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CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 5 aprile 2016 n. 67 ammette la cosiddetta perequazione urbanistica SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
17, comma 1, lettera b), del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133
(Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione di opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 11 novembre 2014, n. 164, promosso dalla Regione Puglia con ricorso
notificato il 9-14 gennaio 2015, depositato in cancelleria il 15 gennaio 2015
ed iscritto al n. 5 del registro ricorsi 2015. Visto l’atto
di costituzione del Presidente del Consiglio dei
ministri; udito nell’udienza pubblica del 9
febbraio 2016 il Giudice relatore Paolo Grossi; uditi l’avvocato Marcello Cecchetti per Ritenuto
in fatto 1.–
Con ricorso depositato il 15 gennaio 2015, La
disposizione impugnata – che ha introdotto, dopo l’art. 3 del d.P.R. 6 giugno 2001, n.
380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia – Testo A), un art. 3-bis, secondo cui «Lo strumento
urbanistico individua gli edifici esistenti non più compatibili con gli
indirizzi della pianificazione […]. Nelle more dell’attuazione
del piano, resta salva la facoltà del proprietario di eseguire tutti gli
interventi conservativi, ad eccezione della demolizione e successiva
ricostruzione non giustificata da obiettive ed
improrogabili ragioni di ordine statico od igienico sanitario» –
sarebbe suscettibile, a giudizio della ricorrente, di due interpretazioni,
entrambe censurabili sul piano della legittimità costituzionale. Secondo una
prima opzione, tutti gli interventi conservativi
sugli immobili, «consentiti dalla disciplina in esame sino alla adozione del
Piano, sarebbero dotati automaticamente ex lege
di un titolo abilitativo», con esclusione solo di quelli di demolizione
e successiva ricostruzione. Il che porrebbe la norma in contrasto con
l’art. 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma,
Cost. Quanto al
primo parametro, infatti, la materia rientrerebbe nella nozione di «governo
del territorio», assoggettata alla competenza concorrente di Stato e Regioni;
sicché lo Stato potrebbe intervenire solo con norme che stabiliscano princìpi fondamentali, senza precludere
l’intervento normativo di dettaglio da parte delle Regioni: cosa che
nella specie sarebbe avvenuta, avendo la normativa
censurata introdotto una «disciplina del tutto autoapplicativa
ed autosufficiente». Quanto alla
violazione dell’altro richiamato parametro, la concessione ex lege dei titoli abilitativi priverebbe i Comuni
delle relative funzioni amministrative, quando non vi sarebbe «alcuna
plausibile ragione per ritenere il Comune inadeguato allo svolgimento delle
funzioni amministrative connesse alla regolare formazione dei titoli
abilitativi agli interventi edilizi in questione». Si rileva,
poi, che l’art. 118, secondo comma, Cost., riconosce ai Comuni
l’esercizio di «funzioni proprie», fra le quali sarebbe tipica proprio
quella riconducibile al rilascio dei titoli abilitativi in campo edilizio:
sicché, la sottrazione di queste funzioni pregiudicherebbe, nel caso di
specie, «quel nucleo di intangibile pertinenza
dell’autogoverno della comunità locale» e «afferente alla categoria
delle “funzioni proprie” dei Comuni». Secondo una
diversa linea interpretativa, la disposizione censurata non determinerebbe
un’automatica concessione ex lege di
titoli abilitativi agli interventi conservativi, ma si limiterebbe a renderli
«semplicemente possibili, in base al loro proprio
regime giuridico», fino all’adozione del Piano: regime dal quale
sarebbero esclusi gli interventi non conservativi e le demolizioni con
successiva ricostruzione, non giustificati da esigenze statiche o di natura igienico-sanitaria. In questa
prospettiva, la norma avrebbe l’effetto non già, per l’appunto,
di consentire determinati interventi di tipo conservativo, ma di «vietare,
sempre ex lege, un’altra categoria di interventi (non conservativi, di demolizione e successiva
ricostruzione)». Anche in
questo caso, la norma non si sottrarrebbe a censure di illegittimità
costituzionale, perché avrebbe ugualmente carattere di disposizione di
dettaglio, operando in modo automatico e senza dare alcuno «spazio di
manovra» alla legislazione regionale. Violato sarebbe dunque l’art. 118, primo e secondo
comma, Cost., per ragioni analoghe a quelle già evidenziate: nel vietare,
infatti, determinati interventi edilizi, i Comuni sarebbero
“espropriati”, come già rilevato, di funzioni amministrative
proprie, che riguarderebbero un nucleo intangibile di competenze, in quanto
coinvolgenti il tema della autodeterminazione in ordine all’assetto ed
alla utilizzazione del proprio territorio. Risulterebbe,
infine, violato anche l’art. 3, primo comma,
Cost., in quanto la norma impugnata sarebbe in grado di determinare «un
trattamento uniforme di diverse e variegate realtà regionali e locali, in
spregio alla necessità costituzionale di adeguare il trattamento normativo
delle attività urbanistiche alle diverse condizioni dei vari territori:
esigenza, questa, che proprio l’articolazione delle competenze
normative e amministrative in materia tra molteplici livelli di governo è
volta a salvaguardare». 2.–
Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo
l’infondatezza delle censure svolte dalla Regione ricorrente. La norma
impugnata verterebbe, infatti, in materia di attribuzione allo Stato di
funzioni programmatorie valide per tutto il
territorio nazionale, in linea con quanto previsto dall’art. 118 Cost.,
il quale prevede la possibilità di attribuire a enti di livello di competenza più elevato l’esercizio unitario di
funzioni amministrative. La norma
impugnata prevedrebbe, comunque, interventi riservati agli enti locali,
giacché, attraverso lo strumento urbanistico, «il Comune individua gli
edifici esistenti non più compatibili con gli indirizzi della pianificazione
e può favorire, in alternativa all’espropriazione, la riqualificazione
delle aree» attraverso forme di compensazione. 3.–
In una memoria depositata in prossimità dell’udienza,
l’Avvocatura generale, ribadendo quanto
dedotto nell’atto di costituzione, ha precisato che, con la
disposizione impugnata, «il legislatore statale si è dunque limitato a
predisporre una disciplina di principio», nel pieno rispetto dell’art.
117, terzo comma, Cost.; d’altra parte, la stessa disposizione «non ha
devoluto all’amministrazione centrale il concreto esercizio delle funzioni
amministrative, bensì ha riservato queste ultime ai Comuni», senza perciò
incorrere in alcuna violazione dell’art. 118 Cost. Considerato
in diritto 1.–
Con ricorso depositato il 15 gennaio 2015, Resta
riservata a separate pronunce la decisione sulle ulteriori
questioni promosse con il medesimo ricorso. La
disposizione impugnata – introduttiva dell’art. 3-bis
del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) –, dopo
aver previsto che «Lo strumento urbanistico individua gli edifici esistenti
non più compatibili con gli indirizzi della pianificazione», ha stabilito che
«Nelle more dell’attuazione del piano, resta salva la facoltà del
proprietario di eseguire tutti gli interventi conservativi, ad eccezione
della demolizione e successiva ricostruzione non giustificata da obiettive ed improrogabili ragioni di ordine statico od igienico
sanitario». In tal
modo, la predetta disposizione offrirebbe spazio a
due possibili interpretazioni, entrambe censurabili sul piano della
legittimità costituzionale. Secondo una
prima scelta interpretativa, tutti gli interventi conservativi sugli
immobili, «consentiti dalla disciplina in esame sino alla adozione
del Piano, sarebbero dotati automaticamente ex lege
di un titolo abilitativo», con esclusione solo di quelli di demolizione
e successiva ricostruzione. Secondo una
diversa scelta, la norma impugnata produrrebbe, invece, come effetto «non già
quello di consentire ex lege un
determinato tipo di interventi (quelli
conservativi), bensì quello di vietare, sempre ex lege, un’altra categoria di interventi (non
conservativi, di demolizione e successiva ricostruzione)». In entrambi
i casi, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con l’art.
117, terzo comma, Cost., in quanto, anziché limitarsi a dettare un principio
in materia di legislazione concorrente, quale il «governo del territorio»,
stabilirebbe una «disciplina del tutto autoapplicativa
ed autosufficiente», che non lascerebbe, per il suo
«carattere evidentemente dettagliato», alcuno «spazio di manovra»
all’iniziativa legislativa regionale. Per
entrambe le segnalate soluzioni interpretative, inoltre, si profilerebbe una
violazione dell’art. 118, primo e secondo comma, Cost., dal momento che i Comuni verrebbero
“espropriati” delle funzioni amministrative in tema di titoli
abilitativi in materia edilizia, le quali apparterrebbero «a quel nucleo di
intangibile pertinenza dell’autogoverno della comunità locale
individuato dalla giurisprudenza» costituzionale «e pertanto afferente alla
categoria delle “funzioni proprie” dei Comuni». Violato sarebbe, infine, l’art. 3, primo comma,
Cost., in quanto la norma oggetto di impugnativa sarebbe in grado di
determinare «un trattamento uniforme di diverse e variegate realtà regionali
e locali, in spregio alla necessità costituzionale di adeguare il trattamento
normativo delle attività urbanistiche alle diverse condizioni dei vari
territori: esigenza, questa, che proprio l’articolazione delle
competenze normative e amministrative in materia tra molteplici livelli di
governo è volta a salvaguardare». 2.–
Prescindendo dalla non perspicua enunciazione del dubbio di legittimità costituzionale,
prospettato attraverso una duplice opzione
ermeneutica fondata sopra una irrisolta alternativa nella lettura della
disciplina coinvolta, la questione proposta dalla Regione ricorrente si
rivela priva di fondamento. Come emerge
dai lavori parlamentari relativi alla fase di conversione in legge del
cosiddetto decreto “sblocca Italia”, e come anche messo in luce
dalla difesa dello Stato, la norma impugnata si propone espressamente di
fornire una disciplina unitaria per quelle situazioni in cui lo strumento urbanistico locale identifichi gli edifici, insistenti su una determinata
area, come non più compatibili con le linee programmatiche del Piano; in quel
caso si stabilisce – con una prescrizione evidentemente “di
principio” – che le amministrazioni comunali possano favorire,
quale alternativa, anche economicamente preferibile rispetto
all’espropriazione, «la riqualificazione delle aree attraverso forme di
compensazione incidenti sull’area interessata e senza aumento della
superficie coperta». Si tratta, in buona sostanza, di un
meccanismo riconducibile al sistema della cosiddetta “perequazione
urbanistica”, inteso a combinare, in contesti
procedimentali di “urbanistica contrattata”, il mancato onere per
l’amministrazione comunale, connesso allo svolgersi di procedure ablatorie, con la corrispondente incentivazione al
recupero, eventualmente anche migliorativo, da parte dei proprietari, del
patrimonio immobiliare esistente: il tutto in linea con l’esplicito
intento legislativo di promuovere la ripresa del settore edilizio senza, tra
l’altro, aumentare, e anzi riducendo, il «consumo di suolo». Tale quadro
di riferimento è indubbiamente connesso alla competenza dello Stato a
determinare «principi fondamentali» di
settore (nella specie, perfettamente rispondenti
anche all’esigenza di salvaguardare le attribuzioni legislative
concorrenti delle Regioni e quelle amministrative degli enti territoriali
minori. Resta pertanto inalterata l’attribuzione ai Comuni del compito
di pianificazione urbanistica e di individuazione in
concreto delle aree cui si riferisce l’intervento di risanamento, con
l’adozione degli appositi strumenti di concertazione perequativa e di
assenso alla realizzazione delle opere). Si inserisce
qui la specifica e contestata previsione: secondo la quale, fino alla («nelle
more dell’») attuazione del Piano – e, dunque, in via meramente
transitoria, fintanto, cioè, che le amministrazioni competenti non provvedano
come dovrebbero – ai proprietari degli immobili «resta salva»
(espressione evidentemente ricognitiva di un potere già attribuito e non
attributiva di una nuova facoltà) la possibilità di eseguire «tutti gli
interventi conservativi» che non comportino la demolizione con successiva
ricostruzione, a meno che quest’ultima non sia, poi giustificata «da
obiettive ed improrogabili ragioni di ordine statico od igienico sanitario». Si tratta
di una previsione chiaramente configurabile in termini “di
principio”, coerente con la prospettiva coltivata dalla disposizione
nel suo complesso: la quale, nel proporsi di evitare che, relativamente
alle attività di risanamento urbanistico su tutto il territorio della
Repubblica, possano determinarsi disparità di disciplina che, qua e là,
vanifichino gli scopi perseguiti dallo Stato nell’interesse
dell’intera comunità nazionale, si propone anche di evitare che
l’eventuale inerzia delle amministrazioni locali, relativamente alla
attuazione di «interventi di conservazione» del patrimonio edilizio
esistente, impedisca comunque agli stessi proprietari degli immobili di
esercitare – entro, com’è ovvio, i previsti limiti e, comunque,
nell’osservanza dei diversi obblighi “pubblicistici”
– scelte o facoltà direttamente connesse al proprio diritto dominicale. Riguardo,
poi, all’assunto secondo il quale la norma impugnata, in quanto «del tutto autoapplicativa
ed autosufficiente», finirebbe per diventare anche “di
dettaglio”, in contrasto con la disciplina costituzionale del riparto
delle competenze nelle «materie di legislazione concorrente», esso appare non
plausibile, posto che il presunto carattere “autoapplicativo”
di una disposizione non implica affatto il carattere “di
dettaglio” della medesima. La
circostanza, infatti, che, pur nel sistema della legislazione concorrente,
una disciplina statale “di principio” non abbisogni, per divenire
efficace, di specifiche disposizioni attuative, non può essere considerata
come automaticamente produttiva dell’effetto di
“espropriare” i legislatori regionali del loro autonomo potere di
conformare la regolazione statale alle proprie specifiche esigenze. La
dichiarazione di infondatezza delle censure relative
alla pretesa violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. assorbe i
motivi di dubbio riferiti agli artt. 3, primo comma, e 118, primo e secondo
comma, Cost., trattandosi di deduzioni consequenziali e prive di autonomia. Per
questi motivi riservata a separate pronunce la decisione sulle altre
questioni promosse con il medesimo ricorso; dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettera b), del
decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura
dei cantieri, la realizzazione di opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto
idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n.
164, promossa, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 117, terzo comma, e
118, primo e secondo comma, della Costituzione, dalla Regione Puglia con il
ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 febbraio 2016. F.to: Alessandro CRISCUOLO,
Presidente Paolo GROSSI, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5
aprile 2016.
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