Corte Cost, 30 aprile 2015, n. 71, non incostituzionale
l’acquisizione sanate (42 bis T. U. espropriazioni)
Ritenuto in fatto
1.– La Corte
di cassazione, sezioni unite civili, ed il Tribunale amministrativo regionale
per il Lazio, sezione seconda, con quattro distinte ordinanze di analogo
tenore, pronunciate in altrettanti giudizi, rispettivamente le prime due del
13 gennaio 2014 (r.o. n. 89 del 2014 e n. 90 del 2014), la terza del 12
maggio 2014 (r.o. n. 163 del 2014) e la quarta del 5 giugno 2014 (r.o. n. 219
del 2014), hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 111,
primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno
2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), con il quale
viene disciplinata la «Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di
interesse pubblico».
2.– La prima ordinanza della Corte di cassazione (r.o. n. 89 del 2014)
espone che, nel giudizio a quo, instaurato innanzi al Tribunale
amministrativo regionale per la
Puglia, sezione staccata di Lecce, il ricorrente,
proprietario di un fondo oggetto di procedura espropriativa, ha chiesto la
condanna del Comune di Porto Cesareo alla restituzione dei beni, occupati
senza titolo da tale amministrazione, per l’inutile scadenza della
dichiarazione di pubblica utilità che li aveva destinati alla realizzazione
di strade, parchi e parcheggi.
Con sentenza del 25 giugno 2010 n. 1614, il TAR ha ordinato al Comune di
Porto Cesareo l’adozione del provvedimento acquisitivo delle aree
(adottato con delibera consiliare 19 ottobre 2011) ai sensi dell’allora
vigente art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, approvato con il citato d.P.R.
n. 327 del 2001.
Dichiarata costituzionalmente illegittima tale norma, con sentenza n. 293 del
2010 di questa Corte, il ricorrente ha nuovamente adito il medesimo TAR per
ottenere la restituzione del fondo ed il risarcimento del danno.
Essendo stato introdotto, nelle more, l’art. 42-bis nello stesso T.U.
sulle espropriazioni, attraverso l’art. 34, comma 1, del decreto-legge
6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 15 luglio 2011, n. 111, il Comune di Porto Cesareo, con
provvedimento del 19 ottobre 2011,
ha disposto l’acquisizione dei terreni al suo
patrimonio, liquidando al proprietario l’indennizzo previsto dalla
nuova norma.
Avendo il ricorrente, con motivi aggiunti, richiesto anche la
rideterminazione dell’indennizzo in base al valore venale attuale dei
beni, il Comune di Porto Cesareo ha proposto regolamento di giurisdizione,
chiedendo alla Corte di cassazione che la controversia sulla rideterminazione
dell’indennizzo fosse attribuita al giudice ordinario, in forza della
previsione di cui all’art. 133, primo comma, lettera f), del codice del
processo amministrativo (decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione
dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al
governo per il riordino del processo amministrativo»).
La Corte di
cassazione ha così ritenuto di sollevare questione di legittimità
costituzionale della norma di cui all’art. 42-bis del T.U. sulle
espropriazioni, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 111, primo e secondo
comma, 113 e 117, primo comma, Cost.
2.1.– Il giudice rimettente, in punto di rilevanza, osserva che, da un
lato, sarebbe pacifica l’applicabilità dell’istituto della
cosiddetta “acquisizione sanante”, (re)introdotto dall’art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni e, dall’altro, sarebbe proprio il
sopravvenire di detta normativa ad aver mutato quella previgente, più
favorevole, invocata dal ricorrente e ad impedire la restituzione dei terreni
di fatto occupati dalla pubblica amministrazione, nonché a sostituire il
diritto al risarcimento del danno integrale con quello al conseguimento
dell’indennizzo, causa del regolamento di giurisdizione.
In particolare, secondo il giudice rimettente, l’esame del ricorso
potrebbe indurre astrattamente al suo accoglimento, con la traslatio iudicii
al giudice ordinario, nella vigenza della norma della cui legittimità
costituzionale si dubita. Ove invece l’art. 42-bis, per i prospettati
dubbi di compatibilità con la
Costituzione, venisse espunto dall’ordinamento, il
ricorrente fruirebbe del trattamento risultante dalla disciplina previgente
all’emanazione delle disposizioni impugnate. Un trattamento per lui più
favorevole – già richiesto al Tribunale amministrativo davanti al quale
il giudizio resterebbe incardinato – e consistente nella restituzione
dell’immobile soggetto ad occupazione in radice illegittima, oltre al
risarcimento del danno, informato ai principi generali dell’art. 2043
del codice civile.
2.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il
giudice rimettente ha premesso che l’art. 42-bis del T.U. sulle
espropriazioni avrebbe riproposto l’istituto previsto dal precedente
art. 43, di cui ha ereditato la rubrica.
2.2.1.– Il giudice rimettente dubita, in primo luogo, della
compatibilità della norma censurata con gli artt. 3 e 24 Cost.
Quanto alla violazione dell’art. 3 Cost., espressione del principio di
uguaglianza, la Corte
di cassazione sostiene che verrebbe riservato un trattamento privilegiato
alla pubblica amministrazione che abbia commesso un fatto illecito. Mentre
per qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento l’illecito sarebbe
fonte dell’obbligazione «risarcitoria/restitutoria» di cui agli artt.
2043 e 2058 cod. civ., alla pubblica amministrazione verrebbe attribuita la
facoltà di mutare – successivamente all’evento dannoso prodotto
nella sfera giuridica altrui, e per effetto di una propria unilaterale
manifestazione di volontà – il titolo e l’ambito della
responsabilità, nonché il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo)
stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere.
Secondo il giudice rimettente, la pubblica amministrazione, allorquando opera
al di fuori della funzione amministrativa, sarebbe invece soggetta a tutte le
regole vincolanti per gli altri soggetti (e dunque esposta alle medesime
responsabilità), sicché, una volta attuata in tutti i suoi elementi
costitutivi una lesione “ingiusta” di un diritto soggettivo, quest’ultima
non potrebbe mai mutare natura e divenire “giusta” per effetto
dell’autotutela amministrativa, cui non potrebbe neppure consentirsi di
eliminare ex post le obbligazioni restitutorie e risarcitorie conseguenti.
Questa impostazione avrebbe trovato piena corrispondenza nella giurisprudenza
della Corte EDU (di cui vengono citate numerose sentenze), proprio in materia
di ingerenza illegittima nella proprietà privata, fondata sempre e comunque
sul corollario che alla pubblica amministrazione non è consentito (né
direttamente né indirettamente) trarre vantaggio da propri comportamenti
illeciti e, più in generale, da una situazione di illegalità da essa stessa
determinata.
La norma censurata, invece, per il solo fatto della connotazione
pubblicistica del soggetto responsabile, avrebbe soppresso il pregresso
regime dell’occupazione abusiva di un immobile altrui, sottraendo al
proprietario l’intera gamma delle azioni di cui disponeva in precedenza
a tutela del diritto di proprietà e la stessa facoltà di scelta di
avvalersene o meno.
In tal modo, considerando esclusivamente gli scopi
dell’amministrazione, avrebbe trasferito tale facoltà di scelta dalla
«vittima dell’ingerenza» (tale qualificata dalla Corte europea),
all’autore della condotta illecita, attraverso la sostanziale
introduzione, con il semplice atto di acquisizione autorizzato dalla norma
censurata, di un nuovo modo di acquisto della proprietà privata, che
prescinderebbe ormai dal collegamento con la realizzazione di opere
pubbliche, e perfino con una pregressa procedura espropriativa.
Inoltre, sia sotto il profilo dell’eguaglianza, sia alla luce della
necessaria razionalità intrinseca postulata dalla norma costituzionale, la
disposizione censurata lederebbe l’art. 3 Cost., legando la
determinazione dell’«indennizzo/risarcimento» al valore venale del bene
utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda
un terreno edificabile, «sulla base delle disposizioni dell’art. 37,
commi 3, 4, 5, 6 e 7».
A tale proposito, il rimettente ricorda che la Corte costituzionale (a
partire dalla sentenza n. 369 del 1996, che aveva dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 65, della legge
28 dicembre 1995, n. 549, recante «Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica», in quanto tale norma equiparava l’entità del risarcimento
del danno da occupazione acquisitiva a quella dell’indennizzo
espropriativo) aveva affermato la radicale diversità strutturale e funzionale
delle obbligazioni così comparate, sicché, sotto il profilo della
ragionevolezza intrinseca, la parificazione del quantum risarcitorio alla
misura dell’indennità si prospetta come un di più che sbilancia
eccessivamente il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e
privato, in eccessivo favore del primo.
L’art. 42-bis disattenderebbe tali principi sotto diversi profili, in
quanto, disponendo che l’indennizzo debba essere sempre e comunque
commisurato «al valore venale del bene utilizzato», attribuisce ai
proprietari interessati da un provvedimento di acquisizione
“sanante” un trattamento deteriore rispetto a quello concesso ai
proprietari che, in mancanza di tale provvedimento, possono chiedere la
restituzione dell’immobile insieme al risarcimento del danno, pur
quando destinatari di una medesima occupazione abusiva in radice (cosiddetta
usurpativa), in base ai parametri del danno emergente e del lucro cessante ex
art. 2043 cod. civ.
Tale trattamento, osserva ancora il rimettente, resterebbe inferiore nel
confronto con l’espropriazione legittima dello stesso immobile, in
quanto:
a) ove quest’ultimo abbia destinazione edificatoria, non è riconosciuto
l’aumento del 10 per cento di cui all’art. 37, comma 2, del T.U.
sulle espropriazioni, non richiamato dalla norma impugnata;
b) ove abbia destinazione agricola, non è applicabile il precedente art. 40,
comma 1, che impone di tener conto delle colture effettivamente praticate sul
fondo e «del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in
relazione all’esercizio dell’azienda agricola».
La norma, poi, non considererebbe affatto l’ipotesi di espropriazione
parziale e non consentirebbe di tener conto della diminuzione di valore del
fondo residuo, invece indennizzata fin dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359
(Espropriazioni per causa di utilità pubblica), il cui art. 40 è stato
trasfuso nell’art. 33 del T.U. sulle espropriazioni.
L’art. 42-bis, infine, secondo la prospettazione del rimettente,
avrebbe trasformato il precedente regime risarcitorio in un indennizzo
derivante da atto lecito, che di conseguenza assumerebbe natura di debito di
valuta non automaticamente soggetto a rivalutazione monetaria (ai sensi del
secondo comma dell’art. 1224 cod. civ.), a differenza del risarcimento
da espropriazione e/o occupazione illegittime, costituente credito di valore,
che deve essere liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al
momento della relativa pronuncia, sicché il giudice deve tenere conto della
svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche di ufficio, a
prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio
dell’interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento
dell’indennizzo medesimo.
Tale natura risarcitoria parrebbe invece mantenuta, dal terzo comma
dell’art. 42-bis, al (solo) corrispettivo per il periodo di occupazione
illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione, che tuttavia
verrebbe anch’esso determinato in base ad un parametro riduttivo
rispetto a quelli cui è commisurato l’analogo indennizzo per
l’occupazione temporanea dell’immobile, in quanto:
a) il parametro base è costituito dall’interesse del 5 per cento annuo
sul valore venale dell’immobile stimato ai fini dell’indennizzo,
perciò corrispondente a circa 1/20 del suo valore annuo, laddove l’art.
50 del T.U. sulle espropriazioni, recependo analoga disposizione in
precedenza contenuta nell’art. 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865
(Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme
sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle
leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n.
847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore
dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), stabilisce in
tutti i casi di occupazione legittima di un immobile che «è dovuta al
proprietario una indennità per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto
sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell’area e, per ogni mese o
frazione di mese, una indennità pari ad un dodicesimo di quella annua», perciò
corrispondente ad una redditività predeterminata nella più elevata misura
percentuale dell’8,33 per cento all’anno sul valore venale
dell’immobile;
b) il criterio rigido introdotto dalla norma censurata impedirebbe
l’applicazione del principio, consolidato nella giurisprudenza di
legittimità, secondo cui, nell’ipotesi di espropriazione parziale, la
percentuale suddetta va calcolata sull’indennità di espropriazione
computata tenendo conto anche del decremento di valore subito dalla parte di
immobile rimasta in proprietà dell’espropriato.
2.2.2.– Il giudice rimettente dubita, inoltre, della compatibilità
dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni con gli artt. 42, 97 e
113 Cost.
Ricorda che il primo e fondamentale presupposto per procedere al
trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ai sensi
dell’art. 42 Cost., è costituito dalla necessaria ricorrenza di «motivi
d’interesse generale», con puntuale riscontro in quello di eguale
tenore dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU»), per cui l’ingerenza
nella proprietà privata può essere attuata soltanto «per causa di pubblica
utilità».
Ciò comporta (come statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 90
del 1966) «la necessità che la legge indichi le ragioni per le quali si può
far luogo all’espropriazione; e inoltre che quest’ultima non
possa essere autorizzata se non nella effettiva presenza delle ragioni
indicate dalla legge»; ed ancora che «fin dal primo atto della procedura
espropriativa debbono risultare definiti non soltanto l’oggetto, ma
anche le finalità, i mezzi e i tempi di essa […]».
Ne consegue, ad avviso del rimettente, che la dichiarazione di pubblica
utilità dell’opera si porrebbe come garanzia prima e fondamentale del
cittadino e nel contempo come ragione giustificatrice del suo sacrificio, nel
bilanciamento degli interessi – quello del proprietario alla
restituzione dell’immobile e quello dell’amministrazione al
mantenimento dell’opera pubblica – in virtù della funzione
sociale della proprietà.
La suddetta garanzia costituzionale sarebbe, dunque, rispettata soltanto se
la causa del trasferimento sia predeterminata nell’ambito di un
apposito procedimento amministrativo, sicché la mancanza della preventiva
dichiarazione di pubblica utilità implicherebbe (come da costante
giurisprudenza di legittimità) il difetto di potere
dell’amministrazione nel procedere all’espropriazione (sia essa
rituale o attuata in forma anomala, come nell’ipotesi
dell’occupazione appropriativa).
La norma costituzionale richiederebbe, quindi, che i motivi d’interesse
generale per giustificare l’esercizio del potere espropriativo, nei
(soli) casi stabiliti dalla legge, siano predeterminati
dall’amministrazione ed emergano da un apposito procedimento –
individuato, appunto, in quello dichiarativo del pubblico interesse culminante
nell’adozione della dichiarazione di pubblica utilità –
preliminare, autonomo e strumentale rispetto al successivo procedimento
espropriativo in senso stretto, nel quale l’amministrazione programma
un nuovo bene giuridico destinato a soddisfare uno specifico interesse pubblico,
attuale e concreto.
Richiederebbe, altresì, che tali motivi siano palesati gradualmente e
anteriormente al sacrificio del diritto di proprietà, in un momento in cui la
comparazione tra l’interesse pubblico e l’interesse privato possa
effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei principi
d’imparzialità e proporzionalità (ai sensi dell’art. 97 Cost.).
In un momento, quindi, in cui la lesione del diritto di proprietà non sia
ancora attuale ed eventuali ipotesi alternative all’espropriazione non
siano ostacolate da una situazione fattuale ormai irreversibilmente
compromessa. Da qui la formula dell’art. 42, terzo comma, Cost., per
cui l’espropriazione in tanto è costituzionalmente legittima in quanto
è originata da «motivi d’interesse generale», ovvero collegata ad un
procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano
un’incisione nella sfera del privato proprietario, valorizzando il
ruolo partecipativo di quest’ultimo. E da qui, ancora, la conseguenza
che tale risultato non sarebbe garantito dall’esercizio di un potere
amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una valutazione degli
interessi in conflitto, è destinato in concreto a giustificare ex post il
sacrificio espropriativo, unicamente in base alla situazione di fatto
illegittimamente determinatasi.
Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale per contrasto con
l’art. 42 Cost. è individuato nell’omessa fissazione di termini
certi.
Il giudice rimettente ricorda che l’art. 13 della legge fondamentale
sulle espropriazioni n. 2359 del 1865, onde evitare l’indefinito
protrarsi dell’incertezza sulla sorte dei beni espropriandi, e, nel
contempo, per assicurare l’attualità della rispondenza dell’opera
all’interesse generale, ha attribuito ai proprietari un’ulteriore
garanzia fondamentale, oggi rispondente al principio di legalità e tipicità
del procedimento espropriativo, disponendo che nel provvedimento dichiarativo
della pubblica utilità dell’opera devono essere fissati quattro termini
(e cioè quelli di inizio e di compimento della espropriazione e dei lavori),
e stabilendo che «[t]rascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica utilità
diventa inefficace».
Sopravvenuta la
Costituzione, questa disposizione avrebbe assunto rilevanza
costituzionale, avendo la
Corte costituzionale statuito che «la fissazione di tali
termini costituisce regola indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento
espropriativo» (sentenza n. 355 del 1985; in tal senso anche sentenze n. 141
del 1992 e n. 257 del 1988). La loro omessa fissazione comporterebbe la
giuridica inesistenza della dichiarazione di pubblica utilità, con tutte le
conseguenze del caso, prima fra tutte che tale situazione non è idonea a far
sorgere il potere espropriativo e, dunque, ad affievolire il diritto soggettivo
di proprietà sui beni espropriandi.
Nella diversa prospettiva della cosiddetta acquisizione
“sanante”, invece, anche la garanzia offerta dai termini
espropriativi sarebbe destinata a non trovare spazio. La norma non
indicherebbe, infatti, alcun limite temporale entro il quale
l’amministrazione debba esercitare il relativo potere, esponendo il
diritto di proprietà al pericolo dell’emanazione del provvedimento
acquisitivo senza limiti di tempo ed accentuando, così, i dubbi di contrasto
con l’art. 3 Cost., per il regime discriminatorio provocato tra il
procedimento ordinario – in cui l’esposizione è temporalmente
limitata all’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (nella
disciplina del T.U. sulle espropriazioni, anche a quella del vincolo preordinato
all’esproprio) – e quello “sanante”, in cui il bene
privato detenuto sine titulo è, invece, sottoposto in perpetuo al sacrificio
dell’espropriazione.
2.2.3.– Il giudice rimettente ritiene, ancora, che la norma censurata
sia in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto non
sarebbe conforme ai principi della CEDU, secondo l’interpretazione
fornita dalla Corte di Strasburgo dell’art. 1 del Primo Protocollo
addizionale alla CEDU.
La nuova operazione “sanante” – in tutte le fattispecie individuate
dall’art. 42-bis, compresa quella di utilizzazione del bene senza
titolo «in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio»
– presenterebbe numerosi ed insuperabili profili di contrasto con le
norme convenzionali, non risolvibili in via ermeneutica, sulla base
dell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo delle tre norme
dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU (principio
generale di rispetto della proprietà; privazione della proprietà solo alle condizioni
indicate; riconoscimento agli Stati del potere di disciplinare l’uso
dei beni in conformità all’interesse generale).
Ricorda il rimettente che la
Corte EDU avrebbe in più occasioni considerato «in radicale
contrasto» con la CEDU
il principio dell’“espropriazione indiretta”, con la quale
il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla pubblica
amministrazione avviene in virtù della constatazione della situazione di
illegalità o illiceità commessa dalla stessa amministrazione, con
l’effetto di convalidarla, consentendo a quest’ultima di trarne
vantaggio e di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione,
con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli
interessati.
Nella categoria dell’“espropriazione indiretta”, la Corte EDU avrebbe
sistematicamente inserito non soltanto l’ipotesi corrispondente alla
cosiddetta occupazione espropriativa, ma tutte indistintamente le fattispecie
di perdita di ogni disponibilità dell’immobile combinata con
l’impossibilità di porvi rimedio, e con conseguenze assai gravi per il
proprietario che subisce una espropriazione di fatto incompatibile con il suo
diritto al rispetto dei propri beni, ritenendo ininfluente che una tale
vicenda sia giustificata soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia consentita
mediante disposizioni legislative, come è avvenuto con l’art. 3 della
legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello Stato nella spesa degli enti
locali in relazione ai pregressi maggiori oneri delle indennità di
esproprio), ovvero da ultimo con l’art. 43 del T.U. sulle
espropriazioni, in quanto il principio di legalità non significa affatto
esistenza di una norma di legge che consenta l’espropriazione
indiretta, bensì esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente
accessibili, precise e prevedibili. Con la conseguenza che il supporto di
«una base legale non è sufficiente a soddisfare il principio di legalità» e
che «è utile porre particolare attenzione sulla questione della qualità della
legge» (sono citate le sentenze 19 maggio 2005, Acciardi e altra contro
Italia e 17 maggio 2005, Scordino contro Italia).
Secondo il rimettente, conclusivamente, la “legalizzazione
dell’illegale” non sarebbe consentita dalla giurisprudenza di
Strasburgo neppure ad una norma di legge, né tanto meno ad un provvedimento
amministrativo di essa attuativo, quale è quello che disponga la cosiddetta
acquisizione “sanante”.
Infine, il principio di legalità non sarebbe recuperabile in forza dei
bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e privati devoluti,
dalla norma censurata, all’autorità amministrativa che dispone
l’acquisizione.
La disposizione impugnata, infatti, attribuirebbe ad uno dei due portatori
dell’interesse in conflitto – la pubblica amministrazione
responsabile dell’illecito ed interessata alla acquisizione
dell’immobile – il potere di comparare gli interessi suddetti, e,
quindi la scelta di restituirlo ovvero di acquisirlo al proprio patrimonio
indisponibile. L’assetto del bene, perciò, non dipenderebbe più
(neppure) dalla sua (oggettiva) trasformazione in un bene demaniale o
patrimoniale indisponibile, ma verrebbe affidato – senza neppure limiti
temporali – esclusivamente alla imprevedibile volontà
dell’amministrazione di ricorrere o meno al nuovo istituto. In caso, poi,
di impugnazione del provvedimento di acquisizione, l’assetto del bene
sarebbe affidato alla pronuncia del giudice amministrativo, che potrebbe
consentirne o escluderne la restituzione, con conseguente ulteriore
incertezza ed imprevedibilità della sua situazione giuridica, fino al momento
della sentenza definitiva.
Ciò renderebbe l’istituto nuovamente incompatibile con la Convenzione «non
potendosi escludere il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario»,
come affermato dalla Corte EDU (sentenza 28 giugno 2011, De Caterina e altri
contro Italia).
2.2.4.– Il giudice rimettente dubita, infine, della conformità della
norma censurata agli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, secondo
l’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo.
Il giudice rimettente ricorda che la Corte EDU, pur non escludendo che, in materia
civile, una nuova normativa possa avere efficacia retroattiva, ha
ripetutamente considerato lecita l’applicazione dello ius superveniens
in cause già pendenti soltanto in presenza di «ragioni imperative
d’interesse generale», pena la violazione del principio di legalità
nonché del diritto ad un processo equo. Ciò perché, in ipotesi del genere, il
potere legislativo introduce nuove disposizioni specificamente dirette ad
influire sull’esito di un giudizio già in corso (specie considerando
quelli ove sia parte un’amministrazione pubblica), inducendo il giudice
a decisioni su base diversa da quella alla quale la controparte poteva
legittimamente aspirare al momento di introduzione della lite (Grande Camera,
sentenza 28 ottobre 1999, Zielinski e altri contro Francia; sentenze, 20
febbraio 2003, Forrer-Niedenthal contro Germania, proprio in materia di
espropriazione per pubblica utilità; 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas
e altri contro Francia; 29 luglio 2004, Scordino contro Italia).
La norma censurata violerebbe questi principi, in quanto, malgrado la
precisazione del primo comma, secondo cui l’atto di acquisizione è
destinato a non operare retroattivamente (rivolta a rispondere ad uno dei
rilievi espressi dalla sentenza n. 293 del 2010 di questa Corte), con la
disposizione dell’ottavo comma avrebbe confermato la possibilità
dell’amministrazione di utilizzare il provvedimento “sanante”
ex tunc, per fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi sia
già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o
annullato, in conformità alla finalità di attribuire alle amministrazioni
occupanti una legale via di uscita dalle situazioni di illegalità venutesi a
verificare nel corso degli anni.
Pertanto, i privati proprietari – i quali, per effetto della sentenza
n. 293 del 2010 di questa Corte, avrebbero avuto diritto alla restituzione
dei loro immobili, nonché al risarcimento del danno alla stregua dei
parametri contenuti nell’art. 2043 cod. civ. – in conseguenza del
sopravvenuto art. 42-bis, nonché del provvedimento acquisitivo adottato nel
corso del giudizio, avrebbero perduto in radice la tutela reale, e potrebbero
avvalersi soltanto di quella «indennitaria/risarcitoria» introdotta dalla
norma censurata. Quest’ultima, perciò, non si sottrarrebbe neppure
all’addebito, in casi analoghi mosso dalla Corte europea al legislatore
nazionale, «di averla slealmente introdotta in giudizi iniziati ed impostati
secondo diversi presupposti normativi, sì da incorrere anche nella violazione
dell’art. 6, par. 1, della Convenzione» per il mutamento «delle regole
in corsa».
Sotto tale profilo, la norma risulterebbe anche in contrasto con l’art.
111, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui, disponendo
l’applicabilità ai giudizi in corso delle regole
sull’acquisizione “sanante” in seguito ad occupazione
illegittima, violerebbe i principi del giusto processo, in particolare la
condizione di parità delle parti davanti al giudice, che risulterebbe lesa
dall’intromissione del potere legislativo nell’amministrazione
della giustizia, allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta
e determinata categoria di controversie.
2.3.– Nel giudizio si è costituito, con atto depositato il 24 giugno
2014, il Comune di Porto Cesareo.
Afferma l’ente comunale che, con sentenza del 25 giugno 2010, n. 1614,
il TAR Puglia, sezione staccata di Lecce, ha definito un ricorso proposto dal
medesimo ricorrente nel giudizio a quo, qualificando la domanda dallo stesso
proposta – in conseguenza della scadenza del termine quinquennale di
validità della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera pubblica
programmata (realizzazione di area a verde pubblico, di parcheggi e strade di
raccordo) senza l’emanazione del decreto definitivo di esproprio del
fondo privato occupato a tale fine – come intesa ad ottenere il solo
ristoro economico, ordinando al Comune convenuto l’emissione del
provvedimento ex art. 43 del T.U. sulle espropriazioni allora vigente.
Dichiarata incostituzionale la norma da ultimo citata, il ricorrente ha adito
nuovamente il giudice amministrativo per chiedere la restituzione dei fondi,
in palese contrasto con il giudicato ormai formatosi sulle statuizioni della
precedente sentenza n. 1614 del 2010, che aveva escluso il diritto a tale
restituzione.
Nelle more del giudizio è stato introdotto l’art. 42-bis nel T.U. sulle
espropriazioni, sicché il Comune di Porto Cesareo, in applicazione espressa
di tale norma, ha disposto l’acquisizione del fondo al proprio
patrimonio indisponibile, determinando e quantificando l’indennizzo
dovuto.
Tale provvedimento è stato impugnato con motivi aggiunti dal ricorrente, il
quale ha chiesto la rideterminazione dell’indennizzo, in considerazione
dell’effettivo valore venale del bene.
Il Comune di Porto Cesareo ha proposto, dunque, regolamento di giurisdizione,
sul rilievo che la domanda giudiziale, avuto riguardo al petitum sostanziale
ed alla causa petendi, atteneva esclusivamente alla contestazione del quantum
spettante a titolo di indennizzo, con conseguente configurabilità della
giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 133, comma 1,
lettera f), del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010).
Il TAR ha dichiarato la manifesta inammissibilità del regolamento preventivo
di giurisdizione, stante l’asserita intervenuta formazione di un
giudicato (originato dalla sentenza n. 1614 del 2010) sulla domanda
(esclusivamente) risarcitoria proposta dal ricorrente, quantificando in
sentenza l’ammontare del risarcimento dovuto.
La pronuncia è stata impugnata dal Comune di Porto Cesareo con appello al
Consiglio di Stato, sia in punto di giurisdizione (prospettata come spettante
al giudice ordinario), sia nel merito.
Il giudizio risulta ancora pendente e nelle more è stata sollevata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis, proprio
nell’ambito dell’instaurato regolamento di giurisdizione innanzi
alla Corte di cassazione, sezioni unite civili.
2.3.1.– Il Comune di Porto Cesareo eccepisce, in primo luogo,
l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per
carenza di motivazione in ordine ai requisiti della rilevanza e della non
manifesta infondatezza.
Il giudice rimettente, infatti, ha sostenuto che, qualora l’art. 42-bis
venisse espunto dall’ordinamento, il privato potrebbe aspirare ad
ottenere la restituzione del bene illegittimamente occupato.
Secondo l’ente comunale, invece, la restituzione non sarebbe più
ipotizzabile, in virtù, in particolare, del giudicato formatosi sulla
precedente sentenza (n. 1614 del 2010) del medesimo TAR adito, che ne aveva
espressamente escluso la possibilità, peraltro in presenza di una sostanziale
rinuncia dello stesso ricorrente a conseguire tale restituzione. Ciò sarebbe
dimostrato dal contenuto dei motivi aggiunti proposti nel giudizio
amministrativo ancora pendente, tendenti solo ad ottenere la determinazione
dell’indennizzo, in seguito al provvedimento di acquisizione ex art.
42-bis nelle more adottato dal Comune di Porto Cesareo.
A fronte del giudicato formatosi sull’esclusione del diritto alla
restituzione del bene, nessuna utilità potrebbe dunque ricavare il privato
dall’eventuale caducazione della norma censurata.
Quanto alla questione sollevata in riferimento al diritto al risarcimento
integrale del danno (informato ai principi di cui agli artt. 2043 e 2059 cod.
civ.), in luogo del mero indennizzo, il Comune di Porto Cesareo ne sostiene
l’inammissibilità per difetto di rilevanza. Infatti, il danno sarebbe
già stato determinato in forma integrale, sempre in esecuzione del giudicato
formatosi sulla precedente sentenza n. 1614 del 2010, adempiendo al quale la
determinazione dell’indennizzo sarebbe stata superiore a quanto spettante
in applicazione della norma censurata.
2.3.2.– Nel merito, il Comune di Porto Cesareo ha sostenuto
l’infondatezza della questione prospettata, per i seguenti motivi:
− quanto all’asserita violazione dell’art. 3 Cost.
(unitamente all’art. 24 Cost.), occorrerebbe tenere conto della
particolare natura della pubblica amministrazione e degli interessi di cui è
portatrice, nonché delle garanzie di cui la legge avrebbe circondato
l’esercizio del potere ablatorio ex post conferito dalla norma
censurata, quali la necessità di un formale atto amministrativo fondato sulla
valutazione degli «interessi in conflitto», da compiere con particolare
rigore e da esibire nella motivazione dell’atto; il carattere non
retroattivo dell’acquisizione; il riconoscimento del ristoro dei danni;
l’eccezionalità della procedura, esperibile solo
nell’impossibilità di ricorrere ad una procedura espropriativa
ordinaria;
− quanto all’asserita violazione dell’art. 42 Cost.,
l’acquisizione avverrebbe in forza di un provvedimento previsto e
disciplinato (anche nel contenuto) direttamente dalla legge e privo di
efficacia retroattiva, previa rigorosa valutazione degli interessi in
conflitto manifestata nella motivazione dell’atto, in caso di
preminenza delle ragioni di interesse pubblico che la legge vuole
espressamente rivestite del carattere dell’“eccezionalità”
ed in mancanza di ragionevoli alternative;
− in relazione alla censura per violazione dell’art. 117, primo
comma, Cost. – per contrasto con le norme interposte costituite
dall’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU e
dall’art. 6 della CEDU – il Comune di Porto Cesareo sostiene il
rispetto dei «principi rivenienti dalla giurisprudenza di Strasburgo
richiamata nell’ordinanza» di rimessione;
− in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., sotto il
profilo dell’intrinseca irrazionalità della determinazione
dell’indennizzo, si sostiene che la determinazione del quantum operata
dal legislatore andrebbe letta in stretta connessione con gli interessi
pubblici di cui è portatrice la pubblica amministrazione, fermo restando che
la misura prevista dalla legge sarebbe da considerare come indubbiamente
caratterizzata da serietà.
2.4.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
sostenendo l’infondatezza della sollevata questione di legittimità
costituzionale, e prospettando, in via preliminare, l’inammissibilità
della stessa.
2.4.1.– Secondo l’Avvocatura generale, in punto di ammissibilità,
il riparto di giurisdizione in materia è disciplinato dall’art. 133 del
codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010), la cui lettera
f) attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte
le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche
amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, tranne quelle riguardanti
la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza
dell’adozione di atti di natura espropriativa.
Ne consegue che solo ove l’indennizzo previsto dall’art. 42-bis
fosse qualificabile come “indennità” potrebbe ipotizzarsi la
traslatio iudicii prospettata dal giudice rimettente, in caso di superamento
dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati.
Secondo la difesa erariale, invece, al di là del termine utilizzato dalla
norma (in stretta connessione con il sostantivo utilizzato dal terzo comma
dell’art. 42 Cost.), la ricostruzione sistematica dell’istituto
porterebbe a concludere per la configurabilità di una obbligazione di matrice
risarcitoria. Infatti, il presupposto dell’emanazione dell’atto
ablatorio da parte della pubblica amministrazione sarebbe costituito dal
pregresso cattivo uso dell’ordinario potere espropriativo, con
conseguente giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,
indipendentemente dalla fondatezza o meno della sollevata questione di
legittimità costituzionale della norma, che difetterebbe, dunque, di
rilevanza nell’ambito del regolamento di giurisdizione azionato nel
giudizio a quo.
2.4.1.2.– Ulteriore profilo di inammissibilità sarebbe rinvenibile
nella scarna descrizione della fattispecie concreta da cui ha avuto origine
la proposizione del regolamento di giurisdizione, non avendo specificato il
giudice a quo se la vicenda abbia avuto origine da una ipotesi di occupazione
“usurpativa” o di occupazione “acquisitiva”, in
dipendenza della mancanza, o meno, della dichiarazione di pubblica utilità.
Solo nel primo caso, secondo la costante giurisprudenza di legittimità
(richiamata nella stessa ordinanza di rimessione), il privato avrebbe diritto
alla restituzione del bene.
2.4.2.– Quanto al merito, secondo la difesa erariale, il legislatore
del 2011, con l’introduzione dell’art. 42-bis (e non di un nuovo
art. 43) nell’ambito del T.U. sulle espropriazioni, avrebbe inteso
assicurare un diverso bilanciamento degli interessi che si contrappongono in
caso di occupazione senza titolo – quello della pubblica
amministrazione a conservare l’opera pubblica e quello del privato ad
un ristoro per l’illegittimità subita – inserendo
nell’ordinamento un istituto affine, ma non identico, a quello
disciplinato dall’art. 43, dichiarato incostituzionale.
Gli elementi di discontinuità, che consentirebbero di ritenere superati i
profili di contrasto con i principi enunciati dalla Corte di Strasburgo (mai
pronunciatasi espressamente sulla compatibilità dell’art. 43 con le
previsioni della CEDU), si coglierebbero nei seguenti aspetti:
− quanto agli effetti dell’acquisto della proprietà del bene da
parte della pubblica amministrazione, esso avviene ex nunc, solo al momento
dell’emanazione dell’atto di esproprio, sicché risulterebbe
sconfessata dal legislatore l’interpretazione giurisprudenziale del
precedente art. 43, che estendeva in via retroattiva l’acquisto della
proprietà del bene, anche in presenza di un giudicato che avesse già disposto
la restituzione del bene al privato;
− il legislatore avrebbe previsto uno specifico obbligo motivazionale
in capo alla pubblica amministrazione procedente, che dovrebbe rendere note
le ragioni di eccezionale interesse pubblico che la spingono ad adottare una
procedura che si presenterebbe come extrema ratio dell’agire amministrativo.
Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che nella motivazione dell’atto non
risulterebbe sufficiente la mera indicazione della corrispondenza
dell’opera all’interesse pubblico, ma si dovrebbe dare conto
della mancanza di possibili alternative all’ablazione del bene e
dell’impossibilità di restituirlo;
− nel computo dell’indennizzo viene fatto rientrare non solo il
danno patrimoniale, ma anche quello non patrimoniale, forfetariamente
liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene (che
costituisce un surplus rispetto alla somma che sarebbe spettata nella vigenza
della precedente disciplina), sottoponendo il passaggio del diritto di
proprietà alla condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute, da
effettuare entro 30 giorni dal provvedimento di acquisizione;
− la nuova disciplina si applica non solo quando manchi del tutto
l’atto espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato – o
impugnato a tal fine, nel qual caso occorre il previo ritiro in autotutela da
parte della medesima pubblica amministrazione – l’atto da cui sia
sorto il vincolo preordinato all’esproprio, oppure la dichiarazione di
pubblica utilità dell’opera oppure, ancora, il decreto di esproprio;
− non si prevede più la cosiddetta “acquisizione in via giudiziaria”,
precedentemente disposta dal comma 3 dell’art. 43, in virtù della quale
l’acquisizione del bene in favore della pubblica amministrazione poteva
realizzarsi anche per effetto dell’intermediazione di una pronuncia del
giudice amministrativo, volta a paralizzare l’azione restitutoria
proposta dal privato.
Tali elementi di novità sarebbero stati valorizzati – sostiene
l’Avvocatura generale – dalla giurisprudenza amministrativa
(Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 15 marzo 2012, n. 1438) nel
vagliare la tenuta costituzionale della nuova disciplina e la sua
compatibilità con i principi sanciti dalla Corte EDU. Questa giurisprudenza
considera il nuovo assetto della materia sufficientemente chiaro, preciso e
prevedibile, come tale compatibile con il principio di legalità di cui
all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU e con
l’alto livello di protezione accordato al diritto di proprietà dalla
Corte di Strasburgo.
Quanto al contrasto – sottolineato dalla giurisprudenza della Corte EDU
richiamata nell’ordinanza di rimessione – degli istituti
dell’“espropriazione indiretta” con il principio di
legalità sostanziale, che impedisce alla pubblica amministrazione di trarre
vantaggio (anche indirettamente) da propri comportamenti illeciti, la difesa erariale
sottolinea che i richiamati precedenti della Corte di Strasburgo non
avrebbero affatto riguardato l’istituto dell’occupazione
“sanante”, quanto piuttosto il potere conferito al giudice
(amministrativo) di impedire la restituzione del bene ai sensi del terzo
comma dell’art. 43, dichiarato incostituzionale e non riproposto nella
nuova disciplina.
2.5.– Con atto depositato in data 19 giugno 2014, è intervenuto nel
presente giudizio D.G.G., nella qualità di erede universale di C.R.
Questi specifica di non essere parte del giudizio a quo, ma di altro giudizio
avente ad oggetto l’occupazione di urgenza di un fondo – nel
territorio del Comune di Ragusa, di proprietà di uno dei genitori, nel
frattempo deceduto – finalizzata all’espropriazione per la costituzione
di una servitù coattiva di acquedotto, procedura non completatasi nei termini
assegnati, nonostante la parziale costruzione dell’opera, con
conseguente richiesta di restituzione del fondo, previo ripristino dello
stato originario, e, in subordine, di risarcimento del danno. Aggiunge che
l’azione così intrapresa è stata rigettata dall’autorità
giudiziaria, per effetto del provvedimento di acquisizione emanato ai sensi
dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni – nelle more
introdotto nell’ordinamento – con sentenza avverso la quale è
stato proposto ricorso alla Corte di cassazione, sezioni unite civili, ancora
pendente, al pari di altri tre giudizi innanzi al Tribunale superiore delle
acque pubbliche, instaurati per impugnare altrettanti provvedimenti di
acquisizione emessi sempre ai sensi dell’art. 42-bis oggetto del
presente giudizio di costituzionalità.
L’interveniente aderisce a tutte le argomentazioni contenute
nell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, sezioni unite
civili (ritenute rilevanti anche per la fattispecie concreta –
dettagliatamente descritta ed illustrata con il deposito di copiosa
documentazione – affrontata nei giudizi in cui è parte).
Con memoria depositata in data 26 gennaio 2015, l’interveniente ha, in
particolare, argomentato «sull’attualità dell’interesse
all’intervento».
2.6.– Con atto depositato in data 23 giugno 2014, è intervenuta nel
presente giudizio la SEP
– Società Edilizia Pineto spa. La difesa della SEP spa specifica, a sua
volta, di non essere parte del giudizio a quo, ma di altro giudizio avente ad
oggetto il progetto di lavori di sistemazione a parco pubblico di aree nel
Comune di Roma, opera dichiarata di pubblica utilità con conseguente
occupazione dell’area interessata, di sua proprietà.
Aggiunge che l’intera procedura espropriativa è stata annullata dal
giudice amministrativo, sebbene in un giudizio intrapreso da altri
proprietari di fondi oggetto della medesima occupazione di urgenza, ma con
efficacia erga omnes.
Espone di avere, quindi, adito il TAR Lazio per ottenere il ristoro dei danni
subiti, vedendosi tuttavia rigettata la domanda, con pronuncia impugnata in
appello, in un giudizio ancora pendente. Ciò perché, per effetto
dell’annullamento degli atti della procedura espropriativa, il privato
deve considerarsi ancora proprietario del bene, onde non può chiedere il
controvalore di esso, previa rinuncia abdicativa alla proprietà, non
potendosi imporre alla pubblica amministrazione l’acquisto del fondo,
rimesso piuttosto ad una scelta discrezionale da esercitare con
l’emanazione del provvedimento previsto dall’art. 42-bis del T.U.
sulle espropriazioni, nelle more introdotto dall’ordinamento (oppure
con l’avvio di altra legittima procedura espropriativa o con gli ordinari
strumenti contrattuali).
Di qui, il prospettato interesse della SEP spa ad intervenire nel presente
giudizio, a sostegno della sollevata questione di legittimità costituzionale
della norma impugnata, il cui accoglimento impedirebbe la rinuncia abdicativa
del fondo in favore della pubblica amministrazione, che lo ha
irreversibilmente trasformato, previo integrale risarcimento del danno
subìto.
L’interveniente ha aderito a tutte le argomentazioni contenute
nell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, sezioni unite
civili (ritenute rilevanti anche per la fattispecie concreta affrontata nei
giudizi di cui è parte, dettagliatamente descritta ed illustrata con il
deposito di copiosa documentazione).
3.– La seconda ordinanza della Corte di cassazione, sezioni unite
civili, (r.o. n. 90 del 2014) espone che il giudizio a quo è stato instaurato
da alcuni privati proprietari di fondi, dopo che il Tribunale superiore delle
acque pubbliche, con sentenza del 24 febbraio 2006 (confermata dalla Corte di
cassazione, sezioni unite civili, con sentenza del 3 dicembre 2008, n.
28652), ha annullato gli atti della procedura ablativa condotta
dall’Agenzia interregionale del fiume Po (AIPO) nei confronti di tali
terreni, preordinata a realizzare un argine lungo un torrente, per evitare il
ripetersi di esondazioni in danno del territorio comunale.
Non avendo l’AIPO dato esecuzione alla sentenza, i proprietari hanno
ottenuto dal Tribunale superiore delle acque pubbliche la nomina di un
Commissario ad acta, con il potere di provvedere alla restituzione degli
immobili espropriandi, ovvero di conseguirne l’acquisizione tramite
l’istituto di cui all’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni,
allora vigente.
Dichiarata tale ultima norma incostituzionale (con sentenza n. 293 del 2010),
ed introdotto nello stesso T.U. l’art. 42-bis, il Commissario ad acta
ha disposto l’acquisizione dei terreni al patrimonio dell’AIPO,
liquidando ai proprietari l’indennizzo di cui alla nuova norma.
Il ricorso contro il provvedimento commissariale è stato quindi respinto dal
Tribunale superiore delle acque pubbliche con sentenza del 14 marzo 2012.
I proprietari dei terreni hanno proposto ricorso per cassazione avverso la
sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, sollevando, in primo
luogo, l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni.
L’autorità giudiziaria adita ha ritenuto, dunque, di sollevare
questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni
3.1.– Il giudice rimettente, in punto di rilevanza, osserva che
l’esame dei motivi di ricorso per cassazione potrebbe portare al
rigetto dello stesso, nella vigenza della norma della cui legittimità
costituzionale si dubita, mentre, ove l’art. 42-bis venisse espunto dall’ordinamento,
i ricorrenti potrebbero fruire del trattamento, risultante dalla disciplina
previgente e per loro più favorevole, consistente nella restituzione
dell’immobile soggetto ad occupazione in radice illegittima, oltre al
risarcimento del danno informato ai principi generali di cui all’art.
2043 cod. civ., con accoglimento dei restanti motivi di ricorso.
In sostanza, i ricorrenti – i quali, per effetto della sentenza n. 293
del 2010 di questa Corte, avrebbero avuto diritto, tanto al momento del ricorso
introduttivo del giudizio, quanto a quello del passaggio in giudicato della
sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche che lo aveva
interamente accolto, alla restituzione dei loro immobili, nonché al
risarcimento del danno alla stregua dei parametri contenuti nell’art.
2043 cod. civ. – in conseguenza del sopravvenuto art. 42-bis, nonché
del provvedimento acquisitivo adottato nel corso del giudizio, avrebbero
perduto completamente la tutela reale e potrebbero avvalersi soltanto di
quella «indennitaria/risarcitoria» dalla stessa introdotta.
3.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il
giudice rimettente ha ripercorso integralmente i passaggi argomentativi già
illustrati in precedenza, con riferimento al giudizio r.o. n. 89 del 2014.
3.3.– Nel giudizio innanzi alla Corte, con atto depositato il 24 giugno
2014, si sono costituiti anche i privati proprietari dei fondi oggetto del
provvedimento di acquisizione, i quali, in via preliminare, hanno chiarito
che tutte le loro iniziative giudiziarie sono sempre state mirate ad ottenere
la restituzione dei fondi e non il risarcimento del danno per equivalente
pecuniario.
In punto di non manifesta infondatezza, le parti aderiscono in sostanza al
contenuto dell’ordinanza del giudice a quo.
3.4.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
sostenendo l’infondatezza della sollevata questione di legittimità
costituzionale e riproponendo le medesime difese di merito svolte nel
giudizio r.o. n. 89 del 2014.
3.5.– Con atto depositato in data 19 giugno 2014, è intervenuto nel
presente giudizio D.G.G. nella qualità di erede universale di C.R.,
specificando di non essere parte del giudizio a quo, bensì di altro giudizio,
riproponendo le argomentazioni di cui all’atto di intervento nel
giudizio r.o. n. 89 del 2014.
Con memoria depositata in data 26 gennaio 2015, l’interveniente ha
ulteriormente argomentato «sull’attualità dell’interesse
all’intervento».
4.– L’ordinanza di rimessione del 12 maggio 2014 (r.o. n. 163 del
2014) è stata adottata dal TAR Lazio, sezione seconda, nel corso di un
giudizio avente ad oggetto una procedura posta in essere dal Comune di Roma,
originata dall’intervenuta approvazione, con delibera della Giunta
municipale del Comune di Roma 7 maggio 1981, n. 3253, del progetto per la
realizzazione di opere di edilizia scolastica comunale, con contestuale
dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza nonché
autorizzazione all’occupazione d’urgenza, su una porzione di
terreni di proprietà della Corrida srl.
Effettuata l’occupazione dei terreni, le opere sono state realizzate,
senza che il Comune resistente abbia portato a termine la procedura
espropriativa mediante adozione di decreto di esproprio.
Tutti gli atti della procedura, ivi compresa la delibera di approvazione del
progetto e di dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza
dell’opera, sono stati annullati con sentenza del TAR Lazio del 28
ottobre 2002, n. 5711, confermata con sentenza del Consiglio di Stato del 12
giugno 2009, n. 3731.
Adito il Tribunale civile di Roma al fine di ottenere il risarcimento dei
danni da occupazione, qualificata come usurpativa, la società ricorrente, a
seguito di pronuncia dichiarativa del difetto di giurisdizione, ha quindi
riassunto il giudizio innanzi al TAR Lazio. Ritenendo che, a fronte
dell’irreversibile trasformazione dell’area, per effetto della
realizzazione dell’opera pubblica, non potesse ritenersi verificata
l’accessione invertita – essendo stata annullata la dichiarazione
di pubblica utilità – la ricorrente ha chiesto l’accertamento
dell’illiceità dell’occupazione dei terreni e della loro
irreversibile trasformazione per effetto della realizzazione dell’opera
pubblica comunale; l’accertamento e la declaratoria della propria
abdicazione al diritto di proprietà sulle aree interessate dalla
realizzazione dell’opera pubblica; l’accertamento del diritto ad
ottenere il risarcimento del danno per equivalente, corrispondente al valore
venale delle aree (aventi destinazione edificatoria), oltre al risarcimento
del danno per mancata loro utilizzazione durante il periodo di occupazione
senza titolo, a decorrere dall’inizio della stessa, maggiorato da
rivalutazione monetaria ed interessi di legge.
Il TAR ha preliminarmente dichiarato l’inammissibilità della domanda
volta all’accertamento dell’intervenuta abdicazione al diritto di
proprietà sulle aree interessate dalla realizzazione dell’opera
pubblica.
4.1.– Il giudice rimettente, in punto di rilevanza, osserva che la
fattispecie concreta rientra nell’ambito di applicabilità del citato
art. 42-bis. Il Tribunale dovrebbe quindi limitarsi a ordinare
all’amministrazione comunale di procedere alla restituzione alla società
ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in
pristino, e a risarcire il danno per l’occupazione illegittima, fermo
restando che l’amministrazione potrebbe paralizzare tale pronuncia
mediante l’adozione del provvedimento di acquisizione ex nunc del bene
al proprio patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un
indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale.
4.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il TAR
ripercorre integralmente i passaggi argomentativi già illustrati in
precedenza, con riferimento al giudizio r.o. n. 90 del 2014, replicando
(quasi) letteralmente l’incedere argomentativo dell’ordinanza di
rimessione della Corte di cassazione, sezioni unite civili, e riproponendo
gli identici profili di contrasto con i parametri costituzionali evocati nel
provvedimento da ultimo menzionato.
4.3.– Nel giudizio innanzi alla Corte, con atto depositato il 27
ottobre 2014, si è costituita anche la società proprietaria dei fondi oggetto
della procedura ablativa, chiedendo la declaratoria di illegittimità
costituzionale della norma impugnata.
4.4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
sostenendo l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale
e riproponendo le medesime difese di merito svolte nel giudizio r.o. n. 89
del 2014.
5.– L’ordinanza di rimessione del 5 giugno 2014 (r.o. n. 219 del
2014) è stata adottata dal TAR Lazio, sezione seconda, nel corso di un
giudizio avente ad oggetto l’occupazione di urgenza di un appezzamento
di terreno nel Comune di Roma, appartenente in comproprietà ad alcuni
privati, interamente trasformato in maniera irreversibile
dall’amministrazione e legittimamente espropriato solo per una parte,
con decreti del Presidente della Giunta regionale del Lazio 30 luglio 1993,
n. 1420 e n. 1421.
I privati proprietari hanno promosso un giudizio innanzi alla Corte
d’appello di Roma per ottenere la determinazione dell’indennità
di occupazione, nonché, limitatamente alla parte espropriata, la
determinazione dell’indennità di esproprio.
Il giudizio si è concluso con sentenza 12 giugno 2000, n. 2043, passata in
giudicato, con la quale la
Corte d’appello di Roma ha determinato e liquidato
l’indennità di occupazione dell’intero terreno originariamente
occupato, per tutto il periodo di occupazione, e ha determinato e liquidato
l’indennità di esproprio per il terreno effettivamente espropriato.
Nel corso del giudizio di fronte alla Corte d’appello, è emerso che
anche la restante parte del terreno non espropriata era stata utilizzata dal
Comune, che vi aveva eseguito la prevista opera pubblica.
I privati proprietari, dunque, ritenuta verificatasi la cosiddetta
“accessione invertita”, con conseguente diritto al risarcimento
del danno in misura pari al valore venale del terreno illecitamente acquisito
(dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale del comma 7-bis
dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, recante
«Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica», convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 agosto 1992, n. 359,
per effetto della sentenza di questa Corte n. 349 del 2007), con motivi
aggiunti hanno rappresentato di avere inutilmente diffidato
l’amministrazione a procedere, secondo il sopravvenuto art. 42-bis del
T.U. sulle espropriazioni, all’acquisizione del terreno, previa
determinazione e pagamento delle somme loro dovute.
Alla luce del mutato contesto normativo, hanno quindi spiegato
un’ulteriore domanda, alternativa rispetto a quella originaria, volta a
conseguire, in via costitutiva, il trasferimento in favore di Roma Capitale
della proprietà del terreno (alla quale non hanno più interesse), oltre alla
condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno.
Il TAR ha preliminarmente dichiarato l’inammissibilità della domanda
volta all’accertamento dell’intervenuta abdicazione, da parte dei
ricorrenti, al diritto di proprietà sulle aree interessate dalla realizzazione
dell’opera pubblica.
5.1.– Il giudice rimettente, in punto di rilevanza, in termini
perfettamente identici rispetto all’ordinanza del TAR Lazio del 12
maggio 2014 (illustrata nell’ambito del giudizio r.o. n. 163 del 2014),
osserva che la fattispecie concreta rientra nell’ambito di
applicabilità del citato art. 42-bis, sicché l’autorità giudiziaria
dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente amministrazione comunale di
procedere alla restituzione alla società ricorrente delle aree illegittimamente
occupate, previa riduzione in pristino, e a risarcire il danno per
l’occupazione illegittima, fermo restando che l’amministrazione
potrebbe paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione del
provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio
indisponibile, con corresponsione al proprietario di un indennizzo per il
pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subìto.
5.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il TAR ha
ripercorso integralmente i passaggi argomentativi già illustrati in
precedenza con riferimento al giudizio r.o. n. 90 del 2014, anche in tal caso
replicando (quasi) letteralmente l’incedere argomentativo
dell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, sezioni unite
civili, e riproponendo gli identici profili di contrasto con i parametri
costituzionali evocati nel provvedimento da ultimo menzionato.
5.3.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
sostenendo l’infondatezza della sollevata questione di legittimità
costituzionale e riproponendo le medesime difese di merito svolte nel
giudizio r.o. n. 89 del 2014.
Considerato in diritto
1.– Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione, sezioni unite
civili, e dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione
seconda, con quattro distinte ordinanze di contenuto in larga misura
coincidente (rispettivamente r.o. n. 89, n. 90, n. 163 e n. 219 del 2014),
riguardano l’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per pubblica utilità – Testo A), con il quale viene disciplinata la
«Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico».
1.1.– I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata con
riferimento agli stessi parametri, sotto gli stessi profili e in gran parte
con le stesse argomentazioni. Ponendo, pertanto, identiche questioni, vanno
riuniti e decisi con un’unica pronuncia.
1.2.– Va ribadito quanto statuito con l’ordinanza della quale è
stata data lettura in pubblica udienza, allegata al presente provvedimento,
in ordine all’inammissibilità dell’intervento, nel giudizio
promosso dalla Corte di cassazione r.o. n. 89 del 2014, della SEP – Società
Edilizia Pineto spa.
1.3.– Va, ancora, dichiarata l’inammissibilità
dell’intervento, in entrambi i giudizi promossi dalla Corte di
cassazione (r.o. n. 89 del 2014 e n. 90 del 2014), di D.G.G., il quale non è
parte dei giudizi a quibus, ma di altri giudizi in cui si controverte circa
la legittimità di procedure espropriative, suscettibili di essere definiti
con l’applicazione della norma impugnata.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, possono
partecipare al giudizio in via incidentale di legittimità costituzionale le
sole parti del giudizio principale e i terzi portatori di un interesse
qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in
giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o
dalle norme oggetto di censura (tra le tante, sentenze n. 162 del 2014, n.
293 del 2011, n. 118 del 2011 e n. 138 del 2010; ordinanze n. 240 del 2014,
n. 156 del 2013 e n. 150 del 2012).
I rapporti sostanziali dedotti in causa dall’interveniente sono del
tutto differenti rispetto a quelli oggetto dei procedimenti da cui sono
scaturiti i giudizi costituzionali r.o. n. 89 e n. 90 del 2014, pur essendo,
secondo la prospettazione dello stesso interveniente, suscettibili di essere
regolati dalla norma oggetto di censura.
Sotto altro profilo, l’ammissibilità d’interventi ad opera di
terzi, titolari di interessi soltanto analoghi a quelli dedotti nel giudizio
principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di
legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti al detto
giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non
manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo (per tutte,
sentenze n. 119 del 2012, n. 49 del 2011 e ordinanza n. 32 del 2013).
2.– Come l’analogo art. 43 del T.U. sulle espropriazioni,
dichiarato incostituzionale per eccesso di delega con sentenza n. 293 del
2010 di questa Corte, l’art. 42-bis oggi censurato ha ad oggetto la
disciplina dell’utilizzazione senza titolo, da parte della pubblica
amministrazione, di un bene immobile per scopi di interesse pubblico,
modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio o dichiarativo
della pubblica utilità.
Nei suoi tratti essenziali, la disposizione prevede che l’autorità che
utilizza il bene possa disporne l’acquisizione, non retroattiva, al
proprio patrimonio indisponibile, contro la corresponsione di un indennizzo
patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato
nella misura del 10 per cento del valore venale del bene. Per
l’eventuale periodo di occupazione senza titolo è computato, a titolo
risarcitorio, un interesse del 5 per cento annuo sul valore venale, salva la
prova del maggior danno.
Le nuove regole valgono non solo quando manchi del tutto l’atto
espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato l’atto da cui sia
sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio.
Prevede la norma che il provvedimento di acquisizione possa essere adottato
anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti
appena citati, ma a condizione che l’amministrazione che ha adottato il
precedente atto impugnato lo ritiri.
Il provvedimento di acquisizione deve recare l’indicazione delle
circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area,
se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, e deve essere
specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di
interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati. Deve essere
evidenziata altresì «l’assenza di ragionevoli alternative» alla
adozione del provvedimento. Il pagamento dell’indennizzo, liquidato nel
provvedimento, deve essere disposto entro trenta giorni, e la notifica
dell’atto al proprietario determina il passaggio del diritto di
proprietà, sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute
ovvero del loro deposito. L’autorità che emana il provvedimento ne dà
inoltre comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti, mediante
trasmissione di copia integrale.
Si prevede, infine, che queste disposizioni trovino applicazione anche con
riguardo a fatti anteriori all’entrata in vigore della norma, ed anche
se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato
o annullato, ferma restando la necessità di rinnovare la valutazione di
attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre
l’acquisizione.
3.– In punto di non manifesta infondatezza, tutti i giudici rimettenti
ritengono che la norma censurata si ponga in contrasto con diversi parametri
costituzionali.
3.1.– In primo luogo, l’art. 42-bis contrasterebbe con gli artt.
3 e 24 della Costituzione, riservando un trattamento privilegiato alla
pubblica amministrazione che abbia commesso un fatto illecito, fonte, per
qualsiasi altro soggetto, dell’obbligazione «risarcitoria/restitutoria»
di cui agli artt. 2043 e 2058 del codice civile. La disposizione censurata, infatti,
attribuirebbe alla pubblica amministrazione la facoltà di mutare –
successivamente all’evento dannoso prodotto nella sfera giuridica
altrui, e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà
– il titolo e l’ambito della responsabilità, nonché il tipo di
sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal
precetto del neminem laedere, pur avendo operato al di fuori della funzione
amministrativa. Ciò le consentirebbe di trarre vantaggio da una situazione di
illegalità da essa stessa determinata, sottraendo, peraltro, al privato
danneggiato la tutela restitutoria, alla quale in precedenza aveva diritto.
Sotto altro profilo, l’indennizzo previsto dalla norma impugnata
sarebbe ingiustificatamente inferiore nel confronto con l’espropriazione
legittima dello stesso immobile.
La norma, poi, avrebbe trasformato il precedente regime risarcitorio in un
indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assumerebbe natura di
debito di valuta non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria.
Anche il ristoro che avrebbe mantenuto natura risarcitoria, ossia il
corrispettivo per il periodo di occupazione illegittima antecedente al
provvedimento di acquisizione, verrebbe determinato in base ad un parametro
riduttivo rispetto a quelli cui è commisurato l’analogo indennizzo per
la legittima occupazione temporanea dell’immobile.
3.2.– In secondo luogo, tutti i giudici rimettenti dubitano della
compatibilità della norma impugnata con gli artt. 42, 97 e 113 Cost.
Osservano, in proposito, che la dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera si pone come garanzia prima e fondamentale del cittadino e,
nel contempo, quale ragione giustificatrice del suo sacrificio, sicché, in
mancanza di questa, si determinerebbe il difetto di potere
dell’amministrazione nel procedere all’espropriazione. La norma
costituzionale richiederebbe, infatti, che i motivi d’interesse
generale che giustificano l’esercizio del potere espropriativo, nei
(soli) casi stabiliti dalla legge, siano predeterminati dall’amministrazione
ed emergano da un apposito procedimento – individuato, appunto, in
quello dichiarativo del pubblico interesse culminante nell’adozione
della dichiarazione di pubblica utilità – preliminare, autonomo e
strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso
stretto.
Nella prospettazione dei rimettenti, i motivi di interesse generale richiesti
dal terzo comma dell’art. 42 Cost. dovrebbero palesarsi gradualmente e
anteriormente al sacrificio del diritto di proprietà, in un momento in cui la
comparazione tra l’interesse pubblico e l’interesse privato possa
effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei principi
d’imparzialità e proporzionalità (ai sensi dell’art. 97 Cost.).
In un momento, cioè, in cui la lesione del diritto di proprietà non sia
ancora attuale ed eventuali ipotesi alternative all’espropriazione non
siano ostacolate da una situazione fattuale ormai irreversibilmente
compromessa.
L’art. 42-bis, invece, prescindendo dalla dichiarazione di pubblica utilità,
autorizzerebbe l’espropriazione in assenza di una predeterminazione dei
motivi d’interesse generale, reputando sufficiente che la perdita del
bene da parte del proprietario trovi giustificazione nella situazione di
fatto venutasi a creare per effetto del comportamento contra ius
dell’amministrazione.
Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, per contrasto con
l’art. 42 Cost., è individuato nella ritenuta assenza, nella norma, di
termini certi di avvio e conclusione del procedimento, con conseguente
esposizione del diritto di proprietà al pericolo dell’emanazione del
provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo.
3.3.– I giudici rimettenti dubitano, ancora, della conformità della
norma impugnata all’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i
principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti
«CEDU»), secondo l’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo
dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale. La Corte europea avrebbe,
infatti, dichiarato «in radicale contrasto» con tale art. 1 il fenomeno
dell’“espropriazione indiretta”, nel quale il trasferimento
della proprietà del bene dal privato alla pubblica amministrazione avviene in
virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa
da quest’ultima, con l’effetto di convalidarla, consentendo
all’amministrazione di trarne vantaggio e di passare oltre le regole
fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato
imprevedibile o arbitrario per gli interessati.
La Corte EDU,
osservano i rimettenti, ha sempre ritenuto che una tale vicenda ponga
problemi alla luce del principio di legalità tutelato dalla Convenzione, non
solo quando giustificata unicamente dalla giurisprudenza in via pretoria, ma
anche quando consentita mediante disposizioni legislative. Ciò perché il
principio di legalità non si accontenta della mera esistenza di una norma di
legge che consenta l’espropriazione indiretta, bensì richiede
l’esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili,
precise e prevedibili.
3.4.– I giudici rimettenti, infine, dubitano della conformità della
norma censurata agli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, secondo
l’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo.
La Corte EDU,
infatti, ha ripetutamente considerato lecita l’applicazione dello ius
superveniens in cause già pendenti soltanto in presenza di «ragioni
imperative di interesse generale», pena la violazione del principio di
legalità nonché del diritto ad un processo equo. Ciò perché, in ipotesi del
genere, il potere legislativo introduce nuove disposizioni specificamente
dirette ad influire sull’esito di un giudizio già in corso (specie
considerando i giudizi ove sia parte un’amministrazione pubblica),
inducendo il giudice a decisioni su base diversa da quella alla quale la
controparte poteva legittimamente aspirare al momento di introduzione della
lite.
La norma censurata violerebbe questi principi, in quanto, malgrado la
precisazione del primo comma secondo cui l’atto di acquisizione è
destinato a non operare retroattivamente, con la disposizione dell’ottavo
comma avrebbe confermato la possibilità dell’amministrazione di
utilizzare il provvedimento ex tunc, per fatti anteriori alla sua entrata in
vigore ed anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato, in conformità alla finalità di
attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via di uscita dalle
situazioni di illegalità venutesi a verificare nel corso degli anni.
Sotto tale profilo, la norma risulterebbe anche in contrasto con l’art.
111, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui, disponendo la propria
applicabilità ai giudizi in corso, violerebbe i principi del giusto processo,
in particolare la condizione di parità delle parti davanti al giudice, che
risulterebbe lesa dall’intromissione del potere legislativo
nell’amministrazione della giustizia, allo scopo di influire sulla
risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie.
4.– In via preliminare, deve essere dichiarata l’inammissibilità,
per difetto di rilevanza, delle questioni sollevate con le due ordinanze
(r.o. n. 163 del 2014 e n. 219 del 2014) del TAR Lazio, sezione seconda.
In entrambi i casi, infatti, non risulta essere stato emanato alcun
provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni da
parte della pubblica amministrazione.
Il TAR rimettente, anzi, in entrambe le ordinanze ha affermato che dovrebbe
limitarsi a ordinare alla resistente pubblica amministrazione di procedere
alla restituzione alla parte ricorrente delle aree illegittimamente occupate,
previa riduzione in pristino, e a risarcire il danno per l’occupazione
illegittima, fermo restando che l’amministrazione «può paralizzare tale
pronuncia mediante l’adozione del provvedimento con cui disporre
l’acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio indisponibile».
Trattasi, dunque, di una circostanza solo eventuale che non risulta essersi
realizzata, il che esclude la necessità di fare applicazione nel caso
concreto della norma impugnata.
5.– Sempre in via preliminare, occorre esaminare le eccezioni di
inammissibilità prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato e dal
Comune di Porto Cesareo (parte costituita nel procedimento a quo) nel
giudizio r.o. n. 89 del 2014.
5.1.– Secondo l’Avvocatura generale, il riparto di giurisdizione
in materia è disciplinato dall’art. 133, primo comma, del codice del
processo amministrativo (decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante
«Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante
delega al governo per il riordino del processo amministrativo»), la cui
lettera f) attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo tutte le controversie aventi ad oggetto gli atti e i
provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e
edilizia, tranne quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione
delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura
espropriativa o ablativa.
Ne consegue che, solo ove l’indennizzo previsto dall’art. 42-bis
fosse qualificabile come “indennità”, potrebbe ipotizzarsi la
traslatio iudicii prospettata dal giudice rimettente, in caso di superamento
dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati.
Secondo la difesa erariale, invece, al di là del termine utilizzato dalla
norma (in stretta connessione con il sostantivo utilizzato dal terzo comma
dell’art. 42 Cost.), la ricostruzione sistematica dell’istituto
porterebbe a concludere per la configurabilità di una obbligazione di matrice
risarcitoria, con conseguente giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,
indipendentemente dalla fondatezza o meno della sollevata questione di
legittimità costituzionale della norma. Difetterebbe, dunque, la rilevanza
della questione nell’ambito del regolamento di giurisdizione azionato
nel giudizio a quo.
5.1.1.– L’eccezione non è fondata.
Il giudizio di rilevanza, per costante giurisprudenza costituzionale, è
riservato al giudice rimettente, sì che l’intervento della Corte deve
limitarsi ad accertare l’esistenza di una motivazione sufficiente, non
palesemente erronea o contraddittoria, senza spingersi fino ad un esame
autonomo degli elementi che hanno portato il giudice a quo a determinate
conclusioni.
In altre parole, nel giudizio di costituzionalità, ai fini
dell’apprezzamento della rilevanza, ciò che conta è la valutazione che
il rimettente deve fare in ordine alla possibilità che il procedimento
pendente possa o meno essere definito indipendentemente dalla soluzione della
questione sollevata, potendo la
Corte interferire su tale valutazione solo se essa, a prima
vista, appaia assolutamente priva di fondamento (ex plurimis, sentenze n. 91
del 2013, n. 41 del 2011 e n. 270 del 2010). Un simile presupposto non si
verifica nel caso di specie, avendo il rimettente motivato in maniera non
implausibile circa la qualificazione in termini indennitari (e non
risarcitori) del ristoro previsto dalla norma censurata per il pregiudizio
patrimoniale e non patrimoniale subìto dal privato (peraltro conformemente ad
un indirizzo accolto – sebbene non unanimemente – anche dalla
giurisprudenza amministrativa: Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza
29 agosto 2013, n. 4318 e, sezione sesta, sentenza 15 marzo 2012, n. 1438).
5.2.– Un ulteriore profilo di inammissibilità per difetto di rilevanza
è individuato dall’Avvocatura generale nella scarna descrizione della
fattispecie concreta da cui ha avuto origine la proposizione del regolamento
di giurisdizione. Il giudice rimettente non avrebbe, infatti, specificato se
la vicenda abbia avuto origine da un’ipotesi di occupazione “usurpativa”
o di occupazione “acquisitiva”. Solo nel primo caso, secondo la
costante giurisprudenza di legittimità, il privato avrebbe diritto alla
restituzione del bene.
5.2.1.– Anche tale eccezione non è fondata.
Sebbene in termini sintetici, l’ordinanza di rimessione specifica che
la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera era in effetti
intervenuta, ma che ne erano inutilmente scaduti i termini, rientrando,
dunque, la fattispecie nell’ambito della cosiddetta occupazione
acquisitiva.
5.3.– Il Comune di Porto Cesareo ha eccepito, a sua volta,
l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.
Il giudice rimettente, infatti, ha sostenuto che, qualora l’art. 42-bis
venisse espunto dall’ordinamento, il privato potrebbe aspirare ad
ottenere la restituzione del bene illegittimamente occupato.
Ad avviso del Comune, tale restituzione non sarebbe più ipotizzabile, in
virtù del giudicato formatosi sulla precedente sentenza (del 25 giugno 2010,
n. 1614) del TAR adito, che ne aveva espressamente esclusa la possibilità.
Ciò, peraltro, su sostanziale rinuncia dello stesso ricorrente a conseguire
la restituzione, come dimostrato dal contenuto dei motivi aggiunti proposti
nel giudizio amministrativo ancora pendente, tendenti solo ad ottenere la
determinazione dell’indennizzo in seguito al provvedimento ex art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni nelle more adottato dal Comune di Porto
Cesareo.
Nessuna utilità – osserva il Comune − potrebbe dunque ricavare il
privato dalla eventuale caducazione della norma impugnata.
5.3.1.– L’eccezione non è fondata.
Il regolamento di giurisdizione è stato proposto – proprio dal Comune
resistente – perché il privato ha comunque chiesto anche la
rideterminazione dell’indennizzo, esattamente in forza dell’art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni, entrato in vigore nelle more del
giudizio. Come evidenziato nell’ordinanza di rimessione, ne risulta che
se la norma censurata fosse dichiarata incostituzionale, il ristoro economico
sarebbe assoggettato al regime del risarcimento ex art. 2043 cod. civ., a
prescindere dal riconoscimento del diritto alla restituzione del bene.
In altri termini, la rilevanza della questione emerge dal fatto che se la
questione di legittimità costituzionale fosse accolta, il giudizio rimarrebbe
incardinato innanzi al giudice amministrativo, investito della domanda di
rideterminazione del ristoro economico, che acquisterebbe natura
risarcitoria; se essa fosse rigettata, ne deriverebbe invece la traslatio
iudicii innanzi al giudice ordinario, per i profili di quantificazione
dell’indennizzo previsto dall’art. 42-bis del T.U. sulle
espropriazioni.
5.4.– Sotto altro aspetto, quello del diritto al risarcimento integrale
del danno (informato ai principi di cui agli artt. 2043 e 2059 cod. civ.), in
luogo del mero indennizzo, il Comune eccepisce ulteriormente l’inammissibilità
della questione per difetto di rilevanza, in quanto il danno sarebbe già
stato determinato in forma integrale, sempre in esecuzione del giudicato
formatosi sulla precedente sentenza n. 1614 del 2010 del Tribunale
amministrativo regionale per la
Puglia, sezione distaccata di Lecce, adempiendo al quale la
determinazione dell’indennizzo sarebbe stata superiore a quanto
spettante in applicazione della norma censurata.
5.4.1.– Anche tale eccezione è infondata, inerendo al merito del
giudizio che ha dato luogo al regolamento di giurisdizione, e
nell’ambito del quale dovrà essere vagliata dall’autorità
giudiziaria che sarà individuata come attributaria della controversia.
6.– Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione, sezioni unite
civili, con le ordinanze r.o. n. 89 e n. 90 del 2014, non sono fondate, in
riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost. Con riferimento agli artt. 42,
111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., tali questioni non
sono fondate nei sensi di cui in motivazione.
6.1.– L’art. 42-bis è stato introdotto nel T.U. sulle
espropriazioni dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011,
n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n.
111, dopo che questa Corte, con sentenza n. 293 del 2010, aveva dichiarato
l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, dell’art.
43 del medesimo T.U. sulle espropriazioni, che disciplinava un istituto affine.
6.2.– È utile partire dalla sommaria descrizione del contesto, anche
giurisprudenziale, nel quale sono stati inseriti, dapprima l’art. 43, e
poi l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni.
Come è noto, in presenza di una serie di patologie rilevabili nei procedimenti
amministrativi di espropriazione, la giurisprudenza di legittimità aveva
elaborato gli istituti dell’occupazione «appropriativa» ed
«usurpativa».
In sintesi, la prima era caratterizzata da una anomalia del procedimento
espropriativo, a causa della sua mancata conclusione con un formale atto
ablativo, mentre la seconda era collegata alla trasformazione del fondo di
proprietà privata, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità. Nel primo
caso (a partire dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite
civili, 26 febbraio 1983, n. 1464), l’acquisto della proprietà
conseguiva ad un’inversione della fattispecie civilistica
dell’accessione di cui agli artt. 935 e seguenti cod. civ., in
considerazione della trasformazione irreversibile del fondo. Secondo questa
ricostruzione, la destinazione irreversibile del suolo privato
illegittimamente occupato comportava l’acquisto a titolo originario, da
parte dell’ente pubblico, della proprietà del suolo e la contestuale
estinzione del diritto di proprietà del privato. La successiva sentenza della
Corte di cassazione, sezioni unite civili, 10 giugno 1988, n. 3940, precisò
poi la figura della «occupazione acquisitiva», limitandola al caso in cui si
riscontrasse una valida dichiarazione di pubblica utilità che permetteva di
far prevalere l’interesse pubblico su quello privato.
L’«occupazione usurpativa», invece, non accompagnata da dichiarazione
di pubblica utilità, ab initio o per effetto dell’intervenuto
annullamento del relativo atto o per scadenza dei relativi termini, in quanto
tale non determinava l’effetto acquisitivo a favore della pubblica
amministrazione.
6.3.– Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale
dell’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni per eccesso di delega,
questa Corte (sentenza n. 293 del 2010) ha rilevato che l’intervento
della pubblica amministrazione sulle procedure ablatorie, come disciplinato
dalla norma da ultimo richiamata, eccedeva gli istituti della occupazione
appropriativa ed usurpativa, così come delineati dalla giurisprudenza di
legittimità, prevedendo un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla
stessa amministrazione che aveva commesso l’illecito, addirittura a
dispetto di un giudicato che avesse disposto il ristoro in forma specifica
del diritto di proprietà violato.
Nella medesima pronuncia, questa Corte aveva, inoltre, prospettato in termini
dubitativi la compatibilità del meccanismo di “acquisizione
sanante”, per come disciplinato dalla norma allora impugnata, con la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Quest’ultima, infatti, sia
pure incidentalmente, ha più volte osservato che l’espropriazione
cosiddetta indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché
non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione
di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da
«azioni illegali». Ciò accade sia allorché tale situazione costituisca
conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché
derivi da una legge (con espresso riferimento all’art. 43 del T.U.
sulle espropriazioni), in quanto l’espropriazione indiretta non può
comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata
secondo «buona e debita forma» (sentenza 12 gennaio 2006, Sciarrotta e altri
contro Italia).
6.4.– È dunque opportuno che lo scrutinio della norma censurata nel
presente giudizio di legittimità costituzionale sia preceduto da un suo
raffronto con l’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, dovendosi,
dapprima, stabilire se il nuovo meccanismo acquisitivo risulti disciplinato
in modo difforme rispetto a quello previsto dal precedente art. 43, e
successivamente valutare la consistenza delle censure mosse dalle ordinanze
di rimessione.
6.5.– L’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni ha certamente
reintrodotto la possibilità, per l’amministrazione che utilizza senza
titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, di evitarne la
restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato), attraverso
un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile. Tale
atto sostituisce il regolare procedimento ablativo prefigurato dal T.U. sulle
espropriazioni, e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento
espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica
utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo
svolgimento dell’intero procedimento, in presenza dei presupposti
indicati dalla norma.
Come evidenziato dalla difesa erariale, tuttavia, il nuovo meccanismo
acquisitivo presenta significative differenze rispetto all’art. 43 del
T.U. sulle espropriazioni.
La nuova disposizione, risolvendo un contrasto interpretativo insorto in
giurisprudenza sull’art. 43 appena citato, dispone espressamente che
l’acquisto della proprietà del bene da parte della pubblica
amministrazione avvenga ex nunc, solo al momento dell’emanazione
dell’atto di acquisizione (ciò che impedisce l’utilizzo
dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia già disposto la
restituzione del bene al privato).
Inoltre, la norma censurata impone uno specifico obbligo motivazionale
“rafforzato” in capo alla pubblica amministrazione procedente,
che deve indicare le circostanze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto
inizio.
La motivazione, in particolare, deve esibire le «attuali ed eccezionali»
ragioni di interesse pubblico che giustificano l’emanazione
dell’atto, valutate comparativamente con i contrapposti interessi
privati, e deve, altresì, evidenziare l’assenza di ragionevoli
alternative alla sua adozione.
Ancora, nel computo dell’indennizzo viene fatto rientrare non solo il
danno patrimoniale, ma anche quello non patrimoniale, forfetariamente
liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene. Ciò
costituisce sicuramente un ristoro supplementare rispetto alla somma che
sarebbe spettata nella vigenza della precedente disciplina.
Il passaggio del diritto di proprietà, inoltre, è sottoposto alla condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute, da effettuare entro 30 giorni
dal provvedimento di acquisizione.
La nuova disciplina si applica non solo quando manchi del tutto l’atto
espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato – o impugnato a tal
fine, nel qual caso occorre il previo ritiro in autotutela da parte della
medesima pubblica amministrazione – l’atto da cui sia sorto il
vincolo preordinato all’esproprio, oppure la dichiarazione di pubblica
utilità dell’opera oppure, ancora, il decreto di esproprio.
Non è stata più riproposta la cosiddetta acquisizione in via giudiziaria,
precedentemente prevista dal comma 3 dell’art. 43, ed in virtù della
quale l’acquisizione del bene in favore della pubblica amministrazione
poteva realizzarsi anche per effetto dell’intervento di una pronuncia
del giudice amministrativo, volta a paralizzare l’azione restitutoria
proposta dal privato.
Non secondaria, nell’economia complessiva del nuovo istituto, è infine
la previsione (non presente nel precedente art. 43) in base alla quale
l’autorità che emana il provvedimento di acquisizione ne dà
comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante
trasmissione di copia integrale.
Si è, dunque, in presenza di un istituto diverso da quello disciplinato
dall’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni.
Occorre ora esaminare partitamente le censure mosse dalle ordinanze di
rimessione, con riferimento ai singoli parametri evocati.
6.6.– La prima censura attiene al supposto contrasto con gli artt. 3 e
24 Cost.
Il parametro di cui all’art. 3 Cost. viene invocato dai giudici
rimettenti sotto il duplice versante della violazione del principio di
eguaglianza – con profili involgenti anche la violazione
dell’art. 24 Cost., sub specie di compressione del diritto di difesa
– e dell’intrinseca irragionevolezza della norma impugnata.
La questione non è fondata.
6.6.1.– Quanto al primo versante della questione così posta, i giudici
rimettenti rilevano che la norma riserverebbe un trattamento privilegiato
alla pubblica amministrazione rispetto a qualsiasi altro soggetto
dell’ordinamento che abbia commesso un fatto illecito, pur in mancanza
di un pregresso effettivo esercizio di funzione amministrativa e, dunque,
sulla base della sola qualifica soggettiva dell’autore della condotta.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, la
violazione del principio di eguaglianza sussiste solo qualora situazioni
sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente
diverso, ma non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni
non assimilabili (ex plurimis, sentenza n. 155 del 2014; ordinanze n. 41 del
2009 e n. 109 del 2004), sempre con il limite generale dei principî di
proporzionalità e ragionevolezza (sentenza n. 85 del 2013).
Nel caso di specie, i giudici rimettenti omettono di considerare che, se pure
il presupposto di applicazione della norma sia «l’indebita
utilizzazione dell’area» – ossia una situazione creata dalla
pubblica amministrazione in carenza di potere (per la mancanza di una preventiva
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera o per l’annullamento
o la perdita di efficacia di essa) – tuttavia l’adozione
dell’atto acquisitivo, con effetti non retroattivi, è certamente
espressione di un potere attribuito appositamente dalla norma impugnata alla
stessa pubblica amministrazione. Con l’adozione di tale atto,
quest’ultima riprende a muoversi nell’alveo della legalità
amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole
di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità
perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito
ai danni del privato cittadino.
Sotto questo punto di vista, trascurato dai rimettenti, la situazione appare
conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «[…] la P.A. ha una posizione di
preminenza in base alla Costituzione non in quanto soggetto, ma in quanto
esercita potestà specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme
tipiche loro proprie. In altre parole, è protetto non il soggetto, ma la
funzione, ed è alle singole manifestazioni della P.A. che è assicurata
efficacia per il raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati»
(così la sentenza n. 138 del 1981).
Di conseguenza, neppure potrebbe dirsi violato l’art. 24 Cost., come
sostengono i rimettenti. Tale norma costituzionale è infatti posta a presidio
del diritto alla tutela giurisdizionale (ordinanza n. 32 del 2013), assumendo
così una valenza processuale (ordinanze n. 244 del 2009 e n. 180 del 2007).
In particolare, l’art. 24, come pure il successivo art. 113 Cost.,
enunciano il principio dell’effettività del diritto di difesa, il primo
in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della
pubblica amministrazione, ed entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza
degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per
la tutela in giudizio dei diritti, operando esclusivamente sul piano
processuale (in tal senso, ex plurimis, sentenza n. 20 del 2009).
Ne deriva che la violazione di tale parametro costituzionale può considerarsi
sussistente solo nei casi di «sostanziale impedimento all’esercizio del
diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione» (sentenza
n. 237 del 2007) o di imposizione di oneri tali da compromettere irreparabilmente
la tutela stessa (ordinanza n. 213 del 2005) e non anche nel caso in cui,
come nella specie, la norma censurata non elimini affatto la possibilità di
usufruire della tutela giurisdizionale (sentenza n. 85 del 2013). Tale tutela
viene bensì parzialmente “conformata”, in modo da garantire
comunque un serio ristoro economico, prevedendosi l’esclusione delle
sole azioni restitutorie; ma queste ultime non sarebbero congruamente
esperibili rispetto ad un comportamento non più qualificato in termini di illecito.
In definitiva, il diritto alla tutela giurisdizionale, a presidio del quale
la norma costituzionale invocata è posta (sentenza n. 15 del 2012), non
risulta violato dalla disposizione censurata.
6.6.2.– Sotto altro aspetto, sempre secondo i giudici rimettenti, la
violazione del principio di eguaglianza risulterebbe dal fatto che
l’indennizzo previsto dalla norma censurata sarebbe ingiustificatamente
inferiore nel confronto con l’espropriazione in via ordinaria dello
stesso immobile.
In realtà, la norma attribuisce al privato proprietario il diritto ad
ottenere il ristoro del danno patrimoniale nella misura pari al valore venale
del bene (così come accade per l’espropriazione condotta nelle forme
ordinarie), oltre ad una somma a titolo di danno non patrimoniale,
quantificata in misura pari al 10 per cento del valore venale del bene. Si è
perciò in presenza di un importo ulteriore, non previsto per
l’espropriazione condotta nelle forme ordinarie, determinato
direttamente dalla legge, in misura certa e prevedibile. E deve sottolinearsi
che il privato, in deroga alle regole ordinarie, è in tal caso sollevato
dall’onere della relativa prova.
Quanto all’indennità dovuta per il periodo di occupazione illegittima
antecedente al provvedimento di acquisizione, è vero che essa viene
determinata in base ad un parametro riduttivo rispetto a quello cui è
commisurato l’analogo indennizzo per la (legittima) occupazione
temporanea dell’immobile, ma il terzo comma della norma impugnata
contiene una clausola di salvaguardia, in base alla quale viene fatta salva
la prova di una diversa entità del danno.
6.6.3.– Sollecitano i giudici rimettenti un ulteriore vaglio di
conformità al principio di eguaglianza, in quanto nel sistema delineato dalla
norma censurata il bene privato detenuto sine titulo sarebbe sottoposto in
perpetuo al sacrificio dell’espropriazione, mentre nel procedimento
ordinario di espropriazione l’esposizione al pericolo
dell’emanazione del provvedimento acquisitivo è temporalmente limitata
all’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
La norma impugnata, in effetti, non prevede alcun termine per
l’esercizio del potere riconosciuto alla pubblica amministrazione. Ma i
rimettenti non hanno preso in considerazione le molteplici soluzioni,
elaborate dalla giurisprudenza amministrativa, per reagire all’inerzia
della pubblica amministrazione autrice dell’illecito: a seconda degli
orientamenti, infatti, talvolta è stato posto a carico del proprietario
l’onere di esperire il procedimento di messa in mora, per poi impugnare
l’eventuale silenzio-rifiuto dell’amministrazione; in altri casi,
è stato riconosciuto al giudice amministrativo anche il potere di assegnare
all’amministrazione un termine per scegliere tra l’adozione del
provvedimento di cui all’art. 42-bis e la restituzione
dell’immobile.
È dunque possibile scegliere – tra le molteplici elaborate –
un’interpretazione idonea ad evitare il pregiudizio consistente
nell’asserita esposizione in perpetuo al potere di acquisizione, senza
in alcun modo forzare la lettera della disposizione (per tutte, tra le più
recenti, sentenza n. 235 del 2014).
6.6.4.– I rimettenti lamentano, infine, l’intrinseca
irragionevolezza dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni, con
presunta violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto questo profilo.
Secondo i giudici rimettenti, in primo luogo, la norma avrebbe trasformato il
precedente regime risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che
di conseguenza assumerebbe natura di debito di valuta, non automaticamente
soggetto alla rivalutazione monetaria.
Lamentano, inoltre, i rimettenti che il ristoro economico assicurato
resterebbe pur sempre inferiore nel confronto con l’espropriazione per
le vie ordinarie dello stesso immobile, in quanto: a) ove il fondo abbia destinazione
edificatoria, non è riconosciuto l’aumento del 10 per cento di cui
all’art. 37, comma 2, del T.U. sulle espropriazioni, non richiamato
dalla norma impugnata; b) se il terreno è agricolo, non è applicabile il
precedente art. 40, comma 1, che impone di tener conto delle colture
effettivamente praticate sul fondo e «del valore dei manufatti edilizi
legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio
dell’azienda agricola».
È noto che lo scrutinio di ragionevolezza, in ambiti connotati da un’ampia
discrezionalità legislativa, impone alla Corte di verificare che il
bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato
realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione
di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato
costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni
relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua
insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare
o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e
delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988).
Orbene, alla luce di tali premesse, anche queste censure non sono fondate.
Quanto a quella relativa alla mutata natura del ristoro, la norma prevede
bensì la corresponsione di un indennizzo, ma determinato in misura
corrispondente al valore venale del bene e con riferimento al momento del
trasferimento della proprietà di esso, sicché non vengono in considerazione
somme che necessitano di una rivalutazione.
Quanto alle restanti censure, è appena il caso di sottolineare che
l’aumento del 10 per cento previsto dal comma 2 dell’art. 37 del
T.U. sulle espropriazioni non si applica a tutte le procedure, ma solo nei
casi in cui sia stato concluso l’accordo di cessione (o quando esso non
sia stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato, ovvero
perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che,
attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via
definitiva), senza contare che ai destinatari del provvedimento di
acquisizione spetta sempre un surplus pari proprio al 10 per cento del valore
venale del bene, a titolo di ristoro del danno non patrimoniale.
Va, ancora, considerato che l’inapplicabilità del comma 1
dell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni (pure non richiamato dalla
norma censurata per i terreni a vocazione edilizia) esclude anche la
riduzione del 25 per cento dell’indennizzo – prevista invece per
le espropriazioni legittime – imposta quando la vicenda è finalizzata
ad attuare interventi di riforma economico-sociale.
Infine, i giudici rimettenti – basandosi sul solo dato letterale e
trascurando una visione di sistema − non hanno sperimentato la
praticabilità di un’interpretazione che, facendo riferimento
genericamente al «valore venale del bene», consenta di ritenere riconducibili
ad esso anche le somme corrispondenti al valore delle colture effettivamente
praticate sul fondo e al valore dei manufatti edilizi legittimamente
realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda
agricola, previsti dall’art. 40 del T.U. sulle espropriazioni.
La stessa obiezione può essere mossa alla censura secondo cui la norma
impugnata non contemplerebbe l’ipotesi di espropriazione parziale e non
consentirebbe, per questo motivo, di tener conto della diminuzione di valore
del fondo residuo, invece indennizzata fin dalla legge 25 giugno 1865, n.
2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità pubblica» (art. 40, ora trasfuso
nell’art. 33 del T.U. sulle espropriazioni).
6.7.– I giudici rimettenti dubitano della compatibilità della norma
censurata con l’art. 42 Cost.
In particolare, ritengono che l’art. 42 Cost. – disciplinando la
potestà espropriativa come avente carattere eccezionale, esercitabile solo
nei casi in cui sia la legge a prevederla e nella necessaria ricorrenza di
«motivi di interesse generale» – imponga che questi ultimi siano
predeterminati dall’amministrazione ed emergano da un apposito procedimento,
anteriormente al sacrificio del diritto di proprietà. L’emersione del
pubblico interesse, culminante nell’adozione della dichiarazione di
pubblica utilità, dovrebbe perciò risultare da una fase preliminare, autonoma
e strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso
stretto, cioè in un momento in cui sia possibile un’effettiva
comparazione tra l’interesse pubblico e l’interesse privato, al
fine di evidenziare la scelta migliore, quando eventuali ipotesi alternative
all’espropriazione non siano ostacolate da una situazione fattuale
ormai irreversibilmente compromessa.
La questione, così posta, non è fondata, nei sensi qui di seguito indicati.
Da una parte, la norma censurata delinea pur sempre una procedura
espropriativa, che in quanto tale non può non presentare alcune
caratteristiche essenziali. Ma non si deve trascurare, dall’altra
parte, che si tratta di una procedura “eccezionale”, che ha
necessariamente da confrontarsi con la situazione fattuale chiamata a risolvere,
in cui la previa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera sarebbe
distonica rispetto ad un’opera pubblica già realizzata. La norma
censurata presuppone evidentemente una già avvenuta modifica
dell’immobile, utilizzato per scopi di pubblica utilità: da questo
punto di vista, non è congrua la pretesa che l’adozione del
provvedimento di acquisizione consegua all’esito di un procedimento
scandito in fasi logicamente e temporalmente distinte, esattamente come nella
procedura espropriativa condotta nelle forme ordinarie.
Si è, invece, in presenza di una procedura espropriativa che, sebbene
necessariamente “semplificata” nelle forme, si presenta
“complessa” negli esiti, prevedendosi l’adozione di un
provvedimento «specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali
ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione,
valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione».
L’adozione del provvedimento acquisitivo presuppone, appunto, una
valutazione comparata degli interessi in conflitto, qualitativamente diversa
da quella tipicamente effettuata nel normale procedimento espropriativo. E
l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione del
provvedimento acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta
correlazione con le eccezionali ragioni di interesse pubblico richiamate
dalla disposizione in esame, da considerare in comparazione con gli interessi
del privato proprietario. Non si tratta, soltanto, di valutare genericamente
una eccessiva difficoltà od onerosità delle alternative a disposizione
dell’amministrazione, secondo un principio già previsto in generale
dall’art. 2058 cod. civ. Per risultare conforme a Costituzione,
l’ampiezza della discrezionalità amministrativa va delimitata alla luce
dell’obbligo giuridico di far venir meno l’occupazione sine
titulo e di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, la quale
ultima non risulta mutata neppure a seguito di trasformazione irreversibile
del fondo. Ne deriva che l’adozione dell’atto acquisitivo è
consentita esclusivamente allorché costituisca l’extrema ratio per la
soddisfazione di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico”, come recita lo stesso art. 42-bis del T.U. delle
espropriazioni. Dunque, solo quando siano stati escluse, all’esito di
una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre
opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita, e
non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del
bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo
diritto di proprietà.
Soltanto sotto questa luce tornano ad essere valorizzati – pur in
assenza di una preventiva dichiarazione di pubblica utilità o in caso di suo
annullamento o perdita di efficacia – i «motivi di interesse generale»
presupposti dall’art. 42 Cost., secondo il quale il diritto di
proprietà può essere compresso «sol quando lo esiga il limite della
“funzione sociale” […]: funzione sociale, la quale esprime,
accanto alla somma dei poteri attribuiti al proprietario nel suo interesse,
il dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, nel che si
sostanzia la nozione stessa del diritto di proprietà come viene modernamente
intesa e come è stata recepita dalla nostra Costituzione» (sentenza n. 108
del 1986).
Soltanto adottando questa prospettiva ermeneutica, l’attribuzione del
potere ablatorio (in questa forma eccezionale) può essere ritenuta legittima,
sulla scia della giurisprudenza costituzionale che impone alla legge
ordinaria di indicare «elementi e criteri idonei a delimitare chiaramente la
discrezionalità dell’Amministrazione» (sentenza n. 38 del 1966).
6.8.− Si lamenta, inoltre, dai giudici rimettenti che l’art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni violerebbe il principio del giusto
procedimento, desumibile dall’art. 97 Cost. Ciò perché il provvedimento
acquisitivo consentirebbe il trasferimento della proprietà in assenza di una
sequenza procedimentale partecipata dal privato. Il principio di legalità
dell’azione amministrativa sarebbe leso anche sotto il profilo della
tutela giurisdizionale effettiva di cui all’art. 113 Cost.
Anche tale questione non è fondata.
Bisogna, innanzitutto, ricordare che il principio del “giusto
procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter
esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati
provvedimenti limitativi dei loro diritti), non può dirsi assistito in
assoluto da garanzia costituzionale (sentenze n. 312, n. 210 e n. 57 del
1995, n. 103 del 1993 e n. 23 del 1978; ordinanza n. 503 del 1987).
Questa constatazione non sminuisce certo la portata che tale principio ha
assunto nel nostro ordinamento, specie dopo l’entrata in vigore della
legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), e
successive modifiche, in base alla quale «il destinatario dell’atto
deve essere informato dell’avvio del procedimento, avere la possibilità
di intervenire a propria difesa, ottenere un provvedimento motivato, adire un
giudice» (sentenza n. 104 del 2007).
Del resto, proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo
affermato che i privati interessati devono essere messi «in condizioni di
esporre le proprie ragioni sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo
di collaborazione nell’interesse pubblico» (sentenza n. 13 del 1962;
sentenze n. 344 del 1990, n. 143 del 1989 e n. 151 del 1986).
Per parte sua, il provvedimento disciplinato dalla norma in esame non
potrebbe, innanzitutto, sottrarsi all’applicazione delle ricordate,
generali, regole di partecipazione del privato al procedimento
amministrativo, come, infatti, è riconosciuto dalla giurisprudenza
amministrativa, che impone la previa comunicazione di avvio del procedimento.
Ma, soprattutto, in virtù della effettiva comparazione degli interessi
contrapposti richiesta dalla norma in questione, il privato sarà
ulteriormente sempre posto in grado di accentuare il proprio ruolo
partecipativo, eventualmente facendo valere l’esistenza delle
«ragionevoli alternative» all’adozione dell’annunciato
provvedimento acquisitivo, prima fra tutte la restituzione del bene.
6.9.– I giudici rimettenti dubitano, ancora, della conformità della
norma impugnata all’art. 117, primo comma, Cost., in quanto la norma
sarebbe in contrasto con i principi della CEDU, secondo
l’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo, sotto due
distinti profili.
In primo luogo, l’art. 42-bis violerebbe la norma interposta di cui
all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, rispetto al
quale il fenomeno delle cosiddette “espropriazioni indirette” si
porrebbe «in radicale contrasto».
In secondo luogo, l’art. 42-bis violerebbe la norma interposta di cui
all’art. 6 CEDU, avendo la
Corte EDU ripetutamente considerato lecita
l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti soltanto in
presenza di «ragioni imperative di interesse generale».
La norma risulterebbe anche in contrasto con l’art. 111, primo e
secondo comma, Cost., nella parte in cui, disponendo la propria applicabilità
ai giudizi in corso, violerebbe i principi del giusto processo, con
particolare riferimento alla condizione di parità delle parti davanti al
giudice.
6.9.1.– Le doglianze possono essere esaminate congiuntamente, per
concludere nel senso della loro infondatezza, nei sensi della motivazione che
segue, per le ragioni già esposte, sia pur in relazione al diverso parametro
di cui all’art. 42 Cost., al precedente punto 6.7.
È vero, infatti, che la norma trova applicazione anche ai fatti anteriori
alla sua entrata in vigore, per i quali siano pendenti processi, ed anche se
vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o
annullato. Ma è anche vero che questa previsione risponde alla stessa
esigenza primaria sottesa all’introduzione del nuovo istituto (così
come del precedente art. 43): quella di eliminare definitivamente il fenomeno
delle “espropriazioni indirette”, che aveva fatto emergere quella
che la Corte EDU
(nella sentenza 6 marzo 2007, Scordino contro Italia) aveva definito una
“défaillance structurelle”, in contrasto con l’art. 1 del
Primo Protocollo allegato alla CEDU.
Né si deve trascurare che con l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni
− come peraltro già accadeva con il precedente art. 43 −
l’acquisto della proprietà da parte della pubblica amministrazione non
è più legato ad un accertamento in sede giudiziale, connotato, come tale, da
margini di imprevedibilità criticamente evidenziati dalla Corte EDU.
Soprattutto, come già rilevato (supra punto 6.5), rispetto al precedente art.
43, l’art. 42-bis contiene significative innovazioni, che rendono il
meccanismo compatibile con la giurisprudenza della Corte EDU in materia di espropriazioni
cosiddette indirette, ed anzi rispondente all’esigenza di trovare una
soluzione definitiva ed equilibrata al fenomeno, attraverso l’adozione
di un provvedimento formale della pubblica amministrazione.
Le differenze rispetto al precedente meccanismo acquisitivo consistono nel
carattere non retroattivo dell’acquisto (ciò che impedisce
l’utilizzo dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia
già disposto la restituzione del bene al privato), nella necessaria
rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse
pubblico a disporre l’acquisizione e, infine, nello stringente obbligo
motivazionale che circonda l’adozione del provvedimento.
Anche alla luce dell’asserita violazione degli artt. 111, primo e
secondo comma, e 117, primo comma, Cost., questo obbligo motivazionale, in
base alla significativa previsione normativa, che richiede «l’assenza
di ragionevoli alternative alla sua adozione», deve essere interpretato, come
già chiarito al punto 6.7., nel senso che l’adozione dell’atto è
consentita – una volta escluse, all’esito di una effettiva
comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni, compresa la
cessione volontaria mediante atto di compravendita – solo quando non
sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene,
previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto
di proprietà.
Solo se così interpretata la norma consente infatti:
− di riconoscere, per le situazioni prodottesi prima della sua entrata in
vigore, l’esistenza di «imperativi motivi di interesse generale»
legittimanti l’applicazione dello ius superveniens in cause già
pendenti. Tali motivi consistono nell’ineludibile esigenza di eliminare
una situazione di deficit strutturale, stigmatizzata dalla Corte EDU;
− di prefigurare, per le situazioni successive alla sua entrata in
vigore, l’applicazione della norma come extrema ratio, escludendo che
essa possa costituire una semplice alternativa ad una procedura espropriativa
condotta «in buona e debita forma», come imposto, ancora una volta, dalla
giurisprudenza della Corte EDU;
− di considerare rispettata la condizione, posta dalla stessa Corte EDU
nella citata sentenza Scordino del 6 marzo 2007, secondo cui lo Stato
italiano avrebbe dovuto «sopprimere gli ostacoli giuridici che impediscono la
restituzione del terreno sistematicamente e per principio»;
− di impedire alla pubblica amministrazione – ancora una volta in
coerenza con le raccomandazioni della Corte EDU − di trarre vantaggio
dalla situazione di fatto da essa stessa determinata;
− di escludere il rischio di arbitrarietà o imprevedibilità delle
decisioni amministrative in danno degli interessati.
Va, infine, valorizzata nella giusta misura la previsione del comma 7
dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni, in base alla quale
«[l]’autorità che emana il provvedimento di acquisizione […] ne
dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti». Questo richiamo
alle possibili conseguenze per i funzionari che, nel corso della vicenda espropriativa,
si siano discostati dalle regole di diligenza previste dall’ordinamento
risponde, infatti, ad un invito della stessa Corte EDU (sempre sentenza 6
marzo 2007, Scordino contro Italia), secondo cui «lo Stato convenuto dovrebbe
scoraggiare le pratiche non conformi alle norme degli espropri in buona e
dovuta forma, adottando misure dissuasive e cercando di individuare le
responsabilità degli autori di tali pratiche».
per questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile, nel presente giudizio di costituzionalità,
l’intervento di D.G.G.;
2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001,
n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), sollevata, in
riferimento agli artt. 42, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma,
della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con le ordinanze
indicate in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento
agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost., dalla Corte di cassazione, sezioni unite
civili, con le ordinanze indicate in epigrafe;
4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento
agli artt. 3, 24, 42, 97, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma,
Cost., dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda,
con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, l’11 marzo 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2015.
|