruo contemperamento degli interessi contrapposti (Cass., S.U., n. 18128
del 2005, citata) e, quindi, nella specie dovendo operare una valutazione
comparativa tra il vantaggio che la penale inserita nel contratto di
leasing traslativo assicura al contraente adempiente e il margine di
guadagno che il medesimo si riprometteva legittimamente di trarre dalla
regolare esecuzione del contratto (tra le altre, Cass. n. 4969
del 2007, citata, e Cass., 21
agosto 2018, n. 20840).
A tal riguardo, tenuto conto delle circostanze concrete
del caso oggetto di sua cognizione, occorrerà che il giudice privilegi la soluzione innanzi evidenziata, e, quindi,
ferma restando l'irripetibilità dei canoni già riscossi, provveda ad una
stima del bene ai valori di mercato al momento della restituzione dello
stesso (se il bene non sia stato venduto o altrimenti allocato e, dunque,
in tale evenienza costituendosi a parametro i valori rispettivamente
conseguiti) e, quindi, detragga il valore stimato dalle somme dovute al
concedente, con eventuale residuo da attribuire - in fattispecie (come
quella in esame) di fallimento dell'utilizzatore successivo alla
intervenuta risoluzione contrattuale - alla curatela.
In siffatto contesto, il
concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l'onere di
formulare una domanda di insinuazione al passivo, ex art. 93 L. Fall., in seno alla quale, invocando
l'applicazione dell'eventuale clausola penale stipulata in suo favore,
offra al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia
equa ovvero manifestamente eccessiva; e per consentire siffatta valutazione
da parte del giudice delegato, è chiaro onere dell'istante quello di indicare
la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di
leasing, ovvero, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima
attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito
della stessa.
4.8. - Il motivo di ricorso in esame è, dunque, infondato
e, alla luce delle argomentazioni che precedono, vanno enunciati i seguenti
principi di diritto:
"A) La L. n. 124 del
2017 (art. 1, commi 136-140) non ha effetti retroattivi e
trova, quindi, applicazione per i contratti di leasing finanziario in cui i
presupposti della risoluzione per l'inadempimento dell'utilizzatore
(previsti dal comma 137) non si siano ancora verificati al momento della
sua entrata in vigore; sicchè, per i contratti
risolti in precedenza e rispetto ai quali sia
intervenuto il fallimento dell'utilizzatore soltanto successivamente alla
risoluzione contrattuale, rimane valida la distinzione tra leasing di
godimento e leasing traslativo, dovendo per quest'ultimo social-tipo negoziale applicarsi, in via analogica, la
disciplina di cui all'art. 1526 c.c. e
non quella dettata dall'art. 72-quater
L. Fall., rispetto alla quale non
possono ravvisarsi, nella specie, le condizioni per il ricorso all'analogia
legis, nè essendo
altrimenti consentito giungere in via interpretativa ad una applicazione
retroattiva della L. n. 124 del
2017.
B) In base alla disciplina dettata dall'art. 1526 c.c.,
in caso di fallimento dell'utilizzatore, il concedente che aspiri a
diventare creditore concorrente ha l'onere di formulare una completa
domanda di insinuazione al passivo, ex art. 93 L. Fall., in seno alla quale, invocando ai fini
del risarcimento del danno l'applicazione dell'eventuale clausola penale
stipulata in suo favore, dovrà offrire al giudice delegato la possibilità
di apprezzare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva, a
tal riguardo avendo l'onere di indicare la somma esattamente ricavata dalla
diversa allocazione del bene oggetto di leasing, ovvero, in mancanza, di
allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del
bene medesimo al momento del deposito della stessa".
5. - Il
ricorso è, dunque, rigettato e le spese del giudizio di legittimità
interamente compensate in ragione della particolare rilevanza delle
questioni trattate.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e compensa
interamente le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R.
n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per
il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del
citato art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle
Sezioni Unite Civili della Corte suprema di Cassazione, il
1
dicembre 2020.
Depositato
in Cancelleria il 28 gennaio 2021
|