Consiglio di Stato, sez. VI, 02/02/2018,
n. 677 sulla giurisdizione G.A. in presenza di atti di macro organizzazione
(rimessione alla Ad Plen.)
§ 11.
Preliminarmente, il Ministero ha chiesto che il giudizio sia sospeso ai
sensi dell'art. 295 del codice di procedura civile, poiché - in relazione ad un altro giudizio,
proposto avverso gli atti che hanno condotto alla nomina di un altro
direttore di un museo, in applicazione dell'art. 14 del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito nella l. 29 luglio 2014, n. 104
- è stato proposto un regolamento preventivo di giurisdizione, all'esame
delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
§ 12. Ritiene il
Collegio che tale istanza vada respinta.
Per l'art. 295 del codice di procedura civile, richiamato dall'art. 39 del codice del processo amministrativo, "Il giudice dispone che il processo sia
sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una
controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa".
Tale disposizione,
poiché comporta il differimento della decisione della controversia con
incidenza sul principio della ragionevole durata del processo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 17 febbraio 2016, n. 640), va interpretata nel senso che la
"sospensione necessaria" va disposta nei soli casi di
pregiudizialità in senso tecnico, ovvero quando in un altro giudizio,
pendente tra le stesse parti, possa essere emanata una pronuncia avente
efficacia di giudicato nella causa pregiudicata o comunque un'efficacia
vincolante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 1° settembre 2016, n. 3783; v. anche Cass. civ., Sez. VI, 11 agosto 2017, n. 20072, che ha espressamente escluso la sospensione
necessaria qualora vi siano giudizi pendenti fra parti diverse, nonché Cass.
civ., Sez. Un., 12
maggio 2004, n. 9490).
§ 13. Si deve
pertanto passare all'esame del primo motivo dell'appello principale, con
cui il Ministero ha dedotto che non sussisterebbe la giurisdizione del
giudice amministrativo a conoscere della controversia.
§ 13.1. Ritiene il
Collegio che tale censura sia infondata e vada respinta.
Il TAR ha ritenuto
sussistente la propria giurisdizione ai sensi dell'art. 63, comma 4, prima
parte, del decreto legislativo n. 165 del 2001, per il quale "restano devolute alla
giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di
procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni".
§ 13.2.
L'Amministrazione appellante sostiene che la selezione indetta con il bando
del 7 gennaio
2015 non sarebbe qualificabile come una "procedura
concorsuale", in quanto avrebbe una natura diversa: si tratterebbe
infatti di una cd 'procedura idoneativa', assimilabile a quelle previste
dall'art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 502,
per la nomina degli incarichi di direzione di struttura complessa nel
Servizio sanitario nazionale, procedure sulle quali la consolidata
giurisprudenza ravvisa la giurisdizione ordinaria.
In proposito,
l'amministrazione, con la memoria del 25 settembre 2017, ha richiamato
anche la sentenza 30 giugno 2017, n. 3221, di questa Sezione.
Quanto a quest'ultima
sentenza, osserva il Collegio che essa si è occupata di questioni non
assimilabili a quelle ora controverse tra le parti.
Essa ha affermato la
sussistenza della giurisdizione del giudice civile in relazione
all'impugnazione di atti riguardanti una procedura di nomina del direttore
di un istituto di ricerca, la quale è stata connotata dal legislatore come
"procedura idoneativa", che si svolge in modo del tutto simile a
quelle di cui al citato decreto legislativo n. 502 del 1992 sulle nomine degli incarichi di direzione di
struttura complessa del Servizio sanitario nazionale.
§ 14. Osserva il
Collegio che l'Amministrazione appellante - nel formulare il proprio motivo
sull'assenza della giurisdizione amministrativa - ha unicamente contestato
l'interpretazione data dal TAR al comma 4 (sopra riportato) dell'art. 63 del decreto legislativo n. 165 del 2001, ma non ha anche richiamato il comma 1 del
medesimo art. 63, nella parte in cui esso dispone che "sono devolute
al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le
controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2,... incluse le controversie
concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli
incarichi dirigenziali".
§ 15. Ciò posto,
effettivamente, come ha dedotto il Ministero, vi è l'orientamento
giurisprudenziale per il quale le controversie riguardanti la procedura
prevista dal decreto legislativo n. 502 del 1992 sono attribuite alla giurisdizione del
giudice civile, perché essa si concreterebbe non in prove concorsuali, ma
in una "procedura idoneativa", la quale si limiterebbe a
verificare la sussistenza dei requisiti ed a predisporre un elenco di
soggetti per definizione 'tutti idonei' ed in possesso dei requisiti di
professionalità previsti dalla legge e delle capacità di gestione
richieste, entro il quale il direttore generale compierebbe una scelta di
carattere essenzialmente fiduciario, affidata alla sua 'responsabilità
manageriale' (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 19 luglio 2011, n. 15764; Sez. Un., 28 novembre 2005, n. 25042).
§ 16. Il Collegio
ritiene che le deduzioni dell'Amministrazione appellante non siano
accoglibili e che non sussista nel caso di specie la giurisdizione del
giudice civile, per le seguenti ragioni:
a) in primo luogo, la
procedura prevista dall'art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo n. 502
del 1992 non è
assimilabile a quella prevista dall'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 (v, il seguente § 17), sicché non rileva
esaminare quali siano i rimedi giurisdizionali avverso gli atti emessi in
applicazione dell'art. 15, comma 7 bis;
b) in secondo luogo,
non emergono disposizioni derogatorie al principio generale sancito dall'art. 7 del codice del processo amministrativo, per il quale il giudice amministrativo è il
giudice naturale quando siano impugnati atti con cui è esercitato un potere
pubblico, come inteso dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, ed in particolare quando siano impugnati atti formalmente
e sostanzialmente amministrativi, emanati del potere esecutivo (v. il
seguente § 18).
§ 17. Quanto ai
rapporti tra la procedura prevista dall'art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo n. 502
del 1992 e quella
prevista dall'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014, vi sono significative differenze,
conseguenti anche al fatto che il medesimo art. 14, comma 2 bis, riguarda
la dirigenza statale (le cui funzioni e il cui status sono stati parzialmente
disciplinati da norme regolamentari, ritualmente impugnate con il ricorso
di primo grado).
§ 17.1. La procedura
disciplinata dall'art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo n. 502
del 1992, si articola
nelle seguenti fasi:
- una commissione -
"composta dal direttore sanitario dell'azienda interessata e da tre
direttori di struttura complessa nella medesima disciplina dell'incarico da
conferire, individuati tramite sorteggio da un elenco nazionale nominativo
costituito dall'insieme degli elenchi regionali dei direttori di struttura
complessa appartenenti ai ruoli regionali del Servizio sanitario
nazionale" - procede a individuare "una terna di candidati idonei
formata sulla base dei migliori punteggi attribuiti", entro la quale
il direttore generale dell'azienda interessata nomina il prescelto;
- per far ciò, la
commissione "riceve dall'azienda il profilo professionale del
dirigente da incaricare" e procede "sulla base dell'analisi
comparativa dei curricula, dei titoli professionali posseduti, avuto anche
riguardo alle necessarie competenze organizzative e gestionali, dei volumi
dell'attività svolta, dell'aderenza al profilo ricercato e degli esiti di
un colloquio".
§ 17.2. La procedura
che ha condotto al presente giudizio è invece disciplinata dal d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito nella l. 29 luglio 2014, n. 104,
recante "Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale,
lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo".
L'art. 14, ai commi 2
e 3, ha
previsto un riassetto della struttura organizzativa del Ministero dei beni,
delle attività culturali e del turismo, definito da un successivo
regolamento, e, al comma 2 bis, ha previsto che, "Al fine di adeguare
l'Italia agli standard internazionali in materia di musei e di migliorare
la promozione dello sviluppo della cultura, anche sotto il profilo dell'innovazione
tecnologica e digitale, con il regolamento di cui al comma 3 sono
individuati ... i poli museali e gli istituti della cultura statali di
rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici di livello
dirigenziale. I relativi incarichi possono essere conferiti, con procedure
di selezione pubblica, per una durata da tre a cinque anni, a persone di
particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela
e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata
esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi della
cultura, anche in deroga ai contingenti di cui all'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165, e
successive modificazioni".
In attuazione
dell'art. 14, comma 3, è stato emanato il regolamento di organizzazione con
il d.P.C.M. 29 agosto 2014, n. 171, il cui art. 30 ha disciplinato gli "Istituti centrali e
dotati di autonomia speciale" del Ministero:
- il comma 3 ha previsto che
"Sono altresì dotati di autonomia speciale i seguenti istituti e musei
di rilevante interesse nazionale: a) quali uffici di livello dirigenziale
generale: ... b) quali uffici di livello dirigenziale non generale: ... 2) la Galleria Estense
di Modena; ... 9) il Palazzo Ducale di Mantova";
- il comma 5 ha previsto che
"L'organizzazione e il funzionamento degli Istituti centrali e degli
Istituti dotati di autonomia speciale, ivi inclusa la dotazione organica,
sono definiti con uno o più decreti ministeriali di natura non
regolamentare";
- il comma 6 ha disposto che "In
ogni caso gli incarichi di direzione degli istituti e musei di cui al comma
3 possono essere conferiti, secondo le modalità previste dall'articolo 14,
comma 2 bis", sopra citato (cioè mediante le "procedure di
selezione pubblica").
Il Ministero ha poi
emanato la 'circolare' 1° dicembre 2014, n. 373, con la quale sono stati
resi pubblici i contenuti di tre decreti ministeriali di organizzazione
della struttura, emessi in data 27 novembre 2014.
Con uno dei tre
decreti, contenente regole generali e astratte, il Ministero ha approvato
la "Disciplina" "dei criteri e delle procedure per il
conferimento degli incarichi dirigenziali".
L'art. 3 di tale
decreto ha disciplinato la "Procedura di conferimento degli incarichi
dirigenziali relativi agli istituti della cultura statali di rilevante
interesse nazionale", prevedendo:
- al comma 1, che
"Ai sensi dell'articolo 14, comma 2-bis, del decreto legge 31 maggio
2014, n. 83,
convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, il Ministro stabilisce quali incarichi
dirigenziali relativi ai poli museali e agli istituti della cultura statali
di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici di livello
dirigenziale, come individuati con il regolamento di organizzazione del
Ministero di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29
agosto 2014, n. 171, o
con successivi decreti ministeriali, possono essere conferiti con procedure
di selezione pubblica, per una durata da tre a cinque anni, a persone di
particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela
e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata
esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi della
cultura, anche in deroga ai contingenti di cui all'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165, e
successive modificazioni, e comunque nel rispetto delle dotazioni organiche
del personale dirigenziale del Ministero dei beni e delle attività
culturali e del turismo e nei limiti delle dotazioni finanziarie destinate
a legislazione vigente al personale dirigenziale del Ministero dei beni e
delle attività culturali e del turismo";
- al comma 2, che,
"per le finalità di cui al comma 1, il Ministero può svolgere apposite
procedure di selezione distinte da quelle dirette al conferimento degli
altri incarichi dirigenziali. Oltre che in base ai criteri di cui all'articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165 e
successive modificazioni, il conferimento degli incarichi di cui al
presente articolo avviene in base ai criteri della verifica del possesso
della particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di
tutela e valorizzazione dei beni culturali e della documentata esperienza
di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi della cultura.
Conseguentemente, non si applicano i criteri di cui all'articolo 2, comma
4, previsti per il conferimento di incarichi di funzione dirigenziale ai
sensi dell'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165
del 2001 e successive
modificazioni";
- al comma 3, che,
"per gli incarichi dirigenziali per il cui conferimento sia stata
scelta la procedura di selezione pubblica di cui ai commi 1 e 2, il
Ministro e il Direttore generale Musei, con riguardo rispettivamente agli
incarichi di prima fascia e agli incarichi di seconda fascia, si avvalgono,
ai fini della selezione, di una o più commissioni nominate dal Ministro,
composte ciascuna da tre a cinque membri esperti di chiara fama nel settore
del patrimonio culturale" (comma 3).
In attuazione di una
nota ministeriale del 5 gennaio 2015, la "direzione generale
organizzazione" ha poi indetto la prima delle selezioni pubbliche in
data 7 gennaio
2015, per conferire l'incarico di direttore per venti dei
citati istituti, ovvero per i diciotto "istituti e musei di rilevante
interesse nazionale" già individuati dall'art. 30, comma 3, del d.P.C.M. n. 171 del 2014 e per altri due istituti, individuati con
decreti successivi, ai sensi del decreto ministeriale 27 novembre 2014,
riportato nella "circolare" del 1° dicembre 2014, sopra
richiamata.
Il bando:
- ha determinato i
compiti relativi agli incarichi da assegnare, i requisiti per partecipare
alla selezione, le modalità per presentare la domanda, i criteri da seguire
per la nomina della "commissione di valutazione", nonché i
criteri di valutazione aggiuntivi rispetto a quelli generali dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165;
- ha fissato criteri
di valutazione aggiuntivi, rispetto a quelli generali previsti dal medesimo
art. 19, comma 2, riguardanti i titoli valutabili, le esperienze
valorizzabili e le ulteriori competenze da considerare;
- all'art. 5, comma 3, ha previsto che la
commissione, dopo aver valutato i curricula pervenuti, avrebbe selezionato
un massimo di dieci candidati per ogni istituto, convocandoli per un
colloquio, e avrebbe individuato fra loro una 'terna' di nominativi da
trasmettere, rispettivamente, al Ministro ovvero al Direttore generale
Musei, a seconda dell'importanza dell'istituto, per la scelta finale da
parte di costoro.
§ 17.3. Così
sintetizzate le normative applicabili alla fattispecie (non coordinate tra
loro, anche perché - malgrado in sede amministrativa siano state emesse
disposizioni generali e astratte di rango secondario - non risulta talvolta
seguito il procedimento di cui all'art. 17 della legge n. 400 del 1988, ad es. prima dell'emanazione dei
"decreti" di data 27 novembre 2014), ritiene il Collegio che
le "procedure di selezione pubblica", disciplinate dall'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 non siano assimilabili a quelle previste
dall'art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo n. 502
del 1992.
§ 17.4. L'espressione
"procedure di selezione pubblica" va interpretata tenendo conto
dell'art. 97, quarto comma, della Costituzione, il quale induce a ritenere che l'art. 14,
comma 2 bis, si riferisca a vere e proprie "procedure concorsuali per
l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni", per le
quali l'art. 63, comma 4, del decreto legislativo n. 165 del
2001 ha mantenuto la
giurisdizione amministrativa di legittimità.
Con riferimento all'art. 97, quarto comma, Cost. (per il quale "Agli impieghi nelle
Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi
stabiliti dalla legge"), la Corte Costituzionale,
con le sentenze 24
giugno 2010, n. 225, e 13 novembre 2009, n. 293, ha evidenziato che esso in linea di principio esige lo
svolgimento di una procedura pubblica 'di tipo comparativo', volta cioè a
selezionare la persona oggettivamente più idonea a ricoprire una data
posizione ovvero il migliore fra gli aspiranti che si presentano, e
'congrua', nel senso che essa deve consentire la verifica del possesso
delle richieste professionalità.
§ 17.5. Le
"procedure di selezione pubblica" - previste dall'art. 14, comma
2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 e dal regolamento applicativo - consistono in un procedimento
dalla 'struttura trifasica', quanto alla individuazione dei candidati da
scegliere, caratterizzata:
a) dalle valutazioni
delle posizioni dei candidati, al fine di individuarne dieci da ammettere
alle fasi successive;
b) dall'effettuazione
dei colloqui, con i dieci candidati così individuati, per la selezione dei
tre candidati da sottoporre alla scelta finale;
c) dall'atto
conclusivo del procedimento, con cui - all'interno della terna - vi è la
'scelta finale' del candidato da nominare.
Nel corso delle prime
due fasi, la commissione - sulla base di criteri volti a selezionare i
candidati migliori, anche 'esterni' - esercita poteri tecnico-discrezionali,
così svolgendo pubbliche funzioni mediante atti autoritativi.
Già tale
considerazione induce a ritenere che rilevano i principi affermati da
questo Consiglio, per il quale si è in presenza di un pubblico concorso,
quando la commissione effettua il confronto dei titoli di ciascun candidato
(Sez. V, 21
agosto 2015, n. 4039; Sez. III, 16 dicembre 2015, n. 5693).
A maggior ragione
poi, va ravvisato un pubblico concorso, per il fatto che è stato previsto
un sub procedimento specifico, intermedio tra la scelta della decina e la
individuazione della terna, caratterizzato dai "colloqui" da
svolgere tra la commissione ed i candidati.
§ 17.6. Non è dunque
pertinente il richiamo alla giurisprudenza per la quale sussisterebbe la
giurisdizione del giudice civile, quando si tratti di controversie
riguardanti l'applicazione dell'art. 15, comma 7 bis, del d.lgs. n. 502 del 1992: tale comma disciplina una procedura rivolta
a dipendenti di per sé idonei, da scegliere in base ad un criterio di
"consonanza" fra il prescelto e l'autorità che sceglie, circa le
priorità da seguire e le modalità da impiegare per attuare un dato
indirizzo politico amministrativo.
§ 17.7 Per come sono
state strutturate dalla normativa primaria e da quella secondaria, le
"procedure di selezione pubblica" previste dall'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 consistono in selezioni volte all'eventuale
conferimento dell'incarico anche ad 'esterni', privi della qualità di
dipendenti dello Stato e della qualifica dirigenziale.
Si tratta dunque di
veri e propri procedimenti di assunzione, ai quali si applica l'art. 63, comma 4, del medesimo decreto legislativo n.
165 del 2001, nella
parte in cui ha previsto che "restano devolute alla giurisdizione del
giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali
per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni".
§ 17.8. Nel presente
giudizio, poiché l'atto d'appello non ha posto la relativa questione (come
rilevato nel § 14), la sussistenza della giurisdizione amministrativa non
si può desumere dall'art. 63, comma 1, del decreto legislativo n. 165 del
2001, per il quale
"sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del
lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma
2...incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il
conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali".
Peraltro, il Collegio
osserva che la normativa sostanziale sopra riportata ha disciplinato una
procedura "di selezione pubblica" 'aperta a tutti' ed ha
attribuito alla commissione peculiari poteri pubblicistici di natura
autoritativa e tecnico-discrezionale, tipicamente disciplinati - quanto
alla giurisdizione - dall'art. 7 del codice del processo amministrativo e dall'art. 63,
comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001: non si tratta di una "assunzione al
lavoro", espressione che richiama una libera designazione ad personam
di chi la possa effettuare,
§ 17.9. Va inoltre
rilevato che, come emerge dalla lettura della sentenza impugnata (cfr. il
suo § 17) ed è comunque incontestato, con il ricorso di primo grado
l'odierna appellata ha impugnato anche l'art. 3, comma 2, del decreto
ministeriale 27
novembre 2014, recante la "Disciplina" per il
conferimento degli incarichi dirigenziali.
§ 17.10. Pertanto, nella specie rileva anche
la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione, per la quale
sussiste la giurisdizione amministrativa di legittimità quando - in una
controversia concernente il mancato conferimento di un incarico
dirigenziale - sia stato impugnato un 'atto di macrorganizzazione' (Sez.
Un., 31
maggio 2016, n. 11387), pur se avente natura regolamentare
(Sez. Un., 27
febbraio 2017, n. 4881).
§ 17.11. A parte ogni rilievo sulla sua
natura normativa, sul suo inserimento nella gerarchia delle fonti e sul
procedimento seguito per la sua emanazione (che di per sé non è stato oggetto
di un specifico motivo di impugnazione in primo grado), il decreto
ministeriale del 27 novembre 2014 - per la sua portata generale - va
qualificato quanto meno come atto di macrorganizzazione, di per sé dunque
incidente su posizioni di interesse legittimo.
La sussistenza della
giurisdizione amministrativa sull'impugnazione del decreto ministeriale 27 novembre 2014,
con la conseguente prospettazione dell'illegittimità derivata degli atti
successivi, comporta che dell'intera controversia, e quindi anche degli
atti applicativi del decreto stesso, debba conoscere il giudice
amministrativo (per il rilievo, ai fini della giurisdizione, della
connessione con gli atti applicativi, cfr. Sez. Un., 27 febbraio 2017, n.
4481).
Infatti, nessuna
disposizione di legge ha ripartito la giurisdizione, mediante la scissione
dell'esame delle censure, alcune senz'altro proponibili innanzi al giudice
amministrativo, ovvero devolvendo a diversi ordini giurisdizionali quelle
riguardanti l'atto di macrorganizzazione e quelle rivolte avverso gli atti
applicativi, anteriori alla costituzione del rapporto di lavoro.
§ 18. Oltre che per
le considerazioni che precedono, il primo motivo d'appello va respinto,
anche per un altro e dirimente ordine di considerazioni, basato sulla
peculiarità delle regole sulla acquisizione delle funzioni e dello status
di dirigente statale (di cui all'art. 19 del testo unico n. 165 del 2001) e
sulla connessa applicabilità dell'art. 7 del codice del processo amministrativo.
§ 18.1. Ritiene il
Collegio che vada rimarcata comunque la natura autoritativa del
provvedimento di nomina dei dirigenti dello Stato volto all'attribuzione ex
novo del relativo status (pur quando si tratti dei direttori dei musei
statali e la relativa procedura termini con un atto di scelta, emanato in
attuazione dell'art, 14, comma 7, bis, del decreto legge n. 83 del 2014).
Infatti, il medesimo
l'art. 14 bis - a parte le deroghe espresse, che saranno di seguito
esaminate - si inserisce in un contesto normativo nel quale si applicano
per i dirigenti statali le disposizioni dell'art. 19 del testo unico approvato
con il decreto legislativo n. 165 del 2001.
Tra tali
disposizioni, rilevano il suo comma 2 (modificato dall'art. 3 della legge 15 luglio 2002, n. 145, recante "Disposizioni per il riordino
della dirigenza statale"), per il quale "2. Tutti gli incarichi
di funzione dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, sono conferiti secondo le disposizioni del presente
articolo. Con il provvedimento di conferimento dell'incarico, ovvero con
separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del
Ministro competente per gli incarichi di cui al comma 3, sono individuati
l'oggetto dell'incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle
priorità, ai piani e ai programmi definiti dall'organo di vertice nei
propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che
intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell'incarico... Al
provvedimento di conferimento dell'incarico accede un contratto individuale
con cui è definito il corrispondente trattamento economico... È sempre
ammessa la risoluzione consensuale del rapporto".
§ 18.2. Ad avviso del
Collegio, il riferimento al "provvedimento di conferimento
dell'incarico ovvero" al "separato provvedimento del Presidente
del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli
incarichi" va inteso nel senso che l'atto di investitura nelle
pubbliche funzioni - attributivo dello status di dirigente statale ed
emanato da un componente del Governo - ha senz'altro natura pubblicistica.
Non rileva, dunque,
nel presente giudizio approfondire la connessa, ma diversa, questione, se
abbia natura autoritativa anche il "provvedimento" con cui sia
conferito un ulteriore incarico (o sia revocato) a chi già risulti da tempo
dirigente e non si faccia alcuna questione del "provvedimento"
che per la prima volta gli ha attribuito il relativo status.
§ 18.3. La natura
pubblicistica del provvedimento di nomina di un dirigente dello Stato è
connaturata alla natura del potere così esercitato dal componente del
Governo e risale alla tradizione ottocentesca: prima dell'entrata in vigore
delle riforme di cui ai decreti legislativi n. 29 del 1993 e n. 80 del 1998 (come trasfusi nel testo unico n. 165 del
2001), non si è mai dubitato che fosse impugnabile innanzi al giudice
amministrativo il provvedimento di nomina e di investitura di un dirigente
statale nelle pubbliche funzioni, su ricorso di chi avesse interesse a
conseguire una tale nomina.
In considerazione
della possibilità di poter dedurre tutti i vizi di legittimità del
provvedimento, ed in particolare l'eccesso di potere, una tale soluzione si
è posta in coerenza con i principi desumibili dagli articoli 24,100,103
e 113 della Costituzione e, in particolare, con quelli riguardanti la
indefettibilità della tutela giurisdizionale degli interessi legittimi.
§ 18.4. Con l'entrata
in vigore dei decreti legislativi n. 29 del 1993 e n. 80 del 1998, e a seguito della privatizzazione dei
rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione (salve le
eccezioni previste dalla legge), si è poi prevista la giurisdizione del
giudice civile sulle controversie concernenti il personale c.d.
privatizzato.
Quanto alla
giurisdizione, le disposizioni di tali decreti legislativi sono state
trasfuse nel già richiamato art. 63, comma 1, del testo unico n. 165 del
2001, per il quale "1. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione
di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro
alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1,
comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al
comma 4, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il
conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità
dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto,
comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti
amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini
della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L'impugnazione
davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella
controversia non è causa di sospensione del processo".
§ 18.5. Con
riferimento alle controversie concernenti il conferimento dello status di
dirigente statale e del conseguente incarico, dalla normativa sopra
riportata emerge che va effettuata una summa divisio.
§ 18.5.1. Le
controversie concernenti il "contratto individuale con cui è definito
il corrispondente trattamento economico", e che "accede" al
"provvedimento", rientrano senz'altro nell'ambito della
giurisdizione del giudice civile, ai sensi del riportato art. 63, comma 1.
Ai fini del riparto
della giurisdizione, per le controversie individuali concernenti i
"rapporti di lavoro" già instaurati tra l'amministrazione e i
dirigenti (v. la rubrica dell'art. 63), si applica dunque il medesimo
principio riguardante lo svolgimento dei rapporti di lavoro degli altri
dipendenti per i quali vi è stata la cd privatizzazione.
Tuttavia, sul piano
normativo, vi è una netta differenza sostanziale che caratterizza i
rapporti di lavoro degli 'altri dipendenti' rispetto a quelli dei
'dirigenti':
- ai sensi dell'art.
5, comma 2, del testo unico, gli 'altri dipendenti' sono espressamente
sottoposti ai "poteri del privato datore di lavoro", esercitabili
in via esclusiva proprio dai dirigenti, i quali sono gli "organi
preposti alla gestione" dei rapporti di lavoro (e cioè alla
"gestione ... delle risorse umane", disciplinata in quanto tale
dall'art. 4, comma 2, sulle funzioni dei dirigenti);
- per i dirigenti,
nessuna disposizione di legge invece prevede che i Ministri gestiscano il
rapporto di lavoro con i dirigenti mediante i "poteri del privato
datore di lavoro" (né potrebbe ciò prevedere, trattandosi di una
contraddizione in termini preclusa dai principi costituzionali applicabili
nei casi di esercizio dei poteri pubblici).
§ 18.5.2. Quanto alle
controversie riguardanti il "conferimento" di un incarico
dirigenziale statale conseguente alla attribuzione ex novo del relativo
status (cioè al caso devoluto all'esame del Collegio), ritiene il Collegio
che la sussistenza della giurisdizione amministrativa di legittimità
dipenda dalla constatazione della natura autoritativa e pubblicistica del
"provvedimento" amministrativo, da qualificare così in base a
basilari principi del diritto amministrativo e ora disciplinato in via
generale dall'art. 19, comma 2, del testo unico n. 165 del 2001, in connessione
proprio al già sopra citato art. 63, comma 4, del medesimo testo unico, per
il quale sussiste la giurisdizione amministrativa di legittimità per le
"procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni".
Tale natura
autoritativa e pubblicistica si desume:
a) dalla rilevata
assenza in qualsiasi disposizione legislativa del richiamo ai "poteri
del privato datore di lavoro" (esercitabili invece - iussu legis - dai
dirigenti nei confronti degli 'altri dipendenti'), quanto ai poteri del
Presidente del Consiglio, del Ministro o di altra autorità competente alla
nomina;
b) dall'ultimo
periodo dell'art. 19, comma 2, del testo unico n. 165 del 2001 (per il
quale "L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto
amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del
processo"), il quale acquista un senso e una specifica e concreta
portata applicativa solo se si ritiene che lo stesso legislatore ha ammesso
che l'atto genetico dell'incarico sia impugnabile innanzi al giudice
amministrativo (se del caso, su iniziativa di un terzo, interessato al
conferimento del medesimo incarico);
c) dalla riforma
disposta con l'art. 3 della sopra citata legge n. 145 del 2002, il quale - come emerge dai lavori
preparatori - in più punti ha conferito il nomen iuris di
"provvedimento" (proprio del diritto pubblico e di per sé non
riferibile al diritto privato o al diritto del lavoro) all'atto con cui vi
è l'investitura del dirigente nella carica e nella organizzazione
amministrativa;
d) dalla
riconducibilità del provvedimento di nomina all'esito di una delle
procedure concorsuali per l'assunzione, ai sensi dell'art. 63, comma 4, del
testo unico n. 165 del 2001.
§ 18.6. Sotto tale
profilo, il legislatore ha tenuto conto anche del secondo, del terzo e del
quarto comma dell'art. 97 della Costituzione, per i quali:
- "I pubblici
uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano
assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione";
-
"Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di
competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei
funzionari";
- "Agli impieghi
nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi
stabiliti dalla legge".
Nel sistema all'epoca
vigente sui criteri di riparto della giurisdizione e tenuto in
considerazione dall'Assemblea Costituente (i cui lavori per le sentenze
della Corte Costituzionale n. 6 del 2018 e n. 204 del 2004 costituiscono un punto essenziale di riferimento anche
per la verifica dei limiti entro i quali il legislatore ordinario può
incidere sulle tradizionali regole sul riparto della giurisdizione), per la
pacifica giurisprudenza gli atti di investitura di pubbliche funzioni ed il
conferimento degli incarichi dirigenziali erano senza dubbio riconducibili
a determinazioni autoritative delle competenti autorità, e dunque in quanto
tali incidenti su posizioni di interesse legittimo e devolute alla
giurisdizione amministrativa di legittimità.
D'altra parte, ciò si
deve desumere dalla natura ontologica degli atti governativi di nomina dei
dirigenti, i quali sono incontestabilmente atti formalmente e
sostanzialmente amministrativi.
Qualora l'espressione
contenuta nell'art. 19, comma 2, del testo unico n. 165 del 2001
("provvedimento di conferimento dell'incarico" di dirigente
statale) si dovesse invece ritenere atecnica ed evocativa di un atto di
natura privatistica, devoluto alla giurisdizione del giudice civile, si
darebbe una lettura del testo incoerente non solo con il suo contenuto
testuale, ma anche con i canoni ermeneutici indicati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e con le categorie giuridiche consolidatesi
nella storia della giustizia amministrativa.
§ 18.7. D'altra
parte, in base ad una lettura secundum Constitutionem delle disposizioni
sopra riportate, non risulta neppure condividibile la tesi
dell'Amministrazione appellante, secondo cui un atto del Ministro - di
scelta di un dirigente, posto al vertice della struttura statale - potrebbe
avere natura 'privatistica'.
Con riferimento ai
rapporti di lavoro, un atto ha natura privatistica quando in qualche modo
costituisce espressione di autonomia negoziale e riguarda rapporti di
natura patrimoniale.
Il
"provvedimento" di conferimento dell'incarico dirigenziale deve
invece essere emanato - anche quanto al procedimento da seguire - nel
rispetto del principio di legalità, ai sensi dell'art. 97 della Costituzione, ed anche il suo contenuto non può essere
liberamente determinato, rilevando la normativa di settore.
Sotto tale profilo,
rileva il principio posto a base dell'art. 7, comma 1, del codice del processo
amministrativo (e già
desumibile dalla Costituzione, per le sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006), per il quale "Sono devolute alla giurisdizione
amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di
interessi legittimi ... concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del
potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o
comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale
potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni".
Tale art. 7, in quanto entrato in
vigore il 16
ottobre 2010 e di cui non è dubitabile la legittimità
costituzionale, costituisce quanto meno un rilevante canone interpretativo
anche della normativa preesistente, ai fini del riparto della
giurisdizione.
Tale canone
interpretativo, del resto, quando si tratti di nomine poste in essere
all'esito di procedure, è corroborato dal già citato art. 63, comma 4, del
testo unico n. 165 del 2001.
18.8. Nella specie,
dunque, "le procedure di selezione pubblica" dei dirigenti
statali si sono concluse con "provvedimenti" di conferimenti di
incarichi dirigenziali (come previsto dall'art. 19 del testo unico n. 165
del 2001), sia pure con le scelte conseguenti alla elaborazione delle terne
individuate dalla commissione (come previsto dalla normativa applicativa
dell'art. 14, comma 2 bis, del decreto legge n. 83 del 2014), e sono state
indette, condotte e concluse dall'Amministrazione centrale dello Stato
nell'esercizio di un "potere amministrativo" (come previsto dall'art. 7 del c.p.a.).
Anche per tale
dirimente ragione va respinto il primo motivo d'appello.
§ 19. Così rilevata
la sussistenza della giurisdizione amministrativa di legittimità, ritiene
il Collegio che - per evidenti ragioni logiche - debba passarsi all'esame
del primo motivo dell'appello incidentale, con cui l'appellata, nel
riproporre la relativa censura di primo grado, ha lamentato la violazione
delle disposizioni per le quali, prima di affidare un incarico dirigenziale
a soggetti esterni, il Ministero avrebbe dovuto verificare se all'interno
dell'amministrazione vi fossero "risorse umane in possesso dei
requisiti professionali richiesti" (v. l'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014, in connessione all'art. 19, comma 6, del
decreto legislativo n. 165 del 2001).
§ 19.1. Al § 18 della
sentenza impugnata, il TAR ha respinto questa censura, rilevando che il
sopra citato art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 ha previsto una deroga all'art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del
2001, escludendo che
l'indizione della procedura sia stata condizionata alla "previa
ricerca all'interno del ruolo dell'amministrazione di dipendenti in
possesso del background culturale e professionale preteso per divenire
titolari dell'incarico e per esercitare la relativa funzione".
§ 19.2. L'appellante
incidentale ha contestato tale statuizione del TAR, riproponendo le
doglianze formulate in primo grado, sulla necessità della previa
valutazione, dal parte del Ministero, sulla sussistenza o meno di personale
idoneo a svolgere le funzioni per le quali è stata indetta la procedura.
Ella ha dedotto che -
in applicazione dell'art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, non derogato sul punto dall'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 - il Ministero:
- avrebbe dovuto
prima verificare che le professionalità relative fossero "non
rinvenibili nei ruoli dell'amministrazione", rendendo nota mediante
avviso la disponibilità dei posti corrispondenti e verificando se vi era la
disponibilità di dirigenti interni;
- avrebbe potuto
indire la procedura solo nel caso di mancata proposizione di istanze di
dirigenti già in servizio o di motivato accertamento di un livello
insufficiente degli eventuali istanti;
§ 20. Ritiene il
Collegio che le censure dell'appellante incidentale siano infondate e
vadano respinte, anche se per considerazioni diverse da quelle poste a base
della sentenza impugnata.
§ 20.1. L'art. 19 del d. lgs. n. 165 del 2001, disciplina gli "Incarichi di funzioni
dirigenziali", che in linea di principio possono essere conferiti:
- a chi sia già
dipendente dell'Amministrazione e risulti iscritto nel ruolo unico della
dirigenza di cui all'art. 23;
- a seguito della
"pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale", con
indicazione del "numero" e della "tipologia dei posti di
funzione che si rendono disponibili nella dotazione organica", nonché
dei "criteri di scelta", e l'acquisizione e la valutazione delle
"disponibilità dei dirigenti interessati".
Al sistema generale
previsto dall'art. 19, si affianca l'eccezione prevista dal comma 6, per il
quale gli incarichi in questione "possono essere conferiti, da
ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione
organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui
all'articolo 23 e dell'8 per cento della dotazione organica di quelli
appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato,... fornendone
esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione
professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione".
Nel disciplinare il
conferimento di incarichi nei confronti di personalità esterne di eminente
valore, il comma 6 ha
tenuto conto anche dell'esigenza dell'equilibrio dei bilanci pubblici,
limitando il numero di tali incarichi, nonché dell'esigenza di riconoscere
e di valorizzare le esperienze e le professionalità del personale dei ruoli
dell'Amministrazione e di consentire loro le migliori prospettive
lavorative.
Incidendo sulla
disciplina generale di cui all'art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, l'art. 14 del d.l. n. 83 del 2014 ha previsto una procedura concorsuale
speciale per la nomina dei dirigenti dei musei di maggiore importanza,
ammettendo che le relative assunzioni possano avvenire "anche in
deroga ai contingenti di cui all'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165".
Con tale "deroga",
la disposizione legislativa ha consentito una spesa maggiore rispetto a
quella consentita dalle regole generali, allo scopo di reperire le migliori
professionalità disponibili, anche all'esterno dell'amministrazione.
§ 20.2. Ritiene la Sezione che, a parte
tale deroga, l'art. 14 del d.l. n. 83 del 2014 non abbia posto alcuna deroga al fondamentale
principio per il quale solo sulla base di una "esplicita
motivazione" l'Amministrazione può conferire l'incarico dirigenziale
"a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale,
non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione".
§ 20.3. Tale principio
va esaminato tenendo conto della realtà che caratterizza il patrimonio
culturale della Nazione, presidiato dall'art. 9 della Costituzione.
In ragione della
eccezionale consistenza di tale patrimonio, accumulatosi nei secoli, gli
ordinamenti degli Stati preunitari e le leggi dello Stato italiano unitario
hanno introdotto disposizioni volte alla tutela, alla valorizzazione ed
alla catalogazione dei relativi beni (per tutte, v. la legge n. 364 del 1909, la legge n. 688 del 1912, la legge n. 1089 del 1939, il testo unico n. 490 del 1999, il codice n.
42 del 2004, con le relative modificazioni), con la conseguente
tradizionale selezione di personale - anche di qualifica dirigenziale -
altrettanto eccezionalmente qualificato.
§ 20.4. Ad avviso del
Collegio, proprio in ragione di tale eccezionale qualificazione
(riconosciuta dallo stesso Ministero), si deve ritenere oltremodo difficile
- se non impossibile - ipotizzare che l'Amministrazione avrebbe potuto
giustificare l'indizione di una selezione pubblica 'aperta agli esterni',
sulla constatazione della assenza di una "comprovata qualificazione
professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione".
§ 20.5. L'unico
significato plausibile della normativa introdotta dall'art. 14 del d.l. n. 83 del 2014 è allora quello per cui - fermo restando che
nei ruoli del Ministero indubbiamente vi sono dirigenti di "comprovata
qualificazione professionale" - la selezione in questione avrebbe
dovuto consentire il motivato confronto tra tali dirigenti e gli interessati
'esterni'.
In altri termini, in
sede interpretativa - e in assenza di un testuale coordinamento logico tra
le disposizioni dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 e quelle dell'art. 14 del d.l. n. 83 del
2014) - si deve ritenere che, in sede di applicazione del medesimo art. 14:
- l'Amministrazione
deve pur sempre basare le sue scelte su una "esplicita motivazione"
(ex art. 19, comma 6), da effettuare però non con un 'solo atto anteriore'
all'indicazione della selezione (quello previsto dallo stesso comma 6 ed
avente di per sé ad oggetto valutazioni 'negative' del personale dirigente,
che si devono ritenere sostanzialmente impossibili per le ragioni sopra
evidenziate, con riferimento ai dirigenti del MIBACT), bensì con le
valutazioni 'necessariamente positive' sia di merito assoluto che
comparative, da effettuare doverosamente 'all'interno' del procedimento
previsto dall'art. 14;
- la commissione -
nel corso delle "procedure di selezione pubblica" da questo
previste - deve motivatamente valutare se sia il caso di conferire
l'incarico dirigenziale non al personale dell'Amministrazione (di per sé aventi
eminenti qualità), ma ai candidati 'esterni' risultati evidentemente ancor
più meritevoli.
La "esplicita
motivazione", in altri termini, va palesata proprio con le valutazioni
della commissione così istituita, avverso le quali v'è piena tutela giurisdizionale,
sia in astratto, sia nel caso concreto, dato che sono state oggetto di
altre censure dell'interessata.
Le considerazioni che
precedono - le uniche in base alle quali si può considerare l'art. 14
conforme agli articoli 3,9
e 97 della Costituzione, pena altrimenti l'emergere di serissime
questioni di legittimità costituzionale - inducono dunque a ritenere che
nella specie la normativa applicabile di rango secondario non ha disposto -
come non avrebbe potuto disporre - una 'svalutazione' del personale già in
servizio presso l'Amministrazione.
§ 20.6. In concreto,
tale personale ha potuto partecipare alla 'procedura aperta' ed è stato
valutato sulla base di una "esplicita motivazione", che ha
riguardato sia le loro posizioni, sia quelle dei candidati 'esterni', le
cui lusinghiere valutazioni - che hanno condotto al loro inserimento nelle
terne - consistono proprio nella "esplicita motivazione" delle
ragioni di interesse pubblico, tali da evidenziare come, rispetto alle
eminenti professionalità del personale in servizio, ve ne fossero altre,
ancor più eminenti, secondo il giudizio della commissione, consentito in
parte qua proprio dalla normativa di "deroga" di cui all'art. 14 del d.l. n. 83 del 2014.
§ 21. Sempre
prendendo come criterio quello del susseguirsi degli atti impugnati, va
preso in esame il secondo motivo dell'appello principale, con cui è stato
chiesto che, in riforma della sentenza del TAR, sia respinta la censura di
primo grado sulla illegittimità degli atti con cui la commissione ha
attribuito i punteggi ai candidati.
§ 21.1. Il TAR ha
accolto il quinto motivo di primo grado, con cui era stata lamentata la
violazione dell'art. 5 del bando di cui al decreto ministeriale 7 gennaio 2015,
nonché la presenza di profili di eccesso di potere per difetto di
motivazione ed illogicità manifesta.
In particolare, il
TAR ha evidenziato che l'11 luglio 2015 la commissione ha individuato tre
'classi di giudizio' in cui inserire, all'esito dei colloqui, i candidati
ed ha ritenuto che ciò non fosse consentito né dal bando, né dal precedente
verbale della riunione del 5 maggio 2015, nel corso della quale la
commissione ha fissato i criteri di valutazione ed ha definito
l'articolazione delle fasi della selezione.
Ad avviso del TAR, la
scelta della commissione avrebbe comportato un ingiustificato
'innalzamento' del livello della sua discrezionalità nella valutazione dei
candidati, con illegittima valutazione dell'esito dei colloqui, poiché non
vi sarebbe "alcuna motivazione sul contenuto, l'esito e la valutazione
dei singoli colloqui", che inoltre si sarebbero svolti
illegittimamente a 'porte chiuse'.
§ 21.2. Avverso tali
statuizioni del TAR, il Ministero appellante ha formulato due distinte
censure, di cui la prima riguarda la congruità della motivazione delle
scelte attraverso i punteggi.
La seconda censura -
sulle modalità di svolgimento dei colloqui, che per il Ministero non si
sarebbero svolti 'a porte chiuse" - è stata approfondita col terzo
motivo dell'appello principale, e verrà trattato in corrispondenza.
§ 21.3. Si tratta
invece subito la censura sulla motivazione dei punteggi.
In proposito, la
sentenza impugnata ha ritenuto che lo "scarto minimo dei punteggi"
stessi fra i candidati ammessi alla "decina" intermedia e quelli
inseriti nella "terna" finale all'esito del colloquio si sarebbe
dovuto basare su "una più puntuale e più incisiva manifestazione
espressa di giudizio da parte della commissione nella valutazione dei
colloqui e nell'attribuzione dei relativi punteggi, piuttosto che su
motivazioni criptiche ed involute, come si dovrebbero considerare quelle
più sopra trascritte.
È al riguardo dedotto
che, proprio perché l'ingresso nella 'terna', per come si è poi dimostrato
nei fatti, era condizionato anche da un apprezzamento minimo della
commissione in favore dell'uno o dell'altro concorrente, sarebbe stata
dovuta in questo caso una puntuale ed analitica giustificazione in ordine
all'assegnazione di ciascun punto con riferimento ai dieci candidati
ammessi al colloquio".
La sentenza impugnata
(v. il § 23) ha inoltre ritenuto sussistente un profilo di eccesso di
potere, per il fatto che "i criteri di distribuzione dei 20 punti (al
massimo), da assegnare nel corso dei colloqui a coloro che erano stati
selezionati per avere ingresso nella decina", sarebbero stati definiti
"nella seduta dell'11 luglio 2015, quando già erano noti i nomi dei
candidati scrutinandi nell'ambito del colloquio".
§ 21.4 Il Collegio
ritiene che sia fondato il motivo di appello con cui il Ministero ha
dedotto che le valutazioni della commissione non sono affette dai profili
di eccesso di potere rilevati dal TAR.
Quanto al metodo
scelto per la selezione, le considerazioni poste a base della statuizione
impugnata risultano non condivisibili.
Nel verbale della
seduta dell'11
luglio 2015, la commissione ha previsto che per i colloqui
"i 20 punti disponibili per questa fase della selezione dovranno
essere attribuiti tenendo conto di tutti i criteri indicati nel decreto
direttoriale 7
gennaio 2015, con particolare riguardo ai seguenti elementi:
comprovata e qualificata esperienza nella gestione museale; propensione
alla innovazione e alla direzione di strutture complesse; abilità ed
esperienza nel far dialogare il museo con tutti i soggetti internazionali e
nazionali. Per i candidati stranieri, inoltre, andranno considerate anche
la capacità di inserimento nel sistema amministrativo italiano e la
effettiva conoscenza della lingua italiana".
Con tali criteri, la
commissione in sostanza si è limitata ad effettuare una parafrasi del
decreto di indizione della procedura, ben noto ai candidati, e non ha
introdotto alcun criterio di giudizio nuovo.
Quanto all'altra
considerazione sul merito delle scelte effettuate, svolta dalla sentenza
impugnata, il Collegio ritiene che il Ministero ha ragionevolmente
considerato come scienza l'"amministrazione dei beni culturali",
nonché dei musei che li raccolgono e li organizzano per renderli fruibili
al pubblico: si tratta di un sapere dimostrabile in termini
logico-discorsivi e di una materia oggetto di insegnamento nelle
università.
Pertanto, la
commissione - incaricata di selezionare candidati aventi posizioni di
livello particolarmente elevato - nell'esercizio dei suoi poteri
tecnico-discrezionali ha ben potuto attribuire rilevanza al contenuto dei
colloqui, aventi per oggetto le tematiche e le esperienze sopra
evidenziate.
Le sue determinazioni
non risultano viziate dai dedotti profili di eccesso di potere.
Infatti, non risulta
manifestamente illogico o irrazionale il criterio di suddividere i
candidati - tutti di livello notevole - in tre fasce di valutazione,
corrispondenti ai tre selezionati per la scelta finale.
Inoltre, la scelta
della terna finale è stata corredata di un breve giudizio discorsivo
relativo a ciascuno dei tre candidati, giudizio rispetto al quale non sono
state dedotte specifiche incoerenze.
Infine, nulla di
illogico si può desumere dal fatto che vi sia stata una lieve differenza di
valutazione fra i candidati: la commissione ha valutato professionisti
tutti in assoluto di ottimo livello ed era quindi inevitabile che le
considerazioni finali si basassero su 'sfumature' e su variazioni di
aggettivi, nell'ambito di giudizi particolarmente lusinghieri nei confronti
di ciascuno dei candidati.
§ 22. Vanno ora
esaminati il secondo, il terzo ed il quarto motivo dell'appello
incidentale, i quali hanno contestato gli ulteriori profili
dell'attribuzione del punteggio da parte della commissione.
Tali motivi vanno
esaminati congiuntamente, perché all'evidenza connessi.
§ 22.1. Le censure
dell'appellante incidentale risultano infondate e vanno respinte.
Come si è già sopra
rilevato in sede di esame del secondo motivo dell'appello principale, la
commissione è titolare di un'ampia discrezionalità tecnica: non sono state
dedotte e neppure sono emerse specifiche circostanze che possano indurre a
ritenere manifestamente illogiche le valutazioni della commissione.
§ 22.2. In
particolare, con il quarto motivo (§ 14), di portata più generale, è stata
chiesta in sostanza una rivalutazione delle risultanze del procedimento e
dunque una valutazione alternativa a quella della commissione, in senso
favorevole alla appellante incidentale.
Si tratta però di
censure di merito, non ammissibili in questa sede, anche perché non sono
stati dedotte, né sono emerse, specifiche considerazioni o valutazioni
anomale della commissione esaminatrice.
§ 23. Con il terzo
motivo, l'appellante incidentale ha sostenuto che la commissione avrebbe violato
un criterio imposto dalle norme che l'hanno istituita, ovvero quello
desumibile dall'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 e dall'art. 5, comma 2, del bando, che
stabilivano l'attribuzione di un "peso preponderante" alla
"tutela e valorizzazione di beni culturali".
Ad avviso della
interessata (v. § 13 dell'appello incidentale), la violazione del criterio
sarebbe evidenziata dal fatto che la commissione ha stabilito di assegnare
soltanto un massimo di 15 punti per "la complessiva attività
documentata svolta in settori della tutela e valorizzazione o gestione di
beni culturali, fino a 10 punti, cui si sommano 5 punti se il candidato per
almeno 5 anni ha svolto ruoli di direzione o equipollente (per es.
nell'amministrazione pubblica di tutela e valorizzazione o in istituti o in
musei)", e invece fino a 33 punti per la "specifica esperienza
professionale documentata di direzione e/o gestione di musei, comprendente
attività di conservazione e valorizzazione delle collezioni, pianificazione
delle attività, gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali;
... complessità delle attività e/o delle strutture gestite e risultati
conseguiti".
§ 24. In proposito, però,
il Collegio ritiene che è ragionevole far rientrare l'attività di
"direzione ovvero gestione" di musei nell'ambito della
"tutela e valorizzazione o gestione di beni culturali", come il particolare
sta al generale, dato che la tutela e la valorizzazione vi sono state anche
con l'istituzione dei musei statali, consentendo la loro visione ed il loro
studio in un contesto strutturato.
Risulta dunque la
prevalenza del criterio della "tutela e valorizzazione", perché è
stata prevista l'attribuzione di 48 punti su 100, più di ogni altro
criterio isolatamente considerato.
§ 25. Con il secondo
motivo, l'appello incidentale (§ 12) censura un particolare criterio di
valutazione, quello che consente di attribuire 2 punti per la conoscenza
dell'"organizzazione amministrativa italiana", che non potrebbe,
in tesi, sussistere per candidati esterni, a maggior ragione non italiani.
§ 26. Rileva il
Collegio che tale censura risulta inammissibile, poiché non è stato
comprovato, ovvero dedotto, che l'attribuzione di tale punteggio abbia in
concreto pregiudicato l'appellante incidentale all'esito della selezione.
D'altra parte,
l'appellante incidentale stessa non ha di certo interesse a dedurre che si
siano penalizzati i candidati esterni non italiani, per l'attribuzione ai
candidati cittadini italiani di un punteggio presumibilmente maggiore,
rispetto a quello attribuito ai candidati esterni non italiani.
La censura è peraltro
anche infondata, poiché l'"organizzazione amministrativa"
italiana può ben essere oggetto di studio, e quindi di
"conoscenza", anche da parte di chi non ne faccia parte e non la
conosca dall'interno.
§ 27. Quanto al terzo
motivo dell'appello principale, concernente le modalità di svolgimento dei
colloqui, il Ministero lamenta che il TAR avrebbe erroneamente accolto le
doglianze di primo grado, sulla irregolarità del loro svolgimento.
§ 27.1. Ritiene il
Collegio che del motivo in esame vada preliminarmente chiarito l'esatto
ambito di incidenza.
§ 27.2. Con il
ricorso di primo grado, è stato proposto il quinto motivo, contenente due
distinte censure, una relativa alla motivazione delle scelte attraverso i
punteggi, questione di cui si è trattato nell'ambito del secondo motivo di
appello principale, e l'altra relativa appunto alla modalità di svolgimento
del colloquio 'a porte chiuse'.
Il quinto motivo è
stato così sintetizzato dalla sentenza impugnata: "Violazione e falsa
applicazione dell'art. 5 del decreto 7 gennaio 2015, Eccesso di potere sotto il
profilo del difetto di motivazione e della illogicità manifesta, sviamento,
in quanto l'11
luglio 2015 la commissione si è riunita preliminarmente
rispetto alla fase di espletamento dei colloqui e nel corso della quale
(per come risulta dalla documentazione versata in atti) si decise di
individuare tre classi di giudizio in cui inserire, all'esito dei colloqui,
i candidati".
"Tale previsione
non trova riscontro nel decreto 7 gennaio 2015, recante il bando della
selezione, né nel verbale della riunione del 5 maggio 2015, nel corso della
quale sono stati specificati dalla commissione i criteri di valutazione dei
candidati ed è stata definita la disciplina delle fasi della selezione.
Tale operazione ha prodotto un inaccettabile ed ingiustificato innalzamento
del livello di discrezionalità nella valutazione dei candidati da parte dei
componenti della commissione, che si è manifestato in modo evidente
all'esito dei colloqui, dal momento che non esiste alcuna motivazione sul
contenuto, l'esito e la valutazione dei singoli colloqui, che peraltro si
sono svolti (ancor più illegittimamente) a 'porte chiuse'".
§ 27.3. La sentenza
di primo grado ha ritenuto in diritto che il colloquio in questione
rappresentasse la prova orale di un concorso e che il suo svolgimento a
porte chiuse abbia violato la norma generale dell'art. 12 e dell'art. 6 comma 4, del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, per cui nei pubblici concorsi "Le prove
orali devono svolgersi in un'aula aperta al pubblico, di capienza idonea ad
assicurare la massima partecipazione".
§ 27.4. Nel corso
della discussione svoltasi nell'udienza del 26 ottobre 2017, l'Amministrazione
appellante ha lealmente preso atto che quest'ultimo profilo di censura era
effettivamente presente nel ricorso di primo grado ed ha quindi rinunciato
alla parte del motivo di appello in esame, con cui la sentenza del TAR era
stata criticata per aver deciso extra petita sul punto.
§ 27.5. La sentenza
di primo grado ha accolto il profilo di censura riguardante le modalità
dello svolgimento dei colloqui, ritenendo che essi si siano svolti 'a porte
chiuse'.
Il TAR ha ritenuto
comprovata tale circostanza sulla base dei seguenti elementi:
- il verbale nulla ha
precisato "circa la presenza di uditori estranei ai membri della
commissione durante lo svolgimento del colloquio";
- "alcuni
candidati sono stati ammessi a sostenere detta prova 'da remoto',
attraverso l'uso della modalità comunicativa skype";
- la difesa
dell'Amministrazione sul punto non avrebbe contestato "le
prospettazioni di parte ricorrente" (v. il § 24 della sentenza
impugnata).
Nel corso del
giudizio d'appello, l'originaria ricorrente ha ribadito che la circostanza
dello svolgimento a porte chiuse si dovrebbe ritenere provata per il mero fatto
della prospettata sua non contestazione nel corso del giudizio di primo
grado.
§ 28. Ciò posto, il
motivo di appello in esame contesta, come si è detto, che sussista la
violazione delle regole riguardanti lo svolgimento dei colloqui.
§ 28.1. Ritiene il
Collegio che la censura del Ministero appellante vada accolta.
In linea di
principio, il verbale di svolgimento delle prove concorsuali deve dare atto
delle circostanze di fatto giuridicamente rilevanti, che siano
espressamente richieste dalla normativa di riferimento.
Non è invece
necessario che il verbale indichi l'avvenuto svolgimento di circostanze di
fatto non preindividuate dalla legge (denominate come "menzioni"
dagli artt. 47 e ss. della l. notarile 16 febbraio 1913, n.
89, sulla disciplina
della forma degli atti pubblici) e che devono necessariamente svolgersi,
nel corso del relativo procedimento.
Salve le formalità
specificamente richieste dalla legge ad esempio in materia elettorale, la
verbalizzazione è necessariamente richiesta quando accada qualcosa che
ecceda l'ordinario corso del procedimento, ad esempio sia disposto
l'allontanamento dalla sala di chi voglia assistere alle operazioni, ovvero
si debbano far constare una dichiarazione del presidente della seduta o una
statuizione della commissione in sede collegiale, circa l'andamento dei
lavori.
Ciò posto, quando con
un ricorso si deduca che le prove orali di un concorso si siano svolte 'a
porte chiuse', l'assenza di qualsiasi annotazione a verbale sulle modalità
del loro svolgimento non può essere intesa nel senso che esse abbiano avuto
luogo effettivamente 'a porte chiuse'.
Certo, se il verbale
specifica le concrete modalità con le quali si è proceduto, ovvero 'a porte
chiuse' o 'a porte aperte', si può porre la questione se le relative
risultanze facciano o no fede fino a querela di falso.
Se però nulla è stato
specificato nel verbale, l'assenza della verbalizzazione delle 'porte
aperte' non può essere intesa nel senso che le prove si sono svolte 'a
porte chiuse'.
Come ha più volte
chiarito la giurisprudenza, infatti, chi contesta la legittimità degli atti
di una procedura di gara o di concorso non può basare la sua deduzione solo
sulla mancata menzione a verbale della regolarità delle operazioni in ogni
loro singolo passaggio, ma ha l'onere di provare in positivo le circostanze
e gli elementi idonei a far presumere che un'irregolarità abbia avuto
luogo.
In assenza di tale
prova, si può desumere che le operazioni non descritte nel verbale si siano
svolte secondo quanto le norme prevedono (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19 agosto 2015, n. 3948; Sez. III, 3 agosto 2015, n. 3803; Sez. V, 22 febbraio 2011,
n. 1099).
Dunque, dalle
modalità di redazione dei verbali nessun elemento può essere tratto per
ravvisare l'illegittimità dello svolgimento dei colloqui.
Quanto alla
prospettata "non contestazione" nella specie da parte della difesa
del Ministero, il Collegio condivide l'insegnamento giurisprudenziale
secondo il quale il relativo principio di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. trova nel processo amministrativo di legittimità un'applicazione
temperata dalla particolare struttura di quest'ultimo, che di regola fa
seguito ad un procedimento amministrativo, le cui risultanze, tradotte nei
relativi atti, vanno tenute per ferme, quanto meno sino a prova contraria
(in tal senso, per tutte Cons. Stato, Sez. III, 26 febbraio 2016, n. 799).
Infatti, quando si
tratti della impugnazione di un provvedimento autoritativo, la "non
contestazione" non è ravvisabile in linea di principio, anche se
l'Amministrazione nelle sue difese non ribadisce espressamente la
sussistenza dei fatti posti a base del provvedimento impugnato, oggetto di
contestazione del ricorrente (Cons. Stato, Sez. VI, 4 dicembre 2017, n. 5651).
Ciò posto, nel caso
in esame, nessuna specifica frase, riferibile al Ministero o alla sua
difesa, può essere intesa nel senso che sia stata ammessa la circostanza
dello svolgimento dei colloqui 'a porte chiuse'.
Quanto
all'esposizione del fatto che "alcuni candidati sono stati ammessi a
sostenere detta prova 'da remoto', attraverso l'uso della 'modalità
comunicativa skype'", ritiene il Collegio che la narrazione di tale
circostanza - di per sé neutra rispetto alla apertura o alla chiusura della
sala - non può far ritenere che sia stata esclusa la presenza di terzi ad
assistere alla relativa conversazione.
Neppure è stato
dedotto che qualcuno, presente in loco, abbia chiesto di annotare a verbale
che non gli sia stato consentito di assistere o di ascoltare il contenuto
dei colloqui.
Pertanto, il Collegio
ritiene anche che nessun elemento vi sia per ipotizzare che, nel caso di
specie, la seduta non si sia svolta pubblicamente, nel senso che il
pubblico eventualmente interessato non vi avrebbe potuto assistere.
§ 28.2. Con
particolare riferimento alla "modalità comunicativa skype", il
Collegio ritiene di dover precisare che col ricorso di primo grado non è
stato neppure dedotto o ipotizzato che qualche candidato se ne sia
avvantaggiato, per il fatto di aver potuto basare il proprio colloquio su
'letture o suggerimenti altrui', di per sé ovviamente non consentiti.
L'unico riferimento
alla "modalità comunicativa skype" è stato effettuato dalla
ricorrente in primo grado all'esclusivo scopo di corroborare la propria
deduzione sullo svolgimento 'a porte chiuse' dei colloqui.
In questa sede,
dunque, non si pone la questione di principio sul se - in base alla
normativa vigente e tenuto conto della possibilità che l'interlocutore
possa avvalersi di letture o di suggerimenti - una 'prova orale', così
definita dalla normativa applicabile nel procedimento, possa avere luogo
con la "modalità comunicativa skype".
§ 28.3. Diventa
pertanto irrilevante, per la decisione del Collegio, verificare se
effettivamente - come ha dedotto il Ministero appellante - vi sia stata la
registrazione dei colloqui realizzati tramite skype, non dovendosi
verificare se qualche candidato se ne sia potuto avvantaggiare: si tratta -
si ripete - di una questione non sollevata col ricorso di primo grado.
§ 29. In accoglimento
della censura del Ministero appellante principale, si deve pertanto
integralmente respingere il quinto motivo del ricorso di primo grado.
§ 30. Quanto sin qui
esposto comporta come conseguenza che si debba respingere, con decisione
definitiva, il ricorso di primo grado limitatamente alla domanda di
annullamento degli atti di cui in epigrafe nella parte in cui essi hanno
conferito l'incarico di "direttore della Galleria Estense di
Modena".
Tale incarico,
infatti, è stato conferito ad una cittadina italiana, l'attuale
controinteressata, sicché fra i motivi di ricorso specificamente rivolti
contro tale nomina non c'è e non è riscontrabile quello concernente la
cittadinanza dei candidati.
Pertanto, in parziale
riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado va respinto,
quanto all'impugnazione del conferimento dell'incarico di "direttore
della Galleria Estense di Modena".
§ 31. Si deve ora
passare all'esame dell'ultimo motivo d'appello, con cui il Ministero ha
impugnato la statuizione del TAR, che ha accolto la censura di primo grado
secondo cui l'Amministrazione ha illegittimamente consentito la
partecipazione alla procedura anche a candidati aventi non la cittadinanza
italiana, ma quella di un altro Stato dell'Unione europea.
Il TAR, ritenendo
fondata la censura di primo grado, ha annullato gli atti impugnati nella
parte in cui essi hanno conferito l'incarico di direttore del "Palazzo
Ducale di Mantova".
§ 32. Ritiene la Sezione che la
questione sollevata dal Ministero appellante comporta la soluzione di
alcune questioni processuali e sostanziali di massima di particolare
importanza, la cui definizione va rimessa all'esame dell'Adunanza Plenaria,
ai sensi dell'art. 99 del codice del processo amministrativo.
§ 33. La questione
sostanziale centrale riguarda il se possano partecipare alla procedura di
selezione in esame i cittadini di uno Stato membro dell'Unione, che non
siano anche cittadini italiani (risultando il signor Pe. As, cittadino
della Repubblica d'Austria).
§ 34. Va definito il
quadro normativo di riferimento, sul rapporto che sussiste fra le
disposizioni generali sull'ammissione ai pubblici impieghi, quanto al
requisito della cittadinanza italiana, e le disposizioni che disciplinano
l'incarico di direttore di un museo dello Stato (e cioè l'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 e le norme ad esso collegate).
§ 35. Quanto alle
disposizioni di legge ordinaria, lo status civitatis è stato espressamente
previsto quale requisito per l'ammissione ai pubblici impieghi, dal regio
decreto 25
giugno 1908, n. 290, e dal conseguente "Testo unico delle
leggi sullo stato degli impiegati civili" del 22 novembre 1908, n.
693.
La tradizionale
regola della riserva ai "cittadini" dell'ammissione agli impieghi
pubblici è stata poi ribadita dall'art. 2 del "Testo unico sul
pubblico impiego", approvato con il d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3.
§ 36. Nella
Costituzione, il richiamo ai "cittadini" non ha riguardato
l'ammissione al "pubblico impiego" in quanto tale, ma l'esercizio
degli "uffici pubblici", le "cariche elettive" e le
"funzioni pubbliche"
§ 36.1. Per l'art.
51, "Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere
agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza,
secondo i requisiti stabiliti dalla legge" (primo comma) e "La
legge può, per l'ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive,
parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica"
(secondo comma).
Per l'art. 54,
"Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e
di osservarne la
Costituzione e le leggi" (primo comma) e "I
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti
dalla legge" (secondo comma).
§ 36.2. Tali articoli
vanno intesi nel senso che deve esservi "l'uguaglianza dei cittadini
senza discriminazioni e limiti" (Cons. Stato, Sez. II, parere 20 gennaio 1990,
n. 234; Sez. VI, 24
luglio 2017, n. 3666).
Infatti, essi - nel
riferirsi, come si è rilevato, non al "pubblico impiego" in
quanto tale, ma, più limitatamente, agli "uffici pubblici", alle
"cariche elettive" e alle "funzioni pubbliche" - hanno
consentito che le leggi non richiedano lo status civitatis per l'accesso a
posizioni di pubblico impiego non caratterizzate dall'esercizio di poteri
pubblici o dallo svolgimento di cariche elettive.
§ 37. Con specifico
riferimento all'ammissione al "pubblico impiego", la tradizionale
regola generale di rango legislativo - ancora riportata nell'art. 2 del
testo unico n. 3 del 1957 - è stata parzialmente modificata (come
consentito dallo stesso testo degli articoli 51 e 54 Cost.), in conseguenza dell'ingresso dello Stato italiano nell'Unione
europea, le cui norme hanno acquisito nell'ordinamento nazionale un rango
superiore a quello delle leggi ordinarie.
§ 38. L'art. 20, § 1, prima
parte, del Trattato sul funzionamento dell'Unione - T.F.U.E. (già art. 17 del Trattato sulla Comunità europea - T.C.E.) ha
disposto che "È istituita una cittadinanza dell'Unione. È cittadino
dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro".
La disposizione va
coordinata con l'art. 45 T.F.U.E. (già art. 39 T.C.E.), secondo il quale:
- "La libera
circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata" (§
1);
- "Essa implica
l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i
lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la
retribuzione e le altre condizioni di lavoro" (§ 2);
- "Fatte salve
le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica
sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto: a) di rispondere a
offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel
territorio degli Stati membri; c) di prendere dimora in uno degli Stati
membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro, conformemente alle
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano
l'occupazione dei lavoratori nazionali; d) di rimanere, a condizioni che
costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul
territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego" (§ 3);
- "Le disposizioni
del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica
amministrazione" (§ 4).
Il lavoro nella
"pubblica amministrazione" - rispetto al quale la legislazione
nazionale può prevedere il requisito dello status civitatis - è quindi configurato
come eccezione alla regola generale, che consente ad ogni cittadino
dell'Unione di lavorare ovunque preferisca all'interno dell'Unione stessa.
§ 39. L'ordinamento interno
si è adeguato alle disposizioni europee e alle sentenze della Corte di
Giustizia dopo richiamate, con una normativa di per sé compatibile anche
con i dati testuali degli articoli 51 e 54 Cost.
§ 39.1. L'art. 37 del decreto legislativo n. 29 del 1993 (sull'"Accesso dei cittadini degli Stati
membri della Comunità Europea") ha previsto:
- "1. I
cittadini degli Stati membri della Comunità Economica Europea possono
accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non
implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non
attengono alla tutela dell'interesse nazionale";
- "2. Con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono individuati i posti e le funzioni per i
quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché
i requisiti indispensabili all'accesso dei cittadini di cui al comma
1".
In attuazione dell'art. 37, comma 2, del decreto legislativo n. 29 del
1993, è stato emanato
il d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174 ("Regolamento recante norme sull'accesso
dei cittadini degli Stati membri dell'Unione europea ai posti di lavoro
presso le amministrazioni pubbliche"), il quale all'art. 1 ha previsto che:
- "1. I posti
delle amministrazioni pubbliche per l'accesso ai quali non può prescindersi
dal possesso della cittadinanza italiana sono i seguenti:
a) i posti dei
livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, nonché i posti dei corrispondenti livelli
delle altre pubbliche amministrazioni;
b) i posti con
funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle
amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli
enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle
regioni e della Banca d'Italia;
c) i posti dei
magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché i posti
degli avvocati e procuratori dello Stato;
d) i posti dei ruoli
civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del
Ministero degli affari esteri, del Ministero dell'interno, del Ministero di
grazia e giustizia, del Ministero della difesa, del Ministero delle finanze
e del Corpo forestale dello Stato, eccettuati i posti a cui si accede in
applicazione dell'art. 16 della l. 28 febbraio 1987, n. 56".
Conseguentemente, il
d.P.C.M. 9
maggio 1994, n. 487, all'art. 2, comma 1, n. 1, pur prevedendo
il requisito della cittadinanza italiana come requisito generale per
l'accesso ai pubblici impieghi, ha aggiunto che "Tale requisito non è
richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le
eccezioni di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del 15
febbraio 1994, serie generale n. 61".
§ 39.2. I primi due
commi del sopra riportato art. 37 del decreto legislativo n. 29 del 1993 (il primo con diverse espressioni lessicali,
estese anche ai "familiari") sono stati trasfusi nell'art. 38 del
testo unico approvato con il decreto legislativo n. 165 del 2001:
- "1. I
cittadini degli Stati membri dell'Unione europea e i loro familiari non
aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto
di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai
posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano
esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla
tutela dell'interesse nazionale";
- "2. Con
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni ed integrazioni,
sono individuati i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal
possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili
all'accesso dei cittadini di cui al comma 1".
§ 39.3. Pur dopo
l'entrata in vigore del decreto legislativo n. 165 del 2001, non vi sono state modifiche del d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174, il quale continua dunque ad essere in
vigore, in quanto sostanzialmente richiamato dall'art. 38, comma 2, del
medesimo decreto legislativo.
§ 40. Di tale
d.P.C.M., nel presente giudizio rileva la lettera a), che ha richiesto la
cittadinanza italiana indistintamente per tutti i "posti dei livelli
dirigenziali" dello Stato.
Per quanto riguarda
gli incarichi conferiti all'esito della procedura bandita in data 7 gennaio 2015
e, in particolare, quello conferito al signor Pe. As., va richiamato l'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014, il quale ha individuato i poli museali e gli
istituti della cultura statali "di rilevante interesse nazionale che
costituiscono uffici di livello dirigenziale".
Non è in
contestazione che l'incarico in questione riguardi un ufficio dirigenziale
(ai sensi dell'art. 30 del d.P.C.M. n. 171 del 2014, per il quale le "procedure di selezione
pubblica" in esame riguardano il conferimento di "posti di
livello dirigenziale").
§ 41. In coerenza con il
"livello dirigenziale" dell'ufficio, si pone il regolamento di
organizzazione degli "Istituti centrali e dotati di autonomia
speciale", emanato con il già citato d.P.C.M. n. 171 del 2014.
L'art. 34, comma 2,
di tale d.P.C.M. prevede in dettaglio le funzioni del direttore di museo
(quello 'pubblico' e per il quale vi è la gestione statale, non rilevando
ovviamente la questione della cittadinanza quando si tratti di un museo di
proprietà privata):
- "Il direttore
del polo museale regionale ... svolge, in particolare, le seguente
funzioni:
a) programma,
indirizza, coordina e monitora tutte le attività di gestione,
valorizzazione, comunicazione e promozione del sistema museale nazionale
nel territorio regionale; ...
e) ... stabilisce ...
l'importo dei biglietti di ingresso unici, cumulativi e, previo accordo con
i soggetti pubblici e privati interessati, integrati dei musei e dei luoghi
della cultura di propria competenza...;
l) autorizza il
prestito dei beni culturali delle collezioni di propria competenza per
mostre od esposizioni sul territorio nazionale o all'estero...;
m) autorizza, sentito
il soprintendente di settore, le attività di studio e di pubblicazione dei
materiali esposti e/o conservati presso i musei del polo;
n) dispone ...
l'affidamento diretto o in concessione delle attività e dei servizi
pubblici di valorizzazione di beni culturali, ai sensi dell'articolo 115
del Codice...;
p) elabora e stipula
accordi con le altre amministrazioni statali eventualmente competenti, le
Regioni, gli altri enti pubblici territoriali e i privati interessati, per
regolare servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla
valorizzazione di beni culturali...;
q) approva, su
proposta del segretario regionale, e trasmette alla Direzione generale
Bilancio gli interventi da inserire nei programmi annuali e pluriennali e
nei relativi piani di spesa; ...
u) svolge le funzioni
di stazione appaltante".
§ 42. Il quadro
normativo si completa, infine, con il riferimento alla norma
dichiaratamente interpretativa dell'art. 22, comma 7 bis, del d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito nella l. 21 giugno 2017, n. 96, per il quale "L'articolo 14, comma 2-bis, del decreto-legge 31 maggio
2014, n. 83,
convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, si interpreta nel senso che alla procedura
di selezione pubblica internazionale ivi prevista non si applicano i limiti
di accesso di cui all'articolo 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165".
§ 43. La complessiva
disciplina sopra riportata è stata esaminata da questa Sezione con la
sentenza 24
luglio 2017, n. 3666, pronunciata su un caso analogo a quello
ora in esame, in cui era stata impugnata in primo grado - proponendo lo
stesso motivo sulla necessità della cittadinanza italiana - la nomina del
direttore di un altro istituto museale statale, disposta all'esito della
procedura bandita il 7 gennaio 2015.
§ 43.1. Sulla base di
una approfondita motivazione, tale sentenza ha ritenuto non conforme alla
normativa europea - sull'accesso dei cittadini degli Stati membri al lavoro
nella "pubblica amministrazione" - la disposizione regolamentare
di cui all'art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 174 del
1994, nella parte in
cui essa prevede che "i posti dei livelli dirigenziali delle
amministrazioni dello Stato" siano riservati ai soli cittadini italiani.
Essa ha osservato
che:
- l'attività posta in
essere dai dirigenti dello Stato in generale è molto ampia e diversificata,
potendo comprendere sia attività che si esplicano mediante provvedimenti
amministrativi, contratti, accordi e comportamenti espressione di poteri
pubblici, sia attività che si concretano in meri comportamenti materiali;
- la normativa
europea va interpretata secondo un criterio non
"strutturale-statico", ma "funzionale-dinamico", sicché
l'amministrazione che intenda attribuire un incarico dirigenziale deve
verificare se questo comporti o no in concreto attività che sono
espressione di pubblici poteri, e solo nel caso di risposta positiva deve
riservare l'incarico stesso ad un cittadino italiano;
- l'attività non si
potrebbe qualificare come "espressione di pubblici poteri" per il
solo fatto che essa comporti l'adozione di un atto amministrativo, poiché
occorrerebbe guardare al regime e alla natura dell'attività che a tale atto
consegue.
§ 43.2. Tanto
premesso, la sentenza n. 3666 del 2017, rilevando il primato del diritto
europeo, ha disapplicato l'art. 2, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 174 del
1994, "senza che
sia necessario, per l'evidenza del contrasto, disporre il rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia" ed ha deciso la controversia al
suo esame, nel senso di "analizzare la natura dell'attività e dunque
dei compiti attribuiti" al direttore dell'istituto museale dello
Stato, "per valutare se gli stessi si inseriscano nell'ambito di
funzioni pubbliche, che giustificano la previsione della cittadinanza
italiana, ovvero di funzioni aventi carattere tecnico o di gestione economica",
per le quali la cittadinanza italiana non è richiesta.
All'esito di tale
approfondita indagine, la sentenza n. 3666 del 2017 ha ritenuto che
l'attività posta in essere dal direttore del museo statale sarebbe
"prevalentemente rivolta alla gestione economica e tecnica"
dell'istituto, nonché "essenzialmente finalizzata" ad una
migliore utilizzazione e valorizzazione di beni pubblici.
In particolare, la
sentenza ha escluso che si possano considerare come "espressione di
potere pubblico" alcuni specifici compiti attribuiti al direttore
dall'art. 35 del d.P.C.M. n. 171 del 2014, che, seguendo l'ordine dell'articolo stesso,
sono quelli per cui "programma, indirizza, coordina e monitora tutte
le attività di gestione, valorizzazione, comunicazione e promozione del
sistema museale nazionale nel territorio regionale" (lettera a),
"autorizza il prestito dei beni culturali delle collezioni di propria
competenza per mostre od esposizioni sul territorio nazionale o
all'estero" (lettera l), "dispone ... l'affidamento diretto o in
concessione delle attività e dei servizi pubblici di valorizzazione di beni
culturali" (lettera n), "svolge le funzioni di stazione
appaltante" (lettera u).
La stessa sentenza ha
infine escluso che si possano considerare "espressione di potere
pubblico" ulteriori compiti di amministrazione e di controllo dei beni
in consegna, esplicitati nel bando del 7 gennaio 2015 e non espressamente
previsti dall'art. 35 del d.P.C.M. n. 171 del 1994: essa ha ritenuto che le
attività di programmazione, indirizzo e controllo riguarderebbero
"ambiti di rilevanza non autoritativa" nella gestione
dell'istituto, che l'autorizzazione al prestito dei beni sarebbe sporadica,
e comunque, pur in presenza di un atto amministrativo, si inserirebbe
"nell'ambito di rapporti economici e tecnici" e che le attività
di affidamento e di stazione appaltante, anch'esse marginali, riguarderebbero
la "gestione economica".
In conclusione, la
sentenza n. 3666 del 2017
ha ritenuto che l'attività di direttore del museo
statale non potrebbe intendersi riservata a cittadini italiani e che
sarebbero di per sé legittimi gli atti che hanno consentito la
partecipazione di cittadini dell'Unione e la loro nomina fra i vincitori.
La sentenza n. 3666
del 2017 ha
completato l'esame, soffermandosi sulla portata dell'art. 22, comma 7 bis, del d.l. 50 del 2017 e rilevando che esso avrebbe una "sua
utilità per il futuro contribuendo a fornire chiarezza alle pubbliche
amministrazioni e agli operatori del settore evitando incertezze
applicative anche nella fase della risoluzione delle controversie di
competenza della giustizia amministrativa".
§ 44. Il Collegio
ritiene che si possa dare una interpretazione diversa del sopra richiamato
quadro normativo e che:
- si possa affermare
il principio per il quale l'art. 1, comma 1, lettera a), del regolamento
emanato con il d.P.C.M. n. 171 del 1994 - mai successivamente abrogato,
neppure dall'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 - richieda imprescindibilmente la
cittadinanza italiana per il conferimento di incarichi di livello
dirigenziale, sia applicabile nel presente giudizio e non si ponga in
contrasto con la normativa della Unione Europea;
- quanto meno, il
contrasto del medesimo art. 1, comma 1, lettera a), con la normativa della
Unione Europea non risulta "evidente";
- dovendosi prevenire
contrasti giurisprudenziali, occorre deferire all'esame dell'Adunanza
Plenaria di questo Consiglio le questioni di seguito affrontate.
§ 44.1. Come si è
sopra rilevato (ed è stato già riscontrato dal TAR con la sentenza
impugnata e da questo Consiglio, con la sentenza n. 3666 del 2017),
l'interprete non può che rilevare un espresso e testuale divieto normativo
- contenuto nel d.P.R. n. 174 del 1994, nonché nel d.P.R. n. 487 del 1994, che al precedente ha fatto riferimento - per
i cittadini dell'Unione europea di partecipare alla procedura di cui all'art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014.
Tale divieto è stato
però escluso dalla sentenza n. 3666 del 2017, mediante la disapplicazione
dell'art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 171 del 1994, in quanto questo
sarebbe in contrasto con la normativa dell'Unione Europea.
§ 44.2. Si rimettono
però all'esame dell'Adunanza Plenaria di questo Consiglio ulteriori
considerazioni, che potrebbero far condurre all'opposta conclusione di
considerare conforme al diritto europeo l'art. 1, comma 1, lettera a), del
regolamento emanato con il d.P.C.M. n. 174 del 1994, come richiamato dal d.P.R. n. 487 del 1994.
Tali considerazioni
riguardano non solo aspetti concernenti il quadro normativo nazionale, ma
anche quelli riguardanti i limiti entro i quali è prospettabile - sulla
questione - un contrasto tra la normativa nazionale e quella della Unione
Europea.
§ 45. Quanto agli
aspetti concernenti il quadro normativo nazionale, vanno richiamati:
gli articoli 51 e 54 della Costituzione, che - come rilevato ai §§ 36.1 e 36.2. -
hanno fatto riferimento ai "cittadini" non per quanto riguarda
l'ammissione in genere al "pubblico impiego" in quanto tale, ma -
più specificamente - per l'esercizio degli "uffici pubblici", per
le "cariche elettive" e per le "funzioni pubbliche";
l'art. 11 della Costituzione, per il quale l'Italia "consente, in
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità";
l'art. 37, comma 1, del decreto legislativo n. 29 del
1993, per il quale lo
status civitatis non è necessario quando si tratti di posti di lavoro
"che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri,
ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale";
l'art. 1, comma 1,
lettera a), del regolamento approvato con il d.P.C.M. n. 171 del 1994 (ai
sensi del medesimo art. 37, comma 2), per il quale "non può
prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana" per l'accesso
ai "posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29";
l'art. 2, comma 1,
del medesimo d.P.C.M. n. 171 del 1994, per il quale "Le tipologie di
funzioni delle amministrazioni pubbliche per il cui esercizio si richiede
il requisito della cittadinanza italiana sono le seguenti: a) funzioni che
comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di provvedimenti
autorizzativi e coercitivi; b) funzioni di controllo di legittimità e di
merito";
- l'art. 2, comma 1,
n. 1, del regolamento approvato con il d.P.R. n. 487 del 1994, che in parte qua ha recepito il contenuto
del d.P.C.M. n. 171 del 1994;
- l'art. 30 del d.P.C.M. n. 171 del 2014, per il quale le "procedure di selezione
pubblica", previste dall'art. 14 bis del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito nella l. 29 luglio 2014, n. 104,
riguardano il conferimento di "posti di livello dirigenziale".
§ 46. Sul piano
testuale, dunque, la disciplina costituzionale richiede lo status civitatis
per lo svolgimento di pubbliche funzioni e consente limitazioni di
sovranità "in condizione di parità con gli altri Stati".
Quanto alla
legislazione primaria, l'art. 37 del decreto legislativo n. 29 del 1993 e l'art. 38
del testo unico 165 del 2001 hanno delegificato la materia, prevedendo -
espressamente e testualmente - il divieto di assunzione per chi non sia
cittadino italiano, quando si tratti:
a) della assunzione a
posti dei "livelli dirigenziali delle amministrazioni dello
Stato" (v. l'art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 171 del
1994, come richiamato dall'art. 2, comma 1, n. 1, del d.P.R. n. 487 del
1994);
b) della assunzione
di chi svolga "funzioni che comportano l'elaborazione, la decisione,
l'esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi" (v. l'art.
2, comma 1, del medesimo d.P.C.M. n. 171 del 1994, anch'esso richiamato dal
d.P.R. n. 487 del 1994).
Quanto al rapporto
tra tali disposizioni del d.P.C.M. n. 171 del 1994, vale quanto segue:
- l'art. 2, comma 1, ha inteso affermare la
regola generale per la quale si debba verificare di volta in volta se
l'esercizio in concreto (in base alla normativa di settore) di poteri
autoritativi implichi la necessità del possesso della cittadinanza italiana
(trattandosi di "organi" abilitati ad incidere unilateralmente
sulle altrui sfere giuridiche, sulla base dei principi e delle regole
specifiche riguardanti le articolazioni delle competenze);
- l'art. 1, comma 1,
lettera a), come le altre previsioni del comma 1, una volta per tutte ha
identificato le "qualifiche formali" per le quali - in ragione
del particolare spessore dei poteri esercitati - è necessario il possesso
della cittadinanza italiana.
§ 47. Quanto alla
specifica posizione dei dirigenti statali, il sopra richiamato art. 2,
comma 1, lettera a), risulta coerente non solo con gli articoli 51 e 54 della Costituzione, ma anche con il complessivo vigente quadro
normativo sul loro status e sulle loro funzioni, dal momento che ad essi
sono infatti riferibili i poteri tipici 'di vertice' del potere esecutivo.
Rilevano al riguardo
le disposizioni generali del decreto legislativo n. 165 del 2001 (nel quale sono state trasfuse le
disposizioni del decreto legislativo n. 29 del 1993, con le successive modificazioni):
- per l'art. 4,
"2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa
mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane,
strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva
dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati"
e "3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono
essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche
disposizioni legislative";
- per l'art. 14,
"3. Il Ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a sé
o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei
dirigenti", "salvo il potere di annullamento ministeriale per
motivi di legittimità".
In sintesi, ai sensi
dell'art. 4 di tale decreto legislativo:
- il Ministro - quale
organo politico dell'amministrazione e compartecipe dell'attuazione del
programma di governo - è titolare esclusivamente di "funzioni di
indirizzo politico-amministrativo" e quindi ha il compito di definire
"gli obiettivi ed i programmi da attuare" e di adottare "gli
altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni", nonché di
verificare "la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa
e della gestione agli indirizzi impartiti";
- il dirigente -
nell'esercizio di poteri di per sé insindacabili dal Ministro ex art. 14 -
ha il potere di emanare "atti e provvedimenti amministrativi, compresi
tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno", si
occupa della "gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante
autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane,
strumentali e di controllo" e risponde "in via esclusiva
dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi
risultati".
Risultano dunque
coerenti - anche nel loro reciproco rapporto - le lettere b) ed a) dell'art. 1, comma 1, del d.P.C.M. n. 174 del 1994 (sopra riportate al § 45): così come la
lettera b) ha attribuito rilievo allo svolgimento di "funzioni di
vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni
pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici
non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della
Banca d'Italia", la lettera a) ha indicato sic et simpliciter i
"i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello
Stato", perché i dirigenti statali costituiscono il "vertice
amministrativo" del potere esecutivo dello Stato (nella massima espressione,
quando non vi sia alcuna autorità dirigenziale intermedia tra essi ed il
Ministro di riferimento).
§ 48. Oltre ad essere
annoverati tra i dirigenti (ai sensi e per gli effetti dell'art. 1, comma
1, del d.P.C.M. n. 171 del 1994), i direttori dei musei - quali autorità di
"vertice amministrativo" - esercitano, inoltre e per di più, gli
specifici poteri riconducibili all'espressione contenuta nell'art. 2, comma
1, del medesimo d.P.C.M. (che ha attribuito rilievo alle "tipologie di
funzioni delle amministrazioni pubbliche per il cui esercizio si richiede
il requisito della cittadinanza italiana", tra cui quelle che
"comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di
provvedimenti autorizzativi e coercitivi").
Rilevano al riguardo
proprio le ulteriori disposizioni dell'art. 14 bis del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito nella l. 29 luglio 2014, n. 104,
e del d.P.C.M. n. 171 del 29 agosto 2014.
In particolare,
l'art. 34, comma 2, lettere l), m) ed u) di tale d.P.C.M. ha attribuito al
direttore del museo, tra gli altri, i poteri valutativi e decisori
(insindacabili anche in sede ministeriale) concernenti il prestito di opere
d'arte "sul territorio nazionale o all'estero" e l'esercizio
delle "funzioni di stazione appaltante".
§ 49. Dalla normativa
sopra richiamata non emerge, invece, il criterio secondo cui la rilevanza
dello spessore dei poteri pubblici esercitabili sia recessivo rispetto
all'attività del direttore del museo "rivolta alla gestione economica
e tecnica" ed "essenzialmente finalizzata" ad una migliore
utilizzazione e valorizzazione di beni pubblici.
Il "criterio di
prevalenza" inoltre non risulta neanche desumibile dall'art. 1, comma
1, lettera a), del d.P.C.M. n. 171 del 1994 (che ha attribuito rilevanza
allo status in sé di dirigente statale).
Esso non è menzionato
neppure nell'art. 2, comma 1, del medesimo d.P.C.M., per il quale occorre
la cittadinanza italiana quando si tratti dell'esercizio di funzioni che
"comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di
provvedimenti autorizzativi e coercitivi" (tra cui de plano rientrano
i poteri concernenti l'autorizzazione al prestito di opere d'arte "sul
territorio nazionale o all'estero" e l'esercizio delle "funzioni
di stazione appaltante").
Come si osserverà al
successivo § 54.3., il "criterio di prevalenza" neppure risulta
rilevante per il diritto europeo, quando si tratti di autorità che
esercitano funzioni pubbliche e che facciano parte dei vertici del potere
esecutivo.
Risulta dunque
condivisibile la sentenza appellata, nella parte in cui ha constatato
l'applicabilità delle sopra richiamate disposizioni regolamentari del 1994,
nonché la loro mancata applicazione in sede di emanazione degli atti
impugnati in primo grado.
§ 50. A questo punto, si
deve verificare se le testuali disposizioni costituzionali e dei sopra
richiamati regolamenti (del d.P.C.M. n. 171 del 1994 e del d.P.R. n. 487 del 1994) si possano porre in discussione in questa
sede e se, nel caso di soluzione affermativa, esse siano in parte qua
difformi dal diritto europeo.
§ 50.1. La sentenza
della Sezione n. 3666 del 2017, per le ragioni sopra riassunte ai §§ 43,
43.1, 43.2., ha ritenuto che si debba disapplicare la norma regolamentare
risultante in contrasto con il diritto europeo (come ricostruito dalla
medesima sentenza).
§ 50.2. A parte ogni
considerazione sulla questione della corrispondenza sostanziale tra le
disposizioni regolamentari così disapplicate e i principi costituzionali
(aspetto dopo approfondito), per quanto riguarda la questione processuale
se il giudice amministrativo possa disapplicare una norma regolamentare
risultante in contrasto con una norma di rango superiore, dalla complessiva
giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. III, 6 settembre 2016, n. 3820) emerge che - fermi i principi sull'onere di
impugnare un regolamento lesivo (cioè ostativo alla pretesa fatta valere)
unitamente all'atto autoritativo applicativo, di cui si sia chiesto
l'annullamento - la disapplicazione (in coerenza col principio iura novit
curia) può essere disposta dal giudice amministrativo:
- quando il
ricorrente chieda la tutela di diritti soggettivi (ad es. in materia di
restituzione di oneri di urbanizzazione) e la pretesa risulti fondata su
una disposizione di legge, rispetto alla quale risulti illegittimo il
regolamento lesivo per il medesimo ricorrente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24 luglio 1993, n. 799);
- quando il
ricorrente chieda la tutela di un interesse legittimo e l'annullamento di
un provvedimento (deducendo la violazione di un regolamento e non che
questo sia ostativo alla pretesa), ma la domanda vada respinta, perché il
regolamento invocato risulta illegittimo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154, in un caso in cui - in riforma della
sentenza di primo grado - il ricorso originario è stato respinto, nella
parte in cui deduceva l'illegittimità di un atto negativo di controllo, che
risultava sì in contrasto con un regolamento provinciale, ma che era
conforme alla legge provinciale rispetto alla quale il regolamento
affermava una regola incompatibile e recessiva).
La sentenza n. 3666
del 2017 di questa Sezione, in coerenza con il principio sostanziale
enunciato dalla citata sentenza n. 154 del 1992, ha dunque
accolto l'appello allora proposto ed ha respinto il ricorso di primo grado,
poiché - malgrado la fondatezza della censura originaria rivolta contro gli
atti risultati contrastanti con il regolamento statale del 1994 - ha
ravvisato il contrasto di tale regolamento col diritto europeo.
§ 50.3. Sennonché,
osserva il Collegio che con il quarto motivo dell'appello principale il
Ministero non ha chiesto che siano disapplicati in parte qua l'art. 1,
comma 1, del d.P.C.M. n. 172 del 1994 e l'art. 2, comma 1, del d.P.R. n. 487 del 1994.
Va sottolineata la
peculiarità di quanto accaduto, che sotto il profilo processuale
differenzia la presente vicenda, da quella decisa con la già citata
sentenza n. 154 del 1992.
Con tale sentenza,
questo Consiglio ha sì ritenuto disapplicabile il regolamento risultato
illegittimo (col risultato di riformare la sentenza del TAR e di respingere
il ricorso di primo grado), ma ha statuito ciò solo in accoglimento di uno
specifico ed espresso motivo d'appello, che aveva rimarcato proprio
l'illegittimità del regolamento, sul cui testo si era basata (ed era stata
accolta) la domanda di annullamento di primo grado.
Nella specie, invece,
il Ministero col quarto motivo d'appello non ha prospettato alcuna
illegittimità delle disposizioni regolamentari statali e non ne ha nemmeno
chiesto la disapplicazione.
Va sottolineata la
singolarità della situazione verificatasi, non risultando precedenti di
questo Consiglio, o di un'altra giurisdizione superiore, in cui una
Amministrazione statale (per di più non con l'atto d'appello, ma con le
successive difese) abbia chiesto che vada disapplicato un regolamento
statale, per ottenere la riforma di una sentenza la cui motivazione si sia
basata su un regolamento del quale non era stata prospettata dalle parti
l'illegittimità nel corso del precedente grado del giudizio.
Al contrario, con il
quarto motivo d'appello il Ministero ha chiesto che il motivo di primo
grado dovrebbe essere respinto, poiché l'art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 174 del
1994 - di cui ha rimarcato
il vigore, sia pure determinandone erroneamente la portata - sarebbe stato
legittimamente applicato con gli atti impugnati in primo grado, tanto che
ha chiesto che in questa sede il regolamento dovrebbe essere interpretato
in senso opposto a quello fatto proprio dal TAR.
§ 50.4. Stando così
le cose, in sede d'appello si potrebbe preliminarmente ravvisare una
preclusione di ordine processuale.
Infatti, col quarto
motivo il Ministero non ha prospettato l'illegittimità delle disposizioni
regolamentari del 1994 (di cui ha chiesto la disapplicazione solo nel corso
della discussione finale, col richiamo al decisum della sentenza n. 3666
del 2017) e non ha dunque nemmeno indicato - nell'atto d'appello - i
possibili vizi che si dovrebbero ravvisare in questa sede.
Previo esame della
portata del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato
(specie in sede d'appello), va dunque valutato se si possa accogliere in
questa sede un motivo della Amministrazione statale, di per sé infondato
(perché ha dato una lettura di una disposizione regolamentare, opposta a
quella corretta), quando con esso non sia stata prospettata alcuna censura
contro un regolamento, mentre poi nel corso del giudizio di secondo grado
l'Amministrazione chieda la riforma della sentenza impugnata sulla base di
una ratio decidendi diversa e di una impostazione opposta (secondo cui
sarebbe illegittima e disapplicabile la norma regolamentare, all'opposto
inizialmente invocata con l'atto d'appello).
Del resto, anche per
i principi di cui agli articoli 101 e 104 del codice del processo amministrativo, non sembra possibile che a vantaggio del
soccombente si possa disapplicare una norma regolamentare, in assenza di
uno specifico motivo d'appello.
§ 51. Salva questa
questione processuale (che si rimette in via preliminare alla valutazione
dell'Adunanza Plenaria), ad avviso del Collegio vi sono peraltro argomenti
di ordine sostanziale, in base ai quali si può giungere alla conclusione
che non sussistano i presupposti per disapplicare in parte qua il d.P.C.M. n. 174 del 1994 ed il d.P.R. n. 487 del 1994, potendosi ritenere che la normativa
secondaria nazionale sia coerente non solo con gli articoli 51 e 54 della Costituzione, ma anche con la sopra richiamata normativa
europea e che dunque abbia ben potuto riservare ai cittadini italiani i
posti dirigenziali in questione.
Per questa ragione,
si sottopone anche la relativa questione sostanziale all'esame
dell'Adunanza Plenaria.
§ 52. Giova riportare
ancora una volta l'art. 45 del T.F.U.E. (già art. 39 del T.C.E.), secondo il quale:
- "La libera
circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata" (§
1);
- "Essa implica
l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i
lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la
retribuzione e le altre condizioni di lavoro" (§ 2);
- "Fatte salve
le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica
sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto: a) di rispondere a
offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel
territorio degli Stati membri; c) di prendere dimora in uno degli Stati
membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro, conformemente alle
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano
l'occupazione dei lavoratori nazionali; d) di rimanere, a condizioni che
costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul
territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego" (§ 3);
- "Le
disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella
pubblica amministrazione" (§ 4).
§ 53. Osserva il
Collegio che sono ben distinte le fattispecie previste dal § 3 e dal § 4
dell'art. 45 del T.F.U.E.
§ 53.1. Il § 3,
nell'ammettere le "limitazioni giustificate da motivi di ordine
pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica", si riferisce alle
limitazioni sostanziali che la normativa nazionale anche nei settori
privati può prevedere in tema di "libera circolazione dei
lavoratori".
Tale § 3 consente ad
esempio che la normativa nazionale vieti l'ingresso nel territorio dello
Stato membro a chi abbia determinati precedenti penali ovvero sia comunque
pericoloso o vi siano preminenti ragioni di sanità pubblica (sul principio
fissato dal § 3 si basano molteplici disposizioni del testo unico n. 286
del 1998, "sulla disciplina dell'immigrazione e sulla condizione dello
straniero", ad es. in tema di diniego di permesso di soggiorno).
§ 53.2. Quando si
tratti invece del lavoro nella "pubblica amministrazione", e dei
casi in cui vi sia l'esercizio di pubblici poteri, il § 4 dell'art. 45 del T.F.U.E. (così come il precedente art. 39, § 4, del Trattato CE, e ancor
prima l'art. 48, § 4, del Trattato del 1957) ha escluso l'applicazione del
principio della libera circolazione dei lavoratori, riaffermando la regola
della "riserva di sovranità" degli Stati nazionali ("riserva
di sovranità" di cui già risultano espressione gli articoli 51 e 54 della Costituzione, oltre alle disposizioni regolamentari del
1994).
§ 54. Per quanto
riguarda il significato da attribuire alla nozione di "amministrazione
pubblica" (e dunque l'ambito di applicazione dell'art. 45, § 4, e,
ancor prima, dei richiamati art. 39, § 4, del Trattato CE e art. 48, § 4,
del Trattato del 1957), rileva la giurisprudenza della Corte di Giustizia,
che ne ha chiarito più volte la specifica portata.
Occorre tener conto
di tale giurisprudenza, per verificare se risultino ad essa compatibili le
disposizioni degli articoli 51 e 54 della Costituzione, oltre che dell'art. 1, comma 1, del d.P.C.M.
n. 171 del 1994 (e del corrispondente art. 1, comma 1, d.P.R. n. 487 del 1994, che richiama quelle del D.P.C.M.).
§ 54.1. La Corte di giustizia ha
dato una lettura dell'art. 45, § 4 (e delle disposizioni del Trattato),
limitata a "quanto strettamente necessario" a salvaguardare gli
interessi da essa protetti (ex multis, Corte giustizia UE 10 settembre 2014,
in C-270/13, Haralambidis c. Casilli, e 3 luglio 1986, in C-66/85, Lawrie
Blum).
La Corte in proposito è
partita da due considerazioni.
In primo luogo, per la Corte non possono gli
Stati membri liberamente determinare se un dato "impiego" sia
svolto "nella pubblica amministrazione", poiché una tale regola
sottrarrebbe all'Unione la delimitazione del principio della libertà di
circolazione dei lavoratori (ex multis, le sentenze 12 febbraio 1974, in
C-152/73, Sotgiu, e 3 luglio 1986, in C-66/85, Lawrie Blum, citata).
La Corte ha poi osservato
che le Amministrazioni pubbliche a volte svolgono anche attività
sostanzialmente di carattere economico, le quali come tali potrebbero
essere svolte da qualunque privato e rientrano quindi nell'ambito di
applicazione del Trattato: anche da questo punto di vista, demandare agli
Stati membri di stabilire 'liberamente' quando una data attività rientri
fra gli "impieghi nella pubblica amministrazione" significherebbe
renderli arbitri della concreta portata del Trattato stesso (Corte di
giustizia UE, 17
dicembre 1980 e 26 maggio 1982, in C-149/79, Commissione
c. Regno del Belgio).
§ 54.2. Con queste
precisazioni, la Corte
di Giustizia ritiene che la normativa nazionale possa imporre il requisito
della nazionalità in presenza di due presupposti, dovendosi trattare di
accesso a quei posti che:
a) implicano la
partecipazione, diretta o indiretta, all'esercizio - sia pure indiretto -
di "pubblici poteri";
b) riguardano la
tutela degli interessi generali dello Stato o di altre "pubbliche
collettività" (Corte di Giustizia UE, 27 novembre 1991, in C-4/91,
Bleis c. Repubblica francese).
§ 54.3. In
applicazione di tali principi, hanno un diverso regime giuridico le
attività di soggetti estranei all'apparato statale, rispetto a quelle
proprie dei pubblici poteri, tra le quali rientrano tipicamente quelle dei
vertici del potere esecutivo.
Quando si tratti di
soggetti estranei all'apparato statale, non rileva l'esercizio
"sporadico" di compiti autoritativi marginali, nell'ambito della
complessiva attività svolta (Corte di Giustizia, 26 maggio 1982, in
C-149/79, Commissione c. Regno del Belgio, che ha affermato il principio in
relazione a dipendenti di società, ma ha significativamente ammesso che si
possa richiedere la cittadinanza per lo svolgimento dei lavori di
"ispettore dei lavori" o di "guardiano notturno" di una
amministrazione comunale; 10 settembre 2014, in C-270/13,
Haralambidis c. Casilli, in relazione al caso - di seguito approfondito -
di un presidente di una autorità portuale).
Ove invece si tratti
di un pubblico potere, non rileva il criterio dell'"esercizio
sporadico": il pubblico potere va ricondotto all'esercizio "di un
potere decisionale che esorbita dal diritto comune e si traduce nella
capacità di agire indipendentemente dalla volontà di altri soggetti o anche
contro la loro volontà" (Corte di Giustizia, 22 ottobre 2009, in
C-438-08, Commissione c. Portogallo).
§ 54.4. Tale
conclusione trova conferma nella indicazione esemplificativa esposta nella
"comunicazione" della Commissione europea n. 88/C-72/02 (in GUCE 18 marzo 1988).
Come ha correttamente
rimarcato la difesa dell'appellata a p. 9 della sua memoria depositata in
data 28
settembre 2017, la Commissione, nell'intraprendere azioni
positive per promuovere la libera circolazione dei lavoratori, in un
paragrafo denominato "Le attività specifiche della funzione pubblica
nazionale formanti oggetto di deroga", ha ritenuto escluse dal
relativo ambito (ostandovi la regola della possibilità che la norma
nazionale richieda la cittadinanza):
- "le funzioni
specifiche dello Stato e delle collettività ad esso assimilabili, quali le
forze armate, la polizia e le altre forze dell'ordine pubblico, la
magistratura, l'amministrazione fiscale e la diplomazia";
- "inoltre, ...
gli impieghi dipendenti dai ministeri statali, dai governi regionali, dalle
collettività territoriali e da altri enti assimilati e infine dalle banche
centrali, quando si tratti del personale (funzionari e altri) che eserciti
le attività coordinate intorno ad un potere pubblico giuridico dello Stato
o di un'altra persona morale di diritto pubblico, come l'elaborazione degli
atti giuridici, la loro esecuzione, il controllo della loro applicazione e
la tutela degli organi dipendenti".
La Commissione ha
ribadito tale orientamento con la più recente "comunicazione" 11 dicembre 2002,
COM (2002) 694.
Dunque, per la Commissione - che
ha sintetizzato la giurisprudenza della Corte di Giustizia - la normativa
nazionale può richiedere la cittadinanza per "gli impieghi dipendenti
dai ministeri statali..., quando si tratti del personale (funzionari e
altri) che eserciti le attività coordinate intorno ad un potere pubblico
giuridico dello Stato..., come l'elaborazione degli atti giuridici, la loro
esecuzione, il controllo della loro applicazione".
§ 54.5. Anche tali
espressioni si attagliano senz'altro ai dirigenti in considerazione dei
loro poteri disciplinati dagli articoli 51 e 54 della Costituzione, nonché dagli articoli 4 e 14 del decreto legislativo n. 165 del 2001, dall'art. 14 del d.l. n. 83 del 2014 e dalle relative norme applicative, per
quanto sopra evidenziato ai §§ 47 e 48: il dirigente statale è titolare di
un "potere decisionale che esorbita dal diritto comune"
(adoperando l'espressione utilizzata da Corte di Giustizia, 22 ottobre 2009,
in C-438-08, Commissione c. Portogallo, cit.) ed esercita funzioni
pubbliche in posizione di vertice.
§ 54.6. Un
particolare rilievo è stato attribuito dal Ministero appellante (nonché
dalla sentenza della Sezione n. 3666 del 2017) alla citata sentenza della
Corte di giustizia 10 settembre 2014, in C-270/13, Haralambidis c.
Casilli, che ha ritenuto precluso ad uno Stato dell'Unione (proprio alla
Repubblica italiana) di riservare a propri cittadini l'esercizio delle
funzioni di presidente di una autorità portuale.
Nella motivazione,
tale sentenza ha ritenuto in particolare non rilevante che tale autorità
eserciti "poteri di imperio", nella specie con ordinanze a
salvaguardia dei beni demaniali e della navigabilità del porto, poiché si
tratta di poteri "esercitati solo in modo sporadico, o addirittura
eccezionalmente".
Ad avviso del
Collegio, tale considerazione va rapportata alla posizione istituzionale
della autorità portuale, cioè di un ente pubblico avente una personalità
giuridica diversa dallo Stato (e posta sotto la sua vigilanza), che dunque
non fa parte degli apparati ministeriali statali e non costituisce una
delle articolazioni con le quali neppure si attua il relativo indirizzo
politico.
Viceversa, il
dirigente statale, e anche il direttore di un museo statale, nominato
all'esito della procedura prevista dall'art. 14, comma 7 bis, del d.l. del
2014, è l'immediata espressione del potere esecutivo e costituisce l'organo
amministrativo di vertice del Ministero, con il quale si attua l'indirizzo
politico del Governo.
§ 54.7. Rilevano
anche l'"esercizio dell'autorità pubblica" e la responsabilità di
gestire ciò che riguarda la salvaguardia degli "interessi generali
dello Stato".
Il rilievo di tale
responsabilità è stato richiamato dalla Corte di giustizia (11 dicembre 2002,
in C-225/85, Commissione c. Italia, § 9), nel senso che l'ordinamento
nazionale può legittimamente riservare ai cittadini i "posti
comportanti funzioni direttive o di consulenza dello Stato su questioni
scientifiche e tecniche", ciò che pure costituisce una delle
peculiarità delle funzioni attribuite ai direttori dei musei statali.
§ 55. Sulla base
della giurisprudenza della Corte di Giustizia e delle comunicazioni della
Commissione, si può così affermare che la normativa nazionale - quella di
rango regolamentare oggetto della delegificazione, ed avente uno specifico
supporto negli articoli 51 e 54 Cost. - ben può prevedere il requisito della cittadinanza quando si
tratti della selezione che comporta l'attribuzione dello status e delle
funzioni dei più alti dirigenti dello Stato, per i quali si applicano le
disposizioni sopra riportate ai §§ 47 e 48.
§ 55.1. Risulta
dunque rientrare per tabulas, e quale fattispecie tipica di "riserva
della sovranità", proprio lo status del dirigente statale, il cui
spessore dei poteri si caratterizza per il fatto che incardina le funzioni
del potere esecutivo, quale organo dello Stato le cui scelte di merito sono
per di più insindacabili dal Ministro.
Egli - oltre ad
esercitare importanti funzioni autoritative - è il referente naturale ed
esclusivo dell'organo politico per attuare il programma di governo nello
specifico settore di amministrazione ad esso affidato, e in tal senso
risulta anche responsabile della "salvaguardia degli interessi
generali dello Stato" in quel settore.
§ 55.2. Neppure si
possono distinguere - tra i dirigenti presi in quanto tali in
considerazione dall'art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 171 del
1994 - quelli cui sono conferiti gli incarichi di direttore dei musei
statali, ai sensi dell'art. 14, comma 7 bis, del decreto legge del 2014.
Le disposizioni del d.P.C.M. n. 171 del 2014 non hanno 'ridotto' i poteri dei direttori
dei musei statali rispetto a quelli attribuiti in generale alla dirigenza,
ma hanno 'adattato' ad essi le regole applicabili, in ragione della
delicatezza dei compiti loro affidati (concernenti la gestione di una parte
del "patrimonio della Nazione", tutelato dall'art. 9 della Costituzione).
§ 56. Le
considerazioni sostanziali che precedono - sulla compatibilità comunitaria
delle norme regolamentari del 1994 che richiedono la cittadinanza italiana
per acquisire lo status di dirigente dello Stato - risultano ulteriormente
corroborate dalla constatazione che non risultano (né sono state richiamate
dal Ministero appellante o dai controinteressati in primo grado) norme o
prassi amministrative o giurisprudenziali di altri Stati della Unione
Europea che abbiano consentito ai cittadini italiani - ovvero ai cittadini
della Unione Europea in quanto tale - di acquisire lo status di dirigenti
aventi una posizione di "vertice" all'interno del loro ordinamento.
Solo una tale
apertura ai cittadini italiani, infatti, può far ravvisare "le
condizioni di parità con gli altri Stati", tali da giustificare la
possibilità che acquistino lo status di dirigente di vertice dello Stato
coloro che non abbiano la cittadinanza italiana.
§ 57. A questo punto, va
sottolineato come i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia risultano sostanzialmente coincidenti con quelli desumibili dagli
articoli 51 e 54 della Costituzione, i quali - come sopra evidenziato al § 36.2 -
si sono riferiti non al "pubblico impiego" in quanto tale, ma,
più limitatamente, agli "uffici pubblici", alle "cariche
elettive" e alle "funzioni pubbliche".
Sia per la
giurisprudenza della Corte di Giustizia, sia per i principi costituzionali,
l'art. 37 del d.lgs. n. 29 del 1993 e le disposizioni regolamentari del 1994 in questione, lo
status civitatis non è necessario quando si tratti dell'accesso a posizioni
di pubblico impiego non caratterizzate dall'esercizio di poteri pubblici o
dallo svolgimento di cariche elettive.
Invece, quando si
tratti della prima nomina nella qualifica di dirigente di
"vertice" dello Stato, come quella in esame, non può che
ravvisarsi la sussistenza dell'"esercizio diretto ... di pubblici
poteri" e, in particolare, delle più alte "funzioni pubbliche"
riferibili al potere esecutivo.
§ 58. Concludendo sul
punto, non risulta disapplicabile l'art. 2, comma 1, lettere a) e b), del d.P.C.M. n. 174
del 1994, poiché
queste disposizioni hanno previsto la necessità della cittadinanza
italiana:
- per "i posti
dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, nonché i posti dei corrispondenti livelli
delle altre pubbliche amministrazioni" (lett. a);
- per "i posti
con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle
amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli
enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle
regioni e della Banca d'Italia" (lett. b).
Tali disposizioni si
basano sul presupposto - effettivamente sussistente - che tali autorità
sono poste al "vertice amministrativo" e sono titolari di
consistenti poteri autoritativi, il cui esercizio è idoneo ad incidere
unilateralmente sulle altrui sfere giuridiche, con l'applicazione di
"regole esorbitanti dal diritto comune".
§ 59. A parte le questioni
processuali segnalate ai §§ 50-50.4., in assenza del contrasto tra il
diritto europeo e le sopra richiamate disposizioni del d.P.C.M. n. 171 del 2014 (come richiamato dall'art. 2, comma 1, del
d.P.R. del 2014), dovrebbe essere respinto il quarto motivo dell'appello
del Ministero, rivolto contro l'annullamento - disposto dal TAR - dell'atto
che ha condotto al conferimento dell'incarico di direttore del
"Palazzo Ducale di Mantova".
§ 60. Sennonché, a
questo punto va esaminata la rilevanza da attribuire all'art. 22, comma 7 bis, del decreto legge 24 aprile 2017,
n. 50, convertito
nella l. 21 giugno 2017, n. 96, per il quale "L'articolo 14, comma 2-bis, del decreto-legge 31 maggio
2014, n. 83,
convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, si interpreta nel senso che alla procedura
di selezione pubblica internazionale ivi prevista non si applicano i limiti
di accesso di cui all'articolo 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165".
§ 61. Qualora si
affermi che, alla data di entrata in vigore di tale decreto legge, era
vigente (ed era conforme alla normativa della Unione Europea) la disciplina
nazionale preclusiva per i non cittadini italiani della partecipazione alla
procedura in questione, si porrebbe la seguente alternativa:
- o il sopra
riportato art. 22, comma 7 bis, ha disposto solo per il futuro (e cioè per
le nomine disposte successivamente alla sua entrata in vigore), per
rimuovere incertezze interpretative, ed allora esso - anche per le relative
questioni di legittimità costituzionale - non rileva nel presente giudizio;
- oppure esso, se
avente effetti retroattivi, per il suo carattere di 'solo apparente'
interpretazione autentica si porrebbe in contrasto con l'art. 117 della Costituzione e con gli articoli 6 e 13 della CEDU, che precludono l'entrata in vigore di leggi che incidano sui
giudizi in corso e sull'esercizio della funzione giurisdizionale (articoli
che in concreto risulterebbero violati, poiché il medesimo comma 7 bis
avrebbe imposto una soluzione opposta a quella seguita dalla qui impugnata
- e condivisibile - sentenza del TAR, in assenza di una equivoca disciplina
nazionale e in assenza di oscillazioni giurisprudenziali da superare).
§ 62. Sul punto,
vanno richiamati i principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza 4 luglio 2014, n.
191, § 4, per la quale
"la Corte
di Strasburgo ha più volte ribadito che 'in linea di principio non è
vietato al potere legislativo di stabilire in materia civile una disciplina
innovativa a portata retroattiva dei diritti derivanti da leggi in vigore,
ma il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo
sanciti dall'art. 6 della Convenzione, ostano, salvo che per motivi
imperativi di interesse generale, all'ingerenza del potere legislativo
nell'amministrazione della giustizia al fine di influenzare l'esito
giudiziario di una controversia' (sentenze 11 dicembre 2012, De Rosa contro
Italia; 14
febbraio 2012, Arras e altri contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati e
altri contro Italia; 31 maggio 2011, Maggio e altri contro Italia; 10 giugno 2008,
Bortesi e altri contro Italia; 29 marzo 2006, Scordino e altri contro
Italia). La medesima Corte ha altresì rimarcato che le circostanze addotte
per giustificare misure retroattive devono essere "trattate con la
massima circospezione possibile" (sentenza 14 febbraio 2012, Arras
e altri contro Italia), in particolare quando l'intervento legislativo
finisca per alterare l'esito giudiziario di una controversia (sentenza 28 ottobre 1999,
Zielinski e altri contro Francia)".
§ 63. Qualora si
debba affermare la retroattività (e l'apparente natura interpretativa) del
sopra riportato art. 22, comma 7 bis, il conseguente contrasto con la
consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della Corte
Costituzionale comporta una ulteriore questione processuale, che si rimette
anch'essa all'esame dell'Adunanza Plenaria.
§ 63.1. A partire dalle
sentenze nn. 348 e 349 del 2007, la Corte Costituzionale
ha chiarito che - nel caso di contrasto tra una disposizione legislativa e
le previsioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali - il giudice nazionale può sollevare una
questione di costituzionalità, deducendo la violazione dell'art. 117 della Costituzione, col richiamo al 'parametro interposto',
costituito proprio da una disposizione della CEDU.
§ 63.2. Sennonché,
con riferimento al caso di specie, se si afferma la necessità dello status
civitatis per acquisire lo status di dirigente dello Stato, ove fosse
applicabile il citato art. 22, comma 7 bis vi sarebbe il differimento della
definizione della controversia, qualora si dovesse necessariamente
sollevare una questione di costituzionalità, il cui esito, verisimilmente,
sarebbe nel senso della constatazione del contrasto con l'art. 117 Cost.
§ 63.3. In tale
prospettiva, per evitare tale differimento, si potrebbe effettuare la
seguente distinzione.
Qualora l'antinomia
tra la disposizione legislativa nazionale e la previsione della Convenzione
del 1950 non risulti "chiara ed evidente" (ed occorra effettuare
un "bilanciamento" tra valori in conflitto), va comunque
riaffermata la competenza esclusiva della Corte Costituzionale, per
eventualmente rimuovere dall'ordinamento la medesima disposizione
legislativa.
Invece, qualora vi
sia un "chiaro ed evidente" contrasto tra la norma nazionale e
quella della Convenzione (come costantemente interpretata sia dalla Corte
di Strasburgo che dalla Corte Costituzionale), si potrebbe affermare che il
giudice della controversia possa non applicare la medesima disposizione
nazionale, che non trovi fondamento in alcun valore meritevole di essere
posto a confronto con quello rilevante per la Convenzione.
A sostegno di tale
principio e del conseguente potere del giudice nazionale (fondato sulla
necessità di una 'valvola di sicurezza' del sistema, a tutela dei diritti
fondamentali, e limitato a tale assenza di "contrasto di valori"
ed ad una contemporanea violazione ictu oculi della Convenzione del 1950 e
della Costituzione), possono rilevare considerazioni di diritto nazionale e
di diritto europeo.
Quanto al diritto
nazionale, dall'art. 117, primo comma, della Costituzione, emerge che la disposizione convenzionale -
pur se non è equiparata a quella costituzionale - ha pur sempre un 'rango
superiore' alla legge ordinaria che risulti con essa in palese contrasto:
in tal senso milita la stessa giurisprudenza costituzionale sulla rilevanza
del 'parametro interposto'.
Quanto al diritto europeo,
possono rilevare il principio di uguaglianza e quello di non
discriminazione, applicabili anche in una visione complessiva degli
ordinamenti degli Stati membri (art. 21, § 2, della Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell'Unione Europa).
Infatti, negli altri
Paesi dell'Unione Europea (anche in quelli nei cui sistemi sono state
istituite le Corti o i Consigli Costituzionali: cfr. Consiglio
Costituzionale francese, 21 ottobre 1988, n. 1082), il giudice
della controversia può verificare se vada applicata direttamente la
disposizione della CEDU, escludendo l'operatività della legge nazionale che
si ponga in rapporto di antinomia.
In un'ottica di
parità di tutela dei diritti fondamentali nei territori di tutti gli Stati
facenti parte del Consiglio d'Europa (che ben conoscono una tale 'valvola
di sicurezza'), si potrebbe affermare, dunque, che anche in Italia il
giudice della controversia possa - e anzi debba - applicare direttamente la
disposizione della CEDU, per la quale vi sia una consolidata
interpretazione della Corte di Strasburgo, condivisa dalla Corte
Costituzionale, e non applicare la legge nazionale che affermi la regola
opposta, ponendosi in un rapporto di antinomia.
§ 63.4. Pertanto, per
il caso in cui si ravvisasse la compatibilità tra il diritto dell'Unione
Europea e gli articoli 51 e 54 della Costituzione, nonché le indicate previsioni regolamentari
di cui al d.P.C.M. n. 174 del 1994, risulterebbe "chiaro ed evidente"
come l'art. 22, comma 7 bis, contrasterebbe non solo con gli stessi articoli 51 e 54 Cost., ma anche con la giurisprudenza della Corte Costituzionale e con
quella della Corte di Strasburgo, sulla impossibilità che una legge
retroattiva incida sui giudizi in corso, in assenza dei rigorosi limiti
evidenziati da entrambe le Corti.
§ 64. Si rimette
dunque all'esame della Adunanza Plenaria anche la questione se possa essere
- in ipotesi - immediatamente definito il giudizio, con la mancata
applicazione dell'art. 22, comma 7 bis, senza la necessità che sia
sollevata una questione di costituzionalità, per violazione degli articoli 3,24,51,54
e 117 della Costituzione (con riferimento ai parametri interposti
degli articoli 6 e 13 della Convenzione del 1950).
§ 65. Per il caso in
cui non sia disapplicabile il medesimo articolo 22, comma 7 bis, dovrebbero
essere conseguentemente sollevate le relative questioni di
costituzionalità, per violazione degli articoli 3,11,24,51,54
e 117 della Costituzione (con riferimenti ai medesimi parametri
interposti).
Inoltre, in assenza
di norme dell'Unione Europea che impongano di considerare irrilevante lo
status civitatis per la nomina a dirigente statale, dovrebbero essere
sollevate specifiche questioni di costituzionalità anche con riferimento
agli articoli 51 e 54 della Costituzione, i quali fanno riferimento al requisito della
cittadinanza per l'esercizio di "funzioni pubbliche", espressione
riferibile a quelle tipiche dei dirigenti dello Stato, e all'art. 11 della Costituzione, che ha sancito la regola della reciprocità,
perché vi sia una corrispondente limitazione della sovranità.
§ 66. Per le ragioni
che precedono, per la delicatezza delle questioni controverse ed il loro
evidente carattere di massima, il Collegio rimette all'Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato l'esame del quarto motivo dell'appello principale
del Ministero, ai sensi del comma 4 dell'art. 99 del codice del processo amministrativo:
- per l'aspetto
processuale evidenziato ai §§ 50.-50.4.;
- per gli aspetti
sostanziali complessivamente sopra evidenziati ai §§ 51-58;
- per gli aspetti
segnalati ai §§ 60-65, ove si debba prendere in considerazione l'art. 22, comma 7 bis, del decreto legge 24 aprile
2017, n. 50,
convertito nella l. 21 giugno 2017, n. 96.
§ 67. In conclusione,
decidendo sull'appello n. 3911 del 2017, la Sezione:
a) respinge il primo
motivo d'appello e riafferma la sussistenza della giurisdizione
amministrativa;
b) in parziale
riforma della sentenza impugnata, accoglie il secondo ed il terzo motivo
dell'appello principale e, previa reiezione delle censure dell'appellante
incidentale, respinge la domanda di primo grado, proposta per
l'annullamento degli atti che hanno conferito l'incarico di direttore della
"Galleria Estense di Modena", con compensazione delle spese dei
due gradi del giudizio;
c) in parziale
riforma della sentenza impugnata, accoglie il secondo ed il terzo motivo
dell'appello principale e respinge le censure dell'appellante incidentale,
con riferimento alla domanda di primo grado, proposta per l'annullamento
degli atti che hanno conferito l'incarico di direttore del "Palazzo
Ducale di Mantova";
d) rimette alla
cognizione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 99 del codice del processo amministrativo, le questioni ulteriori - processuali e
sostanziali, come sintetizzate al § 66 - conseguenti all'esame del quarto
motivo dell'appello del Ministero, unitamente a quelle concernenti le
conseguenze della eventuale reiezione del medesimo quarto motivo e sul
rilievo dello ius superveniens, rilevanti ai fini del decidere in via
definitiva la domanda di annullamento degli atti del conferimento
dell'incarico di direttore del "Palazzo Ducale di Mantova";
e) rileva che
rimangono fermi gli effetti della propria ordinanza cautelare 15 giugno 2017,
n. 2471, limitatamente al conferimento del medesimo incarico di direttore;
f) rimette alla
valutazione dell'Adunanza Plenaria se sussistano i presupposti per
l'applicazione dell'art. 99, comma 4, del codice del processo
amministrativo.
§ 67. Le spese dei
due gradi di giudizio vanno compensate per intero quanto alla controversia
relativa all'incarico di "direttore della Galleria Estense di
Modena"; deciderà invece l'Adunanza plenaria quanto alla controversia
relativa all'incarico di direttore del "Palazzo Ducale di Mantova".
PQM
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), pronunciando sull'appello n.
3911/2017, così provvede:
- in accoglimento,
per quanto di ragione, dell'appello e in riforma della sentenza impugnata,
respinge la domanda, proposta con il ricorso di primo grado, concernente
l'annullamento degli atti indicati in epigrafe, nella parte in cui essi
hanno conferito l'incarico di "direttore della Galleria Estense di
Modena";
- in accoglimento,
per quanto di ragione, dell'appello e in parziale riforma della sentenza
impugnata, respinge - limitatamente ai motivi indicati in motivazione - la
domanda, proposta con il ricorso di primo grado, concernente l'annullamento
degli atti di cui in epigrafe nella parte in cui essi hanno conferito l'incarico
di direttore del "Palazzo Ducale di Mantova";
- rimette all'esame
dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 99 c.p.a., le questioni ulteriori indicate in motivazione, rilevanti ai
fini del decidere sulla domanda di annullamento riguardante il conferimento
dell'incarico di direttore del "Palazzo Ducale di Mantova";
- dà atto che continua
a produrre effetti, sino alla decisione definitiva, la misura cautelare
disposta con la propria ordinanza 15 giugno 2017, n. 2471, limitatamente
alla posizione del dott. Pe. As.;
- rinvia al
definitivo le spese del giudizio.
Così deciso in Roma,
nella camera di consiglio del giorno 26 ottobre 2017, con l'intervento
dei magistrati:
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