Aggiornamento - Amministrativo |
Cons. Stato, Ad.
Plen. 15 gennaio 2013, n. 2 sul giudizio di ottemperanza 6.1. Il collegio rimettente rappresenta poi alcuni
elementi interpretativi utili alla soluzione della questione prospettata (rectius:
delle questioni prospettate). Innanzitutto evidenzia che nel giudizio di ottemperanza
può essere dedotta sia l’inerzia della p.a. (ossia il non facere)
sia il comportamento (id est: facere) che realizzi
un’ottemperanza parziale o una vera e propria violazione/elusione del
giudicato. Infatti, anche un’attuazione parziale o inesatta o elusiva
deve essere annoverata nella nozione di inottemperanza, al pari
dell’inerzia (cfr. C.d.S., VI, 12 dicembre 2011 n. 6501). Ciò,
oltretutto, appare ormai recepito nel Codice del processo amministrativo
(art. 112, comma 2; 114, comma 4, lett. b), e comma 6). Tale assunto, evidenzia il collegio rimettente, appare in
linea con i principi di effettività della tutela giurisdizionale e di
ragionevole durata del processo, nel cui ambito va iscritto il diritto di
ottenere l’esecuzione della sentenza favorevole, oltre che in tempi
rapidi, senza la necessità di dover attivare un ulteriore giudizio di
cognizione. Al riguardo viene ricordato l’insegnamento della
Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto al processo
(di cui all’art. 6, § 1, della relativa Convenzione) comprende anche il
diritto all’esecuzione del giudicato (“diritto
all’esecuzione delle decisioni di giustizia”). Il diritto al
giusto processo, infatti, sarebbe illusorio ove non vi fossero strumenti
utili per dare esecuzione al giudicato, esecuzione che non può essere
indebitamente ritardata. Ciò premesso, il collegio rimettente si chiede se la
scelta della sede cui fare ricorso per la verifica della corretta esecuzione
del giudicato possa essere rimessa alla scelta della parte vittoriosa in sede
di giudicato, ossia alla qualifica che questi attribuisce all’azione
della p.a. successiva al giudicato (violazione/elusione del giudicato o autonoma
violazione) o se occorra dare prevalenza all’esigenza di frustrare i
comportamenti formalmente rinnovatori, ma in realtà meramente reiterativi
della precedente determinazione in relazione alla quale si è formato il
giudicato. Comunque sia, rileva il collegio rimettente che occorre
previamente individuare l’esatta portata oggettiva del giudicato,
tenuto conto che l’efficacia del medesimo va ricondotta al principio
generale secondo cui la pronuncia giurisdizionale è aderente ai limiti oggettivi
e soggettivi della controversia, da identificare nella correlazione tra petitum
e causa petendi in rapporto alla dedotta lesione dell’interesse
vantato e, dunque, in relazione, ai vizi dedotti. A tale riguardo viene
richiamato il parametro concettuale delle azioni costitutive del processo
civile e viene rammentato che l’individuazione concreta del perimetro
del giudicato è rimessa all’applicazione di un elastico criterio
integrativo di origine giurisprudenziale, costituente ormai diritto vivente:
trattasi del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il
deducibile, ma nei limiti delle statuizioni indispensabili per giungere alla
decisione. Tale assunto, nella peculiarità della judicial review
dell’esercizio della funzione pubblica, si sostanzia nei seguenti
corollari: a) il giudicato copre il dedotto e il deducibile, ossia
non solo le questioni (di fatto e di diritto) fatte valere in via di azione o
di eccezione e comunque esplicitamente investite dalla decisione, ma anche le
questioni che, seppure non dedotte, costituiscono un presupposto logico
indefettibile della decisione; il giudicato, quindi, preclude la proposizione
di domande contemplate dalla intervenuta risposta giurisdizionale, ma non la
prospettazione di domande completamente nuove, che anzi assumano il giudicato
quale presupposto logico; b) la peculiarità del giudizio amministrativo, peraltro,
impedisce la piena espansione del principio di cui al capo a), poiché il
giudicato amministrativo non può che formarsi con esclusivo riferimento ai
vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi dedotti
nel ricorso; c) la sede per sindacare la legittimità dell’atto in
sede di riedizione del potere amministrativo sotto profili che non abbiano
formato oggetto delle statuizioni della sentenza (e che non integrano
l’ambito della deducibilità) non può, pertanto, che essere il giudizio
ordinario di cognizione e non il giudizio di ottemperanza; d) la domanda risarcitoria sulla quale il giudice non si
sia pronunciato dovrà, quindi, essere proposta in autonomo giudizio di
cognizione; e) gli effetti del giudicato di rigetto si estendono anche
a tutte le questioni inerenti l’esistenza e la validità del rapporto
dedotto in giudizio che siano state vagliate, anche implicitamente, nella
sentenza. 6.2. Quanto alla natura del giudicato amministrativo,
evidenzia il collegio rimettente che esso ha un contenuto complesso, non
limitato agli effetti demolitori e ripristinatori della situazione quo
ante, ma ricomprendente anche effetti conformativi rivolti al futuro, che
si traducono in vincoli imposti alla p.a. in sede di riedizione del potere
amministrativo successivamente al decisum giurisdizionale. Tale assetto ricostruttivo va poi coniugato con i principi
di effettività della tutela giurisdizionale, nonché con i principi di
celerità della risposta giurisdizionale e di lealtà processuale (che a loro
volta sono espressione del più generale principio di buona fede): ciò
comporta che occorre interpretare il giudicato secondo un complessivo canone
di buona fede al fine di consentire l’espansione del principio di
effettività della tutela giurisdizionale. 6.3. Afferma in particolare il collegio rimettente che il
cpa. sembra mostrare un favor per la concentrazione nell’alveo
del giudizio di ottemperanza di tutte le questioni che sorgono dopo un
giudicato e che siano afferenti alla sua esecuzione. Peraltro, e qui sta il cuore della rimessione
all’adunanza plenaria, tale favor non pare che possa spingersi
fino al punto di poter affermare che qualsiasi provvedimento adottato dopo un
giudicato, e in conseguenza di esso, e che non sia satisfattivo della pretesa
del ricorrente vittorioso, debba essere portato davanti al solo giudice
dell’ottemperanza. Infatti, ove il nuovo atto successivo al giudicato
non sia elusivo o in violazione del giudicato, ma autonomamente lesivo,
poiché va a coprire spazi lasciati vuoti dal giudicato, l’azione
corretta, afferma il collegio rimettente, è quella del ricorso ordinario di
cognizione (cfr, in questo senso, anche la prima giurisprudenza formatasi
dopo l’entrata in vigore del cpa: C.d.S., VI, 15 novembre 2010 n.
8053). Il discrimen tra violazione/elusione del giudicato
e nuova autonoma violazione può essere compiuto con esemplificazione
casistica per categorie generali relative ai tipi di vizi dell’azione
amministrativa su cui incide il giudicato. In sostanza, si tratta di
stabilire quali sono i limiti che derivano dal giudicato al rinnovo
dell’azione amministrativa e quali sono, invece, gli spazi bianchi
lasciati ad un’autonoma e nuova valutazione. In attuazione di tale ricostruzione consegue che, ove il
giudicato comporti l’annullamento del provvedimento solo per vizi
formali, è indubbio che residui spazio pieno per il rinnovo della valutazione
dell’amministrazione: in questa ipotesi, ove la p.a. elimini i vizi
formali, ma ciononostante adotti un provvedimento non satisfattivo della
pretesa, è pacifico che si determini non una violazione/elusione del
giudicato, ma una eventuale nuova autonoma illegittimità. Ad analoghe conclusioni, afferma sempre il collegio
rimettente, si deve pervenire ove il giudicato si formi in relazione al
silenzio-inadempimento e si limiti ad affermare l’obbligo di
provvedere: anche in questo caso il provvedimento espresso successivo al
giudicato potrà essere eventualmente impugnato per vizi autonomi, da dedurre
in sede di ricorso ordinario di cognizione. Evidenzia in proposito il collegio rimettente che una
parte della giurisprudenza afferma che, dopo la formazione del giudicato, la
p.a. possa individuare ulteriori elementi sfavorevoli alla pretesa del
ricorrente vittorioso, ma lo possa fare una volta sola; aggiunge, peraltro,
che tale tesi, se può essere condivisa a fronte di un potere discrezionale,
non sembra invece condivisibile nel caso di reiterazione di un’attività
vincolata o nel caso di attività caratterizzata da cosiddetta discrezionalità
tecnica. In questi casi, infatti, la p.a. (al di fuori dell’autotutela
o dell’enucleazione di cause ostative legali) non può utilizzare in
danno del vincitore elementi del tutto incontroversi e mai messi in
discussione. Alla luce di ciò, conclude il collegio rimettente, si
dovrebbe ritenere che, nel caso di giudicato di annullamento su vizi
sostanziali, la riedizione del potere, con commissione di eventuali nuovi
vizi, dia luogo a violazione/elusione del giudicato ogniqualvolta i nuovi
vizi derivino da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non
indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione. 7. All’odierna udienza, sentiti i difensori di cui
al verbale, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO .1. Vengono poste all’esame dell’adunanza
plenaria rilevanti questioni che attengono, in primo luogo,
all’esigenza di conferire adeguata effettività alle sentenze del
giudice amministrativo e, al contempo, alla necessità, da un lato, di
contenere in tempi ragionevoli la risposta giurisdizionale e,
dall’altro, di evitare inutili duplicazioni di accesso alla tutela
giurisdizionale stessa. Quanto a quest’ultimo profilo, il caso di specie
appare emblematico nell’evidenziare le difficoltà per gli interessati
di individuare un chiaro percorso al riguardo. Il ricorrente, vincitore in
sede cognitoria, ha difatti attivato due ricorsi, uno in sede di ottemperanza
(dichiarato inammissibile dal giudice di primo grado) ed uno in sede di
cognizione (accolto per un motivo formale) e tale modus operandi è di
frequente utilizzo in presenza di un giudicato, a dimostrazione delle
incertezze tuttora esistenti sulle tecniche di tutela in materia. Sul piano sostanziale, poi, il problema portato
all’attenzione di questo consesso risiede nella individuazione di un
equilibrato assetto tra giudicato e riedizione del potere amministrativo,
assetto che peraltro non può che essere delineato sul piano dei principi,
poiché il concreto atteggiarsi del singolo giudicato nei confronti del
sopravvenuto esercizio della funzione amministrativa non può che essere
rimesso all’analisi della vicenda specifica (cfr., C.d.S., A.P., 22
dicembre 1982 n. 19). 2. Il caso oggetto dei presenti giudizi, l’uno di ottemperanza
e l’altro di cognizione e portati unitariamente all’esame
dell’adunanza plenaria, postula necessariamente, anche al fine
preliminare di verificare la correttezza della riunione, che sia delineata
l’attuale configurazione del giudizio di ottemperanza, quale essa
risulta, non solo dalle acquisizioni giurisprudenziali, ma anche e
soprattutto alla luce del codice del processo amministrativo. Ebbene, ciò che risulta evidente dall’esame della
disciplina codicistica è che il giudizio di ottemperanza (cui sono state già
dedicate le sentenze nn. 2, 18 e 24 del 2012 dell’adunanza plenaria)
presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse,
talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata;
altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei
confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di
cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela
giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice
competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di
giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura
costituzionale). Più precisamente, la disciplina dell’ottemperanza,
lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle
sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili
affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè in
ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga
ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale
può essere rivolta ad ottenere: a) “l’attuazione” delle sentenze
o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di
altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte
dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24
giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei
provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i
quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza” (art. 112,
comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della
previsione normativa impedisce – come è noto - di ricondurre la natura
dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione; b) la condanna “al pagamento di somme a titolo di
rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della
sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è
evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme
ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno
natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in ordine alle
quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento
equiparato); c) il “risarcimento dei danni connessi
all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma
specifica, totale o parziale, del giudicato. .” (art. 112, comma
3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo
stesso Codice, non è rivolta all’ “attuazione” di
una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi
solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova,
esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata,
e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di
economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a
prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice
dell’ottemperanza; d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati
in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine
di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento
dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in
giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta
violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni
questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del
giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento
nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta
verificatone l’effetto causativo di danno. Come è dato osservare, dunque, nell’ambito del
giudizio di ottemperanza, il Codice disciplina azioni diverse (al di là della
mera – e tradizionale – distinzione inerente la riconducibilità
dell’ “attuazione” richiesta ad una “esecuzione”
della sentenza (o provvedimento equiparato), ovvero a più ampi ambiti di
conformazione della successiva azione amministrativa, in dipendenza del
giudicato medesimo. A tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112,
comma 5, proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle
modalità dell’ottemperanza”: anche questo non presenta
caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero
delle azioni di ottemperanza. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia
usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’
“azione di ottemperanza” ad essere utilizzabile in questi
casi - afferma che è “il ricorso” introduttivo del
giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali
fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a
differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita
dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a
questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte
soccombente (e segnatamente dalla Pubblica Amministrazione soccombente nel
precedente giudizio). In conclusione, l’esame della disciplina processuale
dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai quali occorre
doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la
attuale polisemicità del “giudizio” e dell’ “azione
di ottemperanza”, dato che, sotto tale unica definizione, si
raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara
natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato
dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in
giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare
concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art.
24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato
per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato
come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa
successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono
o che in esso trovano il proprio presupposto. 3. E’ in questo quadro normativo che occorre,
dunque, procedere preliminarmente all’esame dell’ammissibilità
della riunione dei due appelli in esame, operata dal collegio remittente. Ebbene, ritiene questa adunanza plenaria che tale riunione
sia possibile, tenuto conto dell’esigenza di simultaneus processus
che caratterizza il tipo di doglianze prospettate dai ricorrenti. E’ noto che, in via generale, la riunione dei
ricorsi, per ragioni di connessione (art. 70 cpa), può essere disposta in
riferimento a cause che attengono al medesimo tipo di giudizio e sempre che i
ricorsi pendano nel medesimo “grado”. Tanto si ricava, sempre
in via generale, oltre che dalla lettura delle disposizioni del codice di
procedura civile (cui il codice del processo amministrativo effettua rinvio:
art. 39, comma 1, cpa), anche dalle norme dello stesso Codice del processo
amministrativo. Infatti, l’art. 32, nel disciplinare l’ipotesi di
“pluralità delle domande e conversione delle azioni”,
prevede che “è sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di
domande connesse”. Nondimeno, l’adunanza ritiene che i due giudizi in
questione, pur nella evidente differenza di tipologia, debbano essere
trattati in modo unitario. Ed infatti, proprio perché ciò che viene richiesto al
giudice, sia pure per il tramite dell’instaurazione di due distinti
giudizi, è innanzi tutto la concreta e precisa configurazione della patologia
dell’atto adottato (precisamente: se esso debba essere considerato
nullo, in quanto elusivo o violativo di giudicato, ovvero illegittimo per
vizi propri e per la prima volta rilevabili), il giudice stesso non può che
essere chiamato ad un esame complessivo della vicenda. L’instaurazione di due distinti giudizi – che
è conseguenza di una incertezza derivante dallo stesso ordinamento
processuale – non elimina la sostanziale unicità di una domanda che
presuppone implicitamente la richiesta al giudice, insieme all’esame
della natura della patologia dell’atto, la corretta qualificazione
della tipologia dell’azione. Il che, come è evidente, non può che
avvenire se non attraverso un esame congiunto e comparativo delle due domande,
ancorchè le stesse introducano – per effetto del sistema processuale
vigente – due giudizi tipologicamente distinti, l’uno di
cognizione l’altro di ottemperanza. Fermi, dunque, i principi generali in tema di riunione
sopra individuati, in questo caso - provvisto di una sua evidente specificità
- la riunione dei ricorsi appare coerente con il principio di effettività
(completezza) della tutela giurisdizionale, rendendo possibile la valutazione
complessiva del giudice di una pretesa di parte sostanzialmente unitaria. In attuazione di quanto esposto, occorre quindi ritenere
corretto che nel caso di specie si sia proceduto alla riunione dei due
appelli originati, rispettivamente, dal giudizio di ottemperanza e dal
giudizio di cognizione. 4. Quanto ora affermato sulla correttezza della riunione
dei due appelli sollecita a questa adunanza plenaria una ulteriore
riflessione. Ed infatti, le medesime ragioni – che il Collegio ha
qui evidenziato per così dire ex post, a giustificazione della
riunione disposta dal giudice remittente – rendono possibile, sia pure
nei termini e limiti di seguito esposti, sostenere l’ammissibilità di
un solo ricorso, in luogo dei due che la parte è spesso, per ovvie ragioni di
“cautela processuale”, necessitata ad esperire avverso i
provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al giudicato
di annullamento di proprio precedente provvedimento. In via generale può ammettersi che, al fine di consentire
l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte
dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad
un giudicato, le doglianze relative vengano dedotte davanti al giudice
dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale
dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice
competente per l’esame della forma di più grave patologia
dell’atto, quale è la nullità. Naturalmente questi in presenza di una tale opzione
processuale è chiamato in primo luogo a qualificare le domande prospettate,
distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle
che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa
che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al
rito ed ai poteri decisori. Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga
che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca
violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a
tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta
carenza di interesse della seconda domanda. Viceversa, in caso
di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione
dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice
competente per la cognizione. Ciò appare
consentito dall’art. 32, co. 2, primo periodo, cpa, in base al quale
“il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi
elementi sostanziali”, e la conversione dell’azione è ben
possibile – ai sensi del secondo periodo del medesimo comma –
“sussistendone i presupposti”. Ciò peraltro
presuppone che tale azione sia proposta non già entro il termine proprio
dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia
l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di decadenza previsto
dall’art. 41 cpa: il rispetto del termine decadenziale per la corretta
instaurazione del contraddittorio è reso necessario, oltre che dalla
disciplina del giudizio impugnatorio, anche dall’espresso richiamo alla
necessità di sussistenza dei “presupposti” (tra i quali
occorre certamente comprendere il rispetto del termine decadenziale),
effettuato dall’art. 32, co. 2, cpa. Giova osservare,
infine, che la conversione dell’azione può essere disposta dal giudice
dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per
effetto degli articoli 21 septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, co.
4, lett. b), cpa, è competente, in relazione ai provvedimenti emanati
dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività
amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato, per
l’accertamento della nullità di detti atti per violazione o elusione
del giudicato, e dunque – come si è già evidenziato - della più grave
delle patologie delle quali gli atti suddetti possono essere affetti. 5. Ciò premesso e venendo al caso in esame, è ben noto
come sia jus receptum l’assunto che il giudicato amministrativo
si presenti in modo poliforme, a seconda delle situazioni giuridiche
coinvolte e delle censure dedotte. Infatti, il ricorrente può far valere mere censure formali
nei confronti dell’azione amministrativa, ovvero vizi più pregnanti,
che afferiscono alla sussistenza dei presupposti per ottenere il bene della
vita; la sua domanda poi, può tendere ad opporsi ad un’azione della
p.a, (in questo caso di frequente vengono prospettate censure formali, che
comunque consentono di sterilizzare l’iniziativa della p.a.) , ovvero
può prospettare una pretesa (e in questo caso contemplerà usualmente censure
di carattere sostanziale, tendenti a dimostrare la fondatezza della pretesa
stessa). E dunque è altrettanto pacifico che la sentenza del
giudice amministrativo si atteggia in modo differente a seconda che abbia ad
oggetto una situazione oppositiva o una vera e propria pretesa nonchè a
seconda del vizio accolto. E’ in questo quadro variegato che va posta e risolta
la questione dell’annoverabilità nell’ambito del giudicato non solo
del “dedotto” (ossia di ciò che espressamente è stato
oggetto di contestazione ed esame), ma anche del “deducibile”
(id est: ciò che, pur non espressamente trattato, si pone come
presupposto/corollario indefettibile del thema decidendum). Va premesso peraltro che la questione si può porre solo
nei riguardi dell’attività oggetto di esame giudiziale, in quanto tale
anteriore a quest’ultimo: infatti, l’esigenza di certezza,
propria del giudicato, ossia di un assetto consolidato degli interessi
coinvolti, non può proiettare l’effetto vincolante nei riguardi di
tutte le situazioni sopravvenute di riedizione di un potere, ove questo, pur
prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove e non
contemplate in precedenza. La questione si pone invece ove la riedizione del potere
(come nel caso in esame) si concreti nel valutare differentemente, in base ad
una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente,
siano state oggetto di esame da parte del giudice. In tal caso l’adunanza plenaria ritiene che non può
escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti
all’esame del giudice. E’ ben consapevole l’adunanza delle tesi da
tempo avanzate che, facendo leva sul principio di effettività della giustizia
amministrativa, prospettano la necessità di pervenire all’affermazione
del divieto di ogni riedizione del potere a seguito di un giudicato
sfavorevole, ma non ritiene di poter aderire a tale indirizzo che appare
contrastante con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità
dell’amministrazione e non imposto dalle pur rilevanti pronunce della
Corte europea dei diritti dell’uomo, come attestato dalla disciplina
della materia in Paesi dell’Unione europea a noi più vicini (si pensi
alla Francia ed alla Germania) nei confronti dei quali possiamo vantare un
sistema di esecuzione del giudicato amministrativo –
l’ottemperanza appunto – sicuramente più avanzato. Ma va subito aggiunto che la riedizione del potere deve essere
assoggettata a precisi limiti e vincoli. 5.1. Anzitutto, poiché il cpa abilita all’utilizzo
di mezzi di accertamento relativi alla esistenza dei presupposti della
pretesa e non alle mere modalità di esercizio dell’azione
amministrativa, consegue che sempre di più l’azione davanti al giudice
amministrativo sia qualificabile come avente ad oggetto direttamente il
fatto, senza doversi limitare all’esame tramite il prisma
dell’atto (cfr., in questo senso, C.d.S., adunanza plenaria, 23 marzo
2011, n. 3). In questo modo, oltretutto, si recupera un lontano indirizzo
giurisprudenziale, poi abbandonato in ossequio al modello giuridico
idealistico che per lunghi anni ha prevalso nel nostro ordinamento, secondo
il quale si riteneva possibile un immediato e diretto accesso al fatto nei
casi in cui la pretesa al bene della vita non dovesse essere filtrata da una
valutazione discrezionale, rimessa alla esclusiva competenza della p.a.: cfr.
C.d.S., IV, 13 giugno 1902, De Paulis contro Provincia di Aquila, con nota adesiva
della migliore dottrina dell’epoca). Da ciò discende che l’accertamento definitivo del
giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla
pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti
dell’azione amministrativa (di recente C.d.S., VI, 19 giugno 2012, n. 5.2. Ma anche là dove non siano i fatti ad essere messi in
discussione bensì la loro valutazione (come nel caso in esame, in cui i dati
sull’attività didattica erano incontestati ed è cambiata invece la loro
valutazione), non va dimenticato che alla stregua del principio ribadito
anche dall’art. 112, comma primo, del codice, su tutte le parti incombe
l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice; e ciò vale
specialmente per la pubblica amministrazione, in un’ottica di leale ed
imparziale esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi
costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia
del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante complemento della
tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale). Tale richiamo non deve apparire come un formale appello a
principi inveterati ma di scarsa rilevanza effettuale, poiché
l’esigenza di dare esecuzione secondo buona fede alla decisione
giurisdizionale amministrativa è alla base di qualsiasi ricostruzione
interpretativa della materia: la pubblica amministrazione, infatti, ha
l’obbligo di soddisfare la pretesa del ricorrente vittorioso e di non
frustrare la sua legittima aspettativa con comportamenti elusivi. Ed invero, occorre che la p.a. attivi una leale
cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale
anche e soprattutto alla luce del fatto che nell’attuale contesto
ordinamentale la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un
assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa. E se
è vero che la sua soddisfazione non può prescindere dall’ottimale
assetto di tutti gli interessi coinvolti ivi compresi quelli pubblici, è
anche vero che ciò non può e non deve costituire un alibi per sottrarsi al
doveroso rispetto del giudicato. Consegue da tutto ciò che la nuova operazione valutativa
deve dimostrarsi il frutto della costatazione di una palese e grave erroneità
del giudizio precedente e non sia, invece, l’espressione di una
gestione – a dir poco – ondivaga e contraddittoria del potere e
in quanto tale contrastante, nella prospettiva pubblicistica, con il
principio costituzionale del buon andamento e, in quella privatistica, con i
principi di correttezza e buona fede. Ed è inutile dire che la relativa argomentazione deve
essere tanto più esplicita e pregnante nel caso in cui il riesame sia
effettuato dagli stessi soggetti del primo giudizio. 6. Occorre ora fare applicazione dei principi testé
enunciati al caso di specie: il prof. Loperfido, ricorrente vittorioso in
sede cognitoria (C.d.S., VI, 11 marzo 2008 n. 1039), ha proposto azione di
ottemperanza con cui ha dedotto la nullità degli atti in cui si è
sostanziato, con la rinnovata valutazione dei candidati, il riesercizio della
funzione amministrativa. Egli, infatti, ha denunciato la violazione, elusione del
giudicato formatosi, ritenendo che la commissione esaminatrice abbia in
sostanza disatteso la statuizione del giudice amministrativo, avendo operato
la nuova valutazione sulla base di criteri completamente diversi da quelli
che erano stati utilizzati in precedenza nella procedura valutativa in esame. In concreto, il ricorrente vittorioso ha quindi dedotto
che la mancata soddisfazione della propria pretesa fosse imputabile proprio
ad una non corretta applicazione del decisum giurisdizionale ed, anzi,
ad un vero e proprio stravolgimento della stessa, attuato mediante
l’utilizzo di nuovi criteri esulanti dall’alveo procedimentale
portato all’esame del giudice. Ciò in evidente violazione, altresì, del
principio di buona fede, avendo in pratica la p.a. frustrato la pretesa del
ricorrente mediante l’utilizzo di un corredo motivazionale nuovo, che
tendeva a confermare il precedente risultato mediante l’utilizzo di un
percorso logico differente da quello in precedenza utilizzato. Ebbene, tale situazione, in base a quanto sopra affermato,
appare sicuramente annoverabile nell’ambito delle controversie devolute
alla cognizione del giudice dell’ottemperanza, poiché evidente è il
fatto che la pretesa illegittimità dell’azione amministrativa trova
fondamento e parametro di valutazione proprio nella mancata coerenza con la
decisione giurisdizionale. In altre parole, l’azione amministrativa
successiva alla decisione viene prospettata come disallineata rispetto al
contenuto del giudicato formatosi nel caso di specie e ciò, ovviamente, non
in base alla mera qualificazione fornita dal ricorrente, ma sulla scorta
dell’analisi intrinseca della natura dei vizi dedotti. La domanda proposta dal ricorrente in sede di ottemperanza
mirava dunque ad evidenziare che l’accertamento giurisdizionale aveva
avuto ad oggetto determinati presupposti della pretesa sostanziale dedotta in
sede cognitoria, in relazione ai quali si doveva ritenere esteso
l’effetto del giudicato, con conseguente esistenza in proposito di un
vero e proprio vincolo per la riedizione dell’azione amministrativa. E
tale vincolo sarebbe stato infranto dalla susseguente attività amministrativa
della commissione esaminatrice, che avrebbe in pratica eluso il decisum
mediante un artificio logico consistente nell’adozione di un differente
percorso logico motivazionale. Il ricorso per ottemperanza proposto dal prof. Loperfido,
pertanto, non avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile ed ha quindi
errato il giudice di primo grado nel qualificarlo come tale. 7. Diversa questione, invece, è quella della fondatezza o
meno del ricorso medesimo, alla luce dei principi fin qui enunciati, ai quali
deve attenersi l’azione dell’amministrazione in sede di
riedizione del potere dopo la pronuncia del giudice. Questa valutazione viene peraltro rimessa all’esame
della Sezione, ai sensi dell’art. 99, comma 4, cpa. 8. Quanto al secondo giudizio relativo agli appelli
proposti dal prof. Favale e dall’Università di Bari avverso la sentenza
del giudice di primo grado, emessa in sede di giudizio di cognizione, che ha
invece accolto (per un motivo formale) il ricorso pure proposto dal prof.
Loperfido, esso va rimesso alla sezione per le valutazioni sia di ordine
pregiudiziale, si è visto infatti che la permanenza dell’interesse
dipende dalla decisione dell’altra domanda, che di merito. La decisione in ordine alle spese viene rinviata alla
decisione finale P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza
plenaria), non definitivamente pronunciando sugli appelli in epigrafe,
riuniti, così provvede: 1. accoglie l’appello proposto da Francesco
Loperfido (n. 18/2012 A.P.) e, per l’effetto, in riforma della sentenza
impugnata, dichiara ammissibile il ricorso per ottemperanza proposto dal
ricorrente; 2. restituisce per il resto il giudizio alla Sezione
remittente. Spese al definitivo. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità
amministrativa. Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni
18 giugno 2012 e 19 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Coraggio, Presidente
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